Anatomie plautine: Amphitruo, Casina, Curculio, Miles gloriosus 9788839206411, 8839206418


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Italian Pages 161 [186] Year 2003

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Anatomie plautine: Amphitruo, Casina, Curculio, Miles gloriosus
 9788839206411, 8839206418

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LUDUSPHILOLOGIAE a cura di Cesare Questa e Renato Raffadli

12

ETIORE PARATORE

ANATOMIEPLAUTINE AMPI-IlTRUO CASINA CURCULIO MILES GLORIOSUS

a cura di

Roberto M. Danese e Cesare Questa

ISBN 88·392·0641·8

Volumepubblicato con il contributo di Em.nuele Paratore e del Centro Internazionale di Studi Plautini (CISPJ dell'Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'. Copyright C 2003 Edizioni Quatt,oVmti Sri, Urbino. www.edizioniquattroventi.it e•mail: info@edwoniquattl"OVfflti.it Diritti di traduzione, riproduzione e adat1amento tocak o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

TABULAIN MEMORIAM

RoBERTO A.NTONELLI

Gumo AReIZZONI RrNoAVESANI RENATO BADALl AROLDO BARBIERI

AllssANDRO

BARCHIESI

SALVADOR BARTERA

LAURA BARUFFALDI GrusEPPINA

BASTA DoNZELLI

FERRUCCIO BERTINI MAURIZIO

BETTINI

MAURIZIO MAsSIMO BIANCO GIOVANNI SANDRO

BoGuoLO 8oLDRINI

MARIA GRAZIA BoNANNO

NINO 8oRSELLINO ANNALISA 8RACCIOTll

VrrroRE

BRANCA

MARco BuoNocoRE GABRIELE

BURZACCHINI

LUCA CADILI MARIA TERESA CAMILLONI PIERPAOLO

CAMPANA

LUCA CANALI

MAR.loCANTILENA RICCARDO CAPASSO ÙVIDJO CAPITANI

GIUSEPPE A. CAVAJONI GUGLIELMO

CAVALLO

ENZO CECCHINI

VIII GIORGIO CERBONI 8AIARDI

GIOACHINO CHIAJUNI

MARIAP1ACrCCARESE FRANCESCO CITll MICHELE

CoccIA

GABIUEU.,\

Col.ANTONIO

GIAN BIAGIO C.0NTE MICHELE (URNIS

M.

RoBERTO

DANESE

EDOAIUX)D'ANGELO GIOVANNI

D'ANNA

MAURIZIO

DARDANO

N1NoDA2ZI

ANTONIO DEU.'ERA FRANCESCO DE MARTINO Nico DE Mico MARIODE NONNO ARruRO DE VIVO MARIALUISADoGuo MAllco 0c>RATI RENATA FABBJU

PAOLO FEDELI

MICHELE Fro FLAVIANA FICCA lEoPOLOO GIOVANNI

GAMBERALE GARBINI

BRUNO GENTILI AMEDEO G!AMPAGLIA GIAN FRANCO GIANOTTI fRANCO

GoRI

Al.BERTO GRIU.J ANDREINA GRJSF.RI

GIANNI GUASTELLA

SEITIMrol.ANc1orn LUIGI LEHNUS FRANCESCO Lo MONACO BRUNO LUISELU RAFFAELE LutSELLI

IX ELENA MAusPINA ERMANNO

MALASPINA

ANNAMARIA MARAFELLI SIMONETTA MAltcHITELLI

MIJurrn TREGIARDINI ITAW MAruOTil CESAREMARoNGruBuoNAIUTI GIANFRANCO

GrusEPPE

MAsTROMARCO

MAR.loMAzzA GIANCARLO MA720LI P1ETRoMELONI SALVATORE MONDA SALVATORE E LILIANA MONTI

MCXJRE ANNA MoRPURGO DAVIES T!MOTHY

GIOVANNI

NENCIONI

LoRENZoNosARTI RENATO ONIGA CosJMO

TERESA

PALA.GIANO

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PIERGIORGIO

PARRONI

FRANCA PER.USINO

Gumo PEscosoLJDO GIANNA

PETRONE

EMILIO E MARIA GRAZIA P!ANEZZOLA GIULIA

PiccALUGA

GmsTo PicoNE GIORGIO PIRAS GtovANNt

PoLARA

CESARE QUESTA RENATO RAFFAELLI

PAOLA RlccIULLI

LICINIA RJCOTIILLI SERGIO RlNALDI TUFI SALVATORE RrrRoVATO SILVANA RoccA SIMONA

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CARLOSANTINI

MARIA GRAZIA SASSI Al.EssANORO

ScHIESARO

SERGlO ScONOCCHIA

MANuo S1MoNETI1 PASQUALE SMIRAGLIA PAOLO

E ANNA

SoMMELLA

WALTER STOCKERT

MARINELLA TARTARI CHER.SONI

MAssIMO TIRABASSO

ALBAToNTINI ALEss10 TORINO EDOARDO VESENTINI CLAUDIA Vn.LA

VALERIA VIPARELLI

AGOSTINO ZnNO loRIANO

ZURLI

AcADEMIA

LATINITATI

FOVENDAE - Romae

'AGLAIA' DIPAKI1MENTO DI STUDI GRECI, LATINI E MUSICALI -

Università

di Palenno BIBLIOTECA AMBROSIANA

BIBLIOTECA APosrouCA BIBLIOTECA CoMUNALE -

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Mantova

MEDICEA LAURENZIANA

CENTRO 'ANTRoPOLOGIA CENTRO DI

VATICANA

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Sruor CICERONIANI

DI RoMA

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ANnco' - Università di Siena

Roma DI RoMA

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CHE CULnJRALI) CoMUNE

DI SARSINA

DARFICLET 'FRANCESCO DELLA CoRTE' - Università di Genova 01PAIITTMENTO DI CMLTA EURO-MEDITERRANEE E 01 Sn,or CLASSla, CRI• STIANJ, BIZANTINI, MEDIEVALI E UMANlSTIQ - Università di Palermo DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA CLASSICA 'FRANCESCO ARNALDI' - Universi-

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Università di Pisa E MEDIEVALE - Università di Bo-

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XVII

La collocazione nel tempo delle commedie è infatti la questione che egli affronta con assoluta priorità nei saggi qui ristampati (lo stesso, è chiaro, accade nelle pagine dedicate a Plauto della Storia del teatro latino). Paratore pane da alcunipunti ben 6ssi: le didascaliaedi Stichus e di Pseudolus,che ne fissano la prima rappresentazione rispettivamente al 200 e al 191 a.e., cui si aggiunge la notizia ciceroniana di sen. 14, 50 che attribuisce Pseudoluse Truculentusalla vecchiaia del poeta, permettendo così di collocare in un tempo ben definibile anche questa seconda commedia. Le altre commedie che Paratore accetta di datare grazie ad elementi esterni sono Casina(affare dei baccanali e quindi 185 a.e .• se non 184) e Mi/es, ove l'allusione alla prigionia di Nevio (vv. 205-214) sembra del tutto cogente, per cui la 'pièce' si colloca al 205 a.e. Ma questi, si dirà, sono appunto tutti elementi esterni, in piena contraddizione con i postulati metodici di Paratore stesso! Niente affatto, perché egli coglie immediatamente il tratto unificante interno di Pseudolus,Truculentus e Casina, cui aggiunge subito le &cchides: l'abbondanza e la raffinata complicazione dei canticae il libero affrancarsi dal modello, sentito non più come exemplum e traccia cogente della condotta scenica, ma soprattutto come corpusvile, ripostiglio 'corvéable à merci' di situazioni topiche entro cui tagliare e ritagliare, cui aggiungere, con libenà acquisita in lunghi anni di militanza teatrale, situazioni e motivi non tanto greci quanto piuttosto attinti all'ancor non scritta atellana, forse la prima scuola di teatro di Titus Plotus (vedremo meglio più avanti). Proprio il tratto interno, che unifica più commedie e mostra via via l'affinarsi e il ricco complicarsi di concezione dello spettacolo e della 'teatrabilità', permette a Paratore - come eloquentemente dimostrato in questi studi - di tracciare un iti'nerariumPlautinum che dall'Asinaria(forse la prima commedia a noi conseivata) giunge via via alle grandi 'pièces' della vecchiaia, dove la palliata- proseguendo su di una via già intuita, e forse più che intuita, dal grande Nevio - prende le caratteristiche del 'Singspiel' e della 'comédie mClée d'ariettes' (e d'altra parte particine cantate reca, in origine, quel Barbierde Séville la cui fabula coincide in modo impressionante con la struttura di fondo delle commedie plautine).

Paratore non fu, è noto, uno ierofante dell"Altenumswissenschaft', di cui volava più alto, ma sapeva ben apprezzare il lavoro della grande 610logia tedesca, secondo l'orientamento che gli aveva trasmesso il suo mae• stro Funaioli, e di cui è testimone, in questo volume, anche l'ammirata, impegnatissima recensione a Fraenkd. Questo, tra l'altro, rendeva ancor più complessa la sua figura culturale, dove convivevano in nesso tanto affascinante quanto irripetibile e suscitatore di trista invidia, il filologo classico che dominava tutta la latinitas,lo storico che storia romana ave.

xvm

Premessa

va anche professato agli inizi, il conoscitore sicuro di arte figurativa e di musica (cui si accostava con un gusto che io di rado condividevo, ma di cui riconoscevo la coerenza): si veda ciò che scrive, con brevitasacuta e commossa, Manlio Simonetti nella Conclusionedi Ettore Paratore,cit., 145-146. Quanto dunque a Plauto, Paratore era ben consapevole che -

rapportiamoci alla fine degli anni Cinquanta

3

-

almeno in Italia conti-

nuava a sussistere, seppur declinante, una sorta di 'protettorato' tedesco sugli studi plautini. Aprirsi ad altre tradizioni culturali, ma del pari cimentarsi con questa così illustre era a Paratore assolutamente necessario, anche per sfuggire alle trappole di cena acquosa filologia impressionistica dove andava squagliandosi il crocianesimo agli estremi. Filologia plautina 'alla tedesca' comportava però fatalmente il problema, vero o falso, della contamina/ioe pertanto un'indagine minuta e serrata del tessuto strutturale delle commedie, una loro sezionatura appunto 'anatomica' - di qui il titolo che abbiamo apposto a questo volume - per dare adeguata risposta a ricorrente e legittima domanda: com'è costruita quella commedia? quali le pietre (i 'Bausteine' ...) di cui si è servito, bene o male, Plauto di Sarsina ritenuto già da un Castdvetro incapace di costruire un'azione scenica organica 4 ? Commedia 'contaminata' ossia commedia sfaldata e incoerente, commedia 'contaminata' ossia commedia brutta e rozza si era ripetuto per molto tempo in una curiosa coincidenza (su cui tnette conto indigate meglio) di classicismo rinascimentale italiano e romanticismo filellenico tedesco. Fermo restando il metodo dell'analisi, non senza dovuti ritocchi, era tempo che problema e conclusio-

J Non dimentichiamo che l'acqu.isizione del Dyskolos,con la diluviante bibliografia che ne segul, non si ebbe prima degli ultimi giorni dd 1958 (la prefazione di V. Martin è datata al settembre di quell'anno), quando le 'Note introduttive' di Paratore, per non dire della Stori4del teatrolatino, o erano già diffuseo in corso di stlllllpa; lo stesso accade a Fraenkd con gli imponantissimi AddentÙ al proprio volume plautino. Ma l'uno e l'altro riuscirono a ghennire a voJo qualcosa dd nuovo testo: vedi qui a pp. 48 n. 19, 94, 146. 4 CommentandoPoet. 14'.50a,}8 sgg. egli scriveva (Poeticad'Aristotelevulgariuahl e sposta,I 198 Romani, Bari 1978) ...... non è di necessità che la favella sia opera di colui che fa la favola e truova la sentenzia: la qual cosa è manifesta in Plauto, in Terenzio e in molti latini, che presero le favole e le sentenzie dagli scrittori greci, nella composizione delle quali non durarono fatica niuna, e le vestirono di favella latina, ma essendo solamente simplici versificatori o traslatatori, non ostante che senza niun loro merito s'usurpino il titolo di poeta... Come sia oggi orientata la critica plautina e quale il valore da attribuire a un filone di studi molto più 'incombente' nd tempo, oggi piuttosto lontano, in cui Paratore- scriveva, mostra bene il Guastella, I monologhi d'ingressodei parassiti.Plautoe i modelli. in Due seminarip'4utini, a cura di C. Questa e R Raffaelli,Urbino 2002, 155-198; di pari peso le considerazioni di Danese, Modelli letterarie modelli culturalidel teatro plautino. ibid., lH-154, riferite soprattutto alla più recente bibliografia..

P1ernem1

XlX

ni fossero posti sotto luce nuova. La puntigliosa, serratissima analisi di quell'affascinante ircocervo che è il Mi/es gloriosus (Paratore parla di «Leviatano comico»: qui a p. 141) vede Paratore, talvolta, più fraenkeliano di Fraenkel e più jachmanniano di Jachmann nell'additarvi implacabilmente suture mal riuscite, trabalzi della condotta scenica e persino slabbrature nel carattere dei personaggi (ma su quest'ordine di argomenti giustamente Paratore per lo più sorvola qui e altrove). Una commedia, il Mi/es, frutto dunque per Paratore di contaminatio,forse triplice ..., di fronte alla quale l'atteggiamento dello studioso è quello che deve essere, e molti non avevano (e forst! ancora non hanno) per deficiente senso del teatro. Paratore prende atto che in quel momento storico il teatro si fa così, a n c h e cosi, che esiste una tecnica dello spettacolo la quale può comportare un modus operandi consistente nel trapianto di una o più scene da un testo in un altro, reso possibile dalla fortissima affinità fabulare delle commedie, ove appaiono situazioni del pari affini e perciò intercambiabili, fatte ancor più tali dalla recitazione con la maschera (di cui Paratore ovviamente non dubita). La contaminatio,ipotizzata o negata, non è mai per Paratore elemento di giudizio circa il valore della commedia e questo è felicissimo salto di qualità metodica nei confronti di un secolo e più di filologia plautina 'tedesca'. Ma non è tutto. Il rispetto e la considerazione per la filologia d'Oltralpe affiorano infatti nell'analisi dell'Amphitruo, ove Paratore, accogliendo con consapevole ammirazione i risultati di W. H. Friedrich (Euripidesund Diphilos,MWlchen 1953) scorge - molto giustamente, come ribacll in vecchiaia: vedi «RCCM» 24, 1984, 77-78 - in questa commedia una grande fedeltà alle strutture sceniche del modello, una commedia della Néa, modificate solo 'in superficie' dagli interventi plautini Uo stesso aveva pensato a suo tempo Ladewig). Una prova eloquente di equilibrio critico e di sensibilità a quelle che un tempo si definivano 'ragioni della poesia' se pensiamo a quanto di recente si è scritto sulJ'Amphitruoo con fantasia poco controllata o senza adeguata preparazione tecnico-filologica.

C'è di più. Paratore, nei lavori qui raccolti, si sofferma su altre commedie, in particolare lo Pseudo/us,da lui esaminato durante un superbo corso dell'anno accademico 1957-1958, del quale è eco in questa silloge la 'Postilla' alla Casina. Nell'esame del Curculio(oggetto del suo primo corso plautino nel 1956-1957) Paratore nota la stringatezza, diciamo la 'secchezza', di questa commedia, quali che possano essere gli eventuali tagli da essa subiti, in una ripresa, per opera di qualche dominus gregis (se ci furono, non ebbero però vera rilevanza: vedi qui a p. 95 con opponuno rinvio ad osservazioni di Leo). «A ben guardare - scrive Paratore a pp. 92-93 - il Curculioci si presenta come il ripostiglio di quasi tutti

xx i 't6:n0t più convenzionalidella palliai""':in fondo l'unico che è assente è quello del vecchio stolido destinato ad essere beffato ... Quanto agli altri t6not, non manca nd Curcu/ioil giovane follemente innamorato d'una ragazza soggetta a un lenone, non manca la 'cortigiana onesta' e senti• mentale, non mancano la vecchia ubriacona ..., né il servo scaltro e di buon senso, né il parassita, né il lenone, né il mi/es gloriosus».Insomma questa è una commedia dove Plauto riassume, resecandolo, un modello

che presentavasituazionistranote al poeta ed al suo pubblico, una sona di corpus vile dove, a pane la scena dd choragusche ha problemi suoi propri, la mano dell'autore latino si avverte semmai nel «suo prevalente gusto per la comicità grassa e chiassosa che lo ha spinto persino a escogitare o gonfiare brevi scene forse inesistenti o appena abbozzate nel modello, come le due prime dell'atto secondo fra Cappadoce e Palinuro e fra Cappadoce, Palinuro e il cuoco, che hanno tutto l'aspetto di riempiti• vi farseschi e suonano tanto più singolari in una trama cosi rapida, in una commedia cosi breve e quasi strizzata dalla fretta del riduttore». Veniamo allo Pseudolus.A Paratore questa splendida commedia della gagliarda vecchiezza di Plauto pare rivelare tracce sensibili di contamina/io (a suo tempo già segnalate da Ladcwig, come Paratore sa bene). Di fronte a un testo ammirato e pregiato già questa è un'affermazione coraggiosa, che ribadisce la 'libertà psicologica' dello studioso rispetto ad arcaiche categorie di giudizio che avrebbero ponato senza fallo ad una condanna della commedia. Ma Paratore va oltre. Più precisamente lo Pseudo/us gli pare sorgere dalla contamiMtio- e se dicessimo, invece, concinnatio? - di una commedia incentrata sulla beffaa Simone e un'altra incentrata sulla beffa a Ballione. Fin qui siamo più o meno a Ladewig, ma la seconda 'pièce', quella della beffa a Ballione, pare a Paratore cosl simile a quella da cui è stato tratto il Curcu/ioda consentire (p. 79) allo studioso, che sa di parlare di un Plauto 'maturo', di formulare tranquillamente «l'ipotesi di una contamiMtio awenuta fra il modello delle scene prospettanti lo schema e lo svolgimento della beffa a Simone e il modello del Curcu/io,sia pure allo stadio di libera rielaborazione operata dal comico latino, nel cui cervello la trama del Curcu/iosi doveva ormai essere ridotta a mezzo di repenorio, a traliccio conservato nel suo guardaroba d'espedienti fissi».E vedi ancora p. 155, dove Paratore ribadisce che nello Pseudolusc'è «l'intreccio del modello principale con una trama ch'è sostanzialmente quella del Curcu/io,riadoperata ormai da Plauto come res nu//ius, o meglio come articolo del proprio bat.ar». Tutta questa problematica è ripresa organicamente in uno studio di poco successivo (La structuredu Pseudo/us,«RE.Li, 41, 1963, 123-164), dove Paratore giunge ad affermare, senza esitazione, che Plauto ebbe in vecchiaia anche una seconda maniera, oltre alla trasformazione di vari brani in cantica, per

Prn,,e1111

XXI

rinnovare, a sé e al pubblico, la stanca materia dellaNta: «on découvre maintenant une seconde manière caractérisant l'ige miìr de Plaute, cdle qui se façonne en contaminatioentre un modèle attique et le répertoire devenu cypique du poète. C'est sous cctte forme que Plaute a pris de nouvellcs libertés, en essayant de marcher tout seul, sans guide» (nella stessa pagina si leggono affermazioni di non diverso tenore e un elenco di quanto dello Pseudolus egli attribuisce alla penna 'immediata' di Plauto). Instancabile lavoratore com'era - e 'il tavolino' gli era anche, ormai, di tregua psicologica ad amarissime sventure private - Paratore si accinse pochi anni dopo alla versione di tutto Plauto (talora felice, talora meno: certo migliore del buon Augello o dell'immarcescibile Carena), da cui ricavò gran frutto, come disse egli stesso nella relazione siracusana. In questa egli riprese e ampliò le conclusioni cui aveva dato ansa l'esame comparativo di Casina, Curculio,Pseudolus.Partito questa volta dall'ormai obbligato confronto del sogno del Mercato, e cli quello della Rudens, Paratore esamina i 't61tol scenici e linguistici che caratterizzano Plauto, i quali gli paiono organizzarsi secondo una linea di progressivo approfondimento e maturazione (ancora, come si vede, l'interesse vivacemente mirato alla cronologia anistica dell'autore). Rispetto a Fraenkel, la cui indagine del 'Plautinisches' sembra a Paratore, diremmo oggi, di tipo paradigmatico, nel senso che, dato un testo greco - talora più 'virtuale' o verosimile che reale: Guastella ha ben ragione - viene esaminato di volta in volta l'intervento plautino o creduto tale, Paratore privilegia - e qui è la novità metodica - un esame che chiamerei sintagmatico, cioè sul piano dei modi del concreto ingranarsi nel singolo testo di quello che pure è, in se stesso considerato, un 't6m>ç scenico o linguistico (ma come scinderli?) ricorrente da una commedia all'altra. Paratore ha idee chiare e conviene lasciargli la parola (Plauto imitatore..., cit., 31): « ... per lui (se. FraenkeJ) la ricerca del prima e del poi nel tessuto di ritrovati farseschi in cui consisterebbe il 'Plautinisches', la determinazione di una scala di precedenze, di uno sviluppo nello sfruttamento costante di certi 't61tot. non hanno senso. La sua indagine si appunta sempre sul rapporto fra i modelli greci, faticosamente ricostruiti nella loro struttura e nel loro spirito, ... e le spericolate sovrapposizioni del talento farsesco di Plauto. Quello che esse volta a volta rivelano, i rapponi istituibili fra loro da commedia a commedia, la possibilità di scovare nel loro ambito un procedimenco evolutivo non lo interessano. Questo ci sembra giustificare in pieno la nostra nuova maniera di prospettare la relativa problematica. Noi cercheremo infatti di chiarire più attentamente quanto, nella pur innegabile costanza dei motivi che suggerivano a Plauto le sue rielaborazio-

XXII

Premt!SJ(I

ni (e la cui natura noi individuiamo in perfetto accordo col Fraenkd), si profili l'abilità dell'uomo di teatro che si serviva di ritrovati già da lui sperimentati e divenuti topici in maniera diversa dalla già massiccia topi-

ca dellaNta, per procederein manierapiù disinvoltanella sua abituale distorsione farsesca dei modelli greci allo scopo di venire incontro ai gusti del grosso pubblico. Insomma la ricerca del 'Plautinisches' si configurerà per noi come scoperta di una topica strutturale ed espressiva volutamente perseguita dall'autore per facilitarsi il compito 5». La bibliografia plautina, come quella di troppi autori antichi e non antichi, è intasata da titoli inutili o sciocchi, senza problematica vera, senza conoscenza diretta dei testi. Nessun paese è esente da questa tabe scrittoria, che pare irrimediabile: da noi si è studiato (si fa per dire ... ) l'Amphtìruo discutendo seriamente dell'impatto sul pubblico romano di Alcmena incinta; negli Stati Uniti una brava signora è arrivata ad ammiccare a pratiche sessuali non troppo commendevoli (S/aves,masters and the art o/ aulhority in plauline comedy).La serietà degli studi, di tutti gli studi ma in pn·mis dei nostri, è la condizione fondamentale per la loro soprawivenza. La linea metodica tracciata da Paratore non è, s'intende, l'unica possibile: altre ce ne sono, o potranno esserci, e lo si è constatato chiaramente nei molti anni trascorsi dai giorni della redazione di queste

ricerche. Ma la concretezza, la felicità di molti risultati e proposte, l'impegno morale che in ogni caso rivelano sono un richiamo al lavoro duro e serio, devono servire a tutti di ammonimento ed esempio fotte. Affettuoso custode della memoria patema, il collega Emanuele Para• tore è venuto incontro con prontezza agli impegni non piccoli che questo volume ha richiesto, e intanto un filo di speranza per il futuro sorge dal numero di presenze nella Tabulain memoriam,dove si succedono studio· si giovani e meno giovani, chi a Paratore fu più vicino e chi no, e pre• stigiose istituzioni culturali: prime fra tutte la Biblioteca Ambrosiana che custodisce il Palinsesto Plautino, la Biblioteca Medicea Laurenziana e la Biblioteca Vaticana, templi venerati della nostra civiltà; poi l'Accademia ' L'eco dellarelazione, fotte li per li come attestano le pagine che recano il resoconto deUa discussione che tenne dietro (con interessanti precisazioni dell'autore), fu in realtà assai scarso, sia per la moderata diffusione di «Dioniso», sia per l'infelice veste tipografica che le fu riservata. Con minimi ritocchi di circostanza,e un po' mi• glior veste tipografica, Paratore ripubblicò il suo saggio, con lo stesso titolo, in Mi• scel/4nea di studi in memorill di Marino Barchiesi, Il, Roma 1m = «RCCM- 19, 1977, 553-584. Ora dovrebbe apparire come appendice di una riedizione della Storia del lt'tl.tro /411;,oche era stata progrlllllfflllta, dicono, in occasione del novantesimo compleanno dell'Autore 0997).

PrememJ

XXII!

dei Lincei nella persona dd suo Presidente Edoardo Vesentini e non manca il Liceo classico 'Raffaello' di Urbino, dove Paratore studiò nd primo dopoguerra (Urbino rimase sempre un luogo privilegiato della sua memoria). Ma particolarmente significativa è la presenza di Roma e di Sarsina: i luoghi simbolo di Plauto. Urbino, 10 febbraio 2003. CESARE QUESTA

nota dei curatori sono state riscontrate le citazioni dei testi antichi, precisate e rese uniformi quelle degli 11utorimodcnù, numerate di seguito le note all'interno di ogni contributo, ciucuno dei qUllli sta II sé dal punto di vist11bibliografico, e sono stati offlCSii i brcYissimi cenni dcdiati ogni vob11.U. tndizione manoscritt11 dcl111 commcdi11studi.ara;gli interVfflti dei curatori sono tra plll'C[ltcsi quaidre.Pet prezioni soccorsi bibliografici SWllo gr11tiIIRino Avcsani,PicrpllffloCampana, Edoudo D'Angelo,Mario Dc NoMo, Leopoldo Gmnbeulc, Slllvatore Monda, Piergiorgio P11rroni,Giorgio Piru; AlessioTorino ci h11validmncnte aiutato nel rivedere le bozze.

AMPHITRUO

Questa commedia, indubbiamente riferibile ad un Plauto già maturo, è tuttavia di difficile datazione, anche se è facile ricavare dal testo quelle vere o presunte allusioni ad avvenimenti contemporanei, che la fantasia dei filologi è solita scovare nelle opere plautine per soddisfare il suo impegno di sistemazione cronologica. Com'è noto, si va dal 207 o 206 - proposti dallo Enk (Handboek der Latijnse Letterkunde, II 1, Zutphen 1937, p. 149) e dal suo allievo K. H. E. Schutter (Quibus annis comoediaePlautinae pn'mum actaesint quaen"tur,Groningae 1952, p. 13) con riferimento alla battaglia del Metauro, in rapporto coi vv. 75, 188-89 e specie 1 sgg. (che risponderebbero a Liv. XXVII 51, 10) - fino al 186, come vogliono il Janne (L'Amphitryonde Plaute et M. Fulvius Nobi/ior,«RBPhH» 12, 1933, pp. 515 sgg.) e C_ H. Buck (A Chronology of the Plays o/ Plautus, Baltimore 1940, pp. 25-26), sulla base del richiamo allo scandalo dei Baccanali ravvisabile nel v. 703, e soprattutto del canlicum di Sosia che alluderebbe con precisione all'impresa ambracica (189 a. C.) di M. Fulvio Nobiliore. Anche il Scdgwick, da ultimo, (Plautine Chrono/ogy,«AJPh• 70, 1949, pp. 376 sgg.), smentendo le più esatte risultanze delle sue precedenti ricerche stilometriche, ha proposto per l'Amphitruo la data del 188; e F. Della Corte (Da Sarsinaa Roma, Genova 1952, pp. 57 e 64-65) ha tentato di portare anche lui nuovi contributi alla datazione dopo il 188 (ch'è tuttora la più accreditata), studiando il retroscena politico ravvisabile nel canticumdi Sosia e inclinando a scorgere nella commedia di Plauto una sottile parodia dell'Ambraciaenniana. Ora, è interessante notare - a persuaderci della fragilità e reversibilità degli argomenti basati sulle più o meno illusorie allusioni di natura politica - che proprio lo studioso alla cui autorità si appellano i sostenitori di questa datazione più tarda, cioè il Janne,

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A1111lomie p'4utine

ha voluto invece porre l'Amphitruo sul medesimo piano dell'Ambracia,considerandolo cioè come un altro frutto del mecenatismo di Fulvio Nobiliore, il quale sarebbe stato protettore di Plauto non meno che di Ennio e, per i giochi trionfali conseguenti al suo ritorno in patria, avrebbe ordinato al poeta sarsinate una nuova commedia, che sarebbe stata appunto l'Amphitruo.Né ci si può nascondere che peccano di soverchia ingegnosità taluni argomenti addotti dal Janne o dai suoi seguaci, come quello che aver scelto a sfondo bellico della commedia (cioè proprio a ripostiglio delle allusioni adulatorie al trionfatore, e quindi a essenziale scopo celebrativo della commedia) la spedizione di Anfitrione contro i Teleboi rivelerebbe l'intento encomiastico del poeta, in quanto le isole dei Teleboi erano prossime alle coste dell'Acamania, su cui si era svolta la spedizione di Fulvio Nohiliore: facilmente si può obiettare con lo Schutter (p. 11) che «dubium est, num spectatores Romani huiusmodi allusionem intellexerint». Al che io aggiungo che tali finezze allusive di natura geografica male si concepiscono in un poeta e in una commedia che fanno di Tebe (v. 731) una città marina e fanno giungere (v. 412) la nave di Anfitrione dal portus Persicus,cioè dalla direzione contraria a quella di chi doveva arrivare dall' Acamania: le conoscenze geografiche di Plauto non erano gran che superiori a quelle dd suo pubblico! Né sembrano persuasive le pur ingegnosissime argomentazioni di G. De Sanctis (Storiadei Romani, IV 2, 1, Firenze 1953, p. 18 n. 44) per dimostrare l'inesistenza degli errori, nd giusto proposito di confutare la tesi di E. Caldera (Sullefonti de/l'Amphitruo,in «RFIC» 75, 1947, pp. 145 sgg.) secondo cui Plauto avrebbe fatto di suo la parodia di una tragedia greca. Per smentirla sarebbe bastato osseivare che la presenza degli errori in Plauto non è affatto intenzionale e che essi da soli non bastano a documentare la preesistenza di un modello greco di carattere comico o parodistico. Del resto chi studi quanto è scritto sulla cronologia plautina in base a siffatti argomenti s'accorge che le deduzioni sono state fa. cilmente sopravvalutate o ridotte al minimo a seconda delle preconcette propensioni per questa o quella data. Cosi il Janne e il Buck scendono fino al 186 (diminuendo quindi il significato dell'immediato influsso della vittoria ambracica sulla composizione della commedia), in quanto giudicano che il v. 703 sia da inter-

Amphit""'1

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pretare necessariamente come un'allusione allo scandalo dei Bac• canali. Ma altri studiosi (Brix-Niemeyer-KOhler nella quarta edizione del Mi/es, Leipzig-Berlin 1916, ad v. 1016, e, sulle loro onne, lo Schutter, op. cii., pp. xxvin-xxx) hanno contestato che ogni allusione plautina ai riti bacchici debba essere interpretata per forza come un riflesso dell'azione repressiva e non possa risalire al precedente periodo della diffusione di quei riti in Roma; e di recente A. Pastorino (TropaeumLiberi, Arona 1955, pp. 87-90) ha ribadito, anche sulla scorta di un articolo di G. Tarditi (La questione dei Baccanali, in «PP» 7, 1954, pp. 273-74), che le allusioni plautine al culto bacchico non possono e non debbono necessariamente essere assunte come prova che le commedie in cui esse sono inserite siano posteriori al 186: altrimenti dovremmo posporre a quella data anche commedie sicuramente anteriori come il Mi/es e lo Stichus. E ciò anche se poi il Pastorino (p. 89), da buon discepolo del Della Corte (come lo Schutter che, da buon discepolo dello Enk, sopravvaluta le presunte allusioni alla battaglia del Metauro), afferma che «con l'Amphitruo siamo probabilmente alla vigilia del Senatoconsulto, poiché viene generalmente datato tra il 188 e il 186». Ma se le allusioni al culto bacchico sono stiracchiate a volontà o come riflesso dello scandalo dei Baccanali o come semplice testimonianza di una conoscenza dei riti dionisiaci in Roma, se le presunte allusioni alla spedizione d' Ambracia sono state piegate sia nel senso encomiastico sia nel senso parodistico (e c'è stato anche chi ha voluto svuotare il racconto di Sosia di ogni allusione ad eventi contemporanei, scovandovi un riflesso della tattica dei Diadochi e quindi ravvisandovi solo la prova della posteriorità del modello greco all'anno 330 o al 323), non c'è abilità di filologo che possa dar forza decisiva al riscontro fra i vv. 1 sgg. della commedia (vos in vostris voltis mercimoniis I emundis vendundisque me laetum lucris I ad/icere, etc.) e le espressioni di Liv. XXVII 51, 10 secondo cui, dopo la vittoria del Metauro, i Romani res inter se contrahere vendendo, emendo, mutuum dando argentum creditumque solvendo audehant, le quali, essendo peculiaridi Livio, mal si concepiscono come appartenenti a un testo cui Plauto si sarebbe ispirato; o al riscontro fra i vv. 42 e 75 e la vittoria di C. Livio su Antioco il Grande, come fa il Piitmer (Zur Chronok,giede, Plauti-

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Anatomie p"1111ine

nischen Komoedien, «Jahresber. des kOn. Staatsgymn. in Ried», Ried 1905/06, p. 14), per datare la commedia al 192-91. L'unica impressione che rimane indistruttibile, come avvio a un attento esame del problema cronologico, è che la commedia si rivolge a un pubblico inorgoglito da recenti vittorie: i vv. 39-45 e 75 alludono chiaramente a questo senso di trionfale sicurezza che peivade l'animo dci Romani, e sono anzi una testimonianza più unica che rara (con più concreta evidenza che non nel finale del prologo della Cistellaria)dell'eco che il grande ciclo di vittorie romane fra il III e il II sec. a. C. ha avuta nel teatro plautino. Ma anche qui ci sarebbe da superare la grave difficoltà che i versi sopra citati appartengono a quei passi del prologo, di cui la maggioranza dei critici, con minore o maggiore sicurezza, nega l'autenticità: il v. 75, fra l'altro, appartiene a un brano che neppure A. Audollent, cioè il rivendicatore (Le prologue de l"Amphitryon' de Plaute, «RPh» 19, 1895, pp. 70 sgg.) dell'autenticità dal prologo, riteneva plautino. Sl che, in fondo, l'impressione sopra notata permane o, per meglio dire, si giustifica (ammettendo anche che l' eventuale interpolatore del prologo si sia ispirato in parte alla situazione dell'anno in cui la commedia fu rappresentata la prima volta) solo se i versi sopra citati si pongono in rapporto con l'evento che fa da sfondo alla commedia, la vittoria di Anfitrione sui Teleboi, e con alcune frasi più significative che lo sottolineano, come i vv. 188-89: V1Ctoresvictis hostibus legiones reveniunt domum I duello exstincto maxumo atque internecati'shostibus. Se tale deduzione è legittima, appare più naturale la conclusione del De Ler renzi (Cronologiaed evoluzioneplautina, Napoli 1952, pp. 94-95) che una commedia così eccezionalmente pervasa da echi di vittoria non possa aver rapporto se non col trionfo decisivo e più clamoroso ottenuto durante gli anni dell'attività di Plauto, cioè con la vittoria nella seconda guerra punica. Perciò egli riprende la tesi dello Schwering (Ad Plauti Amphitruonem prolegomena, diss., Miinster 1907), che ha datato la commedia al 201 e ha raffrontato il racconto di Sosia con la descrizione della battaglia di Zama e dei suoi antecedenti, contenuta in Liv. XXX 24-36. Ed effettivamente, se a tale genere di riscontri può essere riconosciuta validità sul piano metodico, è innegabile che la maggior copia di affinità non puramente generiche, che il racconto di Sosia presenta con testimonianze storiche, è proprio la serie delle affinità col racconto

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liviano relativo alla conclusione della seconda guerra punica. Naturalmente, riconoscendo ciò, io non penso minimamente di associarmi al corollario che il De Lorenzi desume dalla conclusione dello Schwering, cioè che l'Amphitruo testimonia della personale devozione di Plauto al vincitore Scipione: simili intrusioni nell'oscura biografia di Plauto, che si vorrebbero tentare sollecitando energicamente l'interpretazione delle commedia, mi sembrano pericolose e, se è lecito dirlo, antimetodiche. E per giunta il De Lorenzi è lo stesso che ha voluto vedere nel Mi/es una parodia di Scipione! Ad ogni modo debbo far presente che la datazione Schwering-De Lorenzi si adegua anche ai criteri stilometrici del Piittner e dd Sedgwick (The Cantica o/ Plautur, «CR» 39, 1925, pp. 55 sgg.), basati sul rapporto fra senari giambici, altri versi recitativi e versi lirici: essi davano sempre 1 l'Amphitruo come appartenente al gruppo centrale delle commedie plautine. Non altrimenti i criteri stilometrici dello Schneider (De enuntiatiSsecundartìS interposittSquaestionesPlautinae,diss., Dresdae 1937), basati sull'evoluzione del periodo, e quelli complessi dell'Hough (The Ure o/ Greek Wordr in Plautur, «AJPh» 55, 1934, pp. 346 sgg.; The Development o/ Plautur' Art, «CPh» 30, 1935, pp. 43 sgg.; Link-monologuer and Plautine Chronology,«TAPhA» 70, 1939, pp. 231 sgg.; The Understandingo/ Intrigue:a Study in Plautine Chronology, «AJPh» 60, 1939, pp. 422 sgg.) hanno fornito per vie diverse sempre la conclusione della medietà dell'Amphitruo nell'evoluzione stilistica di Plauto. Al momento di evadere dalle fumose genericità delle apparenti allusioni di carattere storico, poter trovare che la meno discutibile di queste allusioni concorda con osseivazioni di carattere stilistico è certamente una conferma consolante. Sia però ben chiaro che la mia propensione per la data del 201 non vuole essere affatto una conclusione sicura e che in linea di principio io riaffermo l'obbligo di applicare l'ars nesciendiper tutte le commedie di Plauto da cui non emerga un particolare di ordine cronologico che sia cogente. Tuttavia debbo richiamare l'attenzione sul fatto che assegnare l'Amphitruo al periodo mediano dell'attività di Plauto seive anche a porre in guardia dagli entusia1

A quelli del Scdgwic:ksi associa il Ouc:kworth,The Nature of Roman Comedy, Princ:eton 1952, p. 5'.i, per trovare più verisimileuna data mediana.

An,tomie pldutine

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smi troppo incontrollati che potrebbero sorgere per l'indubbia originalità e quadratura della struttura scenica della commedia, e per l'insolita carica di umanità che permea i personaggi come Anfitrione e soprattutto Alcmena, a non parlare dd tono improvvisamente elevato della chiusa, a partire dal racconto di Bromia, di quel timbro, cioè, di tragicommedia, che del resto lo stesso Plau-

to, nei vv. 51-61 del prologo (ritenuti autentici dai più), non ha mancato di porre in rilievo 2• A critici impressionisti - ponati a escludere con fastidio il rapporto di Plauto con le fonti - la degustazione di una commedia cosl sottilmente saporita per il suo carattere di parodia mitologica, così organicamente impostata sull' al-

ternanza del falso e del vero Anfitrione presso Alcmena, così ricca di nascosta ma pensosa umanità, cosl emergente fra tutte le altre appartenenti al tipo della Comedy o/ Errors per un qualcosa che preannuncia alla lontana la drammaturgia pirandelliana, può suggerire facilmente arrischiate proclamazioni di preminenza in tutto il teatro plautino e quindi l'asserzione ch'essa sia il vertice dell'arte di Plauto e pertanto una delle ultime sue commedie: conclusione che del resto concorderebbe con la data proposta dal Janne e dal Buck e che è stata avanzata anche da K. M. Westaway (The Originai Element in Plautus, Cambridge 1917), proprio perché questa studiosa è partita dall'esame del progressivo affermarsi dell'elemento peculiarmente plautino. Ma quando si consideri il fatto che commedie sicuramente appartenenti all'ultimo periodo dell'attività di Plauto e sicuramente denuncianti il progressivo affermarsi della sua personalità, il trionfo di quello che la Westaway chiama the originai Element in Plautus, commedie, cioè, come lo Pseudolus e la Casina, appaiono remotissime dal mondo poetico dell'Amphitruo e mostrano invece un sempre più deciso avviamento del poeta sulla strada della comicità violenta, esuberante, sfrenata, una conclusione come quella sopra enunciata apparirà inaccettabile. Coerentemente con tali considerazioni, sul punto di passare dall'esame del problema cronologico a quello degli altri due che sistematicamente si presentano per ogni commedia di Plauto - il problema delle fonti e quello conseguente dell'originalità plautina, 2

Giustamente l'Ama1di(Da Plautot1 Teren;io,I. Napoli 1946, pp. 60-61) avverte nel racconto di Bromiala solennità dell'epifaniadi un dio, mentre il Pema (L'origin,z/itJdi Plauto,Bari 19',, p .. H8) vi trova solo un che di macchinoso.

A,,,phitruo



dei rimaneggiamenti operati dal poeta, dell'eventuale contaminatio -, non possono fare a meno di avvertire che per giudicare ret· tamente dell'Amphitruobisogna rifarsi alle pagine dedicate al tema da W. H. Friedrich in Euripidesund Diphilos,Miinchen 1953, pp. 263-278, le quali sono veramente illuminanti. È fuor di dubbio che per il suo particolare argomento l'Amphitruo rappresenta un'ardita singolarità, forse una stimolante novità nd teatro plautino, almeno per quello che di esso possiamo conoscere; ma è altrettanto indubbio che, sia pure sopra il piano più sottile dd rapporto fra uomini e dei, e quindi in una situazione resa aperta a sviluppi e soluzioni di maggiore complessità, nell'Amphitruo Plauto ha ripreso il tema di quella che il Della Corte definisce «la commedia dei simillimi» e che io preferirei intitolare shakespearianamente Comedy o/ Envrs. Egli include in questo gruppo le Bacchides, cioè una delle commedie generalmente poste fra le più tarde, ma riconosce (op. cit., pp. 264-65) che in essa «lo sviluppo gemellare» non è sfruttato né alla maniera dei Menaechmi, né a quella dell'Amphitruo,e che «il tono libresco, che proviene da certa frigida duplicità menandrea di un parallelismo di azione, sa di artificioso; e l'occasione non è ravvivata da espedienti». Ma in realtà, come lo stesso Della Corte ha visto e il Pema (op. cit., pp. 286 sgg.) ha ripetuto, la commedia che più consuona con l'Amphitruo per l'affinità nel tema sono i Menaechmi,cioè una delle commedie che molti (anche se io non mi associo a tale opinione) ritengo fra le prime di Plauto, almeno di quelle pervenuteci, se non addirittura la prima; e ciò anche se poi l'Amphitruo contiene una situazione di più sottile complessità, in quanto le coppie di «simillimi»son due e non una sola, ed una di esse - quella formata da Sosia e Mercurio - si scontra fin dall'inizio. E - aggiungo io meglio che nelle Bacchidesil tema dell'equivoco nella forma dello sviluppo gemellare e come motivo di comicità aperta, spensierata, ingenua, si ritrova nd secondo atto dd Miles, cioè di un'altra commedia che quasi tutti assegnano agl'inizidell'attività di Plauto. Il poeta, quindi, nell'Amphitruo ha ripreso sono altra e più ricercata fonna il tema caro a quelli che per noi rappresentano i suoi primi tentativi di organizzare una solida struttura comica: siamo, perciò, sempre nd periodo della maturazione, sia pure di una maturazione più avanzata. E se stavolta il poeta, nella sempre più conscia volontà di arricchire la sua esperienza, è andato a scovare

A,ra1omie p'411tine

un modello che riproponeva il tema in una forma più ricercata, le conseguenze da ricavare da siffatta constatazione sono proprio quelle che balzano dall'analisi del Friedrich, piuttosto che quelle dell'Amaldi, il quale (op. cii., p. 48) anzitutto afferma anche lui la ripresa, nell'Amphitruo,del motivo dominante nei Menaechmi,ma poi, pur dubitando ch'esso sia stato composto nel 189, dichiara di non saperlo immaginare composto se non nel primo decennio o quindicennio del sec. II, «nell'epoca delle varie campagne greche», quasi che solo queste, e non la vittoria di Zama, potessero rispecchiare l'ottimismo di una società e di un artista avviati anche a più ricche conquiste spirituali. Nutrito evidentemente, nei riguardi di Plauto, di spirito fraenkeliano, il Friedrich (p. 278) ritiene che il modello dell'Ampbitruo, per l'evidenza della sua derivazione dalla più alta poesia drammatica della grecità classica e per l'armonia dell'impianto dato al tema e del modo con cui sono intuiti i personaggi, fosse opera di ben altro autore da quello che scrisse i modelli della Casina,del Rudens e del Poenulus,e quindi fosse non un semplice talento teatrale, come Di6.lo, e neppure uno scrittore di età postmenandrea, come l'autore del Carchedoniosmodello del Poenulus,ma un anista della forza di Menandro o Filemone. Da questa conclusione, alla quale, in linea di massima, non esiteremmo a sottoscrivere, derivano tre fondamentali conseguenze: 1) che il modello principale dcll'Amphitruo è ricondotto alla commedia nuova, come del resto impongono anche la già notata profonda affinità fra l'impianto di questa commedia e quello di commedie come i Menaechmi e il fatto che la conclusione della commedia è in fondo quella dell'agnizione, classica nella commedia nuova (e sia pure di un'agnizione affine, negli spiriti e nelle forme, soprattutto a quella con cui si conclude lo Ione di Euripide); e che quindi la tesi affacciata con particolare autorità dal Vahlen (Plautusund die fabula Rhinthonica,«RhM»16, 1861, pp. 472 sgg. [= Gesammeltepbilo/. Schri/ten, I, Leipzig-Berlin 1911, pp. 437-442]), della discendenza dell'Ampbit,uo da uno dei iliaci di Rintone, cioè da una tradizione più specificamente italiota, è da abbandonare, riconducendo decisamente l' Amphitruo nella generica categoria delle palliatae, sia pure come rappresentante di un tipo particolare; che più che mai sono da abbandonare tesi come quella imprudente del Caldera, di cui abbiamo già fatto parola;

Amphitruo

Il

che quindi torna ad apparire probabile la tesi dd Dietze (De Philemone romico, Gottingae 1901, pp. 22-23) che il modello fosse la N'Uç di Filcmone, e solo in secondo piano vanno considerate la tesi di una derivazione dalla µÉOTI,specialista in parodie mitologiche. o tesi, come quella del Casaubon, di una derivazione da poeti della n:aÀ.atét,come Archippo o Platone il comico; che quindi cade anche ogni speranza di toglier peso - mediante l'ipotesi di un eccezionale legame esclusivo dell'Amphitruo con la farsa italiota - alla testimonianza decisiva che i w. 140-47 della commedia offrono in favore dell'uso della maschera nella palliata:e su tale problema cfr. la mia Storia del teatro latino, Milano 1957, pp. 31-34, mentre sempre meno persuasivo si palesa lo sforzo di M. Swoboda (De numero histrionumpartiumque in comoediisPlautinis quaestiones,«Eos»47.1, 1954, pp. 182-86 [e d. ibid. 49.1, 1957/58, pp. 83 sgg.]) di ricavare dalle commedie plautine sostegni alla tesi contraria: ché i luoghi da lui addotti vertono tutti su quella inevitabile, necessaria illusione scenica detenninata dalla parola che assurge, per certi aspetti, al valore di didascalia, e finiscono quindi per confennare come il poeta, sia tragico sia comico, sia greco sia latino, dovesse ricorrere alla parola proprio per creare gli effetti che la maschera impediva sul piano della recitazione, mentre il luogo dell'Amphitruo lascia intendere chiaramente che una maschera doveva creare una perfetta identità fra Giove e Anfitrione e fra Mercurio e Sosia, sl da dover poi imporre l'espediente delle pinnulae e del torulus per poter distinguere i personaggi divini da quelli umani; 2) che, una volta riconosciuto nel modello dell'Amphitruo un prodotto della Nta, è però da escludere che l'autore ne sia stato quel Difilo, cui pure da molti s'era pensato per il fatto ch'egli aveva coltivato più dei suoi colleghi la parodia mitologica; 3) che, contrapponendo la classica compostezza e profondità del modello dell'Amphitruo alla più superficiale anche se più dinamica comicità dei modelli di commedie generalmente ritenute fra le più tarde e le più felici di Plauto, si viene ad escludere una particolare funzione che l' Amphitruo avrebbe avuta nella maturazione del genio del Sarsinate, si viene cioè ad affermare quasi l'incompatibilità del più caratteristico mondo poetico espresso in questa commedia rispetto alle doti più tipiche cli Plauto, quali trionfano nelle più volte ricordate Casinae Pseudolus.

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Am,tomit pi4Mtint

Quanto al primo punto, mi sia consentito ·ricordare ciò che ho già scritto nella mia Storia della letteraturalatina (Firenze 1950, p. 41), che cioè distinguere l'Amphitruo, come fabula Rhinthonica, dalle altre commedie plautine «sembra fuor di luogo, perché sappiamo che anche autori della commedia nuova, p. es. Difilo, coltivarono la parodia mitologica; e quindi i iliaci di Rintone avranno costituito per Plauto il lievito nostrano per far fermentare la comicità racchiusa forse, anche per l'Amphitruo, in un modello attico». Questa formula, rinvigorita dalle magistrali pagine del Friedrich, mi sembra tuttora valida. Per questo non credo di dovermi associare né alla tesi dell'Arnaldi, che (op. cii., p. 53) ammette più esplicitamente solo l'antecedente di Rintone e pensa ad una elaborazione in cui Plauto avrebbe dispiegato maggiore libertà che non negli altri casi, né alla tesi del Della Corte, che (op. cii., pp. 204-05) pensa a «una libera rielaborazione plautina su un tono tragico, derivato dall'antica tragedia romana» e affenna che l'Amphitruo «o è un'originale invenzione plautina o comunque non rientra negli schemi della Néa». Che nella rielaborazione plautina ci sia anche un influsso della tragedia arcaica latina, è innegabile: lo ha dimostrato E. Fraenkel (Plautinisches im Plautus,Berlin 1922, pp. 351-52) per il canticum di Sosia, insistendo nell'idea che i cantica plautini traggono origine dai metri della tragedia arcaica. Ma si tratta appunto dei luoghi in cui il libero rimaneggiamento di Plauto, nel senso di una intensificazione dei valori parodistici e comici, è evidente: cf. infatti E. Fraenkel, op. cit., pp. 183-84 circa lo sviluppo che Plauto ha impresso all'originale nel lamento di Sosia (vv. 163 sgg.) sulla sventura di appartenere ad un padrone ricco; di nuovo E. Fraenkel (op. cit., p. 23) circa l'evidente intrusione di un elemento romano ai vv. 304-05 (Formido male I ne ego hic nomen meum commutem, et Quintus fiam e Sosia);per il v. 423 cfr. il Friedrich, che (op. cii., p. 278) lo pone a confronto coi vv. 429 sgg. del Mi/es, come esempio delle solite inserzioni di t61to1. espressivi plautini commisurati a date situazioni; e, sempre per quel che riguarda il personaggio di Sosia, evidentemente il più caro a Plauto, il più adattato da lui al suo gusto, mi permetto di far rilevare una di quelle tipiche contraddizioni in cui Plauto incorre per non voler rinunciare al bon mot, o meglio all'effetto comico di bassa lega che faccia presa sulla massa degli spettatori: al v. 576, rispondendo all'accusa dd padrone, Sosia proclama Nus-

Ampbitnro

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quam equidem bibi; al v. 631, alla fine dclla medesima scena, per provocare una facile ilarità, egli dichiara Non ego cum vino simitu ebibi imperium tuom! Questi sono proprio i luoghi in cui si sorprende agilmente la ridaborazione plautina; si che anche gli altri spunti che il Della Corte (op. dt., p. 205) ha voluto ricavare dalla prima scena dell'atto primo come sostegno della sua tesi vanno più semplicemente accolti e interpretati come altri indizi del personale rimaneggiamento operato da Plauto sopra il solido tdaio di un modello fornitogli da un autore della Nta. Non altrimenti vanno interpretati i contributi che il Catteruccia (Pitture vascolariitaliOtedi soggettoteatralecomico,Roma 1951, p. 19) ha voluto arrecare dallo studio dd linguaggio figurativo italiota, che testimonia anch'esso la presenza di un'humus locale, la quale ha meglio stimolato Plauto ad imprimere una più decisa nota di comicità all'originale. D'altro canto proprio la fine analisi che il Della Corte ha fatta dclla commedia (op. cit., pp. 269-71) conferma l'eccezionalità dd suo impianto non in rapporto con la commedia nuova, specie con quella di tipo più strettamente menandreo, ma proprio in rapporto con l'ane plautina: neppure il Trinummus e i Captivi, neppure quella parte del Poenulus in cui è raffigurata l'espansione dell'amor paterno e su cui ha richiamato l'attenzione il Pema (op. cii., pp. 73-78), possono essere considerati eccezionali fino a questo punto; non per niente, sia pure affisandosi soprattutto in Molière e suscitando in alcuni il sospetto che non avesse conosciuto Plauto, il Kleist dal fonunatissimo tema ha desunto una vera tragicommedia, sfruttando proprio gli spunti di maggiore severità insiti nel personaggio di Alcmena e quindi riavvicinandosi inconsciamente a quello che doveva essere il nucleo originario, come ha posto in chiaro il Friedrich (op. cii., pp. 266-67). Si potrà forse obiettare al Friedrich che la presenza di un'opera come quella del Kleist nella tradizione letteraria del suo popolo lo ha fortemente stimolato a ripercorrere il cammino dall'opera plautina alla tragedia euripidea, dalla quale ha preso l'avvio lo sviluppo anche comico dd mito di Anfitrione; e gli si potrà obiettare inoltre che questa sua predilezione per i toni austeri può spiegare anche il suo forse non del tutto giustificabile verdetto contro Difilo e in favore di Filemone, che pure ha ispirato a Plauto il grigio Trinummus. Ma d'altro canto è innegabile che l'indole di Plauto ha saputo dai KÀ~Qoilµ,vot

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di Difilo ricavare l'immortale Casina,appunto perché avvertiva più congeniale al suo lo spirito difileo; non c'è quindi ragione di me• ravigliarsi se un'opera più castigata e intonata a interessi di natura etica, come il 0r]oauQ6ç di Filemone, non abbia saputo sufficientemente ispirarlo, salvo che nella scena fra Cannide e il sicofante; e se per una parodia mitologica come il modello dell'Amphtìruo (nella quale trapelava ancora l'antico apporto dclla tradizione tragica) egli non abbia trovato di meglio che marcare il Nebenspiel costituito dall'urto tra il vero e il falso seIVo, sviluppando uno dei 'tÒ1tot.strutturali più tipici costituenti il repertorio di temi ch'egli aveva ereditati dalla Néa. e andava sistematicamente e talvolta un po' meccanicamente sfruttando nella rielaborazione delle varie commedie J_ Con persuasiva lucidità il Friedrich s'è infatti servito di tragedie euripidee basate anch'esse sull'equivoco, sulla aerea rielaborazione di un mito spinto fino al gioco sottile dell'intelligenza dove i limiti fra il tragico e il comico sono confusi e trascesi, come lo Ione e l'Elena. Da queste gli è stato facile determinare come si dovesse profilare in origine il mito della nascita di Eracle in termini d'azione tragica e seguire quindi la progressiva inneivazione, nei gangli di quello schema, della primitiva rielaborazione comica, la quale, e nell'euritmico respiro delle scene raffiguranti Alcmena disorientata nell'alternanza tra il falso e il vero marito e nella sapiente fedeltà ad un livello studiatamente tragicomico che non fa. cesse mai degenerare l'azione in farsa, che ne facesse sempre scaturire (anche nei momenti di maggiore tensione comica) il lato umano e permettesse all'ultimo lo sviluppo di una vera e propria narrazione d'alto tono, quasi di stile tragico, com'è il racconto di Bromia 4 , è uno dei più istruttivi esempi del lento trapasso dal dramma euripideo alla Nta. Preziose al riguardo anche talune osseivazioni panicolari, come quella (op. cit., p. 263) che la scena dell'atto terzo in cui Mercurio fa la parodia del servus cu"ens costituisce un libero gioco contro le convenzioni sceniche, la cui attica grazia ne tradisce la presenza sin dal modello e testimonia J Cfr. N. Tenaghi., Studi sull'antica poesia latina: intorno ai doppioni plautini, «AAT» 64, 1928, pp. 9,.1n. 4 Giustamente E. Fraenkel (op. dt., p. l'U) ravvisa in Bromia la funzione e il carattere ddl'èl;aypM>ç.

Amphitruo

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quindi di uno stadio più elevato rispetto al modello dei Menaechmi, quasi di un suo conscio superamento, sì che il secondo dovrebbe esser supposto anteriore al primo. Ma la ricostruzione del Friedrich ha un valore decisivo soprattutto per stabilire l'unità dell'Amphitruo e negare la contamina/io. Com'è a tutti noto, il Leo (Ober den Amphitruo des Plautus, «NGG» 1911, pp. 254 sgg.), sulle onne di Th. Kakridis (Plautus. Amphitruo, «RhM» 57, 1902, pp. 463-65), ha tentato di distinguere tutta l'azione relativa a Sosia dal vero dramma di Alcmena, considerandola un'aggiunta di Plauto, e analizzando il monologo di Giove all'inizio dell'atto terzo (che veramente si presta a sospetti di varia natura) e le infinite difficoltà che si frappongono a intendere come la commedia s'inizi con la vù~ µaKQUche determina il concepimento di Ercole e termini subito dopo con la nascita dell'eroe, mentre poi di questo si dice (v. 482) che nascerà settimino, ha dedotto che Plauto ha contaminato una commedia relativa alla nascita di Eracle con una commedia che più semplicemente, e forse più ridancianamente, s'intratteneva sulle voluptates illegittime di Giove. Il Friedrich (op. cit., p. 271) riconosce che nella scena capitale fra Alcmena,Anfitrionee Sosia, in cui la donna fornisce al marito l'amara testimonianza d'aver ricevuto nella notte precedente un altro Anfitrione, la presenza di Sosia e le sue reazioni all'impensato colpo di scena non si configurano quali si aspetterebbero in un personaggio che ha riempito di sé e delle sue disavventure le prime scene: nei vv. 795 sgg. Sosia riassume la classica funzione del servo petulante e protervo che si diverte a ridere alle spalle del padrone, quasi senza riflettere che il nuovo sdoppiamento, con tutte le sue conseguenze, ripete e complica quello di cui egli stesso è rimasto vittima. Parimenti, a pp. 273-75, il Friedrich nota che nella prima scena dell'atto secondo l'incredulità di Anfitrione allo strabiliante racconto di Sosia è il segno di una differenza, quasi di un'incompatibilità d'origine fra i due personaggi: il marito di Alcmena, data la sua origine di personaggio tragico, non può concepire e comprendere una situazione così comicamente assurda come quella che Sosia gli va esponendo; la sua annoiata, irritata ripugnanza a quelle apparenti fandonie sottolinea il contrasto fra due mondi giustapposti, quello dell'antica azione tragica, che culminava nel supplizio decretato dal marito ad Alcmena, e quello della sovrapposta rielaborazione del mito in senso

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Ant1ttHIIWpldutin~

comico. Ma da tutto ciò discende per il Friedrich non che l' avventura di Sosia è stata inserita da Plauto, ma che piuttosto di essa si poteva fare a meno solo in uno sviluppo prettamente tragico, solo, verbigrazia, nel dramma euripideo. Essa pertanto deve risalire al

modello comico dell'Amphitruo: e basta studiare attentamente la struttura d'una tragedia fondata anch'essa sull'equivoco, l'Elena di Euripide, dove l'intellettualistica voluttà di giocare col nodo avventuroso sfiora insensibilmente il comico, per rendersi conto del modo con cui il commediografo greco autore del modello deve

aver introdotto gli elementi comici, sfruttando e sviluppando la tecnica euripidea. Plauto se mai deve aver dato maggiore sviluppo alla scena iniziale fra Mercurio e Sosia, com'è facile supporre anche sulla base degl'indizi che abbiamo già raccolti: e ciò spiegherebbe la già notata stranezza che, in presenza di Anfitrione e Alcmena, Sosia si comporti quasi tralasciando la coscienza del legame

fra quell'avventura e l'avventura capitata a lui, salvo un piccolo spunto ai vv. 785-86, 828-29 e 846. Forse Plauto, una volta svi• scerata nel primo atto e nella prima scena del secondo la comicità insita nel personaggio di Sosia, non avrà avuto voglia di sviluppar• la in quella nuova situazione: gli saranno sembrati sufficienti i lazzi cui Sosia si abbandona ai vv. 665 sgg., e che già riconducono il servo alla sua tipica funzione di trita e grossolana macchietta. Eliminata così l'ipotesi che l'avventura di Sosia sia un addita• mentum plautino, come spiegare allora la ripetizione, sotto certi aspetti fastidiosa, che il monologo di Giove all'inizio dell'atto terzo (vv. 861-881) rappresenta rispetto al monologo di Mercurio ai vv. 463-498, che ha quasi funzione di secondo prologo? Basta confrontare i vv. 486-95 coi vv. 869-79 per sincerarsi dell'esistenza di un vero e proprio doppione. E la cosa diventa ancor più grave se notiamo, con tanti altri critici, che il monologo di Mercurio si conclude con un'espressione (cum Alcumena uxore usuraria),la quale ritorna pari pari ai vv. 980-81 (cum hac usurariaI uxore), cioè proprio in quel secondo monologo di Giove che, riconciliatosi con Alcmena, prepara l'ingresso di Mercurio come serous cur-rens; e introduce quindi un tono dissono, stridulo di cinismo. Gravissima poi diventa la difficoltà se ricordiamo che proprio nel monologo di Mercurio è introdotta la notizia che Ercole nascerà settimino, il che - ripeto - fa escludere che nella commedia la vù; µaXQ(l serva al concepimento dell'eroe.

Amphi1ruo

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Certo proprio per questo groviglio di aporie acquista credito la tesi Kakridis-Leo di una contamina/io:ché, come ci insegna il caso dell'Andria e della Pen·n1hlamenandree classico della conlaminalt"o nell'Andria di Terenzio, tale artificio si praticava di solito introducendo in un modello scene desunte da un altro modello di analogo argomento. E una commedia vertente sugli amori di Giove, dove i toni fossero più caricati, si prestava mirabilmente ad essere contaminata con una commedia dove in forma più asciutta si sceneggiasse il mito della nascita di Eracle. Però anche la possibilità di determinare il punto di sutura si fa problematica, perché se da un lato le ripetizioni che il monologo di Giove nel terzo atto sembra presentare rispetto al secondo prologo di Mercurio fanno pensare che la fabula B s'inserisca a quel punto, d'altro canto, come vedremo, tutta la scena successiva del terzo atto fra Giove ed Aiemena presuppone necessariamente ciò che precede, e quindi obbliga a supporre che la contamina/ioavvenga più giù, che cioè il modello principale terminasse con un intervento di Giove il quale liberasse Alcmena dall'ira del marito e si limitasse a preannunciare la nascita di Ercole, e che poi Plauto a questo finale abbia intrecciato la scena della vera a propria nascita dell'eroe, creando addirittura la strabiliante singolarità di un Ercole nascente nel giorno successivo al suo concepimento. Ma allora come spiegare che sia nel secondo prologo di Mercurio (vv. 487-90) sia nel monologo di Giove (vv. 877-79) si parla del parto gemellare di Alcmena come dell'unico mezzo che Giove escogiterà per salvare Alcmena dai sospetti e dall'ira del marito? E nel secondo prologo di Mercurio si dice (v. 480) che il pano awerrà hodie, cioè alla fine della vùl; µa'XQO.,mentre Giove (v. 877) dirà di voler recare aiuto ad Alcmena in lempore:onde il Kakridis, puntando su questa differenza, ha gridato alla contamina/io.In ogni caso, però, accettando questo rilievo, cioè dando a in lempore - cosa che non mi sembra necessaria - un valore differente da hodie, la rabberciatura appare evidente non nel monologo di Giove, ma in quello di Mercurio: il che comincia a far balenare la conclusione verso cui ci stiamo av-

viando. Ma il Friedrich, ponendo in rilievo la perfetta euritmia costruttiva delle scene in cui accanto ad Alcmena si alternano, sino alla fine, il falso e il vero Anfitrione, ha ravvisato proprio in questo

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Atta,o,,,iepl,,uti,,e

motivo il filo conduttore della commedia sin nel modello greco ed ha affermato quindi (op. cii., p. 276) l'impossibilità di scoprire nell'Amphitruo due modelli o due azioni giustapposte, di cui la se-

conda sarebbe ravvisabilecon l'ingresso di Giove all'inizio del terzo atto. La sua acutezza ha anzi parato in anticipo eventuali altre indicazioni di aporie o suture e le ha saputo trasformare in indizi della fedeltà del modello greco allo schema della Néa: p. es., a p. 277 egli nota che Anfitrione, benché non sia più giovane (cf. vv. 1032 e 1072), si comporta, nel furore della sua gelosia, non tanto come un ridicolo vecchio innamorato, quanto come il tipico giovane ardente della Nta che ha da lottare contro un rivale. La saldezza della compagine originale si palesa dunque incontestabile ad un attento esame. Come si possono superare allora le già accennate difficoltà, balzanti dal raffronto fra il monologo di Mercurio e i due monologhi di Giove e dalla immediata successione della nascita di Ercole alla vù; µa'XQO? Quanto alla ripetizione della frase uxor usuraria, il Friedrich (op. cit., p. 270) ha dato una retta soluzione di tipo fraenkeliano: l'espressione cum hac usurariauxore, posta in bocca a Giove ai w. 980.81, è uno sgraziato, inopportuno richiamo che Plauto ha voluto fare all'espressione di Mercurio al v. 498; ma questo non autorizza a pensare che il poeta si sia comportato così per la necessità di contaminare insieme due originali. Proprio que• sta osservazione mi pare ci autorizzi a proporre una drastica rispo• sta al quesito che ha affaticato i critici. Gl'indizi di contra.delizio• ne, e quindi di contaminazione, che il Kakridis [art. dt.] ha voluto ricavare dal v. 500 (menses iam tibi esse actos vides: dunque nel moddlo non v'era accenno alla nascita di Eracle [? !]), dai w. 513 e 529, e dai w. 876-77 (faciamres/iatpalam I atque Alcumenae in tempore auxilium /eram: in tempore e non hodie; e il parto di Alc· mena avviene prima dell'intervento di Giove) si sono mostrati da tempo insussistenti: oltre tutto, così, non si verrebbe mai a determinare a che punto si debbano inserire le scene derivanti da un'altra commedia relativa alla nascita di Eracle, se anche il mo• nologo di Giove all'inizio dell'atto terzo è ricondotto al primo modello; e dovremmo - lo dico ancora una volta - pensare che la contamina/iosia avvenuta solo alla fine. Ma il racconto di Bromia - come abbiamo visto - fa parte integrante del tono tragicomico

Aw,phimro

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dell'originale:è difficilepensare che Plauto, il quale forse ha marcato nella scena proprio gli spunti comici (cfr. le battute di Anfì. trione ai vv. 1076-83), abbia saputo trovare, proprio lui, il modello e il tono adatti a conservare la solennità del modello principale, pur introducendo la sbardellata stranezza di una nascita cosi prematura del figlio di Giove ed Alcmena. E poi si può veramente concepire un modello che non terminasse con la nascita di Erco-

le? Non rimane allora se non pensare che la w; µaXQO.non fosse la prima del concubito fra Giove e Alcmena. Ma si può pensare d'alt ronde che il modello alterasse proprio il dato fondamentale della tradizione? E poi quale altra occasione avrebbe potuto avere Giove, prima di quella notte, per recarsi da Alcmena sotto l'aspetto di Anfitrione? Prima della partenza di Anfitrione per la guerra, certamente no, per evidenti ragioni; durante l'assenza dd marito ma prima della vittoria, neppure: altrimenti dal contesto avremmo ricavato sicuramente un'allusione a questo episodio, che avrebbe costretto Giove a giustificare ad Alcmena la sua venuta, come prova di un amore così forte da spingerlo a percorrere di notte, di nascosto, i molti chilometri che separavano Tebe dal teatro della guerra solo per avere la gioia di rivederla. Ma da tutta la commedia non emerge il minimo indizio che Giove abbia architettato un simile espediente, facile per la sua onnipotenza, ma difficilmente gabellabile come consentito alle possibilità dd mortale Anfitrione. Resta ad ogni modo quasi invalicabile, a questo proposito, la difficoltà rappresentata dai vv. 479-85, che infatti lo Ussing espungeva, pur non preoccupandosi della stranezza di un Ercole nascente subito dopo il concepimento. Giustamente il Leo [in appar. ad v. 479], sulle orme del Langen, osserva: «in ipsa fabula non audimus lovem iam ante hanc noctem cum Alcmena fuisse, immo contrarium intellegitur; tamen hac nocte ipsa Hercules nascitur; quam rerum discrepantiam his verbis solvere voluisse videtur». Quindi alla stranezza miracolosa di un Ercole nato nella notte stessa dd concepimento (cioè proprio quella stranezza cui il razionalismo francese di Molière ovviò, limitandosi a far annunciare da Giove ad Anfitrione, nell'ultima scena, «Chez toi doit naitre un fils qui, sous le nom d'Hercule, etc.») si aggiunge la contraddittoria stranezza delle parole di Mercurio annuncianti che Ercole, anche se minor di Ificle, non lo sarà tanto, riguardo al concepimen-

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A,rdtomir pUlutine

to, da non essere almeno settimino'. D'altro canto, che il concepimento di Eracle fosse avvenuto nella vù; µ.aXQO.è confermato dalla tradizione mitografica: ne troviamo le tracce ancora in Seneca (Agam. 814-28; H.O. 147-50). Tuttavia già ai vv. 825-27 dell'Agamemnon noi awertiamo un certo ondeggiamento fra l'idea del concepimento e quella della nascita di Ercole nella vù~ µa>UOf&O, di Filcm.onederiva l1 sfrenatissimaMostellaria,e che molti critici voglionoadditare in Menandro il modello dei Mffllltthmi.

" dei passi più significativi della commedia può aiutarci a riproporre la questione in termini di più rigorosa filologia. Intanto è fuor di

dubbio - ed E. Fraenkel non ha avuto torto a notarlo - che. a panire dal v. 621, cioè dalla scena sesta dell'atto terzo, la commedia sostanzialmente è tutta un canticum;il che prova in Plauto, a partire da quel punto, una più tesa volontà di imprimere alla materia la sua forma più tipica, quella della farsa musicale. In secondo luogo vale la pena di esaminare i più scoperti indizi di carattere marginale che il testo può offrirci sia della presenza di un riadattamento sia della fedeltà all'originale: questi evidentemente sono costituiti dalle allusioni a usi o modi d'essere romani e da relitti di vita e mentalità greche. Uno di questi spunti è stato già

da noi isolato nd prologo, là dove, a proposito delle nozze servili, si citano, accanto agli usi apuli, anche quelli greci. Questo panicolare è stato considerato da noi, sul piano delle possibilità metodiche, come un argomento a favore della presenza, nell'originale di61eo, del motivo delle false nozze; vedremo fra poco entro quali limiti esso vada più rettamente inteso. Continuando l'esame, per prima cosa ai vv. 398-99 c'è il ricordo del mito degli Eraclidi, che conferma, benché non ce ne sia bisogno, la dipendenza della scena del sorteggio dal modello greco: è noto che spesso in Plauto i richiami alla mitologia sono proprio indizio di burlesco rimaneggiamento da pane dell'autore latino (d. Pascucci, op. cit., p. 48); ma in questo caso il particolare erudito, per la sua oscura singolarità, non può esser considerato farina del sacco di Plauto. Indi, ai vv. 493-98, v'è, nella scena degli accordi fra Lisidamo e Olimpione per il pranzo, una serie di giochi di parole di stampo prettamente latino, la quale attesta almeno una radicale rielaborazione plautina; e la conferma che questa serie di scene è per lo meno profondamente rimaneggiata da Plauto la si ha al v. 748, quando Olimpione, di ritorno dal mercato, dichiara: nil moror barbaricobliteo. Però proprio in questa medesima scena, ai w. 728-730a, Lisidamo e Olimpione, dialogando fra loro, si scambiano, con intenzione comica e caricaturale, espressioni greche: :JIQO.yµcnaJ10l.11ClQÉXELç - µtya xaxòv - 00 Zdl. Qualcosa del genere avviene nello Pseudolus (vv. 443, 483-84, 488), nella scena fra Pseudolo, Simone e Callifone, con la differenza che ll si tratta di un deverbiumin senari giambici, mentre nel luogo della Casinasi tratta di un canticum: constatazione che spinge a supporre che, almeno qui, Plauto

Anatomie p!.uline

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abbia adoperato parole greche in un rimaneggiamento tutto suo, personalmente capriccioso. In realtà, sia per l'uno sia per l'altro caso, dobbiamo tener fermo al principio che, quando parole greche s'incastonano in un dialogo plautino con scopo palesemente comico, esse non sono trasportate di peso dall'originale, ma anzi tradiscono proprio la mano del poeta latino, il quale ha voluto introdurre nel suo intingolo anche l'ingrediente buffonesco della citazione di parole nella lingua stessa da cui eran tratti i suoi modelli. Del resto le parole greche inserite, sia in questo passo della Casinasia in quello dello Pseudolusche abbiam citato a riscontro, sono fra le più correnti, fra quelle che anche il pubblico romano d'allora doveva essere abituato a intendere, e rivelano anche per questo l'intenzione rimaneggiatrice di Plauto, che nella scena dello Pseudolus(sicuramente rimontante al modello) si sarà limitata a ritocchi marginali, mentre qui è più larga e palese. Motivi greci spuntano poi al v. 652, quando Pardalisca dichiara a Lisidamo che il contegno frenetico cui si abbandona Casina nella sua dimora baud Atticam condecet disciplinam (benché in questo caso sia arduo determinare se il particolare tradisca l'orma del modello o non sia piuttosto una delle solite ghiribizzose fiorettature plautine), e poi nella seconda uscita di Pardalisca, all'inizio dell'atto quarto (vv. 759-60): nec poi ego Nemeae credo, neque ego Olympiae, I neque usquam ludos tam festivos fieri. Segno che entrambe le scene si trovavano nei KÀ'1QO'Uµevo1. o almeno in un originale greco? D'altro canto, ecco nella prima scena dell'atto terzo {Llsidamo e Alcesimo) il v. 524, col suo frammento di canzoncina popolare romana, e il gioco di parole del v. 527, e poco dopo, nel successivo connesso monologo cli Cleustrata che s'avvia alla casa di Alcesimo, ecco {v. 536) le espressioni senati columen, praesidium popli2 8 • Se questi indizi avessero un peso decisivo, se fosse possibile pensare che le tracce evidenti di latinità in una scena non solo testimonino di un rimaneggiamento ma siano anche indizio di integrale creazione di essa da parte di Plauto (il che certo non si può impunemente affermare senza il sussidio di altri argomenti), dovremmo concludere che il gruppo di scene relative alNessuno di questi luoghi è registrato e discusso da E. Fraenkel che, ccrezio• nalmente teso a dimostrare la presenza della rontaminatio, ha dimenticato stavolta di studiare il Plautinischesim Plauhls. 28

Casina

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l'aiuto fornito da Alcesimo a Lisidamo e all'andata di Olimpione al mercato, cioè l'ultima scena dell'atto secondo (colloquio fra Lisidamo e Olimpione, sorpreso da Calino, nel quale, in realtà, oltre ai giochi di parole, ci sono anche gli equivoci osceni determinati dalle espressioni d'affetto dd padrone verso il suo fattore a denunciare un largo rimaneggiamento di Plauto), le prime cinque scene e la scena settima dell'atto terzo, sono un'aggiunta plautina, mentre la scena sesta dell'atto terzo e l'inizio dell'atto quarto, cioè le due prime uscite di Pardalisca, risalgono al modello greco. Naturalmente non peccheremo di questa cieca consequenzialità, ma torneremo su questi indizi dopo aver esaminato il problema di fondo, quello delle false nozze. Prima di affrontarlo ci sia concesso sgombrare il terreno da un altro quesito: nell'originale greco Olimpione e Calino erano puri strumenti dei loro padroni o manifestavano, come in Plauto, anche un certo naturale desiderio dell'amplesso di Casina? La domanda forse pecca di troppo moderna sensibilità e non tiene esattamente conto della mentalità di quei tempi. Ma ad ogni modo chi voglia gettare uno sguardo più a fondo sulle figure dei due schiavi e sulle loro reazioni, s'accorge che nella scena dd sorteggio e nelle scene fra Lisidamo e Calino e fra Lisidamo e Olimpione (che la preparano) - cioè nei luoghi più sicuramente derivanti dall'originale - non c'è segno alcuno di un vero desiderio che l'uno o l'altro dei due provi per la ragazza: anche il v. 294 pronunciato da Calino (de Casina certum est concederehomini nato neminl) esprime solo il puntiglio e il dispetto dd giovane armigero contro il padrone e contro il posticcio rivale. Gli argomenti fondamentali che avvertiamo signoreggiare nel cuore dei due schiavi sono soltanto quelli della protezione dell'uno o dell'altro dei padroni ch'essi sperano di conquistarsi col loro contegno. Si guardi al ragionamentino piuttosto ricattatorio che Calino, proprio al v. 293, oppone alle lusinghe di Lisidamo, contenenti anch'esse un ricatto; e si guardi soprattutto alle considerazioni utilitaristiche e pessimistiche di Olimpione ai vv. 327 sgg., fra le quali è addirittura il sintomatico v. 328, verum edepol tua mihi odiosa est amatio, che smentisce in maniera flagrante le accese manifestazioni di trasporto sensuale per Casina espresse da Olimpione ai vv. 133-40 e in tutta la scena finale dell'atto quarto, quando padrone e servo s'illudono d'esser rimasti soli con la sposa verginella. È un'incon-

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A""kmlit plauti,,e

gruenza che mi stupisce non sia stata ancora notata da nessuno. Si obietterà che nella prima scena Olimpione carica le tinte per far

dispetto a Calino e che anche scene, come la settima dell'atto terzo, che noi abbiamo cominciato a sospettare dovute al rimaneggiamento plautino, ci mostrano un Olimpione sollecito molto più del cibo che dell'amore: cf. v. 725, tu amas, ego essurio et sitio. Ma anche queste obiezioni avrebbero solo il compito di porre in rilievo come Plauto, nel suo rimaneggiamento, abbia in buona pane seguito l'intuizione originaria che il modello greco aveva avuta del personaggio di Olimpione, ma poi, in taluni momenti, mosso dalla sua tendenza a valorizzare all'estremo tutti gli spunti di accesa comicità, abbia voluto comunicare anche agli schiavi il fremito sensuale caratteristico di Lisidamo. Perciò a me sembra che il cosiddetto atto primo, che pure da taluni critici è stato ritenuto perfettamente difileo in connessione col titolo originario della commedia, contenga una Begei'sterungtipicamente plautina, a scopo d'immediata caratterizzazione dei fermenti più vividi della commedia: qualcosa di simile al cosiddetto primo atto dd Mi/es, che rivela già nel primo Plauto la capacità d'isolare subito e sottolineare con forza il nucleo più spassosamente e dinamicamente comico dell' azione. Come lì lo spietato disegno dell'inverosimile albagia di Pirgopolinice, anche se derivante, forse, per contaminationem da un altro modello, contiene in nuce l'atroce beffa che gli sarà giocata, così qui il trasporto per Casina da cui Olimpione sembra, almeno parzialmente, acceso contiene in nuce le premesse del tranello in cui il vilicu:rcadrà insieme col padrone, e della cui comicissima narrazione sarà proprio lui il protagonista. Ho infatti sollevato il quesito relativo ai due schiavi proprio perché esso mi apre la via a quello fondamentale sulle false nuptiae. L'episodio intanto ci appare colorito anche dalla sensualità di Olimpione, che appare elemento estraneo alla struttura originaria. Ma questa constatazione avrebbe scarsissimo valore, se non si accompagnasse all'altra dell'eccezionalità in tutta la Nta - per quel che sappiamo - della beffa che conclude la Casina. Come abbiamo già notato, beffe a danno di vecchi o avari o libidinosi pullulano nel teatro plautino e, in genere, nella Nta: una, anch'essa di sapore piuttosto forte, è quella che conchiude il Miles. Lì però si può facilmente supporre che essa nell'originale avesse svolgimento più limitato e si sviluppasse in gran parte fuori della scena, e che

C..sina

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Plauto (come stanno ad indicare anche i giochi di parola su testis), vi abbia posto gagliardamente mano per irrobustirne l'effetto farsesco. Ma qui la natura della beffa è tale che, se non la si segue in tutto il suo scabroso svolgimento, essa non ha significato: dobbiamo attribuire allora a Di6.lo o ad un altro autore della Nta (come si vede, l'accettazione della tesi del F raenkel non sposta la questione) uno svolgimento così arrischiatamente farsesco? Intanto è un fatto che, nell'ormai ricca serie di situazioni della Nta pervenute direttamente o indirettamente alla nostra conoscenza, non ve n'è un'altra consimile. F. Skutsch, per dimostrarne l'origine greca (che ad ogni modo per lui non era rappresentata da Difilo ma da una «literarische Komodie» con cui Plauto avrebbe contaminato i KÀtJQouµ,vo,), dovette (Ein Prolog, cit., pp. 283 sgg.) ricorrere alla storia di Ercole, Onfale e Fauno in Ovid. Fast. II 303-358, là dove si narra di Fauno che, ingannato dal fatto che i due amanti s'erano scambiate le vesti, s'era gettato su Ercole ritenendolo Onfale e ne aveva ricevuto su per giù l'accoglienza che Olimpione della aveva ricevuta da Calino travestito da Casina: di qui l'ai'.'tlOV nudità voluta dai Fauni. Si avrebbe dunque un'altra riprova dell'adattamento di materiale mitologico negli schemi della commedia nuova. Ma il Jachmann ha avuto buon gioco a dimostrare (op. cit., pp. 122-123) che in realtà il raffronto è piuttosto illusorio e che soprattutto fra il testo di Plauto e quello di Ovidio non ci sono riscontri tali da persuadere in favore di una affinità di situazione e di svolgimento fra i due episodi, la quale giustifichi l'ipotesi dello Skutsch sulla genesi dell'episodio plautino. Di qui però egli ha tratto troppo frettolosamente l'illazione che dunque i KÀ.1]QO'Uµevot debbono essere considerati fonte anche delle scene finali della

Casina. Invece a tale conclusione ci trovano restii l'eccezionalità della situazione raffigurata in quelle scene, rispetto al mondo della Nta, e il titolo della commedia di Difilo: come abbiamo già fatto notare, se essa s'intitolava I0.11QO'Uµevo,, ciò significa che, prima del trito episodio della àvayvli>Qw,ç,lo svolgimento della commedia aveva, come scena capitale, solo quella del soneggio. Se anche in essa si fosse trovata quella delle false nozze, avrebbe potuto la commedia ricevere il titolo con cui la conosciamo? Esaminiamo i titoli di commedie della Nta e di palliataeche conosciamo: quando non si riferiscono a personaggi fondamentali della commedia

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Ant1tomie p'4utine

stessa, essi si riferiscono sempre all'elemento chiave che ne muove la struttura. Caratteristico proprio l'esempio degli 'En:ttQÉJtVreç menandrei, in cui l'àvayvci>QlO'Lç; finale sta con la scena centrale che dà il nome alla commedia proprio nel medesimo rapporto con cui essa sta, nei KÀ.t)QO'Uµ.EVOLdifilei, con la scena centrale del sorteggio, secondo la nostra ricostruzione. Per fermarci alle com• medie plautine, i titoli Aulularia,CiStellaria,Mostellaria,Rudens,

Tnitummushanno tutti riferimentoa ciò che costituisceil bandolo decisivo di queste commedia. Analizziamo ora il comportamento di Plauto nei casi in cui conosciamo i titoli dei suoi modelli: Asinan"a,Mercator,Mi/es, Mostellariae, in un secondo momento, Poenulus 29 , sono i corrispettivi di t>vayòç, "Eµn:OQOç,j\MXtv ,o, 'l>étaµa,KaQXriMvwç. Ma ci sono due casi che affiancano quello della Casina:gli i\òeMpOl menandrei che, come ci avverte la didascalia, son divenuti lo Stichus,e il 8t)oauQ6ç di Filemone, che, come ci avverte il prologo (vv. 19-20) e con una sintomatica sottolineatura (nomen Trinummo/ecit), è divenuto il Trinummus. Già nel secondo caso il mutamento di titolo vuol richiamare l'attenzione sulla scena decisiva dell'atto quarto fra Carmi de e il sicofante, in cui più viva si avverte la rielaborazione di Plauto; eppure già il titolo di Filemone era giustificato sufficientemente da tutto lo svolgimento della commedia. Più istruttivo ancora è il caso dello Stichus, in cui il cambiamento di titolo sottolinea proprio il brusco abbandono dd modello menandreo a metà della commedia, o almeno quella sua drastica riduzione, che ha fatto emergere nella 29

I vv. 53.54 dd prologo di questa commedia,con quell'inatteso Latine Plau1u1 Palruot Pultipb.gonides, ch'è una comica, sorprendente resa del titolo greco precedentemente enunciato, hanno provocato, com'è a rutti noto, le ana1oghc teorie che il Poenulus sia frutto di una rontamtiudio, o meglio ch'esso sia un11tardiva e frcttolou rielaborazione plautina di una SWI prcccdcntc commeduiintitolllta Palruos Pultipb.p nides, o soltanto Patnws. Ed esse han trovato sostegno nd testo, per queU. frattura che l'azione palesa lii momento dell'arrivo di Annone. ,o E in questo CIISO, nell'effettivo prologo detto da Palcstrionc .U'inizio dell'atto secondo, c'è proprio la cura di spiegare che cosa significhi il titolo greco; cf. vv. 86-87, Ì\.À.cd;cbv Graecehuk nomen est romoediae, I id nos Latine 'gloriosum' dicimus. Questo passo ci persuade sempre meglio dd f11ttoche nel prologo della Ca1im1, in qud punto sicuramente plautino in cui si parla del modello (vv. 31-32), Luine Sortientes ha solo la funzione di spicg11reil titolo greco. Che poi nd Miles, d.to che il titolo non è stato mutato, gloriosus sia entrato a far parte dell'effettivotitolo plautino mentre noi escludiamo questa possibilità per SortienteJ, è cosa di nessuna conseguen-



Ouina

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seconda parte solo la festa degli schiavi. Dato che abbiamo ormai dimostrato come l'unico titolo, il vero titolo plautino della nostra commedia non è Sortientes, ma Casina, anche questo mutamento deve sottintendere una decisiva alterazione nella struttura del mo-

dello. Volgiamoci ora, ancora una volta, a quella parte sicuramente plautina del prologo, ch'è preziosissima per risolvere i problemi di struttura della commedia. Nei vv. 35-83 che altro fa Plauto, se non esporre - sia pure a sbalzi e frapponendo scherzose divagazioni I'argomento della commedia originaria e ciò che egli ne ha tolto? La commedia originaria, cioè i tanto lodati o vituperati KÀflQO'Uµ,vo, di Difilo, partendo dall'antefatto dell'esposizione di Casina bambina e del suo rinvenimento da parte di un servo di Cleustrata che la consegna alla sua padrona, profila la topica rivalità fra padre e figlio (Llsidamo ed Eutinico) per la fanciulla e sceneggia i loro contrapposti, ma analoghi tentativi di possederla, subornando l'uno Olimpione, l'altro Calino a chiederla in moglie: non tace neppure della speranza di Lisidamo sibi /ore paratasclam uxorem excubias/oris (v. 54), nel caso che la sorte design.i Olimpione come marito di Casina. Inoltre contiene anche (non si comprende bene se direttamente o come antefatto) l'allontanamento di Eutinico da casa ad opera del padre, che vuole avere le mani libere. Di qui l'accanimento di Cleustrata a sostenere le parti del figlio assente: perciò si addiviene al sorteggio, che dà nome alla commedia. A questo proposito Plauto sente il bisogno di giustificare dinanzi al suo pubblico le nozze fra schiavi, e si appella agli usi greci e apuli. Dunque, in realtà, questo richiamo plautino non presuppone la scena delle false nuptiae, ma solo il concetto di nuptiae fra schiavi determinato dalla scena del sorteggio: ecco che abbiamo finalmente guadagnato un altro punto sicuro ed eliminato l'ultima possibilità che il testo plautino ci offriva in favore dell'ipotesi che la beffa finale fosse contenuta nel modello. Dunque tutta l'esposizione ruota intorno alla scena del sorteggio, che figura effettivamente essere il centro della commedia originaria, ed appare ben degna di offrirle il titolo. Chiusa la digressione relativa al concetto di servi/es nuptiae, Plauto avverte che la commedia si conclude con l'agnizione di Casina che - come ci finiscono per dire i vv. 1013-14 si scoprirà esser figlia del vicino Alcesimo e sposerà Eutlnico. Intanto i luoghi del prologo ov'è detto che Plauto ha messo a letto il

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Atf11tomiep'4utine

servo che aveva raccolto Casina e ha tagliato i ponti per evitare il ritorno di Eutinico ci fanno capire che nella commedia originaria entrambi i personaggi comparivano sulla scena, forse all'ultimo atto, determinando, per vie a noi ignote, la finale àvayvd>Qwt.ç. Nessun accenno, dunque, all'atroce beffa che occupa la seconda pan, della rielaborazione plautina; tutta la dialettica della commedia si svolge fra questi tre termini: l'antefatto, la scena del sorteggio (che, essendo il centro, ben si comprende come abbia dato il titolo allacommedia), l'avayvQwu;finale. Dal prologo e dai vv. 1013-14 possiamo ricavare la preesistenza nell'originale di tutta la situazione dei due primi atti, anche l'esistenza del personaggio di Alcesirno, per quanto il v. 54 sia ambiguo, ma non certamente quella del grande colpo di scena che chiude la Casina.C'è anzi di più: Plauto dichiaraespressamente di aver soppresso il finale della commedia, eliminando i personaggi di Eutinico e del vecchio ser-

vo, sì da rendersi impossibile l'àvayvO>Qwt.ç come si svolgevanel modello, e da costringersi a proiettarla come un post eventum nei frettolosi cenni finalidel canto,. Ciò dimostra due cose: 1) che l' asecondo la tecnignizione, anche se doveva accadere bui CJ11µE:l.cov ca canonica della Néa, non aveva molto che vedere col personaggio cli Mirrina e con la sua presenza in casa cli Cleustrata, e che quindi cade la faticosa ricostruzione dell'àvayvroQwµòc; tentata dal Friedrich e già da noi ricordata e che ad ogni modo è insostenibile anche quella, ancor più faticosa, del Jachmann, il quale (op. dt., p. 119) ha tentato cli mettere insieme la menzogna detta da Pardalisca a Lisidamo sull'esistenza cli una spada in mano a Casina, la promessa di Llsidamo a Pasdalisca (vv. 708-12) di regalarle un anello se fosse riuscita a togliere la spada di mano a Casina e l'illusione cli Olimpione (vv. 909-10) di aver impugnato una spada quando s'era gettato addosso allafalsa Casina, ed ha immaginato che all'ultimo Pardalisca, unendosi alle altre due donne nel beffeggiare Lisidamo, gli avesse dichiarato che Casina non aveva spada di sorta, gli avesse quindi reclamato l'anello promesso, e Lisidamo, non si sa come, avesse tirato in ballo un anello del quale sarebbe balzato fuori il vero essere di Casina: tutte fantasticherie ancor più inverosimili dei ragionamenti fraenkeliani, le quali dimostrano in quali vicoli ciechi si cacciano i critici che vogliono salvare l'esistenza delle «nozze maschie» nel modello difìleo, misconoscendo la necessità di ammettere che il quinto atto dell'origi-

Guinfl

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nale doveva aprirsi col ritorno di Eutinico e continuare con l'intervento del vecchio servo e con una successione di scene sfociante nell'àvayvQt.mçe nel matrimonio fra i due giovani; 2) che, essendo il ritorno di Eutinico e la successiva àvayvWQt.mç la vera conclusione della commedia, questa non poteva avere due conclusioni, una successiva all'altra. Infatti è tempo di porre in chiaro che l'atroce beffa giocata a Lisidamo e Olimpione ha tutto il carattere di una conclusione. Questa non è certo una conseguenza che si vuole trarre a forza dal fatto che nella Casina plautina la conclusione è data proprio dalla beffa: l'evidenza stessa ci insegna che beffe di questo calibro rappresentavano sempre, e nella Nta e nella palliata,lo scioglimento del nodo comico. Una beffa associata all'àvayvO)Qt.mç può trovarsi solo quando le due azioni sono strettamente connesse in funzione della liberazione della fanciulla amata, come, p. es., una beffa giocata al lenone che la ha in custodia o al vecchio padre del giovanotto che la desidera, e che ha bisogno di denaro per riscattarla: cf. per es. il finale dd Curculio, con l'agnizione di Planesio e l'azione contro Cappadoce per fargli restituire il danaro, o lo svolgimento che abbiamo supposto per il modello dello Pseudclus,o la beffa giocata a Dordalo nd Persa dopo che Tossilo è già riuscito a riscattare Lemniselene: beffa che del resto è necessaria perché Sagaristione rientri in possesso della somma prestata a Tossilo, ma che, ciò nonostante, ha fatto parlare di contaminahOnella commedia. Così nulla vieta di pensare che nei modelli dello Stichus e dello Pseudolu, la festa degli schiavi potesse giustapporsi, sottolineandolo lietamente, al finale più sostanzioso soppresso da Plauto nell'una e nell'altra commedia. Ma la singolarissima beffa che chiude la Casina non ha nessun indispensabile legame con lo svolgimento che condurrà all'agnizione, a meno che non vogliamo menar per buona la faticosa ricostruzione dd Jachmann. Allora Dililo avrebbe inzeppato nei IO.T)QOUµV come originale della commedia, ciò si• gnifica - s'è detto - che l'espediente della parete forata e il raggiro 27

Per la fine dd verso corrotto il Dc Lorcnzi sceglie l'emendamento atq11eut qu,dem; io propenderei per un 11tqueil que,n ego. 28 E. Fracnkd (op. cit., p. 2)2) ha scorto già il convenzionalismo del motivo, proprio forse in derivazione da Nevio, ma poi si ~ limitato • detcnninarvi il P/.autù1ische1solo riguardo al gruppo dei vv. 209-13 relativo alla prigionia di Nevio (cf. op. cit., pp. 42, I 13 e 168).

Ant1tomieplauline

'"

ai danni di Sceledro erano già contenuti (nonostante l'incongruen• za ch'essi creano col resto) nella commedia dedicata al mi/es gloriosus. In questo senso infatti s'è espresso asciuttamente l'Emout (ed. cii., p. 168): «il semble résulter du texte de Plaute lui-meme

qu'il n'a eu qu'un seul modèle sous les yeux, si l'on en croit les vers 86 et 87 de la coméd.ie». Era necessario pertanto dimostrare la genesi composita del prologo, ravvisare già in esso una contaminatio fra quello dello ~trov e quello della commedia della parete forata, rivendicando al primo la narrazione dell'antefatto e al secondo ciò che concerne il foro nella parete e la preparazione della beffa a Sceledro. Ciò ha ben condotto a termine il Jachmann (op. dt., pp. 167-77), cominciando col far notare, contro il Trautwein, che è strano come l'inganno contro Sceledro venga preannunciato, ai vv. 145 sgg., da quel medesimo Palestrione che poco più giù, ai vv. 195 sgg., è raffigurato ancora in cerca affannosa di un mezzo per stornare il pericolo rappresentato dalla scoperta di Sceledro. Ali' espediente formulato dal Trautwein che «Palestrio rede hier nicht sowohl als Person des Drama wie als Prologus»,il Jachmann ha buon gioco di opporre che - pur ammesso che un personaggio, nel pronunciare il prologo, non si piazzi in istretto rapporto con l'azione - tuttavia non può parlare «wie ein abstrakter Prologus oder wie ein diimonisches Wesen». Si deve perciò sorprendere nei vv. 145 sgg. una maldestra rielaborazione plautina che non può spiegarsi se non con l'intento di contaminare i due prologhi originali per dar colore di naturalezza alla grande contaminatio 29 • Accettando queste persuasive conclusioni, si rende anIl Jachmann ritiene (op. cit., p. 174) che, come nell'originale della Ortel'4rùl, cosi nello i\l.ol;div ci fosse già iJ prologo ritardato che doveva esser pronunciato anche qui da un dio e tener dietro alla scena inizialedi presentazione, che perciò egli non ritiene desunta per co,,t4minatio,,emdal K~ ma appamnemente anch'essa allo iUal;wv. Invece il prologo dell'altra commedia (cioè dell'originale dell'ano se• condo), contaminato da Plauto col prologo dell'i\Ml;div, sarebbe stato pronunciato da uno schiavo. Ma cosi non si viene a contraddire proprio la preziosa conclusione sopra enunciata circa l'insanabile contraddizione dei vv. 145 sgg. rispetto ai vv. 19' sgg.? Dovremmo supporre che il prologo originale della seconda commedia fosse pronunciato non dallo stesso schiavo che ordiva la beffa ai danni dd conservo, ma da un altro? Ma allora attribuendo alla ridaborazione plautina i vv. 145 sgg. (senza tener conto che invece proprio a vv. 195 sgg. le tracce di rielaborazione sono più fotti), quale pane del prologo dd Mikr può esser fatta risalire al prologo della seconda commedia? Se invece i vv. 145 sgg. si attribuiscono al prologo originario, ma postu· landoche b, invece del servo, parlasse un dio, tutto diviene più semplice, rovesciando 29

Miks gloriosus

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che insostenibile la tesi della Krysiniel, secondo cui nel prologo l'unico rimaneggiamento sarebbe quello dei vv. 145 sgg., sostituenti Sceledro al mi/es, e bisognerebbe quindi scorgere nello j\AattlJv solo il modello dei due primi atti, cui Plauto avrebbe aggiunto una sua personale, gigantesca conclusione. Per giunta la traccia evidente della contaminatio il Jachmann ha creduto di poterla desumere dai vv. 88 sgg., nei quali Plauto, per introdurre i suoi Witze, come quello dei vv. 93-4, ha spezzato l'ordine della narrazione, cercando poi di riannodarlo con lo strano nam del v. 95, cui farebbe riscontro poi - a conferma di un'altra sicura inserzione plautina - il nam iniziale del v. 145, che, a differenza dal nam iniziale dd v. 140 (chiaramente causale), sarebbe invece, secondo lo scolio donariano ad Ter.Hec. 174, una inceptiva particula30 • Quindi, come al v. 95 un nam di valore meramente introduttivo starebbe a sottolineare una fiorettatura plautina sullo sviluppo narrativo dd prologo dell'J\wtcilv, cosi al v. 145 un secondo nam di ugual valore segnerebbe un'altra analoga 6.orettatura sullo sviluppo narrativo del prologo del secondo modello: e con questa rispondenza strutturale e semantica anche la contaminatio nel prologo sarebbe dimostrata. E ammettendo che quello del Miles sia un prologo contaminato, meglio si arriva a provare che la sua caratteristica di prologo ritardato non doveva trovarsi già nd modello principale, nello J\wtcilv. Ma la tesi unitaria ha trovato di recente un nuovo campione in W. H. Friedrich (Euripides und Diphilos, Milnchen 1953, pp. 255-60). Già il Jachmann (op. dt., p. 193), sulle orme dd Leo (PlautiniScheForschungen,Berlin 19122 , p. 166), aveva posto in rilievo come il quarto atto del Miles, cioè il testo dello iUatWV, con la sua fuga per mare degli amanti che sfuggono all'uomo il lo schema del Jachmann, cioè supponendo che il prologo dello i\latWV fosse pro• nunciato dallo schiavo che poi ordirà la trama (e quindi senza essere un prologo ri• tardato), e proprio quello della seconda commediafosse pronunciato da un dio. Plau• to, contaminando i due prologhi e quindi costringendosi a far pronunciare da Palestrione anche i vv. 145 sgg., ha creato l'irrimediabile aporia. Non riesco a capire come B. Riposati (I/ teatro romano, I, Mi1ano 1956, p. 165) possa ricavare dai w. 86-87 del prologo che la commedia plautina, in una ripresa, abbia assunto il titolo Alazon,e si associi cosl alle fantastiche elucubrazioni su riprese rimaneggianti di commedie latine, e particolannente del Miks. lO Come lo stesso Jachmann ricorda, già E. Fraenkd (op. cit., p. 218) aveva scopeno in Poen. 277 un ""'" di uguale valore.

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AnaJomie plautine

quale tiene sotto la sua custodia l'elemento femminile della coppia, sia un adattamento, nei modi della NÉa, del tema dell'Elena euripidea. Non ci voleva di meglio per spingere il Friedrich a rico-

noscere senz'altro in Difi.lon l'autore dello i\ì..a?;Wv. Dato che, come in tutto il suo volume egli ha mirato a dimostrare, Difilo per il Friedrich è stato colui che più degli altri autori della Nta ha sfruttato e sviluppato la tecnica euripidea, e dato che commedie plautine di sicura derivazione da Difilo, come il Rudens e la Casina, presentano per il Friedrich un'innegabile duplicità d'azione o di conclusione che rimonta al modello, ecco dimostrato che nel Mi/es non v'è la grande contaminatio, ma sia la beffa giocata a Sceledro sia quella giocata a Pirgopolinice rimontano al modello, e

se mai solo la scena di Lurcione può essere ritenuta un'aggiunta plautina derivante da un altro testo. Fermo nella persuasione che Difi.lo sia stato anche stavolta il modello di Plauto, il Friedrich scorge quindi (p. 258) nello Ai.Q~oç espressivo, la certezza di aver scoperto un tic stilistico di Plauto, il documento di una sua tendenza ad aggiungere, la ricerca si allargava progressivamente. Si spaziava cosi, dai motivi della 'trasformazione' e della 'identificazione', agli elementi mitologici (che del resto erano già entrati sensibilmente nella trattazione del primo punto dell'analisi), alla personificazione di cose inanimate (tipico 'tÒJtoç plautino), all'amplia• mento di dialoghi e monologhi, alle inverosimiglianze nella condotta del dialogo, a tutto, insomma, l'armamentario tipico dei /od compositivi, strutturali in cui era possibile cogliere nella sua genuinità il cosciente in• tervcnto, il personale contributo creativo di Plauto. Enucleata così la coerente presenza di un attivo impulso rielaboratore, regolato da tipiche costanti espressive, ci si sollevava alle sue conquiste di maggior peso, come la spinta verso una rivoluzione della tipologia del genus in favore di ruoli caratteristici il cui sapore fosse più congeniale al mondo espttSSi• vo dell'autore latino, come i modi dello sfruttamento di copioni diversi nel congegno di una commedia, come la genesi e la natura dei cantica, massima gemma dell'arte plautina, e si finiva cosi per poter tracciare, nel capitolo finale, un armonico profilo della personalità artistica, della poesia di Plauto. Che cosa emergeva da tutta questa amorevole, sapientissima analisi? Che le licenze, i radicali rimaneggiamenti, le sbrigliate dissoluzioni, gli scarti, le incongruenze cui Plauto sottoponeva i modelli non erano il frutto di un cieco istinto barbarico, di una fretta maldestra, di una rozza inesperienza di riadattatore incauto e poco intelligente che facesse strazio dei testi greci nella furia di distorcerli alla comprensione e al sollazzo di un pubblico incolto quanto lui, ma erano, pur nella loro indisciplinata violenza, il puro e suggestivo riflesso di una personalità artistica irruente, originalissima, consapevolmente tesa a piegare i copioni della Néa a un nuovo spirito comico tutto aggressività di forme e d'impasti, tutto spen• sierata icasticità di trovate e di moduli formali, sl da riuscir a trasfondere negli schemi attici la venieur della farsa italica. Perciò tutti gli scompagi• namenti dei modelli, anche se awertibili al lume di una critica razionalistica attenta a cogliere le contraddizioni, le inverosimiglianze, i bruschi mutamenti di tono, le assurdità nella condotta scenica (e cosl si giustifi• cavano e acquisivano un significato molto più costruttivo i procedimenti filologici fin allora volti esclusivamente a ricostruire i modelli depurandoli dalle incrostazioni del presunto cattivo gusto plautino), anche se tali da far riconoscere che «contenuto e forma dei drammi attici sono ... scomposti totalmente nelle commedie plautine», pure si presentavano «come piante fomite di salde radici e di poderosa forza vegetativa» e agenti, «nell'unità del loro stile ricco di molteplici sfumature», «con la forza irresistibile di creazioni sovran~ (p. 386). In altri termini, era finalmente delineata la miracolosa efflorescenza di un eccezionale, irripetibile genio comico tutto contesto di farsesca veemenza, di smaniosa apertura verso

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A11atomieplautint

la gioia del frizzo, degli accostamenti impensati, delle battute corpose e incisive, e quindi teso a un costante calor bianco di vistosi, dinamici ef. fetti teatrali ed espressivi, sacrificante la levigata, composta e ben congegnata condotta di un'azione drammatica alla ricerca di chiassose tipizzazioni e di un adeguato linguaggio che con pari sbrigliatezza e lievitante fervore le fissasse robustamente attraverso uno sviluppo scenico volutamente contesto di urti, di sorprese, di capriole, appunto per consetvare l'insieme a quella costante temperatura da fornace. E tutto ciò mediante un repertorio di espedienti e di gags che nella sua compatta tipicità rivela la assidua presenza di un consapevole temperamento artistico. La sicura conquista di una legge occultamente regolatrice di tutti i

più apparentemente sorprendenti ghiribizzi e dirizzoni della condotta scenica plautina, in chiave di rivdazione di un peculiare stile che mai smentisce se stesso, ha reso possibile al F. di fissare tutte le caratteristiche preminenti dell'arte plautina, che la critica più recente vuol rivendicare come sue scoperte: cosi la nonna dell'iterazione degli effetti attraverso l'espediente dei paragoni, delle ampli6.cazioni, dei contrasti ribattuti; così l'altra nonna della rottura dell'illusione scenica col corollario della sorpresa sconvolgente o della battuta che capovolge o modifica il senso di una situazione; cosi la trasformazione della tipologia da schematismo di caratteri generici, com'era nella Nta, a gusto della maschera atellanica, colla conseguente prevalenza o ipertrofia dei tipi scenici più consoni a questo clima teatrale; così la scoperta che spesso le aggiunte plautine non risalgono a cvntaminatio, ma derivano da sfruttamento di un repertorio di trovate che si riecheggiano da commedia a commedia; così l'assoluta sostituzione della voluttà della battuta, dcli' estrinsecazione verbale all'interesse per un ben congegnato sviluppo drammatico o psicologico; così, per conseguenza, il predominio dei valori rematici come creazione di un linguaggio, di uno stile di straordinaria vitalità e originalità, che non è affatto - come ingenuamente s.i credeva - la Umgangsrprache, ma una creazione consapevole e ben sorvegliata, che raggiunge spesso le vette della poesia; cosi infine, ed è la scoperta critica più felice e più attuale, il carattere da opera buffa, la «maniera operistica» che il teatro plautino finisce per assumere, anche e soprattutto attraverso la rutilante varietà dei suoi cantica,emergenti da una tradizione poetica d'altissimo conio, a conferma dd carattere nobilmente persona1e e meditato della creazione di Plauto. Che cosa di altrettanto vitale e di più nuovo può opporre la critica successiva a quest'imponente complesso di risultati conseguiti dal-

l'operadel F,aenkcl? Ma criterio condizionante il raggiungimento di un cosi saldo profilo critico era stata pur sempre l'analisi comparativa dei procedimenti plautini con lo spirito e la struttura ancora ricostruibili dei modelli, era stata pur sempre la contrapposizione del Plautinischesallo Attisches (e di qui, come abbiamo già detto, la legittimità della ulteriore analisi del Jachmann), per poter sempre meglio individuare appunto il Plautinisches;era stato cioè proprio il criterio su cui s'era appoggiato tutto il precedente

Appendice

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lavorio filologico intorno a Plauto, ch'era sembrato prescindere dall'esigenza d'intendere che cosa fosse, ad ogni modo, l'arte plautina o, trascinato dallafonnale esteriorità dal criterio stesso, aveva finito per negare addirittura la consistenza della personalità di Plauto. Proprio su questo punto la critica più recente sembra distaccarsi dal E, proclamando la necessità di nuovi criteri e quindi mirando a relegare il capolavoro fraenkeliano nel Limbo di un metodo e di un ambiente culturale superati. Ma proprio su questo punto gli Addenda dell'edizione italiana vengono a porre la critica più recente di fronte a una più matura e meditata consapevolezza dei problemi. L'intima contraddizione che vizia gli atteggiamenti critici attuali emerge del resto, di per sé, dal fatto che proprio la scoperta del Ailm«>À.oc;ha fatto gridare alla necessità d'impiantare su altre basi la ricerca della personalità di Plauto e di af. francarsi dalle nonne che hanno regolato finora l'individuazione del Plautinisches,estraendolo dal contrasto con l'Attisches. Ma il Ailoxokoc; non è il primo testo completo della Nta che ci sia stato dato di recuperare? L'individuazione dcli' originalità di Plauto non è condizionata dunque, più che mai, dal confronto con testi greci? Questo richiamo all'ordine sembra trapelare infatti dalla già ricordata Nota complementaredel F., a p. 443 dell'edizione italiana, ove si tien presente la scoperta del A'Uoxokoc; in funzione dello Stichus, suggerendo di non soprawalutare la presenza di un trescone di schiavi alla fine della commedia menandrea. E quando, cinque anni prima della pubblicazione cieltesto del A'Um«>À.oc;, il Friedrich, in Euripidesund Diphi/os,volle sfatare definitivamente ogni trasportando i procedimenti convalidità della Kontaminaticnsphi/o/ogie, taminatori o combinatori da Plauto fin su alla tecnica stessa degli autori della Nta, grazie all'influsso euripideo, che cosa conseguì, sul piano metodico, se non un'esasperazione della necessità di distinguere un Attisches, che diveniva sempre più imponente, da un Plautinisches,che si limitava sempre più a ritrovati rematici o all'evanescente definizione di linguaggio,cui la critica attuale, nel suo astrattismo conseguente all'allergia per i particolari concreti e le ricerche su terreno solido, è costretta a limitarsi, come entro un comodo quanto indistinto rifugio? Negare a Plauto la paternità dei rimaneggiamenti e sconvolgimenti più vistosi, affer• mando che ciò che appare contaminatioè invece un procedimento già abituale nei modelli - ché tale è il risultato essenziale dell'opera del Friedrich - equivale a strozzare ogni possibilità di più aderente ed esauriente analisi del modo con cui si manifesta la personalità di Plauto. In odio al metodo volto a distinguere, nella struttura di una commedia, ciò ch'è di Plauto e ciò ch'è del modello, per il semplice motivo che, non possedendo l'originale, noi ci condanniamo a lavorare per ipotesi, si è finito per sottostare a una condanna molto più dura e in base a un principio, checché si dica, altettanto ipotetico e dommatico: si è finito, cioè, col postulare che non vale la pena rovistare la struttura complessiva di una commedia, perché tanto ciò che in essa può sembrare contraddizione basilare deve essere per Jo più tecnica combinatoria già presente nel mo-

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Anatomiep'4utine

dello; e così il vertere di Plauto s'è ridotto a un senso molto meno elastico. E non s'è compreso che il L1UoxoÀOç,lungi dal dire la parola definitiva al riguardo, non ha spostato di un pollice la situazione quale l'avevano profilata le ricerche strutturali anteriori all'opera del Friedrich, perché la duplicità di struttura individuabile in esso non ha nulla che vedere con le incongruenze e le combinazioni che avevano fatto gridare alla contamina/io nel teatro plautino ed è da ricondurre se mai a quella tecnica dellafabuladuplexche spesso in Terenzioè apparsa propria del modello menandreo, senza che fosse giustificabile l'ipotesi di una massiccia rielaborazione da parte del poeta africano. E non s'è compreso che proprio il più sapiente e raffinato metodo del F., cogliendo alla radice i modi e le ragioni dello scompagìnamento strutturale operato da Plauto, ci faceva toccare con mano l'evidenza di un procedimento rielaboratore che non si fermava alle cadenze del linguaggio ma, in perfetta adeguatezza di tono e quasi per l'intima necessità espansiva di quel linguaggio stesso, si esten• deva al congegno del dramma. Ciò è tanto vero che - a tacere di un lavoro acritico come lo Esui sur le comique de Plaute del Taladoire, ove si prendono le mosse da un Plauto avulso da qualsiasi sospetto di un rapporto dinamico coi modelli - proprio i critici anglosassoni, cui gli studiosi più recenti si appellano in opposizione alla scuola di Gottinga, hanno posto l'accento sugli aspetti più tipicamente teatrali della rielaborazione di Plauto, al di fuori del suo carattere di Sprachgenie,e quindi hanno fatto rientrare dalla finestra la necessità delle analisi strutturali, che non hanno senso se non in rapporto con ciò che si può fiutare come aspetto dei modelli; e che le Motivslu· dien del Wehrli e, ventitré anni dopo, le Untersuchungendel Marti han• no dovuto cominciar a parlare di una particolare tecnica drammatica o della Nta o della palliata, con specifica circoscrizione ad una o ad un'altra età della cultura teatrale dell'antichità classica. U che ha finito per creare un'inestricabile confusione di metodi e di risultati, dato che, coll'abbandono del criterio della comparazione fra autori dellaNta e autori della palliata, si è caduti nell'errore, facilmente prevedibile, di considera• re certi ritrovati tecnici come tipici, a volontà, o dell'una o dell'altra epoca. E questo non è il peggio: col Mani si è finito per fare d'ogni erba un fascio, menendo sullo stesso piano ritrovati scenici di Plauto e ritrovati scenici di Terenzio, appartenenti alla categoria dei Widerspruche,quasi che entrambi gli autori obbedissero a una medesima tecnica strutturale volgata nei decenni in cui fiori la palliata. Dal che discende che proprio il complesso di espedienti scenici in cui, grazie al F., s'era individuato il supporto del più peculiare I i n g u a g g i o plautino si spersonalizza in un prontuario di ritrovati comuni a tutti i mestieranti teatrali d'allora; e Plauto e Terenzio, in ciò che non è personalità espressiva di più stretto valore rematico, si prendono a braccetto! La riprova del disorientamento prodotto da questa non ben meditata formulazione e adozione di criteri aprioristicamente, pregiudizialmente innovatori la si può scorgere, p. es., nella recensione all'opera del Matti fatta da V. Tandoi in «AeR» n.s. 6,

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1961, pp. 102-110.lvi le conclusioni assumono la fonna di un ircocervo: la scomparsa di un personaggio protatico dd .6:UoxoM>çviene ragguagliata alla scomparsa di Palinuro nel Curcu/io(senza alcun sentore dei problemi posti da questo secondo fenomeno, del sospetto di confusione o di scambio fra Palinuro e Gorgoglione, ecc.) come prova d'incongruenza (!), un'altra lievissima distrazione di Menandro - che non salta agli occhi neanche alla lettura - è addotta anch'essa come prova che Plauto non si permetteva sostanzialmente alcuna assurdità che non fosse già nei modelli; quindi si ripete il discutibile assioma che il ~ 'Uoxo).oçha posto un punto fermo alla persuasione che ciò che appariva contaminato o incongruenza in Plauto risale invece alla tecnica combinatoria della Né-a, ma non ci si prende la briga di chiarire se le incongruenze del teatro plautino siano state introdotte da Plauto o si trovassero già in ciascuno dei modelli (e ciò è conseguenza del fatto che in realtà il Wehrli, il Friedrich, il Marti e gli anglosassoni, pur parlando il medesimo linguaggio, ondeggiano capricciosamente nel fissareo all'età di Menandro o a quella di Plauto e Terenzio la tecnica di dati espedienti scenici); si dichiara la necessità di abbandonare il Motiv nell'individuazione del P/autinisches,dato che i motivi scenici e strutturali sono tutti topici, e forse da lunga data; ma si conclude col dire che Plauto è «personalità inconfondibile in un linguaggio che non si può forse mai astrarre dall'intreccio e dall'azione e dalle singole trovate comiche ( e a 11 or a?), perchéPlauto più di Terenzio fu anzitutto uomo di teatro»! Col quale confuso e contradditorio linguaggio si registra il fallimento di una critica che, pur volendo rinnegare le annose premesse del metodo del F., non è riuscita sostanzialmente a far compiere un sol passo in avanti all'individuazione della personalità di Plauto (si noti che nelle nove pagine della recensione del Tandoi il F. è nominato solo all'inizio e a p. 109, a proposito della contaminatiodel Mi/es, e sempre come depositario di teorie cui ci si inchina ma con un senso riposto di fastidio!); e non si può non confessare il pericolo cui ci si espone con criteri come quello del Matti che (in tempi in cui, per meglio adorare la personalità di Plauto, si ripudia l'assiduo confronto della sua tecnica con quella della Nta) ha finito per livellare la tecnica scenica plautina a quella di Terenzio e quindi ha finito per compromettere definitivamente l'originalità di Plauto in ciò ch'era considerato suo caratteristico appannaggio: tant'è vero che il Tandoi, buttando a mare l'impianto dell'opera da lui recensita, ha rivendicato, di fronte a Terenzio, la personalità di Plauto come uomo di teatro, quella personalità emergente proprio nei capricciosi Widerspriiche,nei giochi scenici che quindi tornano ad assumere una funzione di primo piano accanto all'aspetto rematico dell'arte plautina. E così si è tornati implicitamente a rendere il più completo omaggio al F.! E l'omaggio, in fondo, lo aveva già reso l'opera del Mani, enumerante anch'essa i Widerspriicheplautini, secondo un metodo insegnato proprio dal F.! Si guardi ora, fra gli Addenda del F., al passo (pp. 416-20) dedicato al

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Anatomiep'4uti11e

canticumdi Most. 690-746 in appoggio all'analisi già condotta del monologo di Stasimo in Trin. 1008 sgg. (pp. 146 sgg.) Proprio l'attenta, impeccabile analisi della condotta della scena, inquadrata nell'economia di tutta quanto la commedia, messa in rapporto con altri brani (vv. 680-81; 808; 908), dimostra in maniera inconfutabile la presenza di un'aporia ai vv. 690-713, in cui si parla della uxor di Simone che lo vorrebbe a letto con sé, mentre egli le si sottrae uscendo di casa; e invece gli altri brani citati ci mostrano che in casa di Simone non v'è alcuna uxor pronta alla vendetta, ch'è d'altronde motivo comico tipico della Ntn. Ecco perciò un'incongruenza la cui paternità - in rapporto col cl>aaµadi Filemone non può esser ricondotta se non a Plauto; e d'altro canto il F. dimostra che lo spirito del canticum iniziale di Simone è squisitamente attico. Qui c'è dunque, da parte di Plauto, lo sfruttamento di un brano d'altra commedia della Nta, per creare un effetto comico di improvvisa, momentanea risonanza, circoscritto all'istante, secondo una sua caratteristica tendenza. I critici odierni grideranno alla sopravvivenza nel F. di metodi surannés. Ma che cosa potranno essi opporgli riguardo all'interpretazione della scena? L'incongruenza è evidente e non è certo quasi impercettibile come quelle che con tanto sudore si son volute scovare nel AUoxoM\ç: Filemone non l'avrebbe certamente introdotta. Né si può pensare a un tipo d'aporia di quelli, molto più sottili, che si ravvisano in Terenzio (il Mani tace, fra l'altro, del luogo della Mostellaria).D'altro canto lo spirito e lo stile dei versi cantati da Simone sono tipicamente attici; né può valere l'osservazione ch'essi appartengono a un canticum:spesso cantica plautini (e ce lo ha mostrato anche il F.: cf. per es. pp. 299-300) rielaborano scene di modelli greci. Come poter quindi negare la esattezza delle conclusioni del F.? Ci si volga ora a ciò che dice il F. a pp. 422-24, riguardo a certi inizi di monologo: raccogliendo materiale dalla tragedia attica e dalla commedia attica antica e nuova, egli rettifica la sua affermazione di p. 170 che certi caratteristici inizi «sono da considerare libere creazioni di Plauto», in quanto forme del genere s'incontrano anche nel teatro attico. Ma s'af. fretta a soggiungere che queste «forme che negli originali attici si incontrano isolatamente ... diventano, nelle mani di Plauto, moduli prediletti», che cioè quello che nei modelli era «una possibilità fra le tante» si trasforma, nel teatro plautino, in espediente caratteristico. Ecco un'altra preziosa messa a punto, fatta apposta per frenare la valanga della ... atticizzazione dei moduli tecnici finora riconosciuti tipici di Plauto (fra l'altro la critica attuale, così gelosa del 1i n g u a g g i o originale di Plauto, sta finendo per sottrargli più di quanto gli sottraeva la vecchia filologia elleno6Ia, e per fare degli autori della Nta qualcosa di più grande di quanto non si fosse mai concepito, benché la scoperta del AUoxoÀ.oç non sia certo incoraggiante in tal senso!). E la si vorrebbe vedere attentamente applicata alle tante gag.r e situazioni stereotipe che Plauto ripete da commedia a commedia, estraendole certamente, in un primo momento, da un modello greco, ma poi iterandole a profusione, come motivo

Appendiç plautino, si sarebbe desiderato veder ricordati i vv. 409-12 dei Menaechmi e il v. 663 del Poenulus,nei quali si dà rispettivamente una lista di re siracusani, di cui due, Finzia e Liparone, sono nomi fittizi, e si nomina un immaginario re Attalo di Sparta. I due luoghi sono ricordati dal F.

Appendia

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solo in 6ne alla n. 1 di p. 348, ma di straforo, senza che il ,:(moç sia precisamente individuato, anzi a proposito di un altro problema: qui in• vece il richiamo ad essi sarebbe stato calzante. Il Matti richiama (p. 58) Pers. 506, ma in un altro ordine di idee, nell'analisi delle incongruenze presenti nel modo con cui è svolta la trama architettata da Tossilo ai danni di Dordalo, e quindi non sofferma la sua anenzione, né D né altro• ve, sui luoghi dei Menaechmi e del Poenulus. Eppure almeno il primo meritava che ci si spendesse sopra una parola, in fano di datazione dei drammi plautini o dei loro modelli, in quanto, come tutti sanno, la men• zione di lerone li come anuale re di Siracusa, ivi contenuta, ha spinto alcuni critici a collocare abusivamente i Menaechmi all'inizio dell'attività di Plauto {e vedi la prefazione alla mia versione della commedia, Mazara del Vallo 1957). A non parlare delle piacevoli fantasticherie che G. W. Elderkin («AJA» J8, 19J4, pp. JI e 35) ha dedotte da e,,,.,,,191 per sostenere che il modello della commedia alludeva a Lamia, la favorita di Demetrio Poliorcete: contra vedi la mia edizione del Curculio (Firenze 1957, p. 8 n. 1 {ora qui, p. 88 n. 2] e V. Tandoi, 'Noctuini ocull, in «SIFC• JJ, 1%1, pp. 2JJ.J4, al qoale debbo obiettare però due cose, I) che a p. 235 n. 4 egli mi rimprovera a torto di aver sciupato il testo di vv. 394-96 (Cu. Catapulta hoc ictum est mihi I ... Lv. nam quid id re/ert mea, I an au/4 qUtJSsacum cinere ec/ossus siet?), traducendo «GoRG. È un colpo di catapulta che mi sono buscato ... L1c. E a me che me ne frega se è stata una catapulta a cavarti l'occhio o la cenere d'una pentola che t'abbiano rotta sulla testa?», e asserisce che «nan non introduce il secondo membro di una disgiuntiva ... ma una dubitativa semplice»: a parte il fatto che la mia esegesi è stata ripresa da J. Collart nella sua edizione commentata da Curculio (Paris 1962, p. 79), essa è, per così dire, imposta dalla strunura e dal senso del testo, e c'è da meravigliarsi che il Tandoi, affermando che «Llcone intende maliziosamente catapulta in senso traslato, scherzoso ..., come noi clircmmo 'un bolide'», cerchi di sostenere questa sua grauita asserzione col riscontro di Capt. 796-97 (nam meumst balhsta pugnum, cubitus catapultasi mihi, I umerus an·es), dove basta la trascrizione del testo per sincerarsi come catapulta sia adoperato in senso proprio, e Cure. 689-90 (quia ego ex te hodie /aciam pilum catapu/tarium I atque ita te nervo torquebo, itidem ut catapultae 10lent), dove basta por mente alla mia versione (op. cii., p. 74), «Ah sì? Ma io oggi ti prenderò COn le molle anzi ti trasformerò addirittura in una molla, e ti farò scattare a ripetizione come le molle delle catapulte!», e alla nota a p. 86, ove ho chiarito il gioco di parole nel testo e quindi la mia versione, per sincerarsi che anche n il vocabolo va preso in senso proprio, come del resto va preso ogni volta che lo si adopera in italiano, anche in funzione apparente di scherzoso traslato; 2) che a p. 23.5 egli dà giustamente a «g1.1ercio»anche il valore di «strabico», ma cade inspiega• bilmcnte nell'errore opposto a quello in cui è caduto il Lana, il quale riteneva che «guercio» significasse solo «monocolo» (cf. il mio Spicilegio polemico,«RCCM» 4, 1962, p. 67), e quindi arriva ad affermare che di

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Anatomie plautine

Gorgoglione lo «strabismo ( !) è ricordato più volte» e cita i w. 392 sgg., 505, 543 e 546, nei quali rispettivamente Gorgoglione è definito unocule, /usce, lusco e luscum (quos tu mihi luscos libertos, etc.?): evidentemente egli ha confuso il nostro «strabico», il cui unico significato è essere perversisocu/is,col lat. strabo,che può talvolta spingersi al significato di /us• cus, e non ha riflettuto al fatto che «strabismo» non significa mai «man-

canza cli un occhio» e quindi non potrebbe esser reso con amissi'oo de/ectus oculi, ma sempre con pravitaso perversitasocu/orum. A pp. 408-13 il F. fa una lunga trattazione sul motivo dei lanii, negando anche la possibilità che costoro possano essere identificati coi µ.élyet()OL

di Atene, che erano in primo luogo cuochi. Appunto per questo

sarebbe stato forse opportuno estendere la trattazione alla presenza del personaggio del cuoco, che si articola diversamente in sette commedie plautine (Au/ularia, Casina, Curculio,Menaechmi, Mercato,,Mi/es, Pseu• do/us), distinguendosi nei due tipi del cuoco di casa e del cuoco affittato in piazza (cf. il mio Plauto, Firenze 1962, p. 67). Dico questo, perché, introducendo di regola Plauto proprio in scene di cuochi i suoi partico• lari relativi alle vivande, sarebbe stato più agevole individuare il carattere Jatino dei pasti a base di carne di maiale e il carattere greco dei pasti a base di pesce, spaziando lo sguardo su tutto l'insieme del motivo culina• rio nel teatro del Sarsinate, e cogliere così le tracce dei rimaneggiamenti plautini. Al riguardo il F., p. es., osserva: «Le due scene in cui la parte principale spetta a un cuoco sono Au/. 398 ss. (l'agnello ivi precedente• mente citato, vv. 328·331, ha il suo posto fisso anche nella cucina attica) e la grande scena di Pseud. III 2; ma anche i preparativi del pranzo de. scritti in Persa87 · 111 rivelano un menu puramente attico, con forte pre• valenza di pasticceria d'ogni genere. Il cuoco rimane attico». Al riguardo avrei ricordato anche le istruzioni di Lisidamo a Olimpione in Gts. 493-500 per la compera al mercato di copiapiscanil;si tenga presente che Olimpione tornerà (v. 720) con un cuoco affittato in piazza: il che, messo in rapporto col fatto che ogni volta che entra in isccna un cuoco di questa categoria (Au/ularia,Gtsina, Pseudo/us:nel Mercato, mancano indizi del genere) si parla di un menu di tipo greco, fa assumere consistenza alla ipotesi che i µftyeiooi.. almeno accanto ai /anii, potessero rappresentare qualcosa nella tipologia nella Nta e quindi della palliata e aver almeno incoraggiato Plauto a introdurre per contrasto le allusioni ai lanii. Al riguardo debbo anche osservare che a p. 414 il F., in appendice alla sua dimostrazione (pp. 136 sgg.) che i vv. 171·240 dello Pseudo/us,nel grande monologo di Ballione, sono una libera aggiunta di Plauto, osserva che, mentre ai vv. 196-201 «l'interesse si concentra sui /anii e sui pesanti legora ch'essi tengono in vendita», «nel penultimo verso de1 brano tradotto dal modello attico ( 169) Ballione dice ego eo in mace//um, ut pis• cium quidquid ibist pretio praestinem», e che quindi «si rivela qui, nel modo più chiaro, il contrasto culinario fra Atene e l'Italia». A parte il fatto che proprio al v. 169 appare il tennine mace//um, cioè proprio il vocabolo che indica principalmente il mercato della carne - quel tennine

Appendice

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che il Wackemagel (SprtJchl.Untersuchungent.u Homer, 196-97), citato proprio dal F. a p. 410, ricorda come creatore dell'imprestito greco µ.étxùlov, che in S. Paolo indica il mercato della carne -, io mi permetto di far presente all'insigne Maestro che già al v. 166 Ballione dice pemam, callum,glandium, sumen Jadto in aqua illcent.Bisogna quindi concludere per lo meno che il rimaneggiamento plautino è cominciato prima dd v. 171, come del resto indicherebbe anche il macellum dd v. 169. Ma si può forse compiere un altro passo in avanti sulla questione generale. Al v. 166 Ballione parla di carne di maiale esistente in casa, mentre egli si reca al mercato a comprare pesce. Nelle commedie in cui esiste il cuoco di casa, ritorna la menzione della carne di maiale (Cure. 323, ove c'è un riscontro quasi ad verbum con Pseud. 166; Men. 289 e 314-15), mentre nella Moste/lariaTranione se ne va al Pireo a comprarsi il pesce (v. 67) e poi ne torna (v. 363) con l'opsonium. Sembra che nel teatro plautino si formi una specie di contrapposizione costante per cui il mercato serve a comprare il pesce o a noleggiarvi cuochi che sappiamo cuocere il pesce o in genere le vivande della cucina attica, mentre la carne di maiale, sostanza della cucina italica, si trova in casa, forse perché già se ne è fatta - proprio per la esiprovvista presso i lanii. Quindi mentre i µéJ.YEIQOL guità dei pezzetti di carne da loro fomiti - si trasfomano, in Plauto, solo in cuochi presi a nolo, la funzione dei fornitori di carne è trasferita ai lanii che non compaiono mai sulla scena, ma fanno avvertire la loro azione attraverso i cuochi di casa, sempre pronti a imbandiregrossi tocchi di carne suina. Credo che così ciò che il F. ha posto in rilievo possa essere opportunamente rettificato e sistemato. Alla medesima p. 414 il F. mi ha dato occasione di rallegrarmi, per• ché si è mostrato ancora persuaso dell'attendibilità della didascalia dd palinsesto Ambrosiano, fissanteal 191 a.C., la prima rappresentazione dello Pseudo/us.Non credo che gli abbiamo fatto mutar opinione i successivi lavori di H. B. Mattingly, di cui il primo, The Plautine 'Didascaliae', in «Athenaeum» 35, 1957, pp. 78-88, è stato confutato da me odl'edizione della Casina, anche se poi il Mattingly, pur riconoscendo l'esattezza di alcune mie osservazioni, è parzialmente tornato alla carica, in The first periodo/ Plautine revival, in «Latomus» 19, 1960, pp. 230-52 (ma vedi contra il mio Plauto, cit., p. 24). Ma non riesce a persuadermi il F. quando trova «molto attraente» l'ipotesi del Leo che la scena III 1 dello Pseudo/us rimonti a un revival in cui un regista, per risparmiarsi spese e fatica quali richiedeva la scena I 2, con l'abbondanza delle com• parse e la necessità di un grande attore che sapesse recitare e cantare il fonnidabile canticum di Ballione, avrebbe architettato il monologo dd puer bruttino e pur destinato a fare il puer de/icatus,che (vv. 775-82) introducesse la necessaria menzione dd nata/is dies di Ballione e dell'obbligo dellasua servitù di fargli un regalo. A parte il fatto che il materiale linguistico e stilistico e le caratteristiche metriche di III 1 non denunziano alcuna deviazione dalla tecnica e dal gusto di Plauto, l'apparizione del puer al momento dd ritorno di Ballione dal mercato (anche se sia facile

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Analo1'tieplautine

supporre che nel testo a noi tràdito lo spostamento della scena a questo punto risulti dalla fusione dei due copioni, quello originario e quello ri• montante alla ripresa postuma della commedia) mi sembra abbia il compito di sviluppare con armonica simmetria, rispetto a II 1, il motivo del dies nata/il di Ballione e delle sue pretese nei riguardi della servitù, secondo quel principio della sinfonica iterazione dei motivi ch'è tipico del teatro plautino. In questo mi sembra che abbia visto meglio il Marti, il quale (op. dt., p. 116) considera in blocco le scene I 2, III 1 e 2 come «lebendige Ausmalung der Geburtstagsatmosphiire», e proprio in funzione del celebre v. 1237, certumst mihi bune emortualem facere ex natali die, che ora sembra al F. (p. 408), e credo a ragione, non più solo un'invenzione di Plauto, ma la conclusione di un brano (vv. 1231-37), che è tutto un'aggiunta plautina. Ma non vogliamo continuare in questo meschino controcanto di riserve dinanzi a un'opera cosl poderosa, che - anche a limitarsi agli Addenda- ci offre ancora tanti altri spunti di meditazione, come il brano a pp. 414-14 sulla diversità del teatro antico dal moderno nel concentrare in ogni scena «tutta l'intensità possibile e nel modo più esauriente possibile» sugli aspetti di una sola cosa; come l'avvertimento (p. 439) sull'incertezza che il direttore della compagnia di attori si chiamasse dominus gregis; come la magistrale aggiunta (pp. 436-37) della trattazione sul frammento lirico (trag.5) della DaNJedi Nevio, che completa il capitolo sull'origine e la natura dei canticae l'ulteriore messa a punto in «PWRE» Suppi. VI 633, e ribadisce la nota tesi F. sulla prevalenza dei brani lirici della tragedia latina nella formazione dei canticaplautini; come il significativo invito (p. 439)..a considerare i rapporti fra il poeta e gli scaenici arti/icescome aspetto tra i fondamentali nello sviluppo della coscienza teatrale e quindi dell'arte di Plauto; come la giusta ironia (p. 442) su Manu Leumann, che ancora, in «MH» 4, 1947, p. 120, ha scritto che «bei Plautus ist sie (die Sprache) vor allem im Dalog reine Umgangssprache», senza intendere che «il dialogo plautino si solleva frequentemente al livellodi uno stile altamente poetico». Con tale vigorosa riaffermazione dell'alto livello della poesia plautina ci piace chiudere questa recensione necessariamente lunga, data l'importanza dell'opera in esame. Plauto è l'unico, grandissimo rappresentante a noi sufficientemente noto di una felice età in cui la poesia latina, per sue speciali caratteristiche al cui emergere non fu estraneo il genio stesso dd poeta, poté parlare con uguale fascino, come il teatro nell'Atene pcriclca, a tutte le classi sociali, agli ottimati come alla plebe. Dopo di lui, e per breve ora, una sola attività letteraria, quella degli oratori, riusci ad incatenare l'attenzione delle folle oltre a quella dei buongustai. Dellasua felice polivalenza sociale l'arte plautina ci manifesta tutti gli aspetti, quelli positivi (irruenza farsesca, mirabile festività e icasticità di linguaggio, seduttrice potenza dal gioco ritmico e musicale) e negativi (aggressiva tra• scuranza dei motivi psicologici e introspettivi e dell'armonico congegno dell'azione, tendenza alla scurrilità). Aver enucleato gli uni e gli altri nella

Ap~ndia

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giusta prospettiva, mostrando la sostanziale prevalenza dei primi sui secondi, è merito innegabile e imperituro del F., cui risale p. es. la scopetta (p. 380) che la pirotecnica comicità di Plauto, anche se il suo teatro non è classificabile nella categoria della commedia stataria,non fa compiere un passo in avanti all'azione. L'ultimo capitolo dell'opera del F., mirabile saggio di sintesi critica nel quale si mostra l'imprescindibilità, per una retta comprensione dell'arte di Plauto, di un confronto con la Nta nei modi tradizionali, afferma prima (p. 381) l'incapacità plautina di ripro• durre il dramma come un org_anismovivente, l'insensibilità all'unità spe• cie psicologica dell'insieme, ali' «armonia di una creazione artistica di Jar. go respiro»; ma poi, pur awertendo la necessità di fare il debito posto ai predecessori latini di Plauto, cosi poco noti, proclama (p. 398) che «I'ar· tista che con mente libera e mano felice ha fuso i molteplici dementi in una creazione di meravigliosa unità è stato uno solo», che le commedie plautine sono «espressione tuttora operante di forze creatrici», in quanto «partecipano della vera vita dell'arte, fuori dei limiti deJ tempo» e in quanto «i valori indistruttibili che esse contengono sono non tanto la materia dei drammi attici quanto lo spirito della lingua italica e della comicità italica e, oltre e al di sopra di esso, la poesia di un uomo solo».

INDICE

Tabulain memoriam

Premessa nota dei curaton·

AMPHITRUO

VII XIII XXJV

1

CASINA

}J

CURCULIO

83

MILES GLORIOSUS

103

APPENDICE

143

Finito di scamp1re nel m1rzo 200} per i tipi delleArti GraficheEditoriali Sd, Urbino