Alien. Nascita di un nuovo immaginario 8899554323, 9788899554323

Il 25 maggio 1979 nelle sale americane esce un film destinato a lasciare il segno, "Alien" di Ridley Scott. So

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Italian Pages 140 [185] Year 2019

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Table of contents :
Copertina
Alien
Indice dei contenuti
TITOLI DI CODA
Mezzo secolo fa
Oggi, quarant’anni dopo (il doppio di Dumas)
IPOMETROPIE, IPERMETROPIE ED EFFETTI SPECIALI
Intendo e chioso (ma non alla Manganelli)
I knew that people…
Gli occhi ch’eran bambini…
ELEMENTI SPICCIOLI DI SURF-FILOSOFIA
Mareggiate
Tavole da surf
After all, tomorrow is another day…
BREVISSIMA STORIA SOCIALE DELL’AUTOSTOP
Mia madre mi dice sempre di non farlo...
Vantaggi e svantaggi dell'autostop
LA LUNA DI ZETA II RETICULI È UNA SEVERA MAESTRA
Tre sul divano: Dan, Ron e Xeno
L’utilità dell’invidia e la relatività dello sguardo
Sotto un cielo di metallo urlante
Teratogenesi dell’alieno
Fenomenologia dello xenomorfo
Cosa, come, quando e pure dove
IL TALENTO DI (ELLEN) RIPLEY
Masculin, féminin
Lt. Ripley c’est moi
L’importanza di essere Ripley
La scelta di Ripley
ARCHEOLOGIA DI UN SAPERE (IMMAGINARIO)
Dont look back
Questo continuo presente
I tawt I taw a Puddy Tat
Svestita per uccidere
TITOLI DI TESTA
La bella e la bestia
FILM-BIBLIOGRAFIA
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Alien. Nascita di un nuovo immaginario
 8899554323, 9788899554323

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BORIS BATTAGLIA

Alien

Nascita di un nuovo immaginario

Alien. Nascita di un nuovo immaginario Boris Battaglia © Armillaria 2019 I edizioni digitale ottobre 2019 isbn 978-88-99554-33-0 armillaria.org [email protected]

ISBN: 9788899554330 Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write http://write.streetlib.com

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Indice dei contenuti

TITOLI DI CODA

Mezzo secolo fa

Oggi, quarant’anni dopo (il doppio di Dumas)

IPOMETROPIE, IPERMETROPIE ED EFFETTI SPECIALI

Intendo e chioso (ma non alla Manganelli)

I knew that people…

Gli occhi ch’eran bambini…

ELEMENTI SPICCIOLI DI SURF-FILOSOFIA

Mareggiate

Tavole da surf

After all, tomorrow is another day…

BREVISSIMA STORIA SOCIALE DELL’AUTOSTOP

Mia madre mi dice sempre di non farlo…

Vantaggi e svantaggi dell’autostop

LA LUNA DI ZETA II RETICULI È UNA SEVERA MAESTRA

Tre sul divano: Dan, Ron e Xeno

L’utilità dell’invidia e la relatività dello sguardo

Sotto un cielo di metallo urlante

Teratogenesi dell’alieno

Fenomenologia dello xenomorfo

Cosa, come, quando e pure dove

IL TALENTO DI (ELLEN) RIPLEY

Masculin, féminin

Lt. Ripley c’est moi

L’importanza di essere Ripley

La scelta di Ripley

ARCHEOLOGIA DI UN SAPERE (IMMAGINARIO)

Dont look back

Questo continuo presente

I tawt I taw a Puddy Tat

Svestita per uccidere

TITOLI DI TESTA

La bella e la bestia

FILM-BIBLIOGRAFIA

Armillaria Edizioni

Collana I Cardina li 8

a me stesso, me lo merito

TITOLI DI CODA

MEZZO SECOLO FA

All’età di cinquant’anni ogni uomo ha la faccia che si merita. George Orwell (ma alcuni la attribuiscono a Coco Chanel)

Cominciamo con questa specie di introduzione, che in realtà non è un’introduzione ma una necessaria resa dei conti con il mio immaginario miope (che è anche il tuo, se sei nata/o, come me, tra la seconda metà del secolo scorso e il primo ventennio di questo) senza la quale non potremmo arrivare ad affrontare l’argomento di cui tratta questo saggio. Quello di cui ti racconterò è successo quarant’anni fa, nel 1979, ma per fare il salto temporale che ci porterà lì, in quell’anno assolutamente fondamentale, dobbiamo prendere la rincorsa. E partire da un punto preciso. Che è più o meno collocabile nell’oggi. A meno che non ti sia capitato come è capitato a me, non puoi sapere cos’ha voluto dire essere nato agli inizi del 1968. Agli inizi,

quando non era ancora l’anno che poi sarebbe diventato… così famoso. E allora te lo dico: significa essere stato troppo giovane, troppo piccolo addirittura, per il punk e tutte le cose toste degli Anni Settanta e troppo vecchio per i movimenti degli Anni Novanta. Ecco, è vero. Se sei nato nel 1968 significa che ti sei vissuto appieno gli Anni Ottanta, il decennio dei tuoi vent’anni. E se hai avuto vent’anni nel 1988 significa che ti sei divertito un sacco in quel decennio lì. Poi però hai dovuto portarti dietro la responsabilità di una cosa di cui allora, mentre ti stavi divertendo, non ti eri accorto: che proprio a causa di quel tuo divertirti, gli Anni Ottanta stavano assumendo una cattiva fama. Lo hai capito dopo; quando tuo malgrado sei diventato quello che sei diventato. Bene. Adesso, che è quel dopo, ci sono tre decenni tra te e i tuoi vent’anni, e ce ne sono quattro – di decenni – tra te e i tuoi undici anni, quelli che avevi nel 1979. È il momento di farci i conti. Ho mezzo secolo e passa. Non mi faccio la barba, ma tutte le mattine guardo la mia faccia livida degli eccessi della sera prima nello specchio e mi fa venire voglia di scriverne. Per farti capire questa voglia di scrivere, che porta

via tempo prezioso al vivere, devo partire da Creonte. Allora. Quando Edipo, cieco per aver visto l’insostenibile (cose, tra l’altro, che aveva combinato lui), lascia Tebe e se ne va in esilio a Colono, in modo da concedere una speranza di salvezza alla città minacciata, per colpa sua, dalla peste (notare la simmetria tra la colpa di Edipo, che è costata a Tebe la pestilenza, e quella di chi si divertiva negli Anni Ottanta, che è costata agli Anni Ottanta una pessima fama che, come vedremo, si meritano tutta, e ai decenni successivi le conseguenze catastrofiche di quella colpa), i suoi due figli maschi cominciano a litigare. Ovviamente per il potere. Eteocle prende il comando della città. Polinice, suo fratello, indispettito e invidioso, si rifugia ad Argo e dopo essere riuscito ad armare un esercito marcia su Tebe per conquistarla. In duello davanti alle porte della città, persa ogni ragionevolezza e scivolati nella stupidità tipica di chiunque si lasci avvelenare dal potere, si uccidono l’un l’altro. Creonte, fratello di Giocasta, quindi contemporaneamente zio e cognato di Edipo, si ritrova così re di Tebe. E vieta per decreto, la prima norma scritta della storia di questa città

(il primo protocollo), che il corpo di Polinice, il traditore che ha marciato contro la sua stessa patria, venga sepolto e onorato con le esequie riservate alla sua casta. Ma tu sai che Antigone, sorella di Eteocle e Polinice, contravviene alla disposizione di Creonte e celebra i funerali di Polinice come da sempre si addice ai padroni. Così facendo incorre nella condanna del nuovo re della città. Tempo fa ho letto – detestandolo quanto invece avevo amato Il nodo e il chiodo – un libro di Adriano Sofri, Chi è il mio prossimo, che mi è sembrato un piccolo catechismo per exrivoluzionari in cerca di una mistica non dogmatica. Mentre lo leggevo, mi tornava in mente una cosa che proprio su Sofri aveva scritto Piergiorgio Bellocchio nel 1991, ai tempi del processo per l’omicidio Calabresi. Bellocchio sosteneva che i militanti di Lotta Continua ‘erano migliori di quello che sono diventati’. Questo è assolutamente vero e, alla prova dei fatti, evidente. Ma il punto è che Bellocchio in quell’articolo, poco prima di dire questo, criticava Eugenio Scalfari per aver paragonato, su la Repubblica del 2 agosto 1988 (notare la coincidenza con l’anno dei miei vent’anni), Sofri a un’Antigone da tre soldi e per aver sostenuto che la legge di Socrate, cioè

la legge della città, alla lunga la vince su quella di Antigone. Niente di vero, dice Bellocchio, e aggiunge: capisco che Scalfari si schieri con il potere rappresentato dalla città, ma Socrate con quel potere non c’entra niente. Socrate come Antigone è un ribelle; c’è da sperare, conclude Bellocchio, che alla lunga, a prescindere da quello che chi vi si ispirava, come Sofri, è diventato, comunque vinca la legge di Antigone. In altre parole: Sofri, qui come simbolo della generazione del ’68 (quella più o meno dei nostri padri, di noi che nel ’68 siamo nati), da giovane era migliore di quello che è diventato perché era un ribelle come Antigone e c’è da augurarsi che la ribellione di AntigoneSofri vinca anche su quello che Sofri è diventato. Solo che Bellocchio sbaglia, almeno tanto quanto Scalfari. Non è per niente conseguente che la legge di Antigone o quella di Socrate siano migliori o più giuste di quella di Creonte. Perché quella che hanno in mente loro è l’Antigone del Living Theatre, mutuata da quella di Brecht, non certo quella di Sofocle. Nella tragedia sofoclea, che fosse il simbolo della tirannide o di una democrazia guidata (quale era quella di Pericle al tempo in cui visse

Sofocle), Creonte rappresentava una nuova idea di stato. Creonte rappresenta la rivoluzione della legge scritta contro la tradizione orale dei privilegi castali e sacerdotali: è contro questa messa in discussione degli antichi privilegi che Antigone si ribella. La sua non è una rivoluzione, è una reazione. Una difesa oltranzista della tradizione, di quella legge morale tanto cara ai sacerdoti. Permettimi quindi, a questo punto, di citare Lacan, anche se lui ovviamente intendeva altro definendo così il personaggio della tragedia di Anouilh rappresentata nel febbraio del 1944 nella Parigi ancora occupata dai nazisti, e di affermare che Antigone non è altro che una piccola fascista. Una che disobbedisce alla legge di Creonte e della città, legge che – almeno nelle intenzioni – vorrebbe essere la stessa per tutti, ma lo fa obbedendo a quella che per lei è una legge superiore, una legge non scritta tramandata attraverso la tradizione. La tradizione però, come ci hanno insegnato Hobsbawm e Ranger, non esiste, è un’invenzione del potere. Non so cosa fosse Sofri ai tempi di Lotta Continua (organizzazione fondata nell’autunno del 1969 – altro anniversario che forse non

cade a caso). So però, leggendo quello che pubblica, cosa è adesso. Molto vicino ad Antigone: a quella legge morale che portava la figlia di Edipo a violare la nuova legge della città, e che ha portato la generazione dei nostri padri, quella nata nella seconda metà degli Anni Quaranta, a piegare l’ideale della loro rivoluzione fallita (il ’68) su posizioni di un moralismo tra il metafisico e il politicamente corretto. Lo dice Sofocle che tifa per Antigone: ‘Non è data agli uomini / liberazione dal predestinato’ (66, 6). Vero. Probabilmente questi fan di Antigone erano migliori di quello che erano predestinati a diventare. Ma. Dicevo della mia faccia. La guardo nello specchio. E nonostante porti il segno di ogni eccesso passato e una barba non curata, sono migliore, più bello e più libero di quello che ero dieci, venti, trenta, quaranta anni fa. Ostinatamente non appartenente a qualsiasi idea trascendente di moralità. Questo probabilmente perché, a differenza di chi interpreta il mondo con gli occhi di Antigone, a me capita da quarant’anni a questa parte di farlo con lo sguardo del tenente Ellen Ripley, splendidamente interpretata – nel film di Ridley Scott di cui sto per parlarti (in realtà te

ne sto già parlando dalle prime righe) – da una Sigourney Weaver appena trentenne. Dirai, ma cosa c’entra Ellen Ripley con Antigone? Niente. Infatti, il tenente Ripley c’entra molto di più con Creonte. C’è un momento preciso… aspetta… l’hai visto il film? Altrimenti posa il libro, guardalo e poi riprendi la lettura… c’è un momento preciso, dicevo, dopo il ritrovamento dell’astronave aliena, in cui Ripley si comporta esattamente come Creonte. Creonte aveva lasciato Polinice insepolto fuori dalle mura di Tebe per salvare la cittadinanza dalla pestilenza della guerra civile; Ripley tiene fuori dall’astronave Nostromo il capitano Dallas e il povero Kane, che è stato attaccato dall’essere uscito dall’uovo alieno, perché applica i protocolli corretti che prevedono la quarantena per preservare la nave da qualsiasi epidemia: la legge scritta. Obbedisce ai protocolli dell’aeronautica mercantile ma in realtà trasgredisce alla legge superiore (non scritta) della compagnia armatrice per cui lavora, che ha stabilito di recuperare quella forma di vita aliena, anche sacrificando l’intero equipaggio: la legge del mercato. Insomma. Se ha ragione chi sostiene che gli Anni Settanta finiscono nel 1982, quando

(aggiungo io) esce al cinema E.T., gli Anni Ottanta cominciano nel 1979, quando esce al cinema Alien. Lo so, ci vorrebbe Escher per dare una prospettiva visiva a questo paradosso, che poi così paradosso non è. In fondo è una cosa abbastanza semplice. Era circa la metà degli Anni Sessanta e al Festival di Cannes, durante un’animata conferenza stampa, un regista mediocre e tradizionalista come Georges Franju rivolse a Jean-Luc Godard questa domanda provocatoria: ‘Non crede di dover almeno riconoscere la necessità di avere un inizio, un momento centrale e una fine anche nei suoi film?’ ‘Certo,’ rispose Godard senza scomporsi, ‘ma non necessariamente in quest’ordine’. Dato che in questo saggio la parte centrale ce l’ha un film, e dato che abbiamo già incontrato un inizio, ci atteniamo alla lezione di Godard e cominciamo dalla fine. Cioè da oggi.

OGGI, QUARANT’ANNI DOPO (IL DOPPIO DI DUMAS)

Pour moi, le temps de l’action a passé. J’ai vieilli. Le temps de la réflexion commence. Bruno Forestier, personaggio principale di Le petit soldat di J.L. Godard

I miei figli, a differenza mia, sono dei veri e propri fanatici della saga di Guerre stellari. È comprensibile: sono nati più o meno ai due estremi temporali che determinano la generazione Z. Il più grande è cresciuto proprio in mezzo alla seconda trilogia, mentre il piccolo sta formando parte del suo immaginario dentro la terza. La mia generazione è quella che, in un saggio fondamentale, la poetessa Jane Deverson chiamò X, a sottolinearne la mancanza di un’identità sociale definita. Sì, quella definizione che una trentina d’anni dopo Douglas Coupland farà sua (senza impedire in alcun modo di vedersi attribuire l’invenzione) in un famosissimo romanzo dal quale deriverà, a noi generazione X, la fama di individui

apatici, egoisti e privi dei minimi valori etici. A sentire i sociologi che prendevano spunto dal suo romanzo, noi, figli dei baby boomer (ed erano tutti baby boomer, quei sociologi che lo sostenevano), che avremmo avuto vent’anni negli Anni Ottanta, eravamo una generazione cinica, materialista e priva di ideali. Di come fosse percepita la mia generazione ne aveva fatto un impietoso ritratto Bret Easton Ellis nel 1985, diventato poi libro di culto: Meno di zero. Ora, se in qualche modo persino io mi ero convinto che fossimo tutti come Clay, il protagonista di quel romanzo, come pensi che potesse interessarci una favoletta cristologica imbevuta di moralismo e falsa speranza come la prima trilogia di Guerre stellari? È ovvio che la nostra attenzione, la mia almeno e il mio sentimento, fossero catturati invece dal nero pessimismo del film di Ridley Scott. Mio figlio piccolo oggi ha undici anni, esattamente quelli che avevo io quando, quarant’anni fa, ho visto Alien in qualche sala di seconda visione. Forse sto dando per scontato che tu sappia cos’è una sala di seconda visione. Invece, se appartieni a una generazione successiva alla X, la Y dei millennial o la Z degli iGen, è praticamente impossibile che ti sia capitato di

frequentare una sala di seconda visione. Negli Anni Settanta, e per buona parte degli Ottanta, le grandi città (vivevo e vivo a Milano) erano disseminate di cinema. In centro si trovavano le sale più belle, quelle di prima visione, dove proiettavano i film appena usciti; poi, quando un film aveva finito la sua vita commerciale al centro, si spostava verso la periferia, in sale dove il biglietto costava progressivamente di meno. Oltre alla prima visione c’erano, man mano che ti allontanavi, altre quattro categorie: i proseguimenti, che a Milano per esempio si situavano tra i bastioni e la prima cerchia dei navigli, una specie di prima visione appena appena scaduta; poi la seconda visione, che a Milano stava tra la prima e la seconda cerchia dei navigli, per finire con le terze visioni e le sale parrocchiali, tutte sul confine o al di là della circonvallazione. Da qualche parte poi, in posti assurdi come certe viuzze strettissime del centro o associazioni culturali spesso cattoliche o marxiste ma sempre fatiscenti (in particolare quelle marxiste), c’erano le sale d’essai: luoghi strani che quella definizione francese rendeva quasi esotici, dove proiettavano film sempre in bianco e nero che mi sembravano noiosissimi già solo dal titolo.

Noi ragazzetti di fine Anni Settanta che vivevamo al di là della circonvallazione, sulla riva sinistra dell’Olona ancora scoperto, frequentavamo due cinema. Bastava passare un ponte, che oggi non c’è più (il fiume l’hanno coperto per farci passare la Circolare, la filovia che gira tutto intorno alla città), e ci ritrovavamo allo Zenit di piazza Piemonte (se non ricordo male era una seconda visione, o forse un proseguimento di prima) e al Magenta, al numero 25 di via Sanzio, un vecchissimo polveroso e muffito cinema rionale (terza visione) all’interno di una splendida ma cadente palazzina liberty, che faceva anche due spettacoli mattutini. Lo frequenterò a lungo, il Magenta, anche e soprattutto dopo, perché di lì a qualche anno (nel 1983) sarebbe diventato un cinema porno… ma sto divagando. Insomma, quelli erano i cinema che frequentavamo, perché per andare nei cinema del centro non ci bastavano mai i soldi. Adesso riprendo il filo. Dato che il figlio piccolo è un appassionato di Guerre stellari, che ha amato le due stagioni di Stranger Things, che ha tra i suoi film preferiti Super8 di J.J. Abrams (guarda caso ambientato proprio nell’estate del 1979, quando nelle sale americane uscì Alien) e che ha la stessa età mia quando ho visto il film

di Scott per la prima volta, gliel’ho voluto far vedere. Gli avevo raccontato che mi aveva fatto molta paura, all’epoca. Mi aspettavo che nella prima scena in cui compare l’alieno a figura intera, quella in cui fa a brani il povero meccanico Brett, facesse un salto sulla poltrona. Invece è scoppiato a ridere. Di gusto. E devo ammetterlo: a guardarla oggi, con gli occhi di un undicenne abituato a ben altre cose rispetto a quelle cui erano abituati i miei quarant’anni fa, la sequenza con Bolaji Badejo nel costume dello xenomorfo è veramente imbarazzante come effetti speciali. Eppure, alla fine del film, quando gli ho laconicamente domandato: ma allora non ti ha fatto neanche un po’ di paura? Mi ha risposto: no, ma penso che di lavoro farò il regista. Boom! Ho la faccia che mi merito, come il tenente Ripley, e il mio non è più il tempo per l’azione, ma quello per la riflessione. E su questa cosa, sullo strano funzionamento di questo film, ce n’è da riflettere. Cominciamo.

IPOMETROPIE, IPERMETROPIE ED EFFETTI SPECIALI

INTENDO E CHIOSO (MA NON ALLA MANGANELLI)

Ha detto che è stato come vedere i suoi sogni in pieno giorno. L’eroe eponimo quando racconta del primo film visto da suo padre ( Viaggio nella Luna di Georges Méliès) nel film Hugo Cabret di Martin Scorsese Ti tranquillizzo subito. Non ho le capacità letterarie di una Natalia Ginzburg o di un Gerald Durrell, e se ti ho parlato della squillante e divertita risata di mio figlio alla comparsa, sul nostro monitor, dell’alieno xenomorfo, non l’ho fatto con l’intenzione di raccontarti lessici particolari della mia famiglia e degli altri animali che ci girano per casa. Ti spiego quali erano le mie intenzioni e poi le chioso. Quella risata è un pretesto che mi serve per introdurre una questione fondamentale: lo sguardo. Il motivo per cui mio figlio è scoppiato a ridere mi era evidente. Ai suoi occhi, quello

che voleva essere, nel momento in cui viene mostrato (anche se confusamente), un mostro spaventoso si rivela invece per quello che è: uno spilungone dinoccolato infilato in un costume improbabile e ingombrante. In altre parole, un effetto speciale un po’ goffo e di conseguenza ridicolo. Mi chiedevo come fosse possibile che il suo sguardo non si facesse ingannare, come era accaduto al mio quarant’anni prima davanti alla stessa scena. Ma soprattutto, perché a me all’epoca gli effetti di Alien e di Guerre stellari – che avevo visto nello stesso periodo – avevano fatto il medesimo effetto, mentre a lui ne facevano due diametralmente opposti? Perché gli effetti speciali della prima trilogia di Guerre stellari, che va dal 1977 al 1983 e per la quale fu impiegata la stessa tecnologia usata per Alien, erano pienamente accettabili al suo sguardo mentre per quelli di Alien aveva moti di ilarità? Che il gruppo di giovani studenti di informatica e ingegneria raccolti da Lucas intorno alla Industrial Light & Magic e a un burattinaio come Frank Oz fossero più bravi di Carlo Rambaldi? Può anche darsi, magari fu per quello che i responsabili Rai e Comencini, più lungimiranti di Ridley Scott e Ronald Shusett, rifiutarono il suo burattino realizzato appositamente per lo sceneggiato su Pinocchio

del 1972. Ma la risposta comunque non mi convinceva. Se pure spiegava che gli effetti della saga di Lucas potessero essere migliori di quelli di Alien, non spiegava però com’è possibile che non avessi colto questa differenza ai tempi della mia prima visione. Magari colpa della mia ipometropia. La risposta giusta, invece, me l’ha data il figlio più grande, svelandomi che a partire dal 1983, cioè dall’uscita de Il ritorno dello Jedi, Lucas ha cominciato a intervenire sugli effetti speciali dei film precedenti. Nella sua visione, ogni singolo episodio della saga non è da considerarsi come un’opera conclusa definitivamente, quanto piuttosto un prodotto di cui realizzare, di volta in volta, versioni sempre più accettabili finché la tecnologia non gli permetterà di ottenere il risultato più realistico possibile. Di primo acchito questa continua riedizione delle vecchie pellicole con l’aggiornamento degli effetti speciali alle tecnologie più attuali può sembrare una posizione molto sensata, e spiega senz’altro l’apprezzamento che la sua opera riscuote continuamente presso le generazioni più giovani, a differenza di altre saghe che, non essendo state sottoposte a un

li ing tecnologico, mantengono vivo solo l’interesse dei nostalgici. In realtà, a rifletterci un po’, è una posizione che ha al suo interno almeno due fallacie logiche. Una che riguarda il cinema e una che riguarda lo sguardo. Cominciamo dal cinema.

I KNEW THAT PEOPLE…

Se si vuole capire cosa accade, bisogna avere la pazienza di aspettare le prossime opere del cinema… Richard Ford

Nel 1961, mentre collabora alla sceneggiatura del film che Alain Resnais sta realizzando dal suo romanzo L’Année dernière a Marienbad (a sua volta fortemente influenzato dal romanzo di Adolfo Bioy Casares L’invenzione di Morel, tutto incentrato su una originalissima riflessione sulla natura delle immagini – per la cui lettura mi permetto di rimandarti al mio saggio su Corto Maltese), Robbe-Grillet rilascia ai Cahiers du Cinéma, allora diretti da Éric Rohmer, un’intervista interessantissima. Non amo Robbe-Grillet, soprattutto il teorico del nouveau roman, ma lo trovo necessario e credo che la sua concezione del cinema e dell’immagine, forse perché arrivava al cinema da un percorso letterario che in qualche modo rinnegava (esemplare in questo senso il suo film Spostamenti progressivi del

piacere, del 1974), siano state seminali e tutt’ora non comprese a fondo. Quello che sostiene in quell’intervista è a mio avviso illuminante. Dice sostanzialmente che in un film non ci può essere alcuna realtà al di fuori delle immagini che si vedono e delle parole che si sentono. Vale a dire (e lo dirà eccome, nel saggio Pour un nouveau roman del 1963 che, se lo leggi, probabilmente ti cambia ogni prospettiva che la scuola dell’obbligo ti ha dato sulla letteratura), che l’opera cinematografica – lui dice ogni opera – è essa da sola la sua stessa realtà. Pensaci un secondo e dimmi cosa ti viene in mente. A me, la prima cosa che ha fatto venire in mente è stata la scena di Paris, Texas (film girato da Wim Wenders nel 1984 e ricordati questa data, è importante, poi ti dico perché) della conversazione nel peep-show tra Travis, interpretato da Harry Dean Stanton, e Jane, interpretata da Nastassja Kinski. Nel dubbio che tu non ce l’abbia in testa, e se non ce l’hai vuol dire che non hai visto il film, perché sequenze come quella non te le cancelli dalla memoria nemmeno se te la formattano, te la racconto. Dopo un vagabondaggio senza senso durato quattro anni, iniziato quando la moglie Jane e

il figlio Hunter lo hanno abbandonato a causa del suo alcolismo e della sua violenza, per un caso fortuito Travis ritrova il figlio, affidato dalla moglie alle cure del fratello dello stesso Travis. Riguadagnata la sua fiducia, Travis parte con lui alla ricerca di Jane. La ritroverà a Houston, dove lavora in un peep-show. Fingendosi un cliente e protetto dallo schermo che li divide, Travis le racconta, assumendosene la responsabilità, la storia del male che le ha fatto. Per riparare a tutto quel male la fa ricongiungere al figlio, senza volerla però incontrare. Poi riprende il suo insensato vagabondare. La sequenza nel peep-show, lunga quasi dieci minuti e scandita dalla lancinante chitarra slide di Ry Cooder, è quella che dà il senso a tutto il film. Separati dal vetro/specchio dietro cui lo spettatore Travis dovrebbe seguire l’esibizione erotica di Jane, i personaggi si scambiano i ruoli. Lo spettatore diventa colui che compie l’azione, narrare e disvelare la realtà, mentre colei che doveva essere l’interprete del desiderio dello spettatore diventa spettatrice, non di quel desiderio (Travis non desidera più nulla) ma dei motivi dell’assenza di desiderio. Chi ha parlato di metafora dell’incomunicabilità a proposito di questo

film, a mio avviso non ha capito nulla. Rinchiusi in un’inquadratura fissa, Travis e Jane sono due immagini speculari: lo specchio che li divide non è una metafora, è lo schermo del cinema. E al termine della sequenza, su quello schermo, non per un movimento di macchina, ma per il loro movimento, i volti di Travis e di Jane si sovrappongono. Il contatto è stabilito, le due immagini inizialmente opposte si fondono in una sola. Il cinema non parla d’altro che del cinema. La sua narrazione non è allegorica, non è un insieme di immagini che per acquistare significato debbano essere trans-codificate. Al di là delle immagini non c’è un significato da trovare e decodificare, al di là delle immagini c’è solo il deserto wendersiano. Quello che, in un saggio del 2002, Slavoj Žižek ha definito ‘il deserto del reale’. Per dirla quindi con le sue parole, il cinema non è un sistema concettuale, quanto piuttosto un sistema documentale del ‘tempo che noi siamo’. Dunque l’aspirazione di Lucas non è che una chimera, perché se un film non è che il tessuto delle proprie immagini, ed è da questo precipuo tessuto mediale che la nostra esperienza visuale prende avvio, ogni volta che si interviene su quelle immagini,

rimontandole, digitalizzandole, rifacendone gli effetti speciali per farli sembrare più reali, lo si trasforma in un altro film. E poi perché, quando guardiamo un film, quello che importa non è che gli effetti siano realizzati nel modo più realistico possibile, ma ciò che il nostro sguardo è stato educato, fino a quel momento, a riconoscere come realistico. Eccoci arrivati alla seconda questione. Lo sguardo.

GLI OCCHI CH’ERAN BAMBINI…

Guardare fa di noi ciò che siamo. Mark Cousins, Storia dello sguardo

Esattamente quarant’anni prima della presa della Bastiglia e duecentotrenta prima dell’uscita nelle sale di Alien, nel 1749 Denis Diderot dava alle stampe un breve pamphlet che gli costò l’accusa di ateismo e la condanna a tre mesi di carcere. L’originale libello si intitolava Lettera sui ciechi ad uso di coloro che ci vedono. Diderot, parlando del potere della visione, vi sviluppava la sua filosofia materialista e determinista. Da empirista qual era, convinto che tutta la nostra conoscenza derivi solo dai nostri sensi, in questo scritto sosteneva che il vedere non è una facoltà innata nell’uomo, ma una capacità che si impara e si sviluppa durante la nostra vita. Riprendendo questa teoria diderottiana, in una lettera indirizzata a Émile Bernard, Paul Cézanne sostiene che l’esperienza ottica è ciò che ci fa crescere e che contemporaneamente cresce con il nostro crescere. Il nostro sguardo

consiste in tutto ciò che abbiamo visto, come lo abbiamo visto e nella comprensione che ne abbiamo ricavato. Partendo proprio da questo punto Jacques Derrida, nel suo Memorie di cieco, non si accontenterà più della sola vista, ma sosterrà che lo sguardo è formato da un’interdipendenza, da un infinito rinvio tra la vista e il tatto. Non a caso guardare è stabilire un contatto. Il con-tatto degli occhi è per Derrida condizione necessaria e indispensabile perché ci sia lo sguardo e soprattutto perché si realizzi l’incontro con l’altro. Adesso mi era chiaro perché, pur non attribuendo statuto di realtà a ciò che in Alien rappresenta l’altro, lo xenomorfo, lo sguardo di mio figlio aveva colto la portata visiva di questo film al punto da convincersi, per la breve durata del film stesso, di voler diventare un regista. Perché ciò che veramente conta in Alien non sono gli effetti speciali o la precisione della realizzazione dei bozzetti di Hans Ruedi Giger, ma quella continua percezione dell’altro resa attraverso una frammentazione strutturale dei sensi. Libɾo rubαto aI sito eᴜrekαԃԃl, cercαci su google. Se ci pensi è lo stesso procedimento che, un anno prima, Coppola aveva applicato in quel capolavoro assoluto che

è Apocalypse Now. Distruggere la chiarezza dell’immagine per sollecitare gli altri sensi che concorrono al guardare, e creare quella percezione dell’orrore che, fosse vista in pienezza, ci condannerebbe a strapparci gli occhi come Edipo, lasciando Tebe (e il mondo) in preda alla guerra civile e alla pestilenza. E l’astronave Nostromo in preda allo xenomorfo. La regia di Scott invece frammenta il nostro sguardo in tutti i sensi che lo compongono, salvandoci dalla cecità e permettendoci, novelli Creonte, di dare una nuova legge (un senso per quello che ci si presenta) a Tebe. O meglio, novelli Ripley, di salvare la Nostromo.

ELEMENTI SPICCIOLI DI SURF-FILOSOFIA

(senza pretesa alcuna di esaustività)

MAREGGIATE

Il mondo funziona a cicli. Due volte ogni secolo l’Oceano ci ricorda quanto siamo veramente piccoli. Il personaggio di Bodhi nel film Point Break

Point Break, il penultimo film prima del declino ideologico di Kathryn Bigelow, è uscito nelle sale nel 1991. L’incredibile mareggiata di Bells Beach, sulla costa meridionale dell’Australia, davanti all’Oceano Antartico, su cui si chiude l’ultima bellissima sequenza del film è probabilmente quella del 1989. Il film l’avrai sicuramente visto, e quella sequenza ce l’hai di certo stampata nella memoria. Johnny Utah, lo sbirro interpretato da Keanu Reeves che si era infiltrato nella banda di surfisti rapinatori capeggiata da Bodhi (interpretato da un Patrick Swayze in stato di grazia), ci si ritrova faccia a faccia, appunto sulla spiaggia di Bells Beach. È la voce fuori campo di uno speaker radiofonico a darci queste coordinate geografiche (la sequenza in realtà fu girata a Indian Beach in Oregon, ma

questa è una curiosità irrilevante). Johnny, invece di arrestare Bodhi, lo lascia andare incontro alle onde con la sua tavola per una cavalcata che non prevede ritorno. Bodhi ha ragione. Anche se di mareggiate che ci riconducono alla nostra finitezza ce ne sono certo più di due per secolo, due sono quelle rilevanti per il discorso che sto facendo. Questa del 1989 in Australia e quella del 1974 a Malibù, in California. Una cosa che tendiamo a rimuovere, noi progressisti occidentali cresciuti con quelli che ci hanno fatto credere fossero i valori dell’Illuminismo, è che ogni struttura sociale, dalla ghenga di quartiere allo stato nazione, fonda la propria ragione di esistere su un atto di violenza, spesso su una guerra. Al pari di quella di Indipendenza e di quella di Secessione, la guerra del Vietnam è stata, con tutte le contraddizioni e i conflitti sociali cui ha dato origine, uno dei momenti fondativi di quella che è oggi la società degli Stati Uniti. E in buona misura del suo immaginario, quindi – dato che di quell’immaginario siamo una colonia – anche del nostro. È stata una guerra lunghissima. Durata ufficialmente vent’anni, dal 1955 al 1975, ha visto il massimo impegno militare degli Stati

Uniti tra il 1965 e il 1969. Se la leva obbligatoria era stata reintrodotta nel 1951, quindi molto prima della guerra del Vietnam, sarà proprio tra il 1965 e il 1969 che si intensificherà l’arruolamento di giovani civili per l’invio al fronte in Indocina. Matt, Jack e Leroy sono tre giovani amici californiani che, sotto l’attenta guida di Bear, vecchio ed esperto surfista, sviluppano proprio in quegli anni la passione per il surf. Se Matt e Leroy riusciranno a evitare, con vari stratagemmi, l’arruolamento e l’invio al fronte, Jack sarà invece mandato a combattere. Sì, esatto: è la trama di Un mercoledì da leoni, girato nel 1978 da John Milius. Anni dopo, quando gli Usa hanno ormai quasi completato il disimpegno militare nell’area, i tre amici si ritrovano per un’ultima grande sfida contro il mare. Saigon sarà liberata dalle forze nordvietnamite sotto il comando del generale Dung il 30 aprile 1975, ma già dall’anno precedente il presidente Ford, ereditando il piano da Nixon, aveva programmato e iniziato la progressiva evacuazione del Vietnam del Sud. Per questo Jack è stato congedato prima della fine ufficiale della guerra e, nell’estate del 1974,

è con i suoi vecchi amici sulla spiaggia di Malibù per affrontare sulla tavola da surf la grande mareggiata che sta arrivando. Mentre sfidano le onde, Bear, il loro vecchio mentore, li osserva dalla spiaggia. A un certo punto un ragazzo gli chiede: ‘E tu lo fai il surf? Ci sai fare tu?’ e lui risponde, come sorpreso e richiamato da un’altra realtà in cui era assorto: ‘Ah no, no… non c’è pericolo. Io… io sono l’uomo delle pulizie. Ci vediamo!’. C’è tutto il senso del film di Milius in questa frase. Lo spettatore, come il surfista e come l’attore, trova la propria soddisfazione nell’inquietante presenza del peggio che potrà capitare. Pensaci: in questa sequenza, dopo una mirabolante surfata nel tunnel dell’onda, Matt resterà ferito rischiando la vita. Come il surfista, anche lo spettatore, scivolando su un elemento tutto sommato indifferente alla sua vita (per il surfista è l’onda, per lo spettatore è la pellicola), desidera che quel momento non termini mai, ma a differenza del surfista lo spettatore può fare pulizia di ogni speranza (in fondo, da qualche parte ha sempre presente di essere seduto in una comoda poltrona e di non correre alcun rischio, quasi – per quanto molto rari, qualche attentato nei cinema c’è stato) godendosi lo spettacolo dell’imprevedibile,

dell’incognito e della tragedia. E, come fa presente Bear al ragazzino sulla spiaggia, salutandolo con quel ‘ci vediamo!’, lo spettatore ha il vantaggio (invidiabile o meno) di potersi rivedere infinite volte lo spettacolo che l’attore/surfista vive una volta sola. Il 1974, per quella che Frédéric Schi er ha definito la filosofia del surf, è un anno fondamentale, non solo per la mareggiata che colpì Malibù e che Milius immortalò nella sequenza finale di quel film imprescindibile, ma anche perché fu in quell’anno che uscì nelle sale (si fa per dire, non credo che all’inizio abbia avuto una distribuzione molto capillare, anche se oggi è considerato un cultmovie) un film senza il quale, probabilmente, non ci sarebbe stato nemmeno Alien: Dark star.

TAVOLE DA SURF

reason tatters, the forces tear loose from the axis searchlight casting, for faults in the clouds of delusion. Grateful Dead, Dark Star

Nei primi Anni Settanta Dan O’Bannon, giovane studente affascinato dalla cultura hippy, frequentava più le spiagge dei surfisti a ovest di Los Angeles che l’università cui era iscritto, la University of Southern California, primo ateneo negli Stati Uniti ad avere attivato un insegnamento di cinema. C’era anche un altro svogliato studente che vi si era trasferito, proprio per il corso di cinema, dall’Università del Kentucky. Anche lui più attratto dal fermento controculturale della West Coast, dal surf, dal sesso e dalle canne che dalle lezioni. Si chiamava John Carpenter. È probabile, ma questa è un’illazione tutta mia, che l’iscrizione all’università fosse più che altro un modo per evitare il servizio di leva e l’invio al fronte in Vietnam. Il fatto comunque è che il tempo lo passavano a fare surf, fumare

canne e a strafarsi di tutto l’acido disponibile, invece di frequentare i corsi. Diventeranno per questo ottimi amici e nessuno dei due conseguirà la laurea, anche se alcune biografie sostengono che Carpenter si sia laureato e che la sua tesi sia consistita proprio nella realizzazione di Dark star. Ad ogni modo, proprio nel 1974, partendo da quello che originariamente era un elaborato didattico, i due realizzano un film, Dark star appunto, a bassissimo budget (meno di 60.000 dollari) che cambierà la vita di entrambi. Per Carpenter è l’inizio di una carriera da regista tra le più interessanti degli Anni Ottanta e Novanta. Ma non è di lui che seguiremo le tracce. È il suo amico O’Bannon che ci interessa. Prima però due parole su Dark star devo spenderle. Come raccontano tutti gli articoli e i saggi a riguardo, a livello di trama questo film è, in buona misura, una rilettura/parodia di due film di Kubrik: Il dottor Stranamore (del 1964) e 2001: Odissea nello spazio (del 1968). Non è questo però il motivo del nostro interesse. Anzi, non è rilevante nemmeno che contenga già in nuce tutti gli elementi che caratterizzeranno il cinema di Carpenter. Ciò

che conta, per il discorso che sto facendo, è che si tratta di un film manifesto. La Dark Star è un’astronave che ha il compito di distruggere le stelle e i pianeti instabili, per mantenere l’ordine nell’universo. I quattro componenti dell’equipaggio ingannano il tempo con lunghi dialoghi filosofici che sconfinano nell’assurdo, accudendo uno strano alieno autostoppista che somiglia a un incrocio tra una zucca e un pallone da basket, e soprattutto facendo surf a gravità zero. L’astronave stessa assomiglia a una tavola da surf. La nave è carica di bombe, servono per distruggere le stelle instabili; ad un certo punto una bomba prende coscienza e decide di farsi esplodere. Esplodere è ciò che darà senso alla sua esistenza, e a nulla valgono i discorsi del comandante della nave per convincerla del contrario. La bomba decide di brillare. In sostanza, questo film è una specie di pamphlet di surf-filosofia. La surf-filosofia, come sostiene Franco Bolelli, non ha niente a che vedere con i polverosi testi di quegli autori paludati che vogliono spiegarti con parole incomprensibili come funziona l’esistenza. La surf-filosofia è una cosa spicciola, che ti insegna a diventare fluido, a non resistere allo

scorrere del mondo ma a cavalcarlo. A cercare di non farti male, restando in equilibrio sulla realtà. Citando Deleuze, è un insegnamento a ‘non fermarsi a interpretare’ nulla, ma a ‘tracciare sempre linee sulla corrente’. Come lo sguardo del personaggio nel dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, che osserva, dandoci le spalle, la strada che ancora ha da fare tra le rocce annegate in una densa foschia. Mark Cousins, nella sua Storia dello sguardo, dice che questo dipinto rappresenta perfettamente il nostro stato di osservatori, che è costituito da una percezione migliore di dove stiamo andando rispetto a quella di dove siamo. Schi er, nella filosofia del surf, sostiene che questa è l’esperienza che accomuna tutti i surfisti. Non credo sia casuale il meccanismo logico che, in Dark star, attraverso il dialogo tra l’equipaggio di hippy surfisti che vogliono convincerla a disinnescarsi e la bomba che invece sente come impellenza esistenziale il farsi esplodere, porta al finale esplosivo. Se lo scontro nasce dal contatto, la guerra deriva necessariamente dalla pace. Un paradosso dal quale non c’è scampo. La stessa cultura surf in quegli anni caratterizzò la protesta pacifista ma influenzò contemporaneamente l’estetica della guerra. Pensa per esempio all’indimenticabile

sequenza sulle rive del Mekong in Apocalypse Now (alla cui sceneggiatura, non a caso, lavorò John Milius, e che come Alien uscì nelle sale nel 1979), quando il colonnello Kilgore decide di fare surf sul delta del fiume per esibire quella che, secondo lui, era la superiorità estetica e filosofica degli americani rispetto ai vietcong. Pronunciando quella battuta programmatica che una volta sentita non dimentichi più: ‘Charlie don’t surf’. Programmatica, ma anche tanto sbagliata. Gli americani impareranno a loro spese che Charlie, come lo xenomorfo che sale sulla Nostromo – e come cantano i Clash nell’album Sandinista, nella bellissima omonima canzone – il surf lo sa fare, eccome.

AFTER ALL, TOMORROW IS ANOTHER DAY…

If today was not an endless highway If tonight was not a crooked trail If tomorrow wasn’t such a long time, Then lonesome would mean nothing to you at all. Bob Dylan, Tomorrow is a long time

Oltre a scrivere, con Carpenter, la sceneggiatura di Dark star e a interpretare uno dei quattro membri dell’equipaggio, Dan O’Bannon si era occupato anche della realizzazione della creatura aliena (un pallone da spiaggia arancione cui aveva appiccicato due zampe posticce), degli effetti speciali e aveva collaborato al montaggio. Il suo lavoro aveva colpito un altro ex-studente del corso di cinema della University of Southern California, che si era laureato nel 1969 e aveva fondato una casa di produzione nel 1971. Si chiamava Lucas, George Lucas, e aveva un progetto che avrebbe cambiato il cinema americano. Una saga fantascientifica per la

realizzazione della quale stava arruolando i migliori talenti in circolazione. O’Bannon commise probabilmente il più grande errore della sua vita e non accettò di essere coinvolto in Guerre stellari. Che fu uno sbaglio però lo sappiamo noi adesso, a posteriori. All’epoca O’Bannon si trovò a dover scegliere tra due proposte: quella di Lucas e quella di Jodorowsky, che gli aveva proposto di collaborare alla realizzazione di un film tratto dal romanzo Dune di Frank Herbert. Sulla carta era un progetto fortissimo: le musiche avrebbero dovuto comporle i Pink Floyd, reduci dal successo strepitoso di Dark Side of the Moon, tra gli attori avrebbero dovuto esserci Orson Welles e Salvador Dalì, le scenografie avrebbero dovuto essere realizzate da Moebius e Giger. È quindi comprensibile che O’Bannon abbia rifiutato il progetto di un giovane talentuoso che aveva all’attivo due soli film ( L’uomo che fuggì dal futuro e American graffiti), di cui il primo era praticamente la rielaborazione dell’esame di laurea, per accettare l’offerta visionaria di colui che era stato il più stretto collaboratore di un genio come Marcel Marceau e che aveva fatto tre film di cui due, El Topo e La montagna incantata, incensati dalla

critica cinematografica. Diciamo poi che il regista cileno già si atteggiava a sciamano, diffondeva pratiche psicomagiche e aveva un buon rapporto con le sostanze psicotrope, cosa che a un hippy surfista californiano non poteva che affascinare. Immagino poi che lo abbia allettato anche il fatto di dover raggiungere Jodorowsky e Moebius a Parigi. Moebius, pseudonimo di Jean Giraud, è stato uno dei più grandi autori del fumetto mondiale. Dopo aver creato, sulle pagine di Pilote e insieme a Jean-Michel Charlier, un personaggio come Blueberry (se non mastichi di fumetto, per farti un’idea ti basti sapere che in Francia Blueberry è famoso e amato come da noi Tex Willer), proprio sulla fine del ’74 dava vita, con un pugno di amici e colleghi quali Philippe Druillet e Jean-Pierre Dionnet, a una rivista tra le più seminali della storia del fumetto: Métal Hurlant, con la quale rivoluzionerà il concetto stesso di fumetto. La percezione di dove si doveva andare era, per questi surfisti del fumetto, assolutamente chiara. Solo per dimostrarti come, alle volte, sembra che il cerchio della vita si chiuda perfettamente come il tubo dell’onda ( barrel, lo chiamano i surfisti) in mezzo a cui

scivoliamo con la nostra tavola, devi sapere che nel 1988 Moebius disegnerà Parabola su testi di Stan Lee, una lunga storia di Silver Surfer, l’argenteo araldo che, cavalcando una tavola da surf, salva ripetutamente l’umanità dai pericoli provenienti dallo spazio profondo. In realtà non si chiude mai un bel niente. Non solo il progetto di Jodorowsky non si concluse, non partì neppure. Andiamo con ordine. O’Bannon arriva a Parigi nel 1975. Moebius lo descrive così: ‘barba lunga, abbigliamento trasandato, insomma il tipico californiano post-hippy’. Doveva occuparsi degli effetti speciali ma il progetto era solo agli inizi quindi non aveva niente da fare. Così, mentre Moebius realizzava bozzetti per le scenografie, lui vagabondava per Parigi, beveva e ammazzava il tempo disegnando. Moebius sostiene che disegnasse molto bene e che, se avesse voluto, sarebbe potuto diventare un disegnatore professionista e fare ottimi fumetti. Solo che non ne aveva voglia. Una sera, guardando quello che aveva fatto, Moebius si accorse che O’Bannon aveva realizzato uno storyboard perfetto per un fumetto: un racconto noir ambientato nel futuro, non una roba alla francese, un vero

hard-boiled. La storia era molto dura, potente e Moebius ne intuisce tutte le potenzialità grafiche. Ridisegnarla fu il passo successivo. The long tomorrow, questo il titolo delle sedici tavole che compongono la storia pubblicata sulle pagine di Métal Hurlant in quello stesso 1975, è un fumetto molto importante e un punto imprescindibile dello sviluppo teorico delle idee narrative di O’Bannon. È stata anche una storia che ha influenzato moltissimo l’immaginario di chi leggeva fumetti in quegli anni. Pensa, ad esempio, che nel 1996 Keith Flint, cantante dei Prodigy, nel video della canzone Firestarter indosserà un costume perfettamente ispirato a quello di Pete Club, il protagonista di The long tomorrow. Il riferimento dei Prodigy è molto chiaro: dopo l’ondata punk di vent’anni prima (era il 1976, ricordi? No, certo, eravamo troppo giovani per accorgerci dei Clash, dei Buzzcocks, dei Damned e dei Sex Pistols, ci arriveremo dopo, proprio grazie a gruppi come i Prodigy), e grazie al viatico di un gruppo seminale come i Joy Division (nota bene, Unknown Pleasure è anche lui del 1979!), la musica è diventata una specie di mutaforma, un’entità pericolosa, un attaccabrighe (questa è la giusta traduzione di ‘firestarter’ nel contesto

della canzone) che può diventare tutto quello che desideri: I’m the bitch you hated, filth infatuated, yeah I’m the pain you tasted, fell intoxicated I’m a firestarter, twisted firestarter. Per controllarla, occorre essere come Pete Club. Per questo Flint è vestito come lui. Ma com’è e cosa fa Pete Club? E perché sa tenere a bada un mutaforma? In una città multilivello, sprofondata nell’abisso da una parte ed elevata oltre le nuvole dall’altra, che ispirerà la Los Angeles del Blade Runner di Scott, si muove il detective privato Pete Club. Incaricato da una classica femme fatale, residente ai piani altissimi, di riportarle una valigetta da una cassetta del deposito bagagli alla stazione della metro del 199° livello, si dà subito da fare. La recupera ma quando la porta alla sua cliente la trova morta, assassinata in modo orribile. Il tenente Fly della Omicidi, intervenuto sul luogo del crimine, gli racconta che dalla casa della signora è stato rubato il cervello che doveva essere trapiantato al Maggiore (personaggio di

un altro delirante fumetto di Moebius, Il garage ermetico) e che i sospetti cadono su una spia arturiana. Pete Club, dopo essere scampato a un agguato per sottrargli la valigetta, ne scopre il contenuto: il cervello del Maggiore. Sta per chiamare la polizia quando compare la sua cliente, e nonostante la sorpresa il detective cade vittima del suo fascino. Mentre stanno facendo l’amore, il tenente Fly chiama Pete al telefono e lo avvisa che il cadavere era in realtà un androide e che lui era stato ingaggiato dalla spia arturiana, cioè da un alieno mutaforma. La sequenza successiva, l’ultima, è velocissima. Avvinghiata al membro di Pete Club, l’arturiana ha assunto la sua forma originaria e disgustosa e cerca di strangolarlo con dei lunghi tentacoli. Pete se ne libera scagliandola contro il muro e afferra la pistola. L’arturiana riassume le sembianze di donna bellissima e supplica il detective di risparmiarla, diventerà la sua schiava e assumerà qualsiasi forma lui vorrà per il suo piacere. Praticamente gli promette il paradiso del desiderio. Ma Pete sceglie l’inferno della realtà e le spara gridando: Demone dello Spazio! Tutto quello che O’Bannon guadagnò dalla sua trasferta a Parigi fu la pubblicazione di

questo fumetto, ma a pubblicare sulle pagine di Métal Hurlant non si diventava ricchi. Il protosantone Jodorowsky, che per sua stessa ammissione nemmeno aveva letto il romanzo di Herbert, non trovò i finanziamenti per cominciare le riprese, a Hollywood nessuno trovò credibile il suo progetto, o più probabilmente nessuno trovò credibile lui, visto che nel 1984 Dino de Laurentiis lo affidò a un giovanissimo David Lynch. Così O’Bannon se ne tornò a Los Angeles senza un soldo in tasca e senza un posto dove stare. Fu il suo amico ed ex compagno di corso alla UCLA Ronald Shusett a offrirgli quel che poteva, almeno per dormire: il divano di casa sua. È su questo divano, di nuovo tra alcol e canne, che i due matureranno l’idea di un ben altro demone dello spazio.

Andare a surfare su una grande onda è come andare a cacciare un Tyrannosaurus rex per pranzo. Jock Sutherland, campione di football americano tra il 1919 e il 1938

BREVISSIMA STORIA SOCIALE DELL’AUTOSTOP

MIA MADRE MI DICE SEMPRE DI NON FARLO…

If you give this man a ride Sweet memory will die Killer on the road, yeah. The Doors, Riders on the Storm Dopo avere dato il volto a due personaggi complessi, duri e indimenticabili come Roy Batty, il replicante di Blade Runner, e John Tanner, il giornalista televisivo di Osterman weekend (diretto nel 1983 da quel gigante ormai morente di Sam Peckinpah), Rutger Hauer sembrava essersi rilassato in ruoli fantasticosentimentali abbastanza stucchevoli e irrilevanti di filmetti come Ladyhawke e L’amore e il sangue. Per nostra fortuna, nel 1986 esce da questa sdolcinata impasse e interpreta John Ryder nel film The Hitcher di Robert Harmon. Ispirato alla canzone dei Doors, Riders on the Storm, il film racconta la follia omicida di un autostoppista che perseguita e uccide tutti quelli che gli danno un passaggio. È curioso notare che la carriera di Hauer era iniziata con Fiore di carne, diretto nel 1973 dal suo amico Paul Verhoeven, in cui si raccontava la

complessa vicenda di una coppia che si conosce proprio grazie a un autostop. L’autostop è uno dei grandi miti culturali americani. Nasce con la Grande Depressione, durante la quale era il modo obbligato per spostarsi per chi non aveva più un soldo, e trova subito il suo cantore in Steinbeck, che in Furore fa vagabondare Tom Joad con l’autostop, mentre Frank Capra ne stabilisce le coordinate estetiche in quel capolavoro assoluto che è Accadde una notte. Tra gli Anni Cinquanta e Sessanta diventa un’esperienza esistenziale con la Beat Generation, raccontata da Jack Kerouac e cantata da Janis Joplin. Nel 1951, Che Guevara e Alberto Granado attraversano l’America Latina e quando gli si fonde la motocicletta continuano in autostop. Non c’è alcun dubbio: per almeno mezzo secolo l’autostop ha avuto, nell’immaginario delle giovani generazioni – quelle che, se non vogliono cambiarlo, almeno vogliono conoscere il mondo – valore di momento iniziatico, di esperienza del mondo e dell’altro, di crescita e autoconsapevolezza. Costa fatica, ha anche i suoi pericoli, ma è un momento vitale, assolutamente positivo. Esiste (almeno, io solo questa ho trovato) una sola storia sociale dell’autostop, pubblicata su una rivista

accademica nel 1958 da John T. Schlebecker, professore di Storia economica allo Iowa State College. Ma c’è un divertentissimo, delirante romanzo fiume di Tom Robbins, pubblicato nel 1976 e intitolato Il nuovo sesso: Cowgirls – portato sullo schermo nel ’93 da Gus Van Sant con una splendida Uma Thurman nel ruolo della protagonista – che forse, a proposito dell’autostop, vale cento libri di storia sociale. Sissy Hankshaw nasce negli Anni Cinquanta in una poverissima famiglia della provincia rurale americana, è bianca, bionda, alta e molto bella. Ma ha un difetto congenito: due pollici giganteschi. Questo fa di lei una diversa e nel posto dove vive ciò significa scherno e la più avvilente discriminazione. Ma Sissy non è una tipa che si piega. Risponde a ogni presa in giro e manda a quel paese gli assistenti sociali che vorrebbero normalizzarla. Appena è abbastanza grande sceglie quella che da sempre sa essere la sua strada: diventare l’autostoppista più famosa d’America. Così, grazie alla magia dei suoi due enormi pollici che ne fanno un’autostoppista irresistibile, gira il paese in lungo e in largo per dieci anni. Da qui il romanzo va avanti in un crescendo di delirio e divertimento, introducendo di

continuo personaggi irresistibili e bellissimi. Ma non è questo il luogo per intrattenerci sulla grandezza di uno scrittore come Tom Robbins e poi, se ancora non l’hai fatto, non voglio togliere niente al piacere che proverai leggendolo. Torniamo a noi e all’autostop. Trafugαto al blog mαrapcαna, ci trovi in rete. Quello che il libro di Robbins, capolavoro della controcultura, ci riassume è che l’autostop è la metafora della lotta continua e incessante che dobbiamo affrontare per affermare la nostra identità. Allora perché, nel giro di un decennio – il romanzo di Robbins è del 1976 e il film di Harmon del 1986 – la percezione della natura dell’autostop cambia così radicalmente? Perché da affermazione della propria vitalità, pur attraverso mille difficoltà, diventa simbolo della lotta per la sopravvivenza? Perché negli Anni Settanta Sissy Hankshaw entrava in contatto con il mondo grazie ai suoi pollici e all’autostop, e invece negli Anni Ottanta Jim Halsey vede la propria vita messa a repentaglio proprio per aver tirato su, contravvenendo a una raccomandazione della mamma, un autostoppista? Perché, come ho cercato di spiegare nel primo capitolo, gli Anni Ottanta cominciano nel 1979, con l’uscita di Alien.

Adesso non chiedermi cosa c’entra il film di Ridley Scott con l’autostop, ci arrivo subito. O quasi.

VANTAGGI E SVANTAGGI DELL’AUTOSTOP

Una delle più grandi seccature dell’autostop è il dover parlare con innumerevoli persone, dar loro la sensazione che non hanno fatto un errore a prenderti su. Jack Kerouac, Sulla strada

Non so se il fatto che i Pink Floyd avrebbero dovuto comporre la colonna sonora del film ispirato a Dune fosse solo una fantasia (tra le altre) di Jodorowsky, nata perché, pochi anni prima, avevano già partecipato alla colonna sonora di Zabriskie Point di Antonioni, o se ci fosse stato un contatto e il gruppo avesse dato il suo ok. Comunque, nell’arco di tempo in cui il progetto va a monte e O’Bannon si ritrova a dormire sul divano dell’amico Shusett, i Pink Floyd pubblicano due album ( Wish You Were Here e Animals) e iniziano un tour memorabile, In the Flesh Tour. È un periodo complesso per il gruppo. L’influenza di Roger Waters diventa sempre più forte, fino a sfociare in una vera e propria

dittatura. Nel 1978 il bassista ha ormai il pieno e totale controllo artistico della produzione dei Pink Floyd ed è in questo momento che propone a Gilmour, Mason e Wright due demo che ha scritto e composto tutto da solo per il nuovo album in studio. Uno è The Wall e l’altro è The Pros and Cons of Hitch Hicking. Gli altri membri del gruppo sceglieranno The Wall, che uscirà nel 1979 (te l’ho detto che è un anno discriminante) e sarà un incredibile successo di vendite. Pros and Cons Waters lo realizzerà come solista nel 1984, poco prima di lasciare definitivamente i Pink Floyd. Il disco è un concept album e racconta il sogno erotico di Reg, un uomo di mezza età, di avere un rapporto sessuale con una giovane autostoppista bionda, incarnata già sulla copertina da Linzi Drew, giovanissima pornoattrice (che aveva avuto il suo momento di gloria nel 1981 con una particina in Un lupo mannaro americano a Londra di Landis) ritratta nuda di schiena con uno zainetto rosso mentre fa l’autostop. Non c’entra niente, ma io – lo ammetto – il disco lo comprai solo per la copertina. Nel delirio onirico-erotico di Waters, i vantaggi sono rappresentati dall’esperienza erotica che può nascere dal far

salire in auto una persona sconosciuta che sta aspettando che passi qualcuno. Come puoi vedere, quella che negli Anni Settanta era l’esperienza conoscitiva dell’autostop si è ridotta solo a un’esperienza fisica, con il rischio di incappare negli svantaggi dell’autostop, cioè essere abbandonati e restare soli. Reg, nel suo sogno malato, mentre ha preso a bordo l’autostoppista viaggia con la famiglia, moglie e figli, che a un certo punto lo abbandonerà, come lo abbandonerà la ragazza dell’autostop. Se per Kerouac fare l’autostop era quasi un obbligo di condivisione e di apertura verso l’altro, faticoso alle volte, per Waters è un momento solitario, di chiusura autoerotica. Prossimo all’annientamento. Due anni dopo, in The Hitcher non ci sarà neanche più l’esperienza erotica, per quanto solitaria, resterà solo l’annientamento. A metà degli Anni Ottanta, l’autostop è diventato una cosa di cui avere paura. È precisamente qui che abbiamo cominciato a costruire muri. All’epoca erano metaforici, stavano lì nell’immaginario. Ma l’immaginario, se, come vedremo a proposito della natura dello xenomorfo, non può prescindere dalla realtà che conosciamo, a sua volta influisce e

conforma il reale a sé. Oggi quei muri sono diventati veri. Il momento in cui è cominciato questo radicale cambiamento di paradigma culturale ce lo ha mostrato Ridley Scott quando, contravvenendo al protocollo e alla decisione del tenente Ripley, come Jim Halsey contravverrà alla raccomandazione di sua mamma, Ash fa salire a bordo della Nostromo un passeggero alieno. Ash, l’ufficiale medico, ha i suoi ‘buoni’ motivi per decidere di dare un passaggio all’essere sconosciuto, ma è in questo preciso momento, attraverso quello che possiamo definire il contatto con l’autostoppista xenomorfo, che la nostra paura comincia a diffondersi e il paradigma a cambiare. E dove arriva la paura, trionfano l’isolamento e la solitudine. In Danse Macabre, Stephen King sostiene che Alien non sia un film di fantascienza ma un horror, in cui gli autori hanno riattualizzato le tematiche del genere sull’autostop che andavano di moda negli Anni Cinquanta. In parte è vero, ma Alien è molto di più. Hai presente la battuta con cui si chiude?

«Rapporto finale del veicolo spaziale Nostromo, da parte del terzo ufficiale. Gli altri componenti dell’equipaggio Kane, Lambert, Parker, Brett, Ash e il comandante Dallas sono morti. Carico e nave sono distrutti. Dovrei giungere alla frontiera tra sei settimane. Se sono fortunata la sorveglianza mi porterà in salvo. Qui è Ripley, unica superstite della Nostromo. Passo e chiudo». Unica superstite. Il risultato di avere cercato il contatto con ciò che non si conosce è questo: rimanere soli. E tutto, direbbe King, per avere tirato su un dannato autostoppista. Però, quello che non mi convince quando King liquida Alien come un film horror sull’autostop (come invece assolutamente è, ad esempio, The Hitcher) è che in realtà Ellen Ripley non è rimasta sola, è in compagnia di un gatto. E questo, come vedremo, significa un sacco di cose.

LA LUNA DI ZETA II RETICULI È UNA SEVERA MAESTRA

TRE SUL DIVANO: DAN, RON E XENO

Sono convinto – ma forse è un pregiudizio da parte mia – che un divano riveli molto del suo proprietario. Haruki Murakami, La fine del mondo e il paese delle meraviglie

Tutti presi a fare autostop intergalattico, avevamo lasciato Dan O’Bannon dall’amico Ron Shusett, senza un soldo in tasca e con il problema di sbarcare il lunario. Mentre è lì, svaccato sul divano ad arrovellarsi su cosa fare, mangia hot-dog (riempiendo di briciole e ditate di senape il divano) e legge racconti dell’orrore. Adesso non tirare conclusioni affrettate: anche se l’idea da cui prenderà vita il film è stata ispirata da un racconto horror, Alien non è un film horror. A parte il fatto che il racconto non è quello che diranno poi i due amici, ma questo lo vediamo tra poco, non ha importanza se King dice che è un film dell’orrore. King è un grande scrittore ma di film non ne capisce notoriamente niente. Alien

non è un film di paura, è un grande film sulla paura. Ti ho già dimostrato che non fa paura, e sarebbe un ben misero film se il suo compito fosse questo. No, Alien fa un’altra cosa: ci racconta com’è costruita e di cosa è fatta la nostra paura. Raccontano Dan e Ron – ma il racconto ha un po’ il sapore di una ricostruzione a posteriori – che avevano questa idea per un bmovie che gli ronzava in testa almeno dal 1972, nata appunto da un racconto dell’orrore, per la precisione Il colore venuto dallo spazio di Lovecra . Ora, a parte che a me Lovecra non suscita alcun orrore ma tanta noia (sono consapevole che si tratta di un giudizio personale, non intendo dargli alcun valore critico), ho il sospetto che questa loro testimonianza sia stata portata successivamente per dimostrare, dopo che per la realizzazione del mostro furono scelte delle illustrazioni di Giger, quelle sì lovecra iane, che certi temi erano già presenti nell’idea originaria. In realtà quel racconto con Alien non c’entra niente; è un’altra la fonte di ispirazione della storia scritta da O’Bannon e Shusett. Un film inglese del 1955, di quelli prodotti dalla Hammer, che avevano grande successo nei drive-in e influenzavano

l’immaginario dei giovani americani, tra cui sicuramente ci saranno stati anche Dan e Ron: L’astronave atomica del dottor Quatermass. Il dottor Bernard Quatermass è un personaggio inventato da Nigel Kneale per la televisione britannica nel 1953. Brillante scienziato, Quatermass lavora per il governo inglese salvando il mondo da pericoli di ogni genere, in particolare da minacce provenienti dallo spazio. Dato che la serie televisiva ebbe un notevole successo, ne furono realizzati anche quattro film per il cinema dalla casa di produzione Hammer, specializzata in film horror e di fantascienza a basso budget. Il film narra del ritorno di un’astronave che era stata mandata nello spazio con tre astronauti. Dei tre, ne viene ritrovato uno solo, catatonico. Le immagini delle telecamere interne mostrano che i due scomparsi non hanno mai lasciato il mezzo. Hanno preso a bordo una specie di autostoppista galattico che li ha letteralmente consumati e che adesso si è impadronito del corpo del terzo. Questi, risvegliatosi dal coma, riesce a fuggire dal laboratorio dove era trattenuto e, trasformandosi nel mostro che lo sta possedendo, seminerà morte e distruzione per

Londra. Sarà quindi compito del dottor Quatermass trovarlo e neutralizzarlo. L’idea di base – un essere spaziale preso a bordo di un’astronave che comincia a uccidere l’equipaggio – è innegabilmente la stessa che O’Bannon e Shusett sviluppano nella loro sceneggiatura. Sono anche convinto che per alcune scelte, non tanto di trama quanto di atmosfere e suggestioni, O’Bannon sia stato influenzato da una lettura giovanile di Heinlein. Robert Anson Heinlein, che considero uno dei più grandi, se non il più grande scrittore di fantascienza, ha scritto anche un sacco di romanzi per adolescenti. Tra questi, nel 1954, la storia di un essere spaziale che si rivela diverso da quello che si è sempre creduto fosse (è questa, secondo me, la suggestione che O’Bannon riporterà in Alien) intitolata The star beast (tradotta in italiano nel 1959 con il titolo Il cucciolo spaziale). Star beast era anche il titolo provvisorio dato da O’Bannon alla sceneggiatura di Alien. Comunque, per quante e quali siano le storie ispiratrici – sicuramente anche due film come Il mostro dell’astronave diretto nel 1958 da Edward L. Cahn (conosciuto soprattutto per essere stato tra i registi della serie Simpatiche

canaglie, fonte certa d’ispirazione per Piccoli gangster, primo film di Alan Parker e pungolo che convinse Ridley Scott a passare alla regia cinematografica) e lo sconclusionato Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava – di quello che i due amici stanno scrivendo, ci sono due scene assolutamente originali che Shusett sostiene di aver convinto O’Bannon a inserire nella sceneggiatura dopo aver letto la trentina di pagine che Dan aveva buttato giù sul divano di casa sua. ‘Dan, che ne dici se a un certo punto il mostro si scopa uno dell’equipaggio… che ne so, magari gli salta sulla faccia, gli infila un tubo in bocca, gli introduce del seme e dopo un po’ gli salta fuori dallo stomaco?’ Testuali parole di Shusett; se non mi credi puoi ascoltarle nel documentario The beast within: The making of Alien, contenuto extra dell’edizione in DVD del 2003. O’Bannon è entusiasta di questa idea. In tre settimane e altrettante stesure hanno la sceneggiatura completa, con le due scene di facehugger e chestbuster al posto giusto; hanno cambiato il titolo da Star beast ad Alien e sono pronti a proporla a qualche casa di produzione indipendente specializzata in b-movie a basso costo.

Così bussano alla New World Pictures di Roger Corman, irriducibile regista e produttore indie fuori dal sistema degli studios hollywoodiani, che in quel periodo – tra l’altro – stava producendo Piraña, film che lancerà Joe Dante nella serie dei registi imprescindibili. Sembra che a Corman, o al suo braccio destro Bob Remy, la sceneggiatura fosse piaciuta molto, ma – vai a sapere perché – non si arrivò mai alla firma di un contratto. Comunque il copione cominciò a girare e arrivò nelle mani di Walter Hill che era in ottimi rapporti con Alan Ladd, capo della 20th Century Fox. Gli sottopose lo scritto e gli disse, più o meno: ‘È una cazzata, ma ci sono due scene incredibili! Ci mettiamo le mani io e David (si trattava di David Giler, socio di Hill nella Brandywine Productions) e vedrai che roba ne viene fuori’. Non voglio entrare nell’eterna questione delle attribuzioni e dei crediti della storia e della sceneggiatura di un film. Fu tirato in ballo anche l’arbitrato del sindacato sceneggiatori. Certo è che i contributi e le modifiche di Hill alla sceneggiatura originale non furono irrilevanti, basti pensare che il protagonista, nell’originale di O’Bannon, era un maschio di nome Roby. Ellen Ripley, come il gatto Jones,

sono idee di Walter Hill. Qualcuno sostiene che Ripley fu suggerita a Hill da Alan Ladd, che voleva bissare il successo di Star wars e pensava che un film con una specie di principessa Leia Organa come protagonista avrebbe sfondato al botteghino. Per nostra fortuna, la Ellen Ripley abbozzata da Hill e poi realizzata da Scott e dalla sua interprete Sigourney Weaver non ha niente o quasi a che vedere con la principessa Leia, con tutto il bene che le vogliamo. Insomma, grazie all’entusiasmo di Hill, Ladd si convinse e comprò i diritti della sceneggiatura. Ora restavano due cose da fare, prima di cominciare con il casting e le riprese: decidere il regista e l’aspetto dell’alieno. Già, perché nessuno aveva la minima idea di che aspetto avesse questa presenza seduta sul divano di Shusett insieme a O’Bannon.

L’UTILITÀ DELL’INVIDIA E LA RELATIVITÀ DELLO SGUARDO

Fino a quel momento era tutto molto astratto… Ridley Scott, in un articolo per American Cinematographer a proposito della situazione prima del suo incarico come regista di Alien

‘Quanto vale Gerusalemme?’, chiede Baliano di Ibelin a Saladino, mentre gli consegna la resa della Città Santa dopo la grandiosa battaglia vinta dai musulmani. Il condottiero musulmano, facendo un vago gesto con la mano, gli risponde secco: ‘Niente!’. Ma poi, mentre si avvia verso la città che i cristiani hanno ormai evacuato, si gira e guardando dritto in macchina, sfidando lo sguardo dello spettatore, aggiunge: ‘Tutto!’. In questo scambio di battute e di sguardi tra Orlando Bloom (che interpreta Baliano) e Ghassan Massoud (che interpreta Saladino) nella penultima sequenza di Le crociate, c’è riassunta l’idea di cinema di Ridley Scott. È lo

sguardo che stabilisce, in ogni dato momento, il valore di ciò che stiamo guardando. In un film è il modo in cui il regista conduce lo sguardo dello spettatore al contatto con l’oggetto narrato che ne costruisce il senso e il valore. Mi sento di dire meno male, quindi, che i capoccioni della Fox si rifiutarono di affidare la regia di Alien a Dan O’Bannon, convintissimo di dirigerlo lui, per chiamare dietro la macchina da presa Ridley Scott. Non ci arrivarono subito, ma ci arrivarono. Avevano escluso subito O’Bannon perché un film che volevano bissasse il successo di Star wars non poteva assolutamente essere girato da uno alla sua prima regia. Per questo avevano puntato su Walter Hill, che aveva rifiutato perché, pur avendo trovato di sicuro successo la storia, non si trovava a suo agio con la fantascienza; e buon per noi perché in quello stesso 1979 in cui uscirà Alien, Hill ci darà un gioiello come I guerrieri della notte. In sequenza, rifiutarono o non trovarono un accordo con la produzione per i più diversi motivi: Robert Aldrich, Peter Yates e Jack Clayton. E meno male di nuovo. Erano tutti registi con uno sguardo troppo classico, senza particolari intuizioni di regia, e avrebbero tirato fuori da quella sceneggiatura

un banalissimo film di fantascienza Anni Sessanta. Fu David Giler, il socio di Hill, a risolvere la questione. A maggio – è passato un po’ di tempo da quando O’Bannon è tornato da Parigi e ormai siamo nell’autunno del 1977 – era stato al Festival di Cannes ed era rimasto molto impressionato dal film che aveva vinto il premio come miglior opera prima, di un esordiente inglese, un certo Ridley Scott. Il film era I duellanti. Lo fece vedere a Hill e Ladd e i due si convinsero che Scott era l’uomo giusto per dirigere Alien. Quando glielo proposero, Scott accettò senza indugio. Nato a South Shields, nell’Inghilterra nordorientale, il 30 novembre 1937, quando gli offrono di girare Alien Ridley Scott ha quarant’anni. Dopo essersi diplomato in scenografia e fotografia al Royal College of Art di Londra, comincia a lavorare per la BBC ma all’inizio degli Anni Settanta lascia la tv per fondare, con il fratello Tony e gli amici Alan Parker e Hugh Hudson, una compagnia pubblicitaria specializzata in spot televisivi. Sarà una sanissima invidia, come lui stesso ammette, per l’amico Alan Parker, che nel ’76 dirige Piccoli gangster, a fargli venire voglia di misurarsi con la regia cinematografica.

‘Quando ho saputo che Alan stava girando un vero film sono stato davvero male e non ho dormito per una settimana.’ Così compra, di tasca sua, i diritti de Il duello: racconto militare di Joseph Conrad; convince David Puttnam, che ha appena fondato la Enigma film con i soldi realizzati grazie ai Piccoli gangster di Parker, a finanziargli il film e a farlo distribuire dalla Paramount. Così, nel 1977 presenta a Cannes I duellanti, interpretato da Keith Carradine e Harvey Keitel. Si sono spesi fiumi d’inchiostro su questo film, da ardite letture psicanalitiche a banalità che lo hanno rubricato come trattato sull’innata aggressività della natura umana. In realtà I duellanti è, come il Barry Lindon kubrikiano con cui si misura direttamente, un film sullo sguardo, sul fatto che la nostra percezione visiva ci fa costruire congetture più interessanti sul dove stiamo andando piuttosto che sul dove siamo: è per questo che il duello viene continuamente rimandato. Nella sequenza finale, la sagoma di Feraud si erge livida contro lo spettacolo indifferente della Natura e allo sguardo, finalmente indifferente, di D’Hubert che lo ha dichiarato morto senza ucciderlo. Torna alla mente il quadro di Friedrich, ricordi?, Viandante davanti a un mare di nebbia, è

il nostro sforzo di cercare un contatto impossibile con il momento attuale e la nostra condanna a doverci eternamente scivolare sopra come surfisti dell’esistenza. Il tutto e niente della risposta di Saladino al crociato, sconfitto dal proprio ragionare per assoluti. Non c’è nulla di più relativo della visione. Ti anticipo una cosa che riguarda il gatto Jones: è nel momento preciso in cui capisce questa cosa – che Saladino pronuncerà circa ventisei anni dopo – che Ellen Ripley riesce a sconfiggere lo xenomorfo. Non so se fu questo a convincere Alan Ladd, l’importante è che abbia scelto Scott per dirigere il film. In realtà Scott stava già lavorando a un nuovo progetto, un film su Tristano e Isotta; ma quando gli capitò di vedere Guerre stellari, nell’estate del ’77, gli montò un’altra sana invidia che gli fece cambiare idea: la fantascienza era la sua strada. Lui stesso racconta di essere tornato altre due volte a vedere il film e di aver continuato a pensare: ‘Vaffanculo, Lucas!’. Poi, in autunno, il lato oscuro della forza che prende nutrimento dall’invidia diede a Scott la sua occasione: la telefonata di David Giler.

SOTTO UN CIELO DI METALLO URLANTE

Non c’è alcuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, delle finestre per guardare gli alberi e un camino per il fumo: si può benissimo immaginare una storia in forma di elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino. Moebius, 1976

Il cielo della notte abissina, se non ci sei mai stato sotto, non te lo puoi nemmeno immaginare la bellezza che è. Sembra incastonato di diamanti. È sotto questo cielo che, la sera del 24 novembre 1974, i due paleontografi Donald Johanson e Tom Gray, dopo aver lavorato instancabilmente dalle prime luci del mattino nel sito fossile di Hadar, contemplano il risultato del loro lavoro: il biancore delle ossa dell’ Australopithecus afarensis che verrà chiamato Lucy e che cambierà la storia delle nostre origini.

Racconta Pamela Alderman, altro membro della spedizione archeologica, che in quei giorni Radio Addis Abeba trasmetteva spesso Lucy in the Sky with Diamonds. Così, quando pensano al nome da dare all’antica proprietaria di quelle ossa, non trovano di meglio che il ritornello della canzone. D’altra parte, come canterà due anni dopo Patti Smith nella bellissima Radio Ethiopia, in quei luoghi l’acido lisergico sta nell’aria che si respira. Non è sotto lo stesso cielo – adesso siamo a Parigi che, come ci ha insegnato Julien Duvivier, nello stesso periodo non è luccicante di diamanti quanto grave di metallo urlante – ma strafatti dello stesso acido, sempre nel 1974, in quegli stessi giorni, che Jean-Pierre Dionnet, Philippe Druillet, Moebius e Bernard Farkas danno vita a una rivista che cambierà la storia del nostro futuro. Erano tutti a Pilote, tranne Farkas che lavorava nell’amministrazione dell’editore Nathan. Si stava bene a Pilote, ma c’erano dei limiti che li facevano sentire un po’ stretti. Non potevano esprimere le loro follie visionarie, tentare strade per andare oltre. E siccome erano giovani pazzi e sempre strafatti, se ne vanno a mettere su un nuovo giornale. Si installano nella libreria Futuropolis dei coniugi Robial, che gli disegnano il logo, e a gennaio

1975 fanno uscire il primo numero della rivista che cambierà ogni idea precedente di fumetto: Métal Hurlant. Non sono una vera casa editrice, anche se hanno dovuto fondare una società per poter editare la rivista: Les Humanoïdes Associés in realtà è un gruppo rock. Litigano, si separano, si riuniscono, bevono, fumano di tutto, fanno sesso. Una specie di comune. Non c’è una vera contabilità, tutti mettono le mani nella cassa e Dionnet fa di tutto, più di tutto, per tenere insieme il gruppo. Il successo è lì alle porte, basta tenere duro. Se oggi il fumetto si è liberato dalla tirannia dei formati, e ci godiamo ben altro che le storie a forma di elefante, lo dobbiamo a questo pugno di scoppiati che si sono praticamente autoprodotti una rivista che ha lasciato le stesse fondamentali tracce dei fossili dei nostri progenitori. Un set de I duellanti fu girato in Dordogna, Francia sud-occidentale. Mentre si trovava in stazione a Sarlat-la-Canéda, Ridley Scott comprò un numero di Métal Hurlant nel chiosco vicino alla biglietteria. Rimase folgorato da una storia disegnata da Moebius e scritta da Dan O’Bannon, quella The long tomorrow di cui già ti ho raccontato. Questa

lettura influenzerà la sua visione del futuro, tanto da ricostruire la Los Angeles di Blade Runner sulle architetture moebiusiane, e da volere Moebius come consulente per le tute spaziali dell’equipaggio della Nostromo. Ma soprattutto tanto da fargli condividere le idee di O’Bannon per la realizzazione dello xenomorfo.

TERATOGENESI DELL’ALIENO

Wow, sembra un cazzo gigante! Sigourney Weaver sul numero del dicembre 1997 di Empire, sulla prima volta che vide lo xenomorfo progettato da Giger.

Tu no, che se stai leggendo queste pagine a caratterizzarti è sicuramente la curiosità intellettuale, e quindi l’avrai letto per i fatti tuoi; ma la maggior parte degli italiani alfabetizzati il primo e unico incontro con il Don Chisciotte di Cervantes l’hanno avuto alla scuola media. Purtroppo, quello che gli avranno spiegato, raccontandogli l’unico episodio che gli sarà stato fatto leggere, quello dei mulini a vento, è che in quest’opera Cervantes persegue l’intento di smontare i meccanismi di tutte le ridicole saghe in cui eroi di lignaggio semidivino salvano l’umanità da creature demoniache sputate fuori dall’inferno. Vero niente. Certo, Cervantes smonta tutta l’epica classica, ma perché è consapevole che ai

suoi tempi, che lui viveva come la modernità ovviamente, continuare a raccontarla secondo i canoni classici era un’operazione un po’ ridicola. Ma non lo fa per buttar via l’epica, bensì per farla entrare (con un’operazione che anticipa il postmodernismo di oltre tre secoli e mezzo) nella contemporaneità. La sua. Se c’era una cosa di cui Cervantes era convinto, è che avesse ragione Don Chisciotte e che dei mulini a vento, di lì a qualche tempo, non si sarebbe interessato che qualche nostalgico di vecchie tecnologie, mentre i giganti, magari sotto altra forma e aspetto, avrebbero ancora calcato le lande della narrativa e terrorizzato l’umanità fino ai nostri giorni. E così è stato. Mai c’è stata prima, infatti, una quantità tale di storie, saghe e serie, dai film Marvel a Stranger Things passando per Il trono di spade, in cui eroi tra i più diversi e disparati affrontano e sconfiggono creature gigantesche, mostruose, crudeli o indifferenti. Alien è una di queste creature, e Ridley Scott era convinto che attorno al suo aspetto si giocasse l’esito del film. Come sostiene Stephen King, sempre in Danse Macabre, anche Scott pensava che lo spettatore dopo un po’ si stanca dei trucchetti retorici per creare tensione e qualcosa devi pur fargliela vedere.

Persino Lovecra , che di retorica abusava, alla fine te lo deve mostrare cosa si nasconde nella cripta, sottoterra o nello spazio. Il problema era cosa far vedere. Il merito di aver capito che forma dovesse avere l’alieno per non fare la fine dei mulini a vento di Cervantes va in buona misura a O’Bannon. Quando era stato a Parigi, alla corte di Jodorowsky, aveva conosciuto l’artista svizzero Hans Ruedi Giger. Sofferente di parasonnia, Giger aveva incubi terrificanti, lunghi e ricorrenti e li sublimava attraverso il disegno, con il quale dava vita alle creature maligne che li affollavano. Nel 1977 raccolse tutto in un volume intitolato Necronomicon, in omaggio a Lovecra , suo riferimento letterario insieme a Poe. O’Bannon mostrò il libro a Ridley Scott, che rimase colpito da un disegno in particolare: il Necronom IV. Se il titolo ha un’evidente suggestione lovecra iana, in realtà, più che alle invenzioni dello squinternato di Providence, questa illustrazione dello xenomorfo è ispirata a un famoso schizzo di Dalì del 1972, intitolato Nefertiti, nel quale sono presenti tutti gli elementi, dal cranio allungato in forma fallica alla coda, che Giger realizzerà con estremo realismo nel suo disegno.

La lunga e faticosa costruzione del mostro; gli artifici meccanici approntati da Rambaldi per fargli muovere la lingua e la coda; il fortuito ingaggio di Bolaji Badejo, altissimo e sottilissimo studente nigeriano a Londra, per indossarne il costume; il difficile rapporto di Giger con la produzione: sono tutte storie bellissime e molto interessanti ma irrilevanti al fine dell’indagine fenomenologica che mi interessa condurre in questa sede sullo xenomorfo.

FENOMENOLOGIA DELLO XENOMORFO

Non conosco nessuno che abbia così accuratamente ritratto l’umanità contemporanea. Oliver Stone a proposito di H.R. Giger

Una cosa che Carl Sagan aveva perfettamente capito e che racconterà nel romanzo Contact, pubblicato nel 1985 e da cui Zemeckis nel 1996 trarrà un film, secondo me, discutibilissimo (nonostante l’intensa interpretazione di Jodie Foster), è che per noi esseri umani non è possibile concepire una vita aliena. Non abbiamo elementi di paragone perché l’unica forma di vita che conosciamo è la nostra, determinata da una natura darwiniana, e di conseguenza non riusciamo a rappresentare gli alieni se non secondo le basi chimiche e biologiche che determinano l’esistenza sulla Terra. Nel romanzo e nel film Contact, gli alieni si manifestano all’astronoma Ellie Arroway attraverso la manipolazione dei suoi ricordi, per renderle accettabile ciò che altrimenti le sarebbe incomprensibile. Soluzione che Sagan

probabilmente aveva mutuato dal bellissimo Solaris di Stanislaw Lem (pubblicato nel 1961), in cui l’autore raccontava la presenza di alieni irriducibili a nozioni, idee o immagini umane, sotto forma dei ricordi dell’equipaggio della stazione spaziale in orbita attorno al pianeta Solaris. Se nel romanzo di Sagan il contatto avviene in un luogo indefinito, un sistema stellare non specificato raggiunto dall’astronoma seguendo le istruzioni del segnale captato da quello stesso sistema stellare, nel romanzo di Lem Solaris è un pianeta inesistente la cui posizione nell’universo è inventata dall’autore. Zeta II Reticuli, il pianeta sulla cui luna avviene il contatto tra l’equipaggio della Nostromo e il facehugger dal quale nascerà lo xenomorfo, invece esiste. È il secondo pianeta di un sistema stellare binario che si trova a 39,2 anni luce dalla Terra, nella costellazione australe del Reticolo. Se per caso ti trovassi nell’emisfero australe tra novembre e aprile, in una notte di cielo limpido e senza luna potresti riuscire a vederlo a occhio nudo. Inquietante, vero? L’ufologa Marjorie Fish, basandosi sul racconto sotto ipnosi di due coniugi del New Hampshire, Barney e Betty Hill, che

sostenevano di essere stati rapiti dagli alieni nella notte tra il 19 e il 20 novembre 1961, ha identificato sulla mappa cosmica il sistema di Zeta Reticuli come il luogo dove sarebbero stati portati da questi extraterrestri dall ’intelligenza umana, vagamente antropomorfi e del tutto pacifici. Da allora questo sistema stellare è considerato la casa degli alieni buoni, quelli di Incontri ravvicinati del terzo tipo, per intenderci. Carl Gustav Jung, in un saggio del 1958 in cui si occupava anche degli avvistamenti di UFO e dei supposti rapimenti da parte di extraterrestri, sosteneva si trattasse di un fenomeno psichico prodotto dall’inconscio collettivo con funzione rassicurante di fronte allo smarrimento vissuto dalla collettività negli anni del dopoguerra. Due decenni dopo, a fenomeno esaurito, Carl Sagan ci spiegherà che comunque, proprio in quanto ipotesi psicosociale collettiva, gli extraterrestri hanno influito sulla percezione che la società aveva di sé. Se nella narrativa degli Anni Cinquanta gli alieni sono una minaccia, negli Anni Settanta, il decennio in cui la generazione dei baby boomer credette di poter cambiare il mondo, gli alieni diventano pacifici perché gli esseri umani sono finalmente disponibili a un

contatto, più o meno la stessa metamorfosi subita dai pellerossa (guarda film come Soldato blu, Piccolo grande uomo, Un uomo chiamato Cavallo e Uomo bianco vai col tuo Dio!). Il desiderio che l’altro si avvicini, però, comporta anche l’avvicinamento del desiderio provato dall’altro. Questo desiderio che per noi resta, per ovvie ragioni culturali, significativamente indecifrabile, sul lungo termine innesca il conflitto, come i meccanismi mimetici ci insegnano. Così, mentre il percorso narrativo principale degli Anni Settanta, costruito sugli archetipi dell’inconscio collettivo portati in superficie da quell’ipotesi psicosociale, si stava dirigendo verso il suo coronamento con la cristologia aliena di E.T. del 1982 (per questo ti ho detto che il 1982 segna la vera fine degli Anni Settanta), su questo percorso si innesta il film di Ridley Scott con il suo xenomorfo, quasi ad aprire una nuova porta (di cosa credi che parli Stranger Things, con le sue porte aperte e chiuse sul Sottosopra, se non di queste deviazioni psichiche e ideologiche della narrazione?) dalla quale scaturirà un nuovo potente immaginario, con caratteristiche del tutto inedite.

Al di là di tutte le – anche argute – analisi sulla biologia dello xenomorfo, che spaziano dal suo sistema riproduttivo a quello sociale passando per l’indagine della sua natura al tempo stesso parassitoide e predatrice, e soffermandosi sul suo aspetto: ho letto addirittura di qualcuno che ha trovato un animale realmente esistente che avrebbe ispirato Giger, la Phronima Sedentaria, un crostaceo che vive nell’Oceano Atlantico e che, vai anche tu a vedere le immagini su internet, a me sembra non c’entri proprio nulla con l’alieno; al di là di tutte queste cose divertenti che hanno prodotto una pletora di articoli e saggi sostanzialmente inutili, dicevo, due sono gli aspetti fondamentali e ‘rivoluzionari’ che caratterizzano lo xenomorfo. Il primo è la basilare differenza ontologica tra la creatura di Giger e quelle dei vecchi film di fantascienza. In quei film, in cui un attore si muoveva all’interno di un costume da mostro con l’intenzione, spesso vana per la goffaggine dell’attore o per la mediocrità del travestimento, di ingannare lo spettatore sulla natura dell’alieno, lo sforzo era volto all’annullamento (o almeno alla dissimulazione) della parte inevitabilmente umana di quella natura. Oppure non

provavano nemmeno a rappresentare l’alieno, come ne L’invasione degli ultracorpi diretto da Don Siegel nel 1956 e nella versione cinematografica di Solaris realizzata da Andrej Tarkovskij nel 1972; o ancora, li rappresentavano dandogli direttamente fattezze umane come ne L’uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg del 1976. Giger invece realizza un mostro, un insettoide gigante con la coda e l’esoscheletro, ma la prima impressione che si ha guardandolo, forse anche a causa dell’insistita simbologia sessuale dell’essere in tutte e tre le sue forme (facehugger, chestbuster e adulto), è che sia una lucidissima sintesi dei peggiori aspetti dell’uomo. Il critico Daniel Snyder, in The horrible philosophy behind the star of ‘Alien,’ H.R. Giger’s xenomorph, articolo pubblicato sulla rivista digitale Pacific Standard nel 2014, scrive che «la creatura di Giger è un essere primario, primitivo e disgustoso, la cui sopravvivenza dipende dallo stupro e dallo sfruttamento continui delle altre specie. Se questo sembra allo spettatore un concetto familiare è perché, almeno secondo Giger, è una rappresentazione accurata, per quanto pessimistica, del funzionamento basilare dell’Essere Umano».

Lo dice Jung che il nostro inconscio collettivo è formato da figure primordiali. Come il Babau delle fiabe è la concretizzazione delle paure infantili, così lo xenomorfo di Giger è un costrutto immaginativo primordiale, che irrompe con inaudita e reale violenza nel nostro immaginario, e attraverso il quale ci è possibile indagare ciò che più ci rende umani: la paura di noi stessi. Non si scappa: lo xenomorfo, nome che gli autori del film hanno mutuato dalla mineralogia, dove indica cristalli che non si sviluppano con la forma che dovrebbero avere a causa dell’interferenza di altri minerali, siamo noi con forma diversa. Ma al contempo lo xenomorfo è altro da noi. Come riesce Giger a realizzare questa specie di paradosso? Con una mossa geniale. La cosa che più differenzia l’Alien da noi è il secondo aspetto cui accennavo prima. Lo xenomorfo è privo di occhi. Se l’essere è cieco, non gli è derridianamente consentito alcun contatto. Se ne renderanno presto conto tutti i membri dell’equipaggio della Nostromo.

COSA, COME, QUANDO E PURE DOVE

Tutto quello che serve per fare un film sono una pistola e una ragazza. J.L. Godard

Il mostro però, lo abbiamo visto, al di là delle intenzioni degli autori è invecchiato male. Riguardando oggi il film, con lo sguardo pieno di tutto quello che è venuto dopo, il povero Bolaji Badejo fa sorridere dentro quel goffo costume. Più o meno come i mulini a vento di Don Chisciotte. Questo dal punto di vista tecnico degli effetti speciali, ma dal punto di vista concettuale e da quello della struttura narrativa il film regge ancora benissimo. Perché dobbiamo dirlo: Scott e King non hanno ragione, per lo meno non completamente, e la riuscita di un film non dipende da cosa si mostra, ma da come lo si mostra, da quando lo si mostra e, in certa misura, anche da dove lo si mostra. Se Alien è ancora un film attualissimo infatti, è proprio per come viene mostrato quello che c’è da mostrare, ovvero la nostra paura del contatto.

IL TALENTO DI (ELLEN) RIPLEY

MASCULIN, FÉMININ

Dal momento che l’‘identità’ è garantita per mezzo dei concetti stabilizzatori di sesso, genere e sessualità, la nozione stessa di ‘persona’ viene messa in discussione dall’emergere culturale di quegli esseri ‘incoerenti’ e ‘discontinui’ dal punto di vista di genere che, pur sembrando delle persone, non riescono a conformarsi alle norme di genere relative all’intelligibilità culturale che rendono tali le persone. Judith Butler, Questione di genere

All’interno di certi discorsi specialistici ci sono cose che ti vengono date per certe ma di cui, se fai una ricerca appena approfondita, non trovi fonti o riscontri. Nessuno però, forse per il fascino che apportano al discorso stesso, le mette mai in dubbio. Se fai una ricerca sulla sindrome da insensibilità agli androgeni (quella che una volta era conosciuta come

sindrome di Morris), troverai ovunque, portata come esempio di persona famosa e, per la sua assoluta bellezza, insospettabilmente affetta da questa sindrome, Kim Novak. In realtà, non esiste alcuna sua dichiarazione a questo proposito, a differenza del disturbo bipolare e di una profonda depressione di cui ha raccontato lei stessa il decorso; nemmeno nella sua autobiografia, Through my Eyes, pubblicata nel 1988. Bisogna ammetterlo, l’idea che una donna sensuale e bellissima come Kim Novak, la cui carica erotica nell’interpretazione del personaggio Madeleine/Judy in La donna che visse due volte di Hitchcock è ancora di una rara potenza nonostante siano passati più di sessant’anni, sia in realtà un uomo, ha un fascino non indifferente. Cos’è quello sguardo stupito? Come dicevo è un’affermazione che non sono riuscito a verificare né a confutare (ho trovato invece smentite a chi attribuiva questa sindrome anche a Naomi Campbell) ma che si trova in ogni articolo, anche in quelli scientificamente molto seri, sulla sindrome da insensibilità agli androgeni: Kim Novak avrebbe il corredo cromosomico XY e sarebbe quindi geneticamente un maschio.

Vera o meno che sia in relazione a Kim Novak, la sindrome di Morris esiste sul serio e colpisce un individuo ogni tredicimila. Il che significa poco meno di seicentomila persone nel mondo. La popolazione di una città di medie dimensioni, un numero che definirei non trascurabile. A causa di questa sindrome, individui con corredo cromosomico XY sviluppano caratteri femminili. Un genotipo maschile affetto dalla sindrome di Morris, che ne rende i tessuti fetali insensibili agli androgeni, quindi al testosterone, si svilupperà in un fenotipo femminile. Cioè in un individuo con tutte le caratteristiche femminili – viso, seno, fianchi – ma senza utero e ovaie. Le variazioni fisiche dovute a questa sindrome, come le disgenesie gonadiche causate dalla sindrome di Swyer o da quella di Turner, rientrano nel termine ombrello di intersessualità. Un individuo intersessuale ha caratteri genitali e sessuali secondari non classificabili come esclusivamente maschili o femminili. Questo dimostra almeno tre cose. La prima, la più eclatante, è che qualsiasi lettura patriarcale dell’umanità non ha

fondamento scientifico. La genetica ci insegna che i racconti mitici della creazione dell’uomo e della donna sono falsi: il racconto biblico di Eva creata da una costola di Adamo è addirittura da ribaltare. Il modello base è quello femminile; quello maschile si sviluppa secondariamente (e neanche sempre) grazie all’azione degli ormoni androgeni. Questo è un colpo violentissimo per l’immaginario costruito nei secoli sulla ‘superiorità’ maschile e di cui ancora non ci siamo ben resi conto, ma a causa del quale quell’immaginario mostra oggi, per fortuna, notevoli crepe. La seconda è che, nonostante quello che pensano i moralisti sostenitori della vita secondo natura, il binarismo di genere, cioè la classificazione di sesso e genere nelle due immutabili forme di maschile e femminile, non ha nulla di naturale. La natura anzi, come ci dimostrano gli studi di genetica, funziona secondo schemi non binari. La divisione in maschile/femminile non è lo stato di natura, ma è un costrutto sociale e culturale. La natura, in fatto di generi e sessualità, è molto fantasiosa e decisamente fluida. Non solo riguardo alla nostra sfera umana, ma anche e soprattutto a quella animale. Tra le centinaia di

esempi che potrei farti ce n’è uno che mi piace più degli altri: quello delle lumache. Le lumache sono ermafroditi e ogni esemplare ha contemporaneamente gli organi sessuali maschili e femminili, senza essere né maschio né femmina. Solo nel momento dell’accoppiamento si decide quali organi usa ogni esemplare. Non ti torna in mente la scena finale del fumetto di O’Bannon, The long tomorrow, in cui il mutaforma promette a Pete Club che assumerà per lui e il suo piacere qualsiasi forma desideri, anche quella di lui stesso (in modo da coronare il sogno erotico più recondito, e in un certo senso completo, di far l’amore con sé stessi), e quel reazionario moralista di Pete Club addirittura lo uccide? La terza, che consegue direttamente dalla seconda, è che l’identità di genere di un individuo non è legata al genere biologico, ma a molti altri fattori.

LT. RIPLEY C’EST MOI

Signora Bovary, coraggio pure tra gli assassini e gli avventurieri, in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte, in fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora… Francesco Guccini, Signora Bovary

Ovviamente, Alan Ladd e i vertici della 20th Century Fox non avevano nessun intento rivoluzionario e femminista quando approvarono, anzi, sembra addirittura che caldeggiarono, la scelta di trasformare il protagonista della sceneggiatura di O’Bannon in un personaggio femminile. Se lo fecero fu perché, attenti al profitto, avevano valutato che due film targati 20th Century Fox del 1977 con protagoniste femminili erano andati molto bene: Due vite, una svolta di Herbert Ross (il regista dell’esilarante Provaci ancora, Sam) con Shirley MacLaine, e Giulia di Fred Zinnemann (il grandissimo regista di Odissea tragica e Mezzogiorno di fuoco) con una splendida Jane Fonda. Ora, questi film erano andati veramente molto bene, e non va trascurato il

fatto che, una decina di anni prima, proprio Jane Fonda aveva interpretato un personaggio fantascientifico come Barbarella, alla quale qualche debito Ellen Ripley lo paga di certo. Ma è un debito di natura storico/sociologica, diciamo, non certo ontologica: la Barbarella interpretata da Jane Fonda è un’eroina in qualche modo autodeterminata ma assolutamente prigioniera (a differenza del personaggio dei fumetti creato da J.C. Forest) dello sguardo maschile e desiderante di Roger Vadim. Aggiungici che Carrie Fisher, sempre nel 1977, con la sua interpretazione della Principessa Leia aveva sicuramente lasciato il segno nello sguardo degli spettatori e aveva dimostrato alle ragazzine – e ai ragazzini – che una donna, per quanto priva, ancora per tutta la prima trilogia, del dono della Forza, poteva tranquillamente imbracciare le armi e combattere per la libertà (anche se disarmata di ogni sensualità, almeno fino al Ritorno dello Jedi quando, prigioniera di Jabba the Hutt, acquista anche una capacità di turbamento erotico – il fatto che Jabba sia una lumaca gigante ha il suo peso nella cosa, guarda un po’! – ma qui siamo già nel 1983 e forse è Leia a venire influenzata da Ripley e dalla fluidità del gender).

Probabile che Alan Ladd pensasse a un personaggio simile, tra Barbarella e la Principessa Leia, quando diede l’ok all’idea di Walter Hill di trasformare Ripley in una donna, ma non aveva fatto i conti né con Ridley Scott, né con Sigourney Weaver, né con la genetica. Quando Scott accetta l’incarico di girare Alien, la prima cosa che fa, oltre a un storyboard dettagliatissimo, è scrivere la biografia di tutti i membri dell’equipaggio della Nostromo, che ogni interprete sarà tenuto a studiare e imparare prima di recitare la propria parte. Ellen Louise Ripley è nata il 7 gennaio 2092 sulla Luna, nell’insediamento coloniale Olympia. I suoi genitori erano aviatori e lei seguirà le loro orme. A 23 anni si diploma a pieni voti alla Evansbrook Academy e viene arruolata subito. Il suo primo incarico è con la Weyland-Yutani Corporation, come sottoufficiale sulla nave da carico UCSCS Kurtz. Te lo devo far notare: il primo incarico di Ripley è su un’astronave che porta il nome del folle colonnello interpretato da Marlon Brando in Apocalypse Now, ispirato all’omonimo personaggio di Cuore di tenebra di Conrad. All’età di 28 anni, il 10 agosto 2120, Ripley riceve il primo incarico di una certa

importanza, quello di terzo ufficiale sulla nave cargo Nostromo. Va notato anche questo, il nome della nave è quello di un altro romanzo di Conrad che, pubblicato nel 1904 subito dopo Cuore di tenebra, chiude la prima parte della sua produzione letteraria. Ed è qui, sulla Nostromo (che si sarebbe dovuta chiamare Leviathan), che la incontriamo per la prima volta. Ora ti chiedo di notare un’altra cosa: quando Scott scrive la biografia della sua protagonista, deve anche discutere con i collaboratori di come cambiarne il nome originario, che era un semplice Roby. Ti sembra un caso che tra Ridley e Ripley ci sia solo un cambio consonantico che non è nemmeno un vero cambio, ma una semplice rotazione di 180 gradi? E non ha nessuna importanza che uno sia maschio e l’altra femmina. L’abbiamo appena visto, ce l’ha insegnato la genetica, il genere biologico e l’identità di genere non sono strettamente legati, anzi sono fluidi nella realtà, figurati nell’immaginario. Sia chiaro: la fluidità di genere non comporta l’indistinzione o la neutralità, in quanto ogni esperienza, avvenendo attraverso il corpo, è sessuata. Lo aveva già capito Flaubert, no? Anche se Emma

Bovary è e resta donna, Flaubert può essere lei. Quindi non c’è da stupirsi se Ridley Scott ci dice: il tenete Ripley sono io! Perché anch’io sono il tenente Ripley, e lo sei anche tu.

L’IMPORTANZA DI ESSERE RIPLEY

Avrò avuto otto anni. Ma me lo ricordo bene l’impatto che ha avuto su di me. Non avevo mai visto un personaggio femminile come lei. È stato il primo vero personaggio d’azione femmina che ho incontrato, che tutti noi abbiamo incontrato. È stata una bomba… voglio dire, è lei quella che sopravvive e uccide il mostro… non mi ricordo di nessun film prima in cui fosse una donna a farlo. Wynona Ryder in un’intervista su Alien-La Clonazione sulla prima volta che ha visto Ellen Ripley sullo schermo.

La ragazza che sopravvive alla furia omicida di un mostro perverso, ultima di un gruppo più o meno nutrito, quella che gli americani

chiamano final girl, è un classico topos dei film dell’orrore. È vero, come afferma Wynona Ryder, che Ripley è l’unica a sopravvivere allo xenomorfo, ma è proprio la sua natura a collocare il film al di fuori dei canoni del genere horror. Nei film horror la ragazza si salva per un intervento esterno o per un caso fortuito, non riesce da sola a eliminare il mostro. Pensa a un film che molti critici hanno paragonato, come struttura, a Alien, Non aprite quella porta diretto da Tobe Hopper nel 1974. Sally si salva perché, mentre sta fuggendo sulla statale, un camion travolge i suoi inseguitori e lei viene raccolta da un pick-up di passaggio. Oppure pensa a Halloween di Carpenter, uscito nel 1978, in cui Laurie (interpretata da una splendida Jamie Lee Curtis alla sua prima prova cinematografica) sfugge alle grinfie di Michael Myers ma solo grazie all’intervento del dottor Loomis. L’Alice di Venerdì 13 taglia da sola la testa alla signora Voorhees con il machete, ma non conta. Intanto perché nell’ultima scena sconclusionata del film scopriamo che Jason forse è ancora vivo e che probabilmente è lui ad averla risparmiata; e se pure non fosse così, il film di Cunningham è del 1980, Ripley ha già lasciato il segno e cambiato i paradigmi.

Ripley ha cambiato tutto. Non ha bisogno di nessuno che venga a salvarla, prende il controllo della situazione ogni volta che il momento lo richiede e decisioni fondamentali per lo sviluppo della storia, e soprattutto elimina lo xenomorfo, non per fortuna (come comunque succede ad Alice di Venerdì 13) ma grazie a una tattica precisa. Buona parte della riuscita del personaggio è dovuta alla sua interprete Sigourney Weaver. La scelta di Scott non fu casuale. Ho letto da qualche parte che la produzione aveva pensato a Meryl Streep per il ruolo di Ripley. Senza nulla togliere alla Streep quale grandissima attrice, credo che il personaggio non avrebbe funzionato con lei e sono felice che, come raccontano le leggende, abbia sbagliato luogo dell’appuntamento il giorno del casting. Per il casting Scott seguì la stessa strategia che aveva usato Lucas per Guerre stellari, scegliere attori quasi sconosciuti o non a loro agio con il genere (come Harry Dean Stanton per il ruolo del meccanico Brett). Fece a Sigourney uno screen test di quasi nove ore, durante il quale lei si impegnò al massimo per sembrare ‘veramente tosta’, come raccontò poi. Gli screen test furono sottoposti alle ragazze che lavoravano negli studi della 20th Century

Fox. Tutte indicarono con entusiasmo Sigourney come l’attrice che meglio interpretava lo spirito del tenente Ripley; e così per nostra fortuna è stato. La Weaver infatti usa – surfandoci sopra – quella fluidità del genere (sia sessuale che narrativo) di cui dicevo prima, per tessere (un nome, un destino) sul personaggio di Ripley un’identità del tutto originale.

LA SCELTA DI RIPLEY

C’è un momento che devi decidere. O sei la principessa che aspetta di essere salvata, o sei la guerriera che si salva da sé… Marilyn Monroe

Judith Newton, docente di Gender, Sexuality and Women’s Studies all’Università della California, a questo proposito solleva però un problema non trascurabile. Sostiene in pratica che Ellen Ripley non sia altro che un surrogato maschile, costruito artatamente come personaggio femminile affinché vi si identifichino le spettatrici ma maschilizzato quanto serve per permettere l’identificazione anche agli spettatori maschi. Credo che questa lettura sia riduttiva e, se tiene certo conto delle esigenze produttive, non tiene conto della struttura complessa del film, costruita da Scott e dai suoi collaboratori, e del suo piano di realtà. Intendiamoci, non è una considerazione solo mia, dato che buona parte di quello che sono arrivato a capire e a maturare su Ellen Ripley lo devo alle idee

sviluppate una quindicina di anni fa da Ximena Gallardo, insegnante di Letteratura inglese all’Università della Louisiana, in un bellissimo saggio sul personaggio interpretato dalla Weaver. Per quasi tutto il film, ogni caratterizzazione sessuale del genere dei componenti dell’equipaggio della Nostromo è azzerata. L’unica forma di sessualità espressa (e come vedremo, molto complessa) è quella dello xenomorfo. Pensaci: le relazioni tra gli umani che compongono l’equipaggio sono di carattere gerarchico e sociale, mai di carattere sessuale. La loro stessa nascita (il risveglio dall’ipersonno della sequenza iniziale), attuata da un computer che si chiama Mother, è assolutamente asettica, senza fluidi umani e senza implicazioni sessuate. L’illuminazione diffusa, la bassa qualità dell’immagine e le lente dissolvenze che ci presentano i personaggi servono a dare, per la durata di tutta la sequenza, questa sensazione di una nascita indolore, non biologica. Il parto biologico invece è doloroso, rischioso, pieno di ostacoli per il corpo che ne fa esperienza, e lo scoprirà il povero Kane quando il chesthbuster gli uscirà dal torace. Quando poi scendono sulla luna di Zeta II Reticuli, davanti al relitto

dell’astronave aliena che sembra un’enorme vagina, Kane afferma di non aver mai visto nulla di simile. Non è una frase messa lì a caso. Kane sta parlando dell’organo sessuale. L’equipaggio della Nostromo – e di conseguenza, si può dedurre, tutta l’umanità del 2120 – se ha un’identità di genere non ha però una corrispettiva identità sessuale. Abbiamo visto che l’identità sessuale non è esclusivamente legata al genere biologico, ma è costruita anche da fattori esterni: storici, culturali, sociali, medici. È in questa situazione che si formano società in cui prevale culturalmente un genere invece di un altro. Ma se non c’è identità sessuale, non c’è società basata sulla prevalenza di un genere sull’altro. La piccola comunità della Nostromo non ha caratterizzazioni sessuali, quindi non credo si possa parlare di maschilizzazione di uno qualsiasi dei personaggi. Tanto meno di Ripley. Perché il personaggio di Ripley, per quasi tutta la durata del film, è decisamente intersessuale, come tutti gli altri membri dell’equipaggio. Quasi però. Perché, se Scott cancella dalla narrazione il tipo di esperienza sessuata che deriva dalle basi culturali di una società, non può cancellare certo quella fisica. Infatti mantiene per tutti i

membri dell’equipaggio la differenza di genere (che è sessuata anche solo per le differenze fisiche). Tutti e sette hanno un’identità di genere genetica, ma su di essa non pesano ancora – quasi fossero tutti novelle creature nell’Eden (che poi si rivela un inferno) – le sovrastrutture culturali che dettano le regole dei comportamenti sessuali standardizzati dalla cultura che li genera. Infatti, sarà solo attraverso la sessualità dell’alieno che, da una situazione asessuata, si avvia una presa di posizione sessuale piena. Nella sequenza finale, quella in cui uccide lo xenomorfo, il corpo di Ripley, spogliato, compie una scelta. Una scelta divenuta obbligata nel momento in cui l’alieno, attraverso il parto biologico, ha introdotto la sessualità in questa enclave, rompendone ogni equilibrio. Una scelta di campo e di sessualità. Ripley si salverà perché sarà l’unica a farla.

ARCHEOLOGIA DI UN SAPERE (IMMAGINARIO)

DONT LOOK BACK

Nostalgia, nostalgia canaglia Che ti prende proprio quando non vuoi Ti ritrovi con un cuore di paglia E un incendio che non spegni mai. Al Bano e Romina Power, Nostalgia canaglia

Non so se Steven Spielberg abbia scelto il nome di Indiana Jones, protagonista de I predatori dell’Arca perduta (uscito delle sale nel 1981), in omaggio al gatto della Nostromo. Quello che so è che avrebbe dovuto chiamarsi Indiana Smith. Ma questo banalissimo cognome, scelto da Lucas, a Spielberg non piaceva proprio. Indiana come soprannome gli piaceva, ma Smith proprio no, suonava male. Un’altra cosa che so è che Indiana era il nome del cane di Lucas, quindi mi sembra plausibile che Spielberg abbia voluto appiccicargli quello di un gatto di una certa importanza. E quale gatto più importante se non quello che ci ha condotti nel nuovo decennio, il gatto Jones? Mi piace pensare che sia andata così. Anche perché l’evolversi della saga di Indiana Jones,

dal 1982 al 2008, più di ogni altra dimostra – se la guardi in sequenza – per il rigore con cui segue l’evolversi dell’età anagrafica del protagonista, come l’immaginario in cui oggi viviamo non sia il prodotto di una mera operazione nostalgica destinata a cinquantenni come me, quanto la naturale evoluzione di un cambiamento che affonda le sue radici in una ‘rivoluzione’ di quaranta anni fa. Anche se è formata da due parole greche, nostos (ritorno) e algos (dolore), la nostalgia i Greci non sapevano minimamente cosa fosse. Se l’è inventata Johannes Hefer, studente di medicina dell’Università di Basilea, nel 1688. Nella sua tesi di laurea, questo giovane futuro medico indagava vari sintomi che debilitavano i mercenari svizzeri durante le lunghe missioni militari. Questi sintomi, inappetenza, malinconia, tendenze suicide, Hefer li ricondusse tutti al profondo desiderio dei soldati – scaturito dalla lunga assenza – di tornare alle loro case e dalle loro famiglie. Un desiderio del ritorno che causava dolore e che, con un guizzo di genio, Hefer decise di chiamare con un neologismo che ne rendesse bene il significato, formato da due parole prese dal greco classico: nostalgia, appunto.

Purtroppo, come spesso accade, con il tempo questo concetto fu demedicalizzato e se ne appropriò la filosofia. Immagini già i danni che questo concetto ha causato nelle mani di Heidegger quando, nel suo Concetti fondamentali della metafisica (1929), fa affermare a Novalis che ‘la filosofia è propriamente nostalgia…’. Nelle mani dei filosofi la nostalgia smette di essere un problema medico individuale legato a una lontananza spaziale, per diventare un sentimento collettivo di rimpianto temporale per un’epoca in cui si era più felici, dove la vita era più semplice e dove non c’erano conflitti. Tu e io lo sappiamo che non sono mai esistite età dell’oro; che la vita individuale e collettiva è sempre stato il complicato intrico di disperazione e fatica che è. Ma quando una collettività, un popolo intero, comincia invece a credere che sia esistito un tempo migliore e, soprattutto, a pensare di poterci tornare, allora si aprono prospettive pericolose in cui nazionalisti e populisti fanno la propria fortuna, fino a concretizzare orrori ritenuti impossibili quali il fascismo e il nazismo. Senza arrivare a tanto, c’è un tipo di nostalgia culturale che colpisce gli intellettuali quando non sono più in grado di comprendere

il presente ma non riescono ad ammetterlo nemmeno con sé stessi, portandoli a considerare i giorni già vissuti come i più gloriosi di una determinata produzione culturale. Simon Reynolds la chiama nostalgia pop. Nel suo ottimo saggio Retromania, Reynolds sostiene che, in questo nuovo secolo, la nostalgia si è legata all’industria culturale creando un cortocircuito fra la cultura di massa e la memoria personale. Individua i conduttori di questo circuito che va in corto, creando quella che secondo lui è una vera e propria mania, nel rimpianto degli attuali responsabili dello show-business per la ‘pacchiana modernità degli Anni Ottanta’ e nel progressivo diluirsi dell’idea di futuro (di cui però non dà una definizione chiara e soddisfacente) in un ‘lungo presente’. Questo cortocircuito avrebbe causato un incremento incommensurabile del passato nelle nostre vite, trasformandolo in una presenza insidiosa. Perché in questa situazione, ‘il passato non può fare altro che superare il presente, non solo in quantità ma anche in qualità’. Secondo Reynolds, il retro-camp Anni Ottanta sarebbe diventato dominante in questo infinito presente in cui viviamo dopo l’esaurimento –

dovuto anche ai termini biologici di chi ne è stato protagonista – del revivalismo degli Anni Sessanta. La mente e il cuore dei giovani degli Anni Zero e Dieci del nuovo secolo sono tutti presi dall’immaginario degli Anni Ottanta. Questo non ci permetterebbe di consegnare definitivamente il passato, quel passato che avrebbe colonizzato il presente, alla storia. In parte questa analisi di Reynolds è vera. Per quanto riguarda il ritorno, marginale, a tecnologie analogiche, come i dischi in vinile o le fotocamere istantanee, quello che lo caratterizza è sicuramente il rimpianto per la propria giovinezza. Ha anche ragione a proposito del fatto che da circa quarant’anni viviamo in quello che Hans Ulrich Gumbert ha definito ‘il nostro ampio presente’. Sbaglia però quando sostiene che l’immaginario di questo periodo è costruito sulla nostalgia. Se abbiamo l’impressione che gli Anni Ottanta popolino prepotentemente le storie più interessanti che ci vengono raccontate (e penso soprattutto al cinema, alle serie tv, ai fumetti e alla musica) è perché in quel decennio nasce un nuovo tipo di quelle che Lyotard chiamava ‘grandi narrazioni’. Questa nuova grande narrazione, la cui nascita corrisponde, secondo me, all’uscita di Alien

nelle sale cinematografiche – per questo ti dicevo che gli Anni Ottanta iniziano in quell’anno –, è caratterizzata da un progetto di futuro che, a differenza di quelli delle altre grandi narrazioni del passato dell’umanità occidentale (cristianesimo, marxismo, liberalismo), non è di natura palingenetica e da realizzarsi in un tempo che non verrà mai, ma è qui. Ora. Con buona pace di Reynolds, non è il presente a farsi passato ma il futuro a farsi presente. Non c’è da voltarsi indietro, verso un passato supposto migliore, come facevano e fanno gli esegeti degli Anni Sessanta e Settanta. C’è da tenere lo sguardo fisso qui, in questo adesso che, come ci insegna un altro film di Spielberg, Ready Player One del 2018, contiene tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Contiene ogni nostra pulsione libidinale. Quello che gli Anni Ottanta ci hanno promesso, il desiderio immanente e permanente, lo hanno mantenuto. Lo stiamo vivendo.

QUESTO CONTINUO PRESENTE

Il postmoderno ha operato in maniera subdola: ha finto di recuperare il passato e le tradizioni cancellate dall’eccessivo modernismo, in realtà ha creato una stanza delle meraviglie in cui tutto il tempo convive… Tommaso Labranca, Andy Wharol era un coatto

Quando, nel 1974, dà alle stampe la prima delle sue due opere fondamentali, JeanFrançois Lyotard ha compiuto il mezzo secolo e probabilmente sente la necessità di una resa dei conti con il proprio passato. Economia libidinale è un lavoro in cui, riprendendo l’intuizione di Deleuze e Guattari esposta nell’ Anti-Edipo (1972), Lyotard sostiene che la vera forza pulsionale dell’economia è il desiderio. Già nel discorso di Deleuze e Guattari il desiderio diventava, da tendenza trascendentale soddisfacibile solo con strumenti escatologici, una pulsione immanente passibile di soddisfazione con strumenti umani. Così i flussi del desiderio,

liberati dalle catene del determinismo, scorrono in un campo deterritorializzato dove ogni incontro, ogni contatto comporta la possibilità di soddisfazione del desiderio, ma anche il timore di un danno. A voler fare una lettura di Alien alla Žižek, si potrebbe considerare la Nostromo come quel campo deterritorializzato e l’incontro/scontro tra lo xenomorfo e l’equipaggio come il risultato di quel flusso desiderante. Ma il punto a cui voglio arrivare è un altro. Lyotard aggiunge a questo discorso una cosa che può sembrare trascurabile, ma che di lì a qualche anno cambierà completamente i nostri paradigmi. Dice che la dimensione libidinale è anche l’istanza produttiva del dispositivo fabulatorio di tutte le grandi narrazioni che interpretano il mondo. Il capitalismo in cui viviamo è una di queste narrazioni, e ha costruito il nostro immaginario. Il desiderio, all’interno di questo sistema, può diventare strumento di oppressione (causando paura e scontri, come sta succedendo in questi tempi) oppure di emancipazione. Dipende solo dalla nostra capacità di costruzione dello sguardo. In questo senso Alien è un film esemplificatore, se non programmatico. E sarà un caso, ma mi

piace notare che esce nelle sale nello stesso anno in cui, con la sua seconda opera fondamentale, Lyotard ci apre al nuovo decennio: il 1979. La pubblicazione de La condizione postmoderna è infatti l’atto di nascita del postmoderno. Lyotard vi sostiene che la modernità era stata caratterizzata, in senso filosofico e politico, da sintesi interpretative della realtà da lui definite grands récits. Questi meta-racconti (cristianesimo, illuminismo, idealismo, marxismo) fornivano, attraverso il rimando a un futuro positivo di là da venire, la legittimazione a pensare la storia dell’umanità in termini di progresso e di emancipazione. Ora semplifico al massimo il pensiero di Lyotard e te la faccio breve. Secondo il filosofo francese, a seguito delle sostanziali trasformazioni della società occidentale postindustriale, questa nostra epoca, che lui definisce postmoderna, coincide con il tramonto delle grandi narrazioni palingenetiche e con ‘la diffusa incredulità nei confronti delle meta-narrazioni’. Secondo Lyotard le nuove generazioni non credono più al futuro e vivono in un luogo deterritorializzato in cui tutto il tempo confluisce.

Nel 1980 Umberto Eco pubblica Il nome della rosa a cui fa seguire, nel 1983, un saggio su Alfabeta intitolato Postille in cui spiega la genesi del suo romanzo. In questo saggio c’è un paragrafo intitolato Il postmoderno, l’ironia, il piacevole, in cui il semiologo dà una precisa definizione di come si concretizza il postmoderno lyotardiano nell’universo narrativo. A causa di una lettura superficiale di quelle righe, almeno due generazioni (la mia e quella dei millennial) si è convinta che postmoderno significhi ficcare dentro i propri testi più citazioni possibili dal proprio immaginario. Non è così. In realtà quello che dice Eco è che, secondo il paradigma di Lyotard, il principale cambiamento narrativo rispetto alla specificità narrativa classica e moderna è che nel postmoderno testo, autore e fruitore sono sullo stesso piano, diventano ‘posizionalità discorsive’, e nessuna di esse può avanzare pretese di dominio sulle altre, perché sono tutte implicate nel discorso. Nella modalità classica, narratore e fruitore erano istanze esterne al racconto (l’atto narrativo era reso invisibile) e al centro di tutto stava il narrato. Nella modernità invece l’istanza dominante era il narratore. Nel postmoderno nessuna istanza

è esterna alla narrazione. Un po’ come in questo saggio, non trovi? Io, tu e il film siamo continuamente presenti nel discorso (non so se hai notato, per esempio, che non ti ho mai raccontato la trama del film, perché tu la conosci quanto me: condividiamo lo stesso sapere e ci muoviamo nello stesso immaginario). Laurent Jullier, direttore dell’IRCAV (Istituto di Ricerca sul Cinema e gli Audiovisivi) della Sorbona, nel suo saggio del 1997 sostiene che il cinema postmoderno inizi nel 1977, con Guerre stellari. Perché, dice, la rilevanza del sonoro, grazie alla nuova tecnologia dolby, immergeva lo spettatore in un bagno di esperienza sensoriale senza precedenti, mentre il frequente uso del carrello in avanti, del tutto libero da implicazioni di coerenza con il contenuto di quanto mostrato, trasformava lo spazio rappresentato in un territorio da esplorare con tutto il corpo. Questo è vero, e probabilmente quando il film uscì funzionò in quel modo. Ma a riguardarlo oggi, è un film che si colloca ancora nella modernità: fin dai titoli di testa, con la scritta che scorre e racconta l’antefatto di quanto stiamo per vedere, svolgendo il ruolo del vecchio C’era una volta, l’enunciazione stabilisce una gerarchia

che tiene lo spettatore in posizione esterna rispetto alla narrazione. E poi quella colonna sonora così… starei per dire asburgica, ma diciamo straussiana nel senso di Richard (e ogni riferimento al Kubrik di 2001 Odissea nello Spazio, film ambiguo tra l’illuminismo e il romanticismo ma assolutamente e profondamente, come tutto il cinema kubrikiano – pure quello successivo – modernista, è voluto), insomma: sinfonica, ci proietta nella modernità. In questo senso: tu stai zitto e ascolta quello che sto per raccontarti (o per suonarti). Ben diversa è la situazione dello spettatore di Alien. Ritrovandosi ad osservare la lenta ed esasperante comparsa dei blocchi geometrici che comporranno il titolo completo, deve gestire una sequenza inquietante nel silenzio più assoluto. Nello stesso modo in cui deve lentamente costruire il titolo del film avendo a disposizione solo dei caratteri bastoni, deve anche mettere il proprio sapere (il proprio sguardo) al servizio della costruzione della struttura narrativa del film. Per farti un esempio. Tom Skerritt, l’attore che interpreta il capitano Dallas, ha raccontato che, poco dopo l’uscita del film, lui e Scott incontrarono una delegazione di esercenti che

si lamentavano perché durante la scena del mostro che esce dalla pancia di Kane, gli spettatori correvano in bagno a vomitare, riducendoli in uno stato pietoso. Ora, come vedremo tra poco, non solo gli spettatori di Alien non se ne stavano zitti ad ascoltare e guardare, ma partecipavano dicendo quello che pensavano durante la proiezione, e avevano anche delle reazioni fisiche dettate da una partecipazione cognitiva ed emotiva. Quello che ci interessa a questo punto non è, come riportato in tutti i libri di pettegolezzi sul film, la pulizia dei bagni di quei cinema, ma il motivo per cui quegli spettatori vomitavano. Non avevano i conati di vomito per la violenza della scena. Li avevano perché il loro sapere, che dovevano mettere in gioco per godersi il film, d’un tratto gli faceva capire cosa il facehugger aveva inserito nel corpo di Kane quando lo aveva stuprato in faccia: sperma. Cos’era successo al corpo di Kane? Era stato riposizionato rispetto al ruolo riproduttivo del corpo maschile, trasformandosi da fecondatore in fecondato. Capisci quale sforzo partecipativo, intellettuale ed emotivo, lo spettatore era (ed è) chiamato a esercitare? Si trattava di dare struttura a un nuovo immaginario. Altro che favole classiche con principesse rapite e cavalieri senza macchia e

paura. Il postmoderno, come il nuovo decennio, inizia con Alien. Non c’è alcun dubbio.

I TAWT I TAW A PUDDY TAT

Lascia perdere quel fottuto gatto, e scappa! Uno spettatore all’anteprima di Alien

Non aveva tutti i torti lo spettatore che, durante l’anteprima di Alien al Grauman’s Chinese Theatre di Los Angeles (dove il film venne proiettato per 48 ore filate), trovandosi davanti a una cosa così spiazzante, rispetto a quello cui era abituato, esortava Ellen Ripley a ignorare lo stupido gatto. In fondo già aveva fatto uno sforzo non da poco. Era entrato nel postmoderno… Per dirti, l’hai mai visto uno spettatore di Casablanca incitare Linda Lund a restare con Rick? Sì, ma solo in un film postmoderno come Harry ti presento Sally… Gli spettatori veri, nelle sale d’essai, se ne stanno zitti e muti davanti all’ultima sequenza, al limite con gli occhi lucidi, ad accettare senza discuterle le scelte narrative di Rob Reiner e Nora Ephron. Insomma. Quello spettatore aveva capito di essere parte integrante di questo nuovo meccanismo, e che quell’immaginario adesso funzionava grazie alla sua collaborazione. Certo, non aveva

capito quale doveva essere la sua collaborazione. In fondo era un pioniere, non comprendeva tutti i meccanismi di questo nuovo modo di narrare e il comportamento di Ripley che torna indietro per salvare quel dannato gatto gli appariva decisamente irrazionale. In effetti, scusa, ma a me, se non fossero quarant’anni che ci rifletto sopra – e ti dico: su Casablanca e su tutto il cinema classico e moderno, con l’esclusione di quello sovietico, mica mi viene da perderci il sonno – e fosse la prima volta che lo vedo, la domanda mi sorgerebbe spontanea: che cavolo ci fa un gatto di nome Jones su un cargo spaziale a 34 anni luce dalla Terra? Allora. Alien è un film rivoluzionario per almeno 8 motivi. Come le parti di questo saggio. Il primo e più importante è, ovviamente, la regia, a cui è collegato il secondo elemento: la colonna sonora. L’uso della musica e del montaggio collaborano a portare tutte le istanze della narrazione sullo stesso piano gerarchico. Poi ci sono i due protagonisti, il tenente Ripley e lo xenomorfo, e di loro stiamo parlando fin dall’inizio e continueremo fino alla fine. E siamo a quattro.

I restanti quattro sono: l’equipaggio; le sue motivazioni; l’intelligenza artificiale e il gatto. Adesso ti liquido velocemente le prime tre così arriviamo, finalmente, al gatto. Non si era mai visto, in tutti i film di fantascienza precedenti, un equipaggio simile. Dai ridicoli pigiamini di Star Trek alle divise di Guerre stellari, gli equipaggi di tutte le space opera sono sempre stati caratterizzati da un certo rigore. Per la prima volta nella storia del cinema, l’equipaggio di un’astronave somiglia a una banda di surfisti. A questo punto il collegamento che va da Dark star passando per Un mercoledì da leoni fino ad Apocalypse Now non c’è bisogno che te lo faccia io. E nemmeno, immagino, quello con il tema della camicia hawaiana, che da Brett passando per Magnum P.I. arriverà fino allo sceriffo Hopper di Stranger Things. Come tutte le bande di surfisti, questo equipaggio ha un unico interesse: la soddisfazione del proprio desiderio. Non sono animati, come invece accadeva per i protagonisti della fantascienza classica, dalla volontà di conoscenza, e nemmeno dal desiderio di avventura. L’unico motivo che spinge l’equipaggio della Nostromo, Ripley compresa, è il compenso per il lavoro svolto. Nessuno di loro vorrebbe scendere sulla luna

di Zeta II Reticuli, dove li ha condotti l’intelligenza artificiale che controlla la nave, ma se non lo fanno perdono le provvigioni che gli spettano sul valore del carico della Nostromo. E questa è, a mio avviso, la più grande vittoria del postmoderno: dimostrarci che la gratuità del sapere è una favola cara ormai solo a qualche intellettuale ottuagenario. Così siamo arrivati all’intelligenza artificiale. Sono due le AI coinvolte in questa storia. Mother, il computer centrale che controlla la Nostromo, come Hal9000 controlla la Discovery in 2001: Odissea nello spazio, ma che a differenza di Hal non prova emozioni. L’altra è Ash, l’ufficiale medico che in realtà è un cyborg. Ash è completamente differente da Roy Batty, il replicante di Blade Runner, la cui morte segna la fine del sogno palingenetico degli Anni Settanta. Il monologo di Batty poco prima di morire suona come il più bello degli epitaffi per quelle meta-narrazioni che Lyotard aveva già seppellito tre anni prima. Lo so che lo conosci a memoria, ma voglio riportarlo comunque: Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E

tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.

Ma come Batty, Ash è un personaggio chiave. È un essere sintetico, un robot, ma contraddice e contravviene le tre leggi della robotica asimoviane, mettendo in crisi tutta la fantascienza moderna. Al punto da obbligare lo stesso Asimov ad affrontare il problema in un romanzo del 1983, I robot dell’alba. Ash non si attiene a quelle tre leggi umane ma, come già abbiamo visto, ubbidisce a una legge superiore, non scritta, quella della Compagnia. Come già detto, questo lo assimila ad Antigone. Dalle sue azioni scaturirà la più grave delle conseguenze: l’origine della lotta per la vita e per la morte nel piccolo spazio della Nostromo. In Manifesto Cyborg, saggio del 1991, Donna J. Haraway, partendo da un’analisi della natura ibrida del cyborg, sostiene che ‘la realtà sociale è costituita dalle relazioni sociali vissute, è la nostra principale costruzione politica, una finzione che trasforma il mondo’. Infatti è lo scontro che avrà con Ripley a dare consapevolezza e a farle fare una scelta sulla propria sessualità. Il racconto delle origini di ogni essere umano, sempre per citare la Haraway, «si fonda sul mito dell’unità originaria, della pienezza, della beatitudine e

del terrore, rappresentati dalla madre fallica da cui ogni umano deve separarsi» per affermare la propria singolarità. Lo xenomorfo è senza alcun dubbio la rappresentazione di quella madre fallica da cui Ripley si separa con un atto di violenza. Come Edipo uccide il padre e giace con la madre, così Ripley uccide la madre, ma – come scopriamo in Alien³ – al contempo giace (involontariamente) con lei, restandone ingravidata e mischiando con la Regina fallica il proprio DNA. L’unica soluzione a quel punto sarà il suicidio. Hai ragione. Stiamo qui a chiacchierare di cyborg e ancora non ti ho spiegato perché Ripley torna indietro a prendere il gatto. Mi hai seguito fin qui, seguimi anche nell’ultimo capitoletto, dai.

SVESTITA PER UCCIDERE

Ripley, invece, imbraccia armi e sfida alieni. Oltre che guerriera, è nomade, solitaria, lucida, indifferente alle tentazioni sentimentali. È bella, certo, ma senza concessioni alla seduzione: boccoli castani, sguardo fermo, un lungo corpo magro mostrato di sfuggita nelle ultime scene coperto da biancheria sportiva (simile a quella che, molti anni dopo,esibisce la Sposa di Kill Bill , mentre aspetta i risultati del test di gravidanza). Ma Ripley non è soltanto un’amazzone: come la Sposa, è una madre, capace di tenerezza nei confronti di un gatto o di una bambina, e persino – nel terzo e quarto film della serie – di disperato amore nei confronti del mostro che combatte. Loredana Lipperini, Nuove eroine donne guerriere figlie di Ripley

Siamo alla sequenza finale. Ripley ha salvato il gatto, ha fatto esplodere la Nostromo con dentro l’alieno ed è in salvo sulla navicella di salvataggio. Per prepararsi all’ipersonno si sveste. Secondo Ximena Gallardo, è in questo preciso momento che Ripley prende consapevolezza, o piuttosto elabora il ricordo della propria sessualità (come scopriremo in Aliens - Scontro finale, è stata madre). La macchina la segue, quasi in soggettiva, in tutti i suoi preparativi, come a disvelare questa sua presa di consapevolezza. La biancheria che indossa non è una neutra biancheria sportiva come sottolinea Lipperini, ma una biancheria di almeno una taglia inferiore a quella di Sigourney Weaver. La semisoggettiva della camera e la biancheria creano una tensione voyeuristica e di grande forza sensuale per tutta la sequenza, che rimanda a certi stereotipi del cinema porno americano, fino a quando scopriamo insieme a lei di chi era lo sguardo in soggettiva. Era quello dello xenomorfo. Solo che il mostro alieno non ha occhi. Quello sguardo non può che essere il nostro. Siamo un’istanza narrativa necessaria tanto quanto i personaggi di questo film. E siamo chiamati a testimoniare quanto sta succedendo: un

cambio paradigmatico del nostro immaginario. Ripley, consapevole della propria sessualità, si trova in questo preciso momento seminuda e in balia del mostro assassino, come nei migliori film di fantascienza degli Anni Cinquanta. Siamo terrorizzati perché sappiamo che non c’è più un eroe che possa venire a salvarla. È adesso, mentre la camera a mano segue i lenti movimenti di Ripley che si lega alla poltrona di pilotaggio e arma l’arpione, che entriamo di peso, come lo xenomorfo viene invece gettato nello spazio profondo, nel nostro nuovo immaginario. Lo xenomorfo resta legato in qualche modo alla navicella dalla corda dell’arpione, come noi siamo ancora collegati al vecchio mondo dal cordone ombelicale del nostro sguardo, perché per essere consapevoli che questa lunga e bellissima sequenza ha rifondato l’archetipo della Bella Addormentata (dopo aver ucciso il mostro, Ripley si immerge in un sonno che durerà 56 anni) dobbiamo conoscere quell’archetipo. Gli immaginari infatti funzionano secondo il principio di sovrapposizione. Nel 1935, proprio per spiegare questo principio, con il quale criticava l’interpretazione dei sistemi quantistici della

scuola di Copenaghen, Erwin Schrödinger propose un esperimento mentale ormai diventato leggendario. Pensa di chiudere un gatto in una scatola metallica che si aprirà in un preciso momento. Nella scatola c’è anche una fialetta di cianuro che, per il decadimento di un nucleo radioattivo il cui funzionamento non sono proprio in grado di spiegarti, si romperà in un preciso momento uccidendo il gatto. Nessuno di noi però può sapere quando ciò accadrà. Né se accadrà prima o dopo l’apertura della scatola. Fino al momento prefissato per l’apertura, in cui potremo verificare se la fialetta si è rotta o meno e se il gatto è vivo oppure no, per il principio di sovrapposizione il gatto si troverà in tutti e due gli stati: vivo e morto. A questo punto non dovrei nemmeno fartelo notare che la Nostromo è quella scatola di metallo e che lo xenomorfo è la fiala di cianuro. Perché dico che Ridley Scott con Alien fonda un nuovo immaginario? Perché decide di affrontare questo paradosso e di assumerlo come nucleo della narrazione. Un universo narrativo non può più esistere (come accadeva invece nella classicità e nella modernità) a discapito di un altro. Al limite si biforcano su

binari differenti, come Ripley e lo xenomorfo nell’ultima sequenza. Mi spiego. O almeno ci provo. Facciamo un piccolo salto temporale di vent’anni ed entriamo in una sala cinematografica del 1999. Stanno proiettando Matrix. Per entrare nella storia Neo, il protagonista (interpretato da Keanu Reeves, lo sbirro di Point Break), si trova davanti alla scelta che gli sottopone Morpheus, il capo dei ribelli. Deve prendere una pillola. Ce n’è una rossa e una blu. ‘È la tua ultima occasione,’ dice Morpheus a Neo, ‘se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quanto è profonda la tana del bianconiglio’. Entrambe le soluzioni sono possibili, sono paradossalmente sovrapponibili. Neo sceglierà quella rossa, e questo gli aprirà la strada che ci porterà, con lui, nella stanza del Grande Architetto. Ma Matrix è un’altra saga, e ne parliamo in un altro saggio. Per il momento mi ritengo soddisfatto se finalmente ti è chiaro perché Ripley torna indietro a prendere il gatto. Per rendere possibile a Neo la scelta della pillola rossa. E per rendere possibile a Thelma e Louise, invece, di scegliere di non fermarsi nell’ultima

indimenticabile sequenza dell’omonimo film. Per tutta la pellicola le due protagoniste sono come il gatto Jones, chiuse nelle convenzioni sociali invece che in una scatola. Ripley torna indietro a salvare il gatto perché è necessario sapere qual è il suo stato. Se tutte le situazioni sono possibili finché la scatola è chiusa, per conoscere la verità dobbiamo aprirla, dobbiamo prendere la pillola di Neo, premere sull’acceleratore fin oltre il punto in cui finisce la strada. Aprire la scatola di Schrödinger per vedere come sta il gatto è una sorta di paradossale scavo archeologico sul nostro sapere futuro, nei pericoli del nostro immaginario. Bisognava aprire la sportina in cui era rinchiuso Jones, come era necessario lo scavo degli antropologi che ritrovano Lucy. È attraverso il lavoro sul sapere passato che costruisci il sapere presente. Se Ripley non l’avesse fatto, il nostro mondo e il nostro immaginario non sarebbero gli stessi. Intendiamoci, non è detto che questo sia necessariamente un bene.

TITOLI DI TESTA

LA BELLA E LA BESTIA

Vivere con l’alieno, con il freak, con il mostro significa venire a patti con sé stessi. Jeffrey Weinstock, Freakery: cultural spectacle of the extraordinary body

Quella che segue potrebbe essere una brevissima premessa alla lettura di queste pagine. Ma sono godardiano e i titoli di testa li metto in coda, per ritardare il nostro commiato e come invito a ricominciare la visione di un film fondamentale (e di tutta la sua saga), che ha trasformato il nostro immaginario. Ho scritto fisicamente queste pagine tra il 25 maggio (quarant’anni esatti dall’uscita del film nelle sale americane) e gli inizi di agosto, durante continui spostamenti. Ma mettere su carta le parole che servono a organizzare in modo leggibile un saggio, in fondo, è la parte più facile e più veloce del lavoro. È tutto quello che viene prima che ‘spezza le vene delle mani’.

Quarant’anni di convivenza con lo xenomorfo e con Ellen Ripley non sono stati uno scherzo e hanno fatto di me – insieme a centinaia di altre cose che popolano il mio… il nostro immaginario di generazione X (ma pure quello delle generazioni successive) – ciò che sono. Non credo di essere venuto bene. Ma questo saggio mi sembra proprio di sì. L’ho scritto senza alcuna nostalgia, senza alcuna intenzione d’amarcord (non amo Fellini). L’ho scritto con un’intenzione (passami l’espressione foucaultiana) archeologica, alla ricerca delle origini del nostro immaginario presente, quello per cui ragazzini di tredici anni restano incollati allo schermo a vedere cose che, apparentemente, ammiccano a gente come me che ha superato il mezzo secolo: cose come i film di J.J. Abrams o le tre stagioni di Stranger Things. L’immaginario nato in quel decennio, la cui porta è stata aperta da Alien, richiede di essere capito, sia per poterne godere che, quando necessario, per saperlo combattere. Adesso, cara lettrice e caro lettore, se sei a questo punto della lettura, ormai della mia ossessione te ne sei appropriata o appropriato tu, quindi – finalmente libero – posso lasciarti in compagnia di Ellen e di Alien. La bella e la

bestia. A te scegliere chi è l’una e è chi l’altra. Ma fa’ attenzione, segui le istruzioni perché, come tutti gli esseri immaginari, sono pericolosi e rischi di farti male. Molto. maggio-agosto 2019 Milano-Marrakech-Genova-Marsiglia

FILM-BIBLIOGRAFIA

Filmografia La serialità è un elemento caratterizzante del nostro attuale immaginario. Alien non fa eccezione. La sua saga comprende sei titoli: - Alien diretto da Ridley Scott, 1979 - Aliens. Scontro finale diretto da James Cameron, 1986 - Alien³ diretto da David Fincher, 1992 - Alien. La clonazione diretto da Jean-Pierre Jeunet, 1997 - Alien: Covenant diretto da Ridley Scott, 2017 - Prometheus diretto da Ridley Scott, 2012 Gli ultimi due in realtà sono prequel, se ci tieni alla linearità del tempo narrativo guardali prima dell’ Alien del 1979. Ci sono anche due crossover: – Alien vs Predator diretto da Paul Anderson, 2004 – Alien vs Predator 2 diretto dai fratelli Strause, 2007

Nel 1980 Ciro Ippolito, con lo pseudonimo di Sam Cromwell, approfittando del fatto che il franchise di Alien non era ancora stato depositato dalla 20th Century Fox, ha diretto un apocrifo Alien 2 - Sulla Terra. Il film non ha niente a che vedere con l’originale se non per il titolo e per l’idea delle uova aliene. Non è così pessimo come certa critica spocchiosa da cine d’essai sostiene. Bibliografia Può sembrare paradossale fare un elenco di libri serviti per parlare di un film, ma è andata così. Se hai la curiosità di sapere da dove traggono origine, oltre che dalla ripetuta visione del film, tutte le idee e le informazioni affastellate nelle pagine precedenti, questo è l’elenco. In rigoroso ordine alfabetico. Probabilmente qualcuno me lo sono dimenticato. Al-Khalili J. (a cura di), Alieni. C’è qualcuno là fuori?, Torino 2017 Baird V., Le diversità sessuali, Roma 2003

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