Affari di famiglia. Dall'abuso all'omicidio 8888232478, 9788888232478

Il volume esamina l'evoluzione della famiglia - in chiave storica, psichiatrica e sociologica - e i fenomeni di vio

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Italian Pages 154 [155] Year 2003

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Affari di famiglia. Dall'abuso all'omicidio
 8888232478, 9788888232478

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George B. Palermo Mark T. Palermo

Affari di famiglia Dal/'abuso al/'omiddio

Edizioni

HMagi

La consulenza scientifica per le opere delle Edizioni Ma.Gi. è a cura del Dott. Federico Bianchi di Castelbianco Direttore dell'Istituto di Ortofonologia - Roma

George B. Palermo, Mark T. Palermo Affari, difamiglia Dall'abuso (all'omicidio ©2003 Edizioni Scientifiche Ma.Gi. srl Via Bergamo, 7-00198 Roma tei. 06/8542256 fax 06/8542072 [email protected] magiedizioni.com

Copertina (progettazione e realizzazione grafica): Flora Dicarlo È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia non auto^^ata. ISBN: 88-88232-47-8

George B. Palermo Mark T. Palermo

Mfari di famiglia Dall'abuso all'omicidio

Prefazione Franco Ferrarotti

Traduzione Roberto ^anzi

Indice

Prefazione

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Franco Ferrarotti

Capitolo I VIOLENZA IN FAMIGLIA Le vittime I disturbi psichiatrici L’omicidio-suicidio in famiglia La comunità e l’autonomia individuale

LA

Capitolo II GENITORI CHE UCCIDONO Il neonaticidio, l'infanticidio e il figlicidio Nel passato Emozioni e legami

Capitolo III IL FIGLICIDIO E LA DISABILITÀ EVOLUTIVA: IL CASO DELL’AUTISMO L’autismo come fattore di rischio La prevenzione

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53

85

5

Capitolo IV FIGLI CHE UCCIDONO Il p^arcidio L’infermità mentale e il parricidio

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Capitolo V LA CRISI DELLA FAMIGLIA 109 La famiglia nel passato La famiglia nella società occidentale contemporanea Un percorso possibile

Postfazione

131

Roberto Militerni

Note

6

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Prefazione

Il merito di questo libro consiste, in primo luogo, nel sottrarsi ai facili stereotipi che scorgono nella f^niglia un porto della tranquilità oppure un nido di vipere. La f^niglia esce da queste pa­ gine per quello che è: un’istituzione fondamentale per tutte le società storic^nente note che sembra inutile o. peggio. danno­ so idealizzare o demo^^^e. In altre parole, come tutte le istitu­ zioni umane, la f^niglia è problematica. La validità scientifica di questa ricerca si lega ai chiaro inquadramento dell’istituzione famiglia nel contesto storico della società industriale di massa, in cui viviamo. È nn presupposto metodologico importante. Non esiste la fa­ miglia in generale. L’analisi sociologica distingue almeno due ti­ pi di famiglia: la f^niglia estesa o allargata, caratteristica del mondo rurale e patriarcale, dominata dali’autorità tradizionale e da nno stile di vita essenzialmente abitudinario, e la famiglia ristretta, o nucleare, costituita mediamente da padre, madre, nno o due figli, separata dal resto del parentado e relativamen­ te autonoma nelle sue decisioni pratiche di vita. È con l’esame della crisi di questo secondo tipo di famiglia, che è quello con cui dobbiamo fare quotidianamente i conti, che si chiude il libro. Gli autori sono perfettamente consapevoli della gravità della crisi, che del resto viene con allarmante frequenza sottolineata dai fatti della cronaca nera. Essi, benché strettamente vincolati dal­ le regole del metodo scientifico, non esitano a offrire una serie di ragionevoli raccomandazioni terapeutiche.

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Sia gli uomini che le donne dovrebbero essere educati a rivesti­ re il ruolo di genitori attraverso progranuni educativi e linee gui­ da anche istituzionali (scuola, chiesa, organismi sociali). Nel con­ testo specifico della vit^^^^inone domestica, visite domiciliari da parte di operatori religiosi o sociali in quelle famiglie conside­ rate a rischio possono fonine un supporto pratico e morale, e inoltre offrire un metodo alternativo per affrontare i problemi personali e interpersonali.

I casi richiamati dagli autori e opportun^nente commentati, au­ tentici case s^tudfes che costituiscono l’ossatura della ricerca, confermano la sos^nziale giustezza di queste misure, le quali sono peraltro misure d'emergenza. A più lunga scadenza gli au­ tori intravedono l’esigenza di far ricorso e riscoprire i valori della vita e quei vincoli affettivi che un sociologo americano, Robert Bellah, ha felicemente indicato, fa, come gli ^habits ojthe heart, le abitudini del cuore. Gli autori hanno chiara con­ sapevolezza che queste «abitudini» non possono venire evocate né, tanto meno, inverate sul piano pratico ad libitum. La crisi dell’attuale famiglia ristretta o nucleare non dipende solo da caratteristiche individuali di tipo psicologico o morale. Va nota­ ta e presa in seria considerazione una logica sistemica della società globale che sembra cozzare e isolare la compagine f^niliare. La società industriale di massa nella quale attualmente viviamo è essenzialmente tenuta insieme da un’economia di mercato. Questa economia si pone oggi come fattore determi­ nante di tutte le forme di convivenza e sembra influe^nzare gran parte dei comportamenti e delle motivazioni dei gruppi e dei singoli. Il mercato, in sé legittimo come foro di negoziazioni sul piano orizzontale, viene sempre più considerato come il criterio supremo nel regolare i rapporti fra i cittadini e fra questi e le istituzioni sociali. Persino il linguaggio corrente viene profon­ damente influenzato dalle transazioni mercantili. Si parla co­ munemente di «capitale morale» o della «borsa valori», inten­ dendo con questa frase anche i valori morali e non solo quelli finanziari. Si sta oggi profilando un rischio che riguarda tutto il mondo sviluppato e tecnicamente progredito: da un’economia di mercato stiamo passando a una società di mercato, vale a di­ 8

re a una società in cui tutti i rapporti, anche quelli più perso­ nali e intimi, sono valutati come rapporti contrattuali, in terdi tornaconto individuale. È chiaro che, in una situazione siffatta, le «abitudini del cuore» sono destinate a rattrappirsi e a deperire. Fino a tempi recenti, la famiglia era una zona fran­ ca rispetto alla logica onniawolgente del mercato. Questa zona franca si va pericolosamente restringendo. I dati messi in luce dalla notevole ricerca di George e Mark Palermo confe^^mo purtroppo quanto, in senso ipotetico, venivo considerando come probabile tendenza evolutiva della famiglia nella società industriale. In paesi tecnicamente av^^ti - notavo nel mio Man^uale di serologia (Late^, ^XXII ed., 2002, pp. 174­ 182) come gli Stati Uditi e quelli del Nord Europa, anche i rap­ porti interni della famiglia, quelli che George e Mark Palermo chinano correttamente «affari di famiglia», un tempo sottratti all’occhio pubblico e tenuti in un’aura di devoto riserbo. tendono ormai a farsi supporti di mercato, a mone^^arsi, a tradursi in quantità fa^iaria e valori mercantili, come ben si vede nelle cause di divorzio o di sepa^razione legale. I dead. beajathers, ossia i padri che non passano gli alimenti a moglie e figli, sono espe­ rienze comedi. Del resto, la «casa avita» è sempre più simile a una pensione cui si scende saltuariamente; per i glovadi in occasione di qualche giorno consacrato alle commemorazioni ritualizzate, quali il «giorno del ^^^aziamento», il ^Day, con li suo Ho^co^^g. Ma i fratelli più grandi che eventualmente ac­ cudiscono i più piccoli saranno retribuiti un tanto l'ora come gli scrupolosi impiegati di un ufficio ben org^^^to. Retorica a par­ te, di fatto la società industriale di massa non riconosce gli «aspet­ ti domestici». Non solo. È una società «panlavorista», uo^mini e donne, padre e madri di famiglia devono lavorare: le famiglie hanno bisogno di una doppia entrata per mantenere decente il li­ vello di vita e salvare almeno le apparenze del decoro sociale. Chi paga di più per questa situazione sono i bambini. Ci si meraviglia di delitti di minori che hanno dell’incredibile. Ci si dimentica però, che, scuola a parte. il fattore più impor^nte della soci^^^trione pri^lma resta la televisione, questo decisivo ferro pedagogico che peraltro agisce nella più totale irresponsabilità fo^nativa. Gli ado­ -

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lescenti specialmente sono quotidianamente bombardati da una ^miriade di stimoli in una condizione di sost^anziale solitu^ne. Non si vuole condannare in blocco la modema tecnologia com^alcativa, ma sarebbe essenziale che il grnino emotivo che gli adole­ scenti portano dentro venisse sciolto con l’aiuto, non necessaria­ mente specialistico, degii adulti e dei familiari attraverso la con­ versazione, lo scambio ^anq^uilo di opinioni, l'ascolto attento e i commenti, non didattici, ma su un piede di rispetto e di parità. Sta di fatto che la famiglia come istituzione va perdendo, con l’av^^are dell’industrializzazione, la sua salde^zza; si fa sempre più o unione, solo relativamente stabile, con premi­ nenti aspetti psicologici, delegata dalla società globale alla ripro­ duzione e quindi ad occuparsi dei bambini, solo nei p^rimissimi di vita e spesso neppure in questi, e come compagnia fra due persone di sesso diverso. Il ^nnde contributo che questo libro reca alla riflessione socio­ logica e politica è, da questo punto di vista, quanto mai attuale. Non è solo la figura patema che perde terreno, tanto che studio­ si seri come Alexander Mitscherlich cominciano a ipo^^are una •società senza padri». La stessa compagine familiare è sottoposta a un’usura che quotidian^nente ne lima i contorni e la capacità di resistenza, la confronta con problemi che cadono al di là della sua possibilità pratica di controllo e di soluzione positiva, ne fa l’oggetto di •politiche sociali», che talvolta ne misconoscono la logi­ ca profonda. La famiglia ristretta o in^tima o nucleare-coniugale rischia oggi, come 1 dati della ricerca dei Palermo confermano, di perdere la funzione che ad essa era rimasta, dopo la perdita della funzione economica autonoma, vale a dire la funzione formativa e psicopedagogica. Il lavoro è sempre più legato a situazioni extra­ familiari. Padre e madre sono costretti a passare gran parte del loro tempo fuori casa. Non hanno il tempo minimo indispensabi­ le per preparare, intellettualmente ed emotivamente, i loro figli alla vita. La scuola può solo in parte surrogarli. Cresce, all’interno della famiglia, la frustrazione. Con essa, aumentano la disperazione, un vago senso di colpa, e quindi, inevitabilmente, la violenza. È il tema dominante di questo libro ed è un tema, p^urtrop1O

po, di grande attualità. Si tratta della violenza che nasce e de­ flagra tra le mura domestiche: una violenza per lo più nascosta, di cui sia le vittime che i carnefici non parlano volentieri, che raramente arriva a esplicite denunce legali, ma che anche per questo è più grave e va attentamente indagata e spiegata. Essa cozza, infatti, e crudelmente v^anifica le aspettative della persona media che vede ancora nella famiglia un centro di affetto reci­ proco, un alido d'amore, di fedeltà e di solidarietà inter-individuale. È l'insieme di queste aspettative che rende anche più dif­ ficile la denuncia e la presa di coscienza della violenza nell'am­ bito f^aliliare. È tempo che la ricerca sociale cominci a scavare in questo terreno minato. Se questa piaga sociale non potrà essere in poco tempo curata, la si porti almeno alla superficie e la si chiarisca, realisticamente, nei suoi contorni effettivi. Franco Ferrarotti

Professore di Sociologia Università degli Studi di Roma «La Sapienza»

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Capitolo I

LA VIOLENZA IN FAMIGLIA

Le comunità in generale, e le famiglie in particolare, dovrebbero

fondarsi sullo spirito di solidarietà, condivisione, calore, lavoro, assenza di egoismo e consapevolezza delle necessità fisiche, emo­ tive e spirituali altrui. La cosiddetta «crisi» della f^amiglia ha pro­ babilmente contribuito in parte a un incremento della crimina­ lità, delle molestie fisiche e psicologiche, della violazione dei di­ ritti altrui, dell’emarginazione sociale e dell'aridità affettiva. La violenza, come espressione estrema dell'ostilità e di comporta­ menti iresponsabili, trova, inoltre, un substrato fertile in quei membri della società che sono condizionati da profonde spinte egoistiche o che hanno perso il senso della responsabilità. Per Sigmund Freud l’istinto aggressivo umano, una volta lasciato libero di sfogarsi, determina violenza in famiglia e nel­ la società, e tende ad ^restare il corso normale della civiltà. La civiltà è un processo [ ... | il cui scopo è quello di mettere in relazione singoli individui umani, [ ...1 famiglie, per poi passare alle razze, al popoli e alle nazioni, fino a formare una grande unità, l'unità dell'uomo'.

L'assenza di ritegno morale e di comport^nenti responsabili in una famiglia può quindi contribuire a sbrigliare l'istinto aggres­ sivo di cui scriveva Freud. Gli stessi possono portare anche alla violenza di cui siamo spesso tutti testimoni nella società contemporanea, nonché minare la stabilità familiare. Nel 1992 il tasso di violenza domestica si ^^^va intomo al

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12,8%o, owero 2.642.250 casi2. In molti di questi casi la violenza è dovuta principalmente alla mancanza di una sana influenza formativa della cellula familiare sui propri componenti. Queste persone prive di maturità emotiva presentano una mancanza di fidatezza, un’incapacità di adattarsi alle regole e ai costumi del vivere sociale [...] o di fare tesoro delle esperien­ ze passate3.

Queste persone. siano esse adolescenti o adulti, sono spesso, inoltre, socialmente immature. Himmelfarb scriveva: Il cuore della città è divenuto il centro di una comunità che ge­ nera comportamenti criminali, un luogo in cui le dinamiche so­ ciali che creano criminali predatori sono assai più numerose e ben più potenti di quelle che creano cittadini virtuosi. Se ana­ lizziamo il problema più da vicino, ci rendiamo conto che i gio­ vani che vivono in questi centri urbani crescono circondati da ragazzi e adulti che sono essi stessi deviarti, delinquenti o cri­ minali4.

Pochi di questi giovani hanno alle spalle strutture familiari stabili. Una ricerca recente condotta su 791 giovani reclusi, con particolare rife^mento ai loro leganti con i rispettivi genitori biologici, ha rivelato una triste realtà: solo il 13% di loro prove­ niva da una famiglia descritta come «sana»5. Lo studio in que­ stione conferma che la mancanza di un padre o di altro model­ lo di ruolo maschile adeguato è spesso causa della fuga da ca­ sa di bambini e adolescenti, i quali scelgono poi una vita fatta di gang di strada e atti di teppismo. Entrando inoltre nello specifico del comportamento sociale genitoriale dei giovani reclusi studiati, tra altre caratteristiche si è riscontrato: un 44% delle coppie che non aveva mai con­ tratto matrimonio; un 29% di divorzi; il 13% di coppie genitoriali regolarmente sposate: e un 4% di separazioni legali. Il 30% dei giovani non aveva mai vissuto contemporaneamente con entrambi i genitori, e il 65% di loro aveva vissuto contempora­ neamente con entrambi i genitori naturali solo per un periodo della sua vita.

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In assenza di una solida base di partenza è concepibile che vi siano difficoltà nello sviluppo del rispetto per se stessi e del desiderio di contribuire al bene della comunità. Non sbagliava Frank S. Pittman quando affermava:

La vita per molti ragazzi e altrettanti uomini adulti è un fru­ strante andare alla ricerca del padre perduto che non ha anco­ ra dato loro protezione, né un cibo, né fornito modelli a cui rifarsi o comunque attenzioni da padre6.

A tal proposito, David Blankenhorn scriveva: La sfida che più pressantemente si presenta al cospetto della famiglia americana sul volgere del secolo è la ri-creazione della figura del padre come ruolo sociale di vitale importanza per la sopravvivenza degli uomini [ ...). Tollerare il perseverare di una situazione di mancanza di riferimenti paterni significa accettare l'ineluttabilità della recessione della società7.

La violenza domestica coinvolge i componenti di una famiglia o altre persone legate da relazioni di convivenza in un nucleo so­ ciale di tipo familiare. Solitamente è fi risultato di un confronto emotivo, verbale e fisico. A una prima analisi superficiale, le cau­ se sono al ordine economico, sociale e affettivo, ma scendendo maggiormente in profondità, la violenza riflette anche uno scon­ tro tra autonomia e controllo. ll desiderio di re^^^trione perso­ nale, di accettazione e rispetto di sé viene di solito frustrato dal­ l'impulso al dominio e dalla violenza, manifestati dalla persona più forte, la quale tenta di imporre agli altri un ruolo di remis­ sione o subordinazione, scatenando, allo stesso tempo, senti­ menti di umiliazione e disperazione. Spesso l'aggressore è un uomo, il marito o il convivente, e le vittime la moglie, la compagna o i figli. Il dominio del maschio si manifesta sotto forma di abuso fisico o psicologico, nonché di intimidazione, nei confronti dei componenti del nucleo fami­ liare. Il controllo esercitato nei confronti della vittima nella fase intimidatoria è di tipo economico o riguarda la scelta delle per­ sone che la vittima può frequentare e con cui può parlare. Per queste ragioni, al momento della valutazione dei casi di

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viole^nza domestica e dei possibili elementi che ne costituiscono la base, s^à necessario prendere in dovuta consideratone i fat­ tori «autonomia» e «controllo», e, in maniera ancora più specifica, l’impulso all’autonomia o all’autodeterminazione dei vari compo­ nenti di una famiglia, che include coniugi o conviventi, figli, nonni o altri. Si suppone che, a eccezione di brevi periodi caratterizzati da culture a struttura matriarcale, la storia dell'uomo sia stata sem­ pre dominata dal sistema patriarcale. In epoca remota è proba­ bile che nella maggior^^a dei casi differenze biologiche condi­ zionassero la distribuzione del lavoro: al maschio, cacciatoreraccoglitore, si contrapponeva il ruolo femminile nella procrea­ zione e nella cura della prole. Le differenze di genere/sesso e l’autorità del maschio contribuivano a mantenere il ruolo domi­ nante maschile, limitando la funzione femminile alla crescita dei figli e alle occupazioni domestiche. Nel tempo questa di­ stinzione di ruoli aumentò, e con essa la disparità, con le don­ ne sempre più «attori non politici», a volte anche non-persone o proprietà esclusiva degli uomini6. All’interno delle mura dome­ stiche le donne erano considerate oggetti sessuali. Le stesso av­ veniva, come purtroppo avviene tuttora, per ruoli «sociali» e^ifaf^niliari (come nel caso della prostituzione). Indipendentemente da quanto sopra, e dal ruolo assunto nell’ambito domestico, le donne sceglievano, in base anche a un istinto evolutivo di conservazione e perpetuazione genetica, quell’uomo che con le sue capacità fisiche, intellettuali e socia­ li avrebbe assicurato loro, e al propri figli, una vita migliore. Cio­ nonostante, contemporaneamente a questo aspetto «pragmati­ co» femminile, le donne si rendono probabilmente conto della loro vulnerabilità. Una consapevolezza indotta anche dal con­ cetto che l’uomo aveva di se stesso, di «essere superiore», in una società nella quale la donna era ritenuta intellettualmente, mo­ ralmente e spiritualmente inferiore, e si trovava di fatto in ba­ lia di un atteggiamento maschile ambivalente fatto di aggres­ sività e ^nore protettivo insieme. In epoche passate, la condizione della donna subordinata nel­ la propria casa al volere del proprio uomo era prevalente e co-

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stante, a eccezione di alcuni brevi periodi. Sembra che durante il regno di H^^murabi, per esempio, le donne avessero acquisi­ to qualche piccolo diritto. Il Codice di Hanunurabi, risalente ad almeno quattromila fa, consentiva infatti alle donne di gestire un’attività commerciale e acquistare delle proprietà, e se un uomo divorziava da una donna, quest'ultima aveva diritto alla restituzione della propria dote e l’uomo era obbligato a ver­ sare denaro per il manteminento dei Agli9. Ciononostante, anti­ chi scritti ebraici testimoniano chiaramente il fatto che le donne di rado venivano considerate ala stregua degli uomini. Si legge, per esempio: «Che Tu sia Benedetto, O Mio Signore, per non avermi fatto nascere donna»10. Come scriveva Richard Davis, pe­ rò, nonostante la cristi^altà facesse i primi tentativi per polare la donna allo stesso livello degli uomini, almeno agli occhi di Dio -come si evince dalla lettera di San Paolo ai Galati, 3, 27: «Non c’è più uomo, né donna, poiché tutti voi siete imo in Gesù Cri­ sto» - l’ambivalenza nei confronti delle donne appare evidente nella prima lettera di San Paolo a Timoteo, 2. 11-12: «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nes­ suna donna al insegnare, né di dettare legge al'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo». È quindi assai interes­ sante, comunque, ciò che si legge nei Proverbi, 12, 4: «La donna perfetta è la corona del marito». Dagli albori delle civiltà sumera, ebraica e cristiana fino ai giomi nostri le donne sono state oggetto di svilimento e soffe­ renze fisiche, sessuali e sociali. Poco si conosce degli abusi che le donne sono state costrette a sopportare all’interno delle mu­ ra domestiche nel corso dei secoli, ma è pur sempre possibile trarre conclusioni a tal proposito basandosi sul fatto che, co­ me continua Davis, persino all’inizio della civiltà nord-ameri­ cana «a un marito la legge permetteva di punire la, propria mo­ glie senza essere poi soggetto a procedimenti giudiziari per ag­ gressione o percosse»''. A partire già dal secolo, negli Stati Uniti, come anche in altri paesi, si ha uno sviluppo improvviso della lotta formalizza­ ta delle donne contro il costume di considerarle cittadine di se­ rie B12. L'acquisizione della parità sociale, la tutela contro gli

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abusi domestici e il loro riconoscimento come entità socio-poli­ tiche ha attraversato un secolo di vittorie graduali, a partire dalla sentenza emessa dal tribunale dell'Alabama nel 1871, in cui si argomentava che «una moglie aveva diritto a godere della medesima tutela da parte della legge che il marito poteva invo­ care per se stesso»13. La legislazione che regolava l'uso dei pali per la fustigazione di coloro che avevano percosso la propria moglie nei vari stati, l’emancipazione delle donne indotta dalle circos^^ze che si verificarono durante e dopo la seconda guer­ ra mondiale, la legge che perequava i salari firmata nel 1960 dal presidente John F. Kennedy e il movimento femminista, furono tutti eventi di notevole impo^^^a, che contribuirono all'intro­ duzione di significativi cambiamenti nel tessuto sociale. Nono­ stante questo, sebbene le donne godano oggi di una maggiore tutela e siano legalmente equiparate agli uomini, i casi di ag­ gressioni fisiche e sessuali di cui sono vittime all'interno delle mura domestiche rimangono numerosi. La ricerca condotta da Marvin Wolfgang sulle morti violente verificatesi nella città di Filadelfia tra il 1948 e il 1952 ha rivela­ to che tra i domestici il più comune è l'uxoricidio, seguito dal figlicidio14. Inoltre, l'indagine condotta da Wolfgang sugli omi­ cidi perpetrati durante lo stesso periodo di tempo studiato rivela che nel 25% dei casi erano stati coinvolti i componenti delia stes­ sa f^niglia dell'omicida e che su 136 vittime di omicidi, 100 era­ no state le mogli e 17 i figli dell'uccisore. La categoria più ampia, pari al 28,2% delle vittime, era costi­ tuita da «amici intimi». La categoria seguente (24,7%) era costi­ tuita da componenti della stessa famiglia15.

Uno studio del 1964 aveva ancora evidenziato il fatto che nel­ l' ll% dei casi di aggressioni aggravate presi in considerazione le

vittime erano la moglie o il martto16. Nel 1980 Murray A. Straus et aL17, in Behind Closed Doirs: Violence in the A^rican Family (A porte chiuse: violenza nella famiglia americana), riferivano che, nel corso dell'anno di stu­ dio, in 6.100 delle 100.000 coppie sposate prese a campione, i 18

coniugi si erano aggrediti fisicamente l'un l'altro con violenza. Inoltre, la ricerca indica che nello stesso periodo 1.800.000 donne avevano subito aggressioni fisiche da parte dei mariti almeno una volta l'anno. Nel 1992 fu stimato che in media, in un periodo di dodici mesi, negli Stati Uniti circa 2.000.000 di donne erano state oggetto di gravi violenze da parte dei loro compagni18. Alcuni studi successivi sostennero che le stime di cui sopra fossero notevolmente al di sotto dei 4.000.000 di don­ ne che erano state probabili vittime di aggressioni gravi19. I dati statistici recenti indicano che almeno 2.000 persone sono state vittime di atti violenti in famiglia esitati in omicidio volontario o preterintenzionale20. Negli Stati Uniti la casistica relativa alla violenza familiare ha raggiunto proporzioni epidemiche e non è limitata a un ben definito gruppo sociale o economico, né sesso, età o genere possono considerarsi fattori limitanti. Alcune recenti rilevazio­ ni statistiche hanno messo in luce che nel 1997 il numero delle aggressioni familiari negli Stati Uniti era pari a 6.723.290 (il 15, l% aggravate e il 14,4% semplici). Si calcola che il 7,5% degli uomini e il 24,8% delle donne siano stati vittime di vio­ lenze carnali e/o aggressioni fisiche in cui l'aggressore è un conoscente stretto della vittima21. Già nel 1990, Richard J. Gelles e Claire P. Cornell avevano scritto: Ci sono molte più possibilità che una persona venga uccisa, ag­ gredita, percossa o malmenata in casa da altri componenti della famiglia stessa piuttosto che in altri luoghi e da chiunque altro nella nostra società22.

Per capire l'angoscia e la disperazione che assalgono una vitti­ ma di violenze familiari è fondamentale ricordare cosa si aspet­ ta una persona, a livello conscio o inconscio, dalla sua vita in famiglia. La nostra esperienza professionale con persone che hanno avuto a che fare con problemi emotivi o esistenziali ci permette di affermare che la maggior^^ta della gente vede la famiglia come una microcomunità e si aspetta che questa sia fonte di educazione e protezione. È proprio all'interno dell'unita familiare, idealmente vista come un aggregato di persone che

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condividono lo stesso bagaglio culturale o forti legami e interes­ si fisici e affettivi, che un individuo si aspetta di ricevere amore ed educazione, di formare la propria identità (individuazione) nel rispetto della propria privacy. La famiglia è l’unità fonda­ mentale su cui si fonda la società. Le sue funzioni sono basila­ ri e di vitale impo^^^a, anche se la sua struttura è mutata da fissa e statica a flessibile, in modo da garantire la continuità di una società in costante evoluzione, la Gesellschafi dei sociologi tedeschi, il cui scopo pomario è quello di avvicinare gruppi sociali di varia etnia e farli vivere in modo armonioso. Nella ricerca della radice etimologica della parola «domesti­ co», definita come «relativo alla casa, alla famiglia»23, ci viene ri­ cordato che per gli antichi greci la parola domos, e per i romani l’equivalente domus, si riferiva non solo alla struttura fisica di una casa, ma anche a quello che noi oggi chiamiamo nucleo fa­ miliare, come domesticus significava relativo alla famiglia. La parola «violenza», invece, derivante dal latino vis e violentia, defi­ nisce l’uso intenzionale della fo^a di una persona ai danni di un’altra. La violenza può essere fisica, psicologica o morale e ha solitamente lo scopo di infliggere un danno fisico, un dolore psi­ cologico o una costrizione morale, e contemporaneamente, per l’aggressore, la violenza è fonte di soddisfazione. Questa delucidazione semantica ci fornisce le basi da cui partire per una più completa comprensione del significato di violenza domestica per l’aggressore e per la vittima. Quando parliamo di violenza domestica intendiamo la violenza che vie­ ne perpetrata all’interno della famiglia con la precisa intenzio­ ne di esercitare un controllo. Ci chiediamo, però, se un indivi­ duo non controllato e. nel nostro caso specifico, anche di indo­ le violenta, sia in grado di ottenere un tipo di controllo sulla vit­ tima diverso da un semplice effetto intimidatorio di breve du­ rata. Sebbene noi non sottovalutiamo affatto la sua valenza nei rapporti interpersonali, nel nostro contesto specifico non con­ sideriamo pertinente l’occasionale espressione esplosiva di emo­ zioni durante la fase critica di una lite nota come violenza ver­ bale. La definizione di violenza domestica deve contenere nel suo nucleo l’intenzione dell’aggressore di procurare un danno

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a un altro componente della propria f^niglia. È owio che qua­ lora si utilizzi questa particolare de^nizione, dobbiamo allarga­ re il perimetro del nucleo fa^miliare ed estendere il concetto di familiarità a quelle persone che hanno forti leg^ni emotivi e fi­ sici, ma che, per varie ragioni, vivono separate. tri violenza do­ mestica, quindi, può aver luogo fuori della casa di famiglia. tri violenza domestica nelle sue varie forme di aggressione nei confronti del coniuge, dei figli o dei parenti anziani si ma­ nifesta in maniera continua, ciclica o anche improwisa. Trat­ tandosi spesso di una situazione ricorrente e imprevedibile, sebbene di tipo assai specifico, è facile capire la preoccupa­ zione e la disperazione che viene a crearsi nella mente delle vittime, che rimangono in angosciosa attesa della successiva esplosione di violenza fisica. I suoi effetti deleteri non si ferma­ no allo stato di sofferenza e agonia della vittima, ma tendono a far sentire la propria influenza sui comportamenti presenti e futuri di tutti i componenti della famiglia. È stato, infatti, di­ mostrato che oltre i due terzi degli uomini che usano violenza contro le proprie compagne provengono da famiglie nelle quali si verificavano atti di violenza fra i genitori, e circa la metà de­ gli aggressori sono stati essi stessi maltrattati da bambini24. tri violenza, quindi, genera violenza, divide i componenti di una niniglia in fazioni distinte e crea problemi psicosomatici sia negli adulti che nei bambini. Il comportamento di b^nbini, vittime o testimoni, è inizialmente di tipo oppositivo, per poi sfociare, nel corso della vita, in forme di aggressione psicopa­ tica antisociale. Una delle conseguenze di maltrattamenti ripe­ tuti, in presenza o assenza di un concomitante disturbo psi­ chiatrico, è spesso un odio estremo nei confronti dei genitori, con possibili esiti tragici. Sono frequenti le denunce di atti di violenza sessuale e stu­ pro nei confronti della moglie, di aggressioni sessuali al danni dei figli naturali, di solito delle figlie femmine, o anche di figli adottivi da parte dell’uomo di casa, ed è possibile che questi stessi fattori contribuiscano (ma non causino) anche allo svi­ luppo inturo di comportamenti di tossicodipendenza, all’alcoli­ smo e prostituzione. Per abuso sessuale si intende solitamente

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l'accarezzamento di piarti del corpo che non siano i genitali, atti eterosessuali o omosessuali, molestie con contatto dei genitali come il cunnilingus, i rapporti vaginali, orali e rettali. Secondo alcune fonti contenenti dati sulle aggressioni denun­ ciate e non denunciate su tutto il territorio degli Stati Uniti, gli stupri e altri tipi di aggressioni a sfondo sessuale da parte dl mariti, fid^^ati ed ex fid^^ati costituiscono circa un quarto di tutti i reati relativi a questa categoria25.

Ci dovremmo forse chiedere se la ritrattazione operata da Sig­ mund Freud relativamente alle possibili molestie subite dalle proprie pazienti ad opera del padre fosse solo un'azione «politic^nente corretta» e conveniente da parte sua nel periodo sto­ rico in cui scriveva. Infatti, in ambito clinico sono innumere­ voli i casi di aggressioni a sfondo sessuale e di incesto/stupro all'interno delle famiglie. È naturale chiedersi se l'aggressore o la vittima di violenze familiari presenti una psicodinamica particolare che rende co­ sì ricorrente questo tipo di reato. La famiglia di regola vive in una struttura chiusa, i cui confini sono ben definiti, e normal­ mente si trova al riparo dagli sguardi dei vicini o dei passanti. I membri di una f^niglia, di solito, nutrono emozioni, sia ne­ gative che positive, a volte ambivalenti, che li legano fortemen­ te l'uno al'altro. Nessuno ha mal trovato miglior laboratorio di osservazione e ricerca sulle emozioni se non all'interno della famiglia: è proprio in quel preciso contesto che un neonato, che diventerà bambino e infine adulto, sviluppa la struttura della propria personalità e il suo stile cognitivo. I dati di giustizia penale disponibili indicano che gli uomini accusati di atti di violenza domestica spesso sono individui giovani, molti dei quali hanno un'età compresa tra i tredici e i trent'anni. Questa medesima correlazione sembra essere valida anche per le vittime. Le donne dai diciannove ai ventinove rimangono vit­ time di a^essioni da parte di persona intima con maggiore frequenza rispetto alle donne appartenenti ad altre fasce di età26.

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Davis ci presenta uno studio che ha pennesso di scoprire che il 9^/o [degli aggressori tra le mura domestiche] non ha prece­ denti, il che significa che fuori della cerchia familiare la maggior parte di queste persone non presenta comportamenti deviand27.

Ciononostante, tra i mariti violenti si registra un elevato tasso di alcolismo e di comportamento antisociale. Coloro che sono coinvolti in episodi di violenza familiare pre­ sentano un tipo particolare di personalità e, solitamente, gli uomini che aggrediscono le proprie compagne sostengono di essere stati essi stessi vittime di abusi sessuali durante gli anni dell’adolescenza da parte di un padre dedito all'alcol e/o alla droga. Loro stessi, poi, hanno messo in atto gli stessi compor^tamenti, con una frequenza sicuramente maggiore rispetto agli uomini non coinvolti in episodi di violenza. Spesso questi uomi­ ni si sentono inadeguati e insicuri, non hanno successo nella vita e neppure sul lavoro, ritengono di non essere all’altezza delle aspettative di una relazione e spesso hanno tentato di na­ scondere questa loro incompetenza mediante il prowedere tot^mente, o in gran parte, al bisogni della famiglia. Succede, a volte, che una lite con la coniuge o altro componente della fa­ miglia li metta nuovamente di fronte alla consapevolezza del lo­ ro senso di inadeguatezza e proprio a causa di ciò si accani­ scono di nuovo contro coloro che awertono come una minac­ cia alla propria fragile omeostasi emotiva. In Genesis of Aggression (Genesi familiare dell’ag­ gressione), Melvin Lansky28 afenna che il senso di vergogna as­ sume un’impo^^^a centrale nella determinazione del comportamnento impulsivo e violento, ed è considerato inscindibile dal senso di umiliazione e di perdita di autostima. L’autore sostiene che alcune persone mostrano una particolare propensione alla vergogna che li porta ad affidarsi in maniera eccessiva agli altri per il mantenimento della propria autostima. Lansky ritiene che questo comportamento tragga origine dall’essere cresciuti in una f^niglia disnifunzionale, all'interno della quale il b^nbino ha svi­ luppato un senso di inadeguatezza. Una persona, cresciuta in 23

questo clima di disadattamento e inclinazione ala vergogna, co­ va nel proprio intimo una sorta di rabbia repressa con difficoltà, fino a quando la stessa non esplode con sentimenti di ostilità. Non è infatti la persona forte, equilibrata e sicura di sé che sca­ tena la propria violerà contro i componenti della propria fami­ glia o altri, quanto l’individuo inadeguato che si sente intimidito, impotente, in preda al senso di vergogna e indifeso: è solitamen­ te il debole che reagisce in modo violento, non fi forte. La persona che tende a manifestarsi violenta ricorre a vari meccanismi di difesa per evitare azioni impulsive. Uno di questi meccanismi consiste nel tenere a dovuta dista^nza emotiva la mo­ glie o gli altri componenti della famiglia: ecco perché alcune per­ sone esplosive potrebbero appartre emotivamente distaccate e spesso trascorrono molto tempo in solitudine. La loro rabbia si muove sotto mentite spoglie e viene scatenata come meccanismo protettivo al fine di evitare sensi di vergogna e debole^». Le vittime

Mogli e compogne Sono molti gli studi che sono stati condotti nel tentativo di de­ finire le caratteristiche delle donne che rimangono vittime di atti di violenza da parte del coniuge. È interessante notare co­ me nel corso di un’analisi comparativa effettuata su cinquantadue ricerche sia stata individuata un’unica variabile come potenziale marcatore di rischio per le donne di cadere vittime di mariti violenti e si tratta di «essere testimone di violenza tra i genitori da bambine o adolescenti»29. Ma un altro fattore di rischio è l’abuso sessuale subito dalla donna quando era solo una bambina. A un’analisi dei testi disponibili sull'argomento, appare evi­ dente che le donne negli Stati Uniti sono più frequentemente vittime di «aggressioni, percosse, stupri o omicidi da parte del compagno attuale o ex partner piuttosto che da altri tipi di ag­ gressori insieme»^. Un’approfondita ricerca su casi di omicidio

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avvenuti in un periodo di cinque anni ha rivelato che più della metà delle vittime di sesso femminile sono state uccise da ag­ gressori mascfa31. La persona incline alla violenza trova spesso nella propria ca­ sa il terreno fertile per la propria condotta violenta: gli altri componenti della famiglia, la vittima o le vittime in questo caso, spesso appaiono agli occhi dell’aggressore come «facili prede». La vittima, in effetti, sebbene p^ialmente abile a esprimere i propri sentimenti di rabbia e frustrazione per i maltrattamenti cui è soggetta, spesso non riesce o non vuole denunciare gli epi­ sodi di violenza. Viene frenata da sentimenti ambivalenti, da razional^^Laoni, da considerazioni pratiche di carattere econo­ mico, dal ^rnore di disintegrare ulterio^ente la f^niglia, dala sper^^a di un pentimento da parte dell’aggressore, e, infine, soprattutto, dalla paura di ritorsioni. È assodato che «il rischio di aggressioni si fa più forte quando una donna rompe o minac­ cia di rompere una relazione violenta»32 e difficilmente la donna maltrattata abbandona il tetto coniugale. Frank R. Scarpini e Arnilie L. Nielsen scrivono: Alcune mogli, che hanno paura di fuggire ma che non riesco­ no più comunque a sopportare ulteriori violenze, come solu­ zione estrema si trasformano esse stesse in killer del marito violento, colpendo di solito quando lui è maggiormente vulne­ rabile o debole, durante il sonno, per esempio33.

Per quanto riguarda la nostra esperienza^, invece, abbiamo nota­ to che l’aggressore spesso viene ucciso in cucina, dove la donna, per impulso e autodifesa, può disporre di un coltello. Nei rari casi in cui sono i mariti a essere vittime di molestie per mano delle mogli, il comportamento violento della donna è a volte più frequente e grave di quanto non avvenga nel caso dei mariti-aggressori. A ogni modo, Lenore Walkeri4 afferma che, in base alle informazioni disponibili, le donne che ucci­ dono il loro abusatore ricorrono a questa soluzione estrema come ultima ancora di salvezza al fine di proteggersi da ulte­ riori maltrattamenti fisici e psicologici. Si stima che il 76% (38 soggetti) di un campione di 50 donne che avevano ucciso il

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proprio marito, aveva utilizzato la stessa arma con cui il ma­ rito le aveva minacciate, perché convinte che l’aggressore sa­ rebbe andato oltre la semplice minaccia35. Secondo dati statistici, quando le donne diven^no violente all'interno di una relazione coniugale la frequenza delle ^agessioni moglie-marito e marito-moglie è quasi equivalente^. Davis, comunque, contesta queste statistiche, ripor^ndo alcuni dati for­ niti dall’FBi, secondo i quali «nel 1993, 591 mariti o fid^^ati sono stati uccisi dalle proprie compagne (mogli o fid^^ate) [e...) 1.531 mogli o fid^azate sono state uccise dai comp^agni (mariti o fidan­ zati)» e nel 1995 (rapporto dell'FBi) «il 26% delle vittime di sesso femminile era stato ucciso per ^ano di mariti o fid^^ati [...men­ tre] il 3% delle vittime di sesso rn^chlie era stato ucciso da mogli o fid^^ate»37. I figli che si trovano a essere testimoni involontari degli omicidi dei genitori rim^angono emotivamente traumatizzati e segnati dagli episodi di violenza, i quali lasciano in loro profonde ferite. Questi bambini, spesso, mostrano sintomi di debilitazione paragonabili a quelli che si manifestano in seguito a disturbi da stress post-traumatico*1.

Le ricerche condotte sulla violenza domestica hanno messo in evidenza che la metà della popolazione femminile sarà vittima di violenze da parte del partner durante il matrimonio, che ogni anno più di un terzo subisce percosse in maniera ripetu­ ta e che le donne sono sei volte più esposte a crimini violenti all'interno di una relazione intima39. Nel 1991, ogni settimana venivano assassinate più di 90 donne e, di queste, 9 su 10 era­ no vittime di aggressori di sesso maschile40. Sebbene la violen­ za contro le donne sia maggiormente prevalente all'interno del­ le mura domestiche, mariti e amanti violenti moles^tano il 74% delle proprie colleghe di lavoro sia di persona che utilizzando il telefono, causando la perdita del lavoro per la donna nel 20% dei casi41. Nel 1997 sono stati denunciati 430 casi di omi­ cidio volontario o preterintenzionale nei quali sia la vittima che l'aggressore avevano o avevano avuto una relazione intima (coniugi, ex coniugi, fidanzati)42. Neanche la gravid^^a protegge le donne contro ogni tipo di

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violenza. A conferma di questo, Walker ha affermato che «un numero esorbitante di donne subisce aggressioni mentre si tro­ va in stato di gravid^^a»43. Secondo un altro rapporto «circa fi 50% dei mariti violenti aggredisce con percosse le mogli incin­ te44, mentre un’altra fonte sostiene che quando si trova in gravid^anza, le probabilità per una donna di essere percossa e feri­ ta si triplicano»45. Uno studio realizzato di recente in Italia ha rivelato che il 90% delle donne vittime di percosse è soggetto a episodi di violenza fisica e psicologica persino durante la gravi­ danza46. I maltrattamenti che una do^a incinta subisce non esitano unicamente in dolore fisico, spavento e angoscia pro­ fonda, ma anche in aborti spontanei, rottura dell’utero e parto precipitoso, spesso con complicazioni per la placenta, nascita di bambini sottopeso e ferite o anche morte del feto4?. Sebbene molte delle donne che subiscono maltrattamenti non sporgano poi formale denuncia del fatto, esse si sottopon­ gono a frequenti visite mediche a causa delle ferite o di altri sin­ tomi che si manifestano. Nel 1985 una ricerca ha rivelato che ogni anno, negli Stati Uniti, un quinto di tutte le visite mediche e un terzo delle medicazioni effettuate in pronto soccorso su donne erano dovuti a maltrattamenti subiti dalle pazienti4®. Gli autori della ricerca affermavano che la causa principale delle ferite subite dalle donne ricorse a medicazioni di pronto soc­ corso era la violenza domestica, che mieteva molte più vittime rispetto agli incidenti automobilistici, alle aggressioni in strada e agli stupri messi insieme. Nel 1992 è stato valutato che

tra il 22% e il 35% delle donne che si presentano nelle sale di pronto soccorso viene curato per ferite o sintomi causati da vio­ lenze subite quotidianamente [... e] il 25% delle pazienti che si rivolgono ai reparti di psichiatria è malmenato dal compagno e fino al 64% delle pazienti psichiatriche subisce maltrattamen­ ti in età adulta49. Quando le percosse a cui è soggetta una donna sono molto vio­ lente, i sintomi lamentati e che necessitano di cure mediche sono molteplici: le ferite tipiche inflitte da una persona violenta in famiglia vanno dale contusioni alle lacerazioni, solitamente

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alla testa, al viso e al collo e a seguire al petto e alla zona addo­ minale. La sintomatologia cambia di volta in volta e consiste in dolori fisici generici a livello muscolare o addominale, emicranie o disturbi del sonno. Purtroppo, neanche i medici sono sempre in grado di ricono­ scere immediatamente la sindrome della donna maltrattata, che spesso si cela dietro questi sintomi fìsici. Infatti «solo nell’8% dei casi in cui la cartella clinica conteneva informazioni esplicite sulla violenza (fornite, per esempio, dalla paziente stessa) o evi­ denti indicazioni di abuso», i medici sono stati in grado di dimet­ tere le pazienti con la giusta diagnosi di violenza confugale™. Quando le vittime di percosse o di abusi sessuali si rivolgo­ no alia polizia al momento della violenza o immediatamente dopo nel tentativo di farla finire, spesso, come abbiamo detto, non sporgono formale denuncia. Contrariamente a quanto suc­ cede in caso di aggressioni e maltrattamenti da parte di scono­ sciuti, in cui la vittima, invece, porta avanti decisa la sua caccia all’aggressore, le vittime di violenze in famiglia spesso si rifiuta­ no di sporgere denuncia e quando viene aperto un caso per molestie con procedura d’ufficio la vittima neanche si presenta in tribunale per testimoniare. Il caso, aliora, viene chiuso. Sem­ bra essere un chiaro rifiuto della legge che prevede l’arresto nei casi di violenza familiare in vigore dal 1989 in quasi tutti gli Stati Uniti. Davis riferisce che nel 1880 un gran numero di procuratori distrettuali (si rifiutava) di perse­ guire la viole^nza coniugale sostenendo che la moglie avrebbe ritrattato l’accusa per evitare che il marito perdesse il lavoro51.

Oggi, invece, molti uomini violenti che maltrattano la moglie o altri componenti della propria famiglia non hanno affatto un la­ voro e dal punto di vista economico non sono in grado di forni­ re alcun sostegno né alla moglie né al figli. Nonostante tutto, le mogli rifiutano ancora di sporgere formale denuncia. È possibi­ le trovare una spiegazione a questo componimento? Se^za al­ cun dubbio, molte di loro hanno paura! Si può, comunque, azzardare l’ipotesi che in molti casi li fatto che la vittima si rifiu­ ti categoricamente di collaborare affinché il coniuge o compagno

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violento venga perseguito dalla legge, indica che il contrasto fa­ miliare non richiede un arresto, bensì una consulenza speciali­ stica. In altri casi alla base del rifiuto di far valere i propri diritti po­ trebbero esservi altre ragioni, come i sentimenti di compassione della vittima o anche una maggiore obiettività una volta che la bufera è passata. In questi casi specifici, la vittima potrebbe rite­ nere che la violenza sia dovuta a problemi inte^rersonali legati a disturbi della personalità o a situazioni sociali problematiche e che l’aggressore non abbia bisogno di essere chiuso in carcere ma, piuttosto, dell’aiuto di uno psicologo per tentare di porre rimedio ai profondi e frustranti problemi sociali (povertà, alloggi inadeguati, disoccupazione, lotta contro l’abuso di sos^tanze che creano dipende^nza) che spesso sono responsabili del tracollo definitivo e dei conseguenti episodi di violenza. Il problema della viole^nza in famiglia, per le donne maltratta­ te e sopral'fatte che si trovano a subire senza possibilità di dife­ sa, si presenta come sconcertante e sconfortate e le statistiche danno un quadro molto chiaro della situazione di disorienta­ mento nella quale queste donne vivono. Già nel 1975 i risultati di una ricerca indicavano che in un gruppo di un centinaio di donne che avevano subito maltrattamenti in famiglia, il tasso di separazioni era molto alto (81 %)52. Sebbene le donne separate o divorziate incidano solamente per il 7% nella popolazione totale degli Stati Uniti, si è scoperto che esse costituiscono il 75% di tutte le donne maltrattate e per giunta con una frequenza quat­ tordici volte superiore rispetto ale donne che vivono ancora con il proprio compagno53. Le donne che lasciano il coniuge violento corrono un rischio maggiore del 75% di essere uccise dal marito rispetto a quelle che decidono di non abbandonare il tetto coniugale. In considerazio­ ne di ciò, l’applicazione del cosiddetto ordine restrittivo (limitazio­ ne totale dei contatti con la vittima) sembra avere dubbia effica­ cia: il maltrattatore, infatti, a volte diventa più ostile e vendicati­ vo e, in molti casi, l’ordine restrittivo stesso non ha altro risulta­ to che far aumentare le probabilità di reati contro la vittima. La violenza fisica all’interno di una relazione matrimoniale o

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di convivenza lascia nella vittima un profondo senso di vulnera­ bilità, perdita, tradimento e cupa disperazione. Queste persone cadono spesso in un serio stato depressivo e, a volte, abbando­ nano la lì^niglia per poi entrare a far parte della moltitudine dei senzatetto. Almeno il 50% delle donne e dei bambini senzatetto che popolano le strade degli Stati Uniti lo è diventato nel tenta­ tivo di sottrarsi alla violenza domestica. Una ricerca ha però scoperto che dopo aver trovato un ^rifugio temporaneo il 31% delle donne che aveva subito violenze nella città di New York è poi tornato dal coniuge, principahnente per l'impossibilità di tro­ vare una sistemazione permanente”.

Bambini e adolescenti Chi si trova prigioniero del fuoco incrociato scatenato dalla vio­ lenza f^niliare sono, in fin dei conti, proprio i figli. Ogni tipo di molestia fisica e sessuale nei confronti dei bambini e degli ado­ lescenti è il reato più terribile, in quanto rappresenta un atto di violenza perpetrato contro una persona indifesa sia sul piano fisico che sul piano emotivo, e non ancora in possesso di ade­ guata maturità sociale; un atto di violenza, questo, che purtrop­ po sembra verificarsi con fin troppa frequenza e che non deve essere trascurato. La violenza domestica sui bambini non di­ pende dal livello socio-economico del nucleo familiare, ma es­ senzialmente dalla psicopatologia e dagli atteggiamenti non con­ venzionali del genitore abusatore. La violenza fisica sui minori non è un fenomeno recente. Nelle società antiche, non solo erano vittime di frequenti mal­ trattamenti, ma anzi l'infanticidio di bambini deformi o indesi­ derati era una pratica assai diffusa. Una breve parentesi si apre a Roma, nel 529 d.C., durante il regno dell'imperatore Giusti­ niano, quando vennero istituite speciali case-ricovero per i bau­ bini abbandonati o rimasti orfani. Nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni, bambini molto piccoli venivano, e vengono, utiliz­ zati come mano d'opera a bassissimo costo, e solo a partire dal ^XVIII secolo l'opinione pubblica iniziò a sensibilizzarsi sull'argo­ 30

mento dei maltrattamenti fìsici e psicologici subiti dal’inianzia. Questa maggiore consapevole^ e sensibilità portarono ala crea­ zione di case-ricovero che potessero garantire protezione ai bam­ bini. ^^troppo, anche in quei luoghi i piccoli erano a volte vit­ time di violenze55. È stato dimostrato che il rischio di venire maltrattati per i figli aumenta notevolmente quando anche la madre è vittima di violenze56. Walker57 scrive, infatti, che circa la metà degli uomini che abusano delle proprie mogli, poi usa viole^nza anche contro i figli. Tra le mura domestiche, comunque, è la madre che più spesso maltratta i propri figli, forse a causa del fatto che è lei a essere in contatto costante con i bambini nell’arco della gior­ nata, o perché frustrata dal fatto di sentirsi incapace di gestire quella che lei stessa, a volte, vede come una limitazione della propria libertà. Gelles ha affermato che questa è una delle po­ che situazioni in cui sia le donne che gli uomini potrebbero compo^rtarsi in maniera parimenti violenta e ha scoperto che per le forme più gravi di violenza (percosse violente, calci, mor­ si, pugni, uso di pistole o coltelli), gli uomini e le donne presen­ tano quasi la medesima disposizione nell’uso dei succitati mec­ canismi lesivi ai danni dei figli™.

Molti sono i bambini che vengono sottratti da uno dei due ge­ nitori e più del 50% di questi rapimenti è il risultato di violen­ ze famfiiari59. Nella maggior parte dei casi, è il padre o qualcu­ no assoldato dal padre a rapire il minore. Gli uomini violenti spesso usano l’accesso alla custodia dei figli per terrorizzare la moglie vittima o come strumento di ritorsione contro la richie­ sta di separazione av^^afa dalla donna60. Spesso i mariti usa­ no i figli come garanzia nel corso delle battaglie per l’affida­ mento, per costringere la moglie a una riconciliazione. Solita­ mente questi attacchi coercitivi si verificano durante le visite periodiche autorizzate dal tribunale61. Come succede per le mogli, anche la violenza contro i mino­ ri e gli adolescenti può essere di natura fisica, sessuale e psico­ logica. La violenza fisica si manifesta con una moltitudine di lesioni, causate da percosse, pugni, calci o bruciature. Anche la 31

maic^^a di attenzione e cura nei confronti di un bambino o adolescente si può considerare una forma indiretta di violenza; persino suscitare fi senso di vergogna, strumento spesso utiliz­ zato dai genitori nel tentativo di disciplinare i figli, può essere considerato una forma di abuso.

Le motivazioni [creare un senso di vergogna è una punizione] sono semplici e allo stesso tempo perverse. La vergogna che una persona autonoma può causare nelle persone più deboli è una forma di controllo implicito^.

C. Henry Kempe et fonarono una prima descrizione della sin­ drome del bambino maltrattato nel 1962, quando rtferirono che ogni anno erano migliaia i bambini che subivano maltrat^mentì da parte dei genitori. Nel 1971 David Gil64 affermava che ogni anno i bambini vittime di maltrattamenti raggiungevano ^meno quota 6.000. Secondo altri studi, nel 1974 si erano avuti appros­ simativamente tra i 200.000 e i 500.000 casi di sindromi del bam­ bino maltrattato65. Nel 1975, il Nationni Center on Clhild. Abuse andd Neglect (nccan) statunitense denunciava almeno 250.000 casi di violenze ai danni di minori. Tuttavia, in netto contrasto con quel­ le cifre, un’indagine statistica sulla famiglia americana condotta da Gelles66 rivelava che, nel corso dello stesso anno, un numero variabile tra 1.200.000 e 1.700.000 bambini era stato vittima di maltratt^nenti per mano degli stessi genitori e che le violenze andavano dalle percosse ai calci, fino all’acc^umento con pizzi­ chi e morsi. Gelies rtferiva inoltre che dai 460.000 ai 750.000 bambini avevano subito gravi violenze fisiche e che 46.000 erano stati minacciati o colpiti con armi da fuoco o da taglio. Le osservazioni originali sulla viole^nza dimorile fatte da Kempe^' e dalla sua équipe di pediatri hanno dato un fortissimo im­ pulso a nuovi sviluppi nel campo dell’identificazione e del rico­ noscimento delle violenze, non solo a vantaggio del personale pediatrico ma anche di quello di pronto soccorso, infe^nieristico e di assistenza sociale in occasione delle loro periodiche visi­ te domiciliari. Kempe e i suoi colleghi avevano concluso che il 15% dei bambini di età inferiore ai cinque anni era stato ogget­ to almeno una volta di sevizie, e nei 749 casi di studio di cui si 32

erano occupati, il tasso di mortalità tra questi bambini era ri­ sultato superiore al 10% (10,4%). Sfortuna^tamente, li numero effettivo dei casi di bambini seviziati era probabilmente dieci volte più alto e le statistiche di Kempe forse avevano sottosti­ mato la portata reale del fenomeno. Nonostante questo, l’inda­ gine ebbe il merito di sensibilizzare e mettere in guardia l’opi­ nione pubblica su un argomento che fino a quel momento era stato trattato esclusivamente nella letteratura medico-legale, come, per esempio, nello studio di A. Tardieu68 del 1860 e quel­ lo di Parristo e Caussade6y del 1929. Prima che venisse pubblicato lo studio di Kempe, ben pochi sospettavano la frequenza degli episodi di maltrattamenti e di sevizie sui bambini e quali potessero esserne le conseguenze. Nel 1946 J. Caffey70, nella sua relazione Multiple Fractures in the

Long Bones on Infants Siiffe^ng from Chronic S^tàural Hematoma (Fratture multiple delle ossa lunghe dei bambini con ema­ toma subdurale cronico), scriveva che la causa di quelle lesioni evidenziabili con mezzi radiologici sospettava potessero essere sevizie fisiche. Nel 1951 un altro studio descriveva varie frattu­ re ossee dei bambini e il punto di vista dell’autore sulla loro pro­ babile origine violenta e familiare71. Una ricerca a livello nazionale sulla violenza minorile, con­ dotta dall’American Assoc^tion sul volgere degli anni Settanta, mostrava un’escalation degli episodi di maltrattamen­ to sui minori: dai 33.546 casi denunciati nel 1977 fino ai 58.772 nel 197972. Alla fine del 1992 negli Stati Uniti erano stati de­ nunciati 2,9 milioni di casi di violenza a danno di minori, dei quali il 27% riguardava episodi di violenze fisiche, il 17% vio­ lenze sessuali, il 45% abbandono di minori, il 7% violenze psi­ cologiche, mentre 8% veniva classificato come «altro ». Nel 1992, 1.261 bambini sono morti in seguito a episodi di violen­ za, nel 37% dei casi per grave negligenza e nel 58% per violen­ za fisica73. Queste manifestazioni violente non sono prerogativa dei soli Stati Uniti, ma riempiono le pagine di cronaca dei gior­ nali di tutto il mondo74. Robert Geffner scrive, infatti: «Per oltre dieci anni la violenza è stata riconosciuta come epidemia internnzionale»75.

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Quando la violenza, e in particolar modo la violenza di natu­ ra sessuale, è diretta contro i bambini, spesso si rischia di non valutarla in maniera corretta. Potrebbe risultare difficoltoso ca­ pire se un genitore abbia usato violenza intenzionalmente o per incuria e negligenza. Inoltre, si incontra spesso un muro di ri­ fiuto e rinnegamento da parte dei familiari: si tratta del non vo­ ler accettare le rivelazioni dei propri bambini maltrattati o del tentativo di proteggersi a vicenda contro le possibili conseguen­ ze cui azioni potrebbero portare. Spesso gli adolescenti ven­ gono ingiustamente ritenuti responsabili di aver provocato il maltrattamento, mentre i più giovani, al contrario, hanno co­ munemente idee poco chiare su cosa significhi esattamente vio­ lenza sessuale non rivelando le eventuali molestie subite. Inol­ tre, i bambini spesso negano qualsiasi tipo di violenza da parte di un genitore, forse perché ritengono di aver provocato essi stessi la reazione violenta. Molti bambini violati si descrivono addirittura come persone che se lo sono meritato76. Questo comportamento si giustifica con il grande bisogno di sostegno e amore che temono di perdere se la violenza venisse rivelata, a cui si unisce la paura di creare scompiglio nella rela­ zione dei genitori o di non essere creduti dal resto della famiglia. In questo scenario il bambino continua a soffrire in silenzio fino alla tarda adolescenza, quando potrà forse affrontare il genitore aggressivo o andarsene di casa. Come succede anche per altri tipi di abuso, quello di tipo ses­ suale non è limitato a un particolare gruppo socio-economico, ma certamente è più frequente tra le classi meno agiate, dove molti bambini condividono una sola stanza o lo stesso letto, o, anche, dormono nel letto dei genitori, con casi di relazioni ince­ stuose. Questo tipo di relazione a volte va avanti per anni e si in­ terrompe solo quando il genitore aggressivo sostituisce il figlio or­ mai cresciuto con una sorellina o un fratellino più giovani. È una trappola se^za via di scampo per il bambino, il quale, per timo­ re di ulteriori minacce, talvolta inizia a partecipare attivamente a una delle più terribili fo^e di sfruttamento del corpo e delle emozioni di un bambino. L'abusatore, in questi casi, è spesso il padre o il patrigno, ma 34

può anche essere un’altra figura maschile presente nel nucleo familiare, come un fratello, uno zio o un arùco di farùglia. Uno studio77, per esempio, ha evidenziato che la maggior parte di co­ loro che si erano macchiati di abusi sui minori erano il padre o il sostituto della figura patema (62%). mentre molto bassa era la percentuale relativa agli altri membri della farrùglia (cugini o zii 10,7%, fratelli 9,3%). Questi risultati sono totalmente in di­ saccordo con quelli ottenuti da uno studio precedente, a cura di David Finkelhor78, il quale aveva concluso che, invece, in maggio^^za erano i fratelli e i cugini maschi a usare violenza più di frequente, mentre i padri o altre figure paterne rappresentava­ no solo una minima percentuale. La difformità si spiega con una diversa metodologia nella raccolta dei dati. Nel corso della nostra esperienza professionale abbiamo po­ tuto verificare che le violenze sessuali ai d^ani di bobine o ragazzine in età adolescenziale, e occasionalmente anche di ma­ schietti, sono state perpetrate in maniera uguale da padri e pa­ trigni, i quali spesso al momento della violenza sono inebriati dall'alcol, che rimuove anche l’ultimo velo di controllo morale. Nel 1990 «gli enti per la tutela dell’infanzia hanno denun­ ciato oltre 208.000 casi di violenza perpetrata ai danni di ra­ gazzini di età compresa tra i dodici e i diciassette ^an, che rap­ presentavano il 25% di tutta la casistica in materia»79. Le ado­ lescenti femmine rimangono vittime di violenze molto più spes­ so dei maschi, soprattutto nel caso dell’aggressione sessuale80. Ad eccezione della violenza sessuale, l’incidenza di altri tipi di abusi sugli adolescenti è simile a quella dell’infanzia e le lesio­ ni riportate dai bambini più grandi sono meno gravi rispetto a quelle dei bambini più piccoli, cosa che farebbe pensare a una reazione da parte del bambino più grande contro l’attacco del­ l’aggressore, chiunque esso sia. Mentre si registra più elevata frequenza di sevizie fisiche tra i maschi minori di dodici ^ani, rispetto ale femmine, il di­ scorso si fa inverso quando si mettono a confronto le adolescen­ ti femmine con i loro coetanei maschi8‘. Questo dipende general­ mente dall’opposizione dei genitori nei confronti della crescente autonomia delle ragazze e dal timore relativo a una loro condot­ 35

ta sessuale. Dobbiamo anche considerare la minore propensione da parte delle rag^ze a lanciarsi in una lotta per difendersi con­ tro la figura patema, come invece potrebbe fare coetaneo ma­ schio quando vuole evitare un’aggressione fisica. Nel tentativo di capire la ragione della più alta incidenza de­ gli abusi e dei maltrattamenti ai danni di adolescenti, è oppor­ tuno ricordare l’impeto ribelle che si manifesta con crescente forza nel bambino nel momento in cui fa il suo ingresso nel­ l’età adolescenziale. L’adolescente assume posizioni di sfida e di opposizione; può iniziare a conoscere la droga e l'alcol. La lotta per l’ottenimento dell’indipendenza e del controllo, per i diritti e i doveri nel nucleo familiare, sfocia in una situazione di caos che, anche se temporaneo, può risultare altamente de­ leterio per le relazioni all’interno della famiglia. Abbiamo tutti ben presente lo scontro tra le regole dettate dai genitori e l’«insubordinazione» ribelle dei giovani, nonché l’eventualità che un genitore, in particolar modo fi padre, in un momento di confusione e rabbia, tenti di esercitare la propria autorità sul figlio, a volte sotto forma di controllo fisico. Un eser­ cizio inefficace dell’autorità genitoriale è percepito dal figlio ado­ lescente come un abuso aggressivo contro il quale scatta la ri­ bellione. Quando, inoltre, una situazione di crisi si innesta su un sub­ strato fertile di predisposizione al disagio psichiatrico in un adolescente, in presenza per esempio di un disturbo depressi­ vo, che in questa fascia di età si manifesta frequentemente con comportamenti oppositivi e di ribellione ma con manifestazioni a carico del tono dell’umore meno ovvie che nel soggetto adul­ to, questa rischia di sfociare, in presenza soprattutto di vulne­ rabilità caratteriali, in uno stile di vita antisociale, con scontri fisici con il genitore o la fuga da casa. Questi stessi comporta­ menti rischiano in seguito di cronicizzarsi e, considerando che la storia naturale del disturbo depressivo non trattato può du­ rare fino a diciotto mesi o più, rimanendo i^anodificate le dina­ miche familiari e inalterato, se non aggravato, il disturbo de­ pressivo, non sorprende che molti giovani si sentano costretti ad abbandonare la propria casa.

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Si è riscontrato un elevato tasso di maltrattamenti subiti in precede^nza da parte di giovani che sono in seguito ^alti in carcere o che sono scappati di casa per poi condurre una vita di strada82.

L’esperienza traumatica di un maltrattamento o di un abuso ses­ suale ha un effetto altamente dirompente e disgregativo sul nor­ male sviluppo di una vittima di giovane età. Le conseguenze di un tale atto investono la persona a livello fisico, psicologico e spiri­ tuale e influenzano anche le relazioni interpersonali future. Nono­ stante ciò abbiamo constatato che molte vittime di abusi sessua­ li sono riuscite a superare i ricordi ossessivi della loro fanciullez­ za e adolescenza violata senza necessari^ente sviluppare una sindrome da stress post-traumatico, e sono anche riuscite a vive­ re una vita senza paure e con un senso obiettivo delia realtà., puri­ ficando le presenze e i ricordi del passato dai loro poteri negativi. Come nel caso di violenze ai danni del coniuge, la maggior parte di coloro che usano violenza contro i bambini sono sog­ getti con una personalità del tutto particolare. Si tratta di in­ dividui solitamente insoddisfatti di se stessi; difficilmente rie­ scono a identificarsi bene nel campo sessuale; mostrano un comportamento di ambivalenza nei confronti delle figure fem­ minili derivante dalla cattiva relazione con la propria madre; non sono in grado di stabilire una relazione sana con la moglie o il marito; sono timidi e temono di essere rifiutati. In molti casi sono stati picchiati dal padre e sono stati og­ getto di molestie sessuali. Soffrono di sentimenti di gelosia nei confronti dei figli, specialmente dei figli del loro stesso sesso, e temono che questi ultimi li sostituiscono nel loro rapporto con il coniuge. Pertanto. i maltrattamenti e le violenze sessua­ li non sono altro che un infelice tentativo di asserire la propria fragile identità. Altre vitt^ime

La violenza domestica non si limita alle donne e al b^nbini. Nel 1991 uno studio ha evidenziato che ogni anno almeno una per­ 37

sona anziana su venticinque sarebbe vittima di aggressioni*. Già nel 1998 le vittime di violenze con un’età che andava dai sessantacinque in su erano salite a 32.00()84. Sebbene queste cifre non si limitino ai casi di violenza domestica, nel 51, l% dei casi i maltrattamenti sarebbero stati perpetrati da persone co­ nosciute dalle vittime85. Al’inizio del 2000 si è stimato che nove casi su dieci di violenze ai danni di persone anziane non vengono denunciati. A livello nazionale, si pensa che oltre mezzo milione di cittadini americani dai sessanta in su che vivo­ no in casa hanno avuto esperienze di abuso o abbandono, in al­ cuni casi trascurando essi stessi le proprie esigenze fìsiche*.

Uno studio precedente aveva rivelato che il 37% degli anziani che avevano avuto esperienze di abuso era stato vittima di molestie sessuali durante l’infanzia. Tra coloro che perpetrano violenza domestica, nel 30% dei casi si tratta dei figli adulti della persona maltrattata87. Dobbiamo anche affrontare fi discorso dei maltrattamenti non frequenti, ma pur sempre esistenti, per mano di ragazzi giovani al danni dei propri genitori. Jerry Munder ritiene che quando i genitori vengono privati della loro funzione di modelli di ruolo, essi si sottomettono (soprattutto gli uomini) al sadismo della genera­ zione più giovane, della quale sarebbero chiamati a incoraggia­ re e dirigere la socializazione e lo sviluppo morale*.

Non ci riferiamo in questo caso al comportamento turbolento di molti giovani nei confronti dei propri genitori, alle assenze ingiustificate da scuola, all’uso di bevande alcoliche e droghe, alla partecipazione ad atti di teppismo fuori di casa. Questi so­ no comport^nenti che generano ansia, preoccupazione e per­ sino stati depressivi nei genitori e minano la tranquillità della vita familiare, ma non possono essere considerati maltrat­ tamento. Intendiamo invece riferirci alla vera e propria ucci­ sione dei genitori per mano dei figli, solitamente durante il periodo dell’adolescenza. Kathleen Heide ha scritto che per quanto riguarda fi feno­

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meno del parricidio la scarsa disponibilità di dati non rende possibile accertare il numero preciso di genitori assassinati da figli giovani. La studiosa ha dimostrato che nel corso di un periodo di dieci anni ( 1977-1986) «sarebbero stati uccisi alme­ no 65 genitori naturali, 45 padri e 20 madri, da giovani di età inferiore ai diciotto ^an»89. L’assassinio dei propri genitori, del padre, della madre o anche di entrambi, rappresenta il crollo di uno dei tabù sacri e inviola­ bili della storia dell’umanità. Rimane comunque un cretine mol­ to antico, e scrittori come Sofocle, Shakespeare e Dostoevskij ne hanno fatto il ilio conduttore di molte loro opere. Freud9(l, in To­ tem e Tabù, ha tentato di dare una spiegazione a questa tenden­ za inv^^ndo il cosiddetto complesso di Edipo, che egli ritiene quasi innato nel bambino in fase di sviluppo. Gli adolescenti che si macchiano di questi c^^mi sono spesso fragili, insicuri, ambi­ valenti, spaventati ed emotivamente aridi. Spesso, ma non sem­ pre, hanno dovuto soppo^are ripetute violenze fisiche, e anche sessuali, da parie dei genitori. Le cronache ci parlano anche di giovani che uccidono i genitori solo per soldi. Così come giudichiamo e puniamo il comportamento dei ge­ nitori, perché innaturale e criminale, dobbiamo usare le mede­ sime parole di condanna nei confronti del compor^rnento dei fi­ gli assolvere l’adolescente dalle sue responsabilità per aver commesso un simile crimine. Nessuno è giustificato quando ag­ gredisce, perseguita o uccide un’altra persona. Nella società odierna, all’età di tredici ^an, la maggior parte dei bambini ha raggiunto uno sviluppo cognitivo e morale relativamente ade­ guato all’interazione sociale in situazioni normali. I disturbi psichiatrici

I disturbi psichiatrici, quali la schizofrenia e la depressione bi­ polare o ricorrente, sono a volte alla base di componimenti vio­ lenti all’interno di una famiglia, e il tipo e la portata di questi pos­ sono essere assai gravi. Nel 1986 Roger Bland e Helen Om91 in uno studio nel Regno Unito, con l’impiego di definizioni diagno­ 39

stiche specifiche e dettagliate, h^ano rivelato «un tasso annuale di circa l %o di abusi gravi ai d^an di b^nbini di età inferiore ai quattro ^an». Nel corso dell’indagine gli autori h^ano scoperto che delle 1.200 persone prese a campione, il 2,6% ^^metteva di aver usato violenza sui figli e che una porzione significativa di coloro che presentavano comportamenti violenti soffriva di un disturbo psichiatrico e, in maniera più specifica. che l’incidenza di comportamenti violenti in coloro che avevano problemi psi­ chiatrici arrivava al 54,4%. Gli autori hanno riscontrato un tasso di violenza molto elevato in coloro ai quali era stato diagnostica­ to un disturbo di personalità antisociale, che avevano sviluppa­ to dipendenza dall’alcol, o tra coloro che soffrivano di uno stato depressivo ricorrente associato a ripetuti tentativi di suicidio. Nelle statistiche pubblicate dai due autori, la depressione in combinazione con i disturbi di personalità antisociale e l’alcoli­ smo raggiungeva una percentuale dall’8O al 93% tra coloro che avevano mostrato comportamenti violenti in famiglia. Freud ave­ va sottolineato che le persone con disturbi del carattere la cui psicopatologia si manifesta sotto forma di comportamen­ to anormale, distruttivo e che può costituire una minaccia alla vita di qualcuno, nelle loro azioni danno libero sfogo a quelle fantasie che le persone nodali e nevrotiche vivono solo a livel­ lo inconscio92.

Secondo la nostra esperienza professionale, e in assoluto ac­ cordo con Bland e Orn, il comportamento violento grave è ma­ nifestato in modo particolare da persone diagnosticabili con disturbi della personalità di tipo antisociale e che hanno svi­ luppato dipendenza da droghe e alcol, nonché da individui con disturbi paranoico-maniacali. Inoltre, uno studio del 1989 sui possibili collegamenti tra traumi cranici negli aggressori e vio­ lenze coniugali ha rivelato che su un gruppo di 31 soggetti, 19 avevano riportato in passato gravi lesioni al capo. Nelio stesso gruppo, in base alla detenninazione dell’alcolemia, un probabi­ le contributo di bevande alcoliche poteva attribuirsi a meno delia metà del campione (48,4%F. Questo, oltre a sottolineare la natura multifattoriale della violenza, conferma che il trauma 40

cranico, anche di lieve entità, è più frequente in soggetti sociopatici. Pur essendo probabilmente dovuto a fattori comporta­ mentali dei soggetti stessi, e pur non rappresentando l’unico elemento causale dei comportamenti violenti, è possibile, se non probabile, che un trauma, o anche una serie di traumi ripetuti, seppure di lieve entità, a carico di strutture del lobo frontale del­ l’aggressore, contribuisca alla disinibizione compor^tamentale che è un necessario precursore di componimenti violenti nei confronti del coniuge o di altre persone, quando si è in assenza di una situazione di pericolo oggettivo. L'omicidio-suicidio in famiglia

1 casi di omicidio-suicidio dettati da gelosia paranoica avvengo­ no in genere tra le mura domestiche. Gli omicidi e le loro vitame di solito sono intimi (coniugi, ex coniugi, fidanzati o fid^^ate). Sebbene costituisca un chiaro elemento di disturbo per la pax Jainiliae, la violenza legata alla gelosia patologica rimane spesso sottaciuta, non viene denunciata alla polizia, e difficilmente se ne parla con parenti stretti o confidenti fidati. Perento, quando l’omicidio è l’epilogo diretto di una violenza intima e diventa di pubblico dominio, per quanto possa sembrare strano l’effetto è di shock e sorpresa tra tutti i componenti della famiglia e della cerchia delle amicizie. Indipendentemente dalla genesi diversa di omicidio e suicidio in circos^tanze «tipiche», questi sono sono collegati nell’omicidio-suicidio. In linea generale, i crimini più gravi coinvolgono un numero di uomini sproporzionatamente elevato rispetto alle donne, men­ tre il numero delle donne vittime di violenze da parte del part­ ner risulta essere più alto di quello degli uomini per un rappor­ to di l a 10. Inoltre, le donne che hanno ale spalle una sepa­ razione o un divorzio sono più frequentemente vittime di vio­ lenze da parte del pa^ner rispetto alle donne che non si sono mai sposate, o che sono ancora sposate; l'incidenza si abbassa notevolmente in situazioni di alto livello di scolarizzazione o li­ vello socio-economico elevato94. 41

Non esiste una categoria a sé stante per la sindrome da omi­ cidio-suicidio da un punto di vista medico-legale, e i decessi so­ no classificati semplicemente come omicidi o suicidi. L’assenza di una classificazione standard^izta rende più difficoltosa l'in­ dividuazione del numero preciso dei casi di questo tipo specifi­ co di violenza domestica. Ciononos^rnte, l'omicidio-suicidio è un fenomeno raro, che si stima abbia un’incidenza aimua dello 0,20-0,30 per ogni 100.000 persone. Marzuk et al.93 riferiscono che, sebbene rappresenti la causa di morte di circa 1.000-1.500 persone l’^ano, l'omicidio-suicidio acquista proporzioni epide­ miche se messo a confronto con i decessi awenuti nel 1991 do­ vuti a tubercolosi polmonare (1.467), epatite virale (1.290), in­ fluenza (1.943) e meningite (1.156). È interessante notare, ana­ lizzando la letteratura speci^^^ta, come Coid96 abbia dimo­ strato che «maggiore è il tasso di omicidi in una popolazione, mi­ nore è la percentuale [di persone] che commettono il suicidio». I tipi più diffusi di omicidio-suicidio sono quelli che awengono tra coniugi, e causati da gelosia estrema o patologica; quelli tra coniugi, ma catalizzati da problemi di salute, nonché i figlicidi-suicidi. L'omicidio-suicidio appartenente alla catego­ ria della gelosia paranoica costituisce il 50-70% del totale97. Uno studio pionieristico condotto da West98 riferisce che su un totale di 148 casi di omicidio in Inghilterra e nel Galles awenuti dal 1946 al 1962, il 33% è stato seguito da suicidio e nel 45% dei casi la vittima era la moglie dell’assassino. Nel 19,8% dei casi la morte era causata da armi da fuoco, mentre nel 40% la vittima è stata uccisa a colpi di coltello, con percosse o per strangolamento. Il restante 42% dei decessi era awenuto per asfissia da gas, il che potrebbe significare che questi specifici omicidi-suicidi probabilmente non appartenevano alla catego­ ria della gelosia paranoica. Secondo un rapporto supplementare sugli omicidi fornito dall'FBi, negli Stati Uniti le armi da fuoco sono indicate come il mezzo più comune per causare la morte di una persona vicina99. Analogamente, le armi da fuoco sono utilizzate per l’uc­ cisione di mogli ed ex mogli (69%). mariti ed ex mariti (61%) e fid^azate (60%). Un rapporto del 1994 sui casi di omicidio av­ 42

venuti in contee statunitensi con estesi agglomerati urbani si chiude con l'affermazione che «circa il 15% delle vittime di un omicidio perpetrato dal coniuge avevano loro stesse in mano una pistola, un coltello o altro tipo di arma»1”. Nel 1958 Wolfgang scriveva che su 53 casi di uxoricidio, 10 erano stati seguiti dal suicidio del marito, mentre solo in un caso su 47, in cui l'omicidio era stato commesso dalla moglie, la donna si era poi suicidata101. Anche Marzuk e i suoi collabo­ ratori scrivono che «le donne che uccidono il marito sono mol­ to meno portate al suicidio rispetto alla loro controparte ma­ schile»102. Nel loro rapporto gli autori fanno riferimento a uno studio del 1984 in cui si era determinato che in soli 10 casi di omicidio-suicidio su un totale di 133 (7,5%) gli esecutori erano di sesso femminile. Rosenbaum'03 ha affermato che oltre il 90% degli omicidi-sui­ cidi che interessavano i rapporti di coppia aveva visto il partner maschio come punico esecutore. In uno studio canadese sugli omicidi-suicidi, il numero degli uo^mini che hanno ucciso la part­ ner separata, per poi suicidarsi, era nett^nente superiore a quel­ lo di coloro che hanno ucciso la moglie dalla quale non erano separati (rispettiv^nente il 35,5% contro il 21,6%)1M. Altrove, si è sottolineato come nella maggior parte dei casi l'esecutore si era suicidato i^media^mente dopo aver commesso l'omicidio105. L'omicidio-suicidio scatenato da gelosia paranoica è un atto assai dr^^matico, come perfettamente descritto nella sindrome di Otello. Si tratta del tipo di crimine passionale più diffuso. Palermo‘06 av^^ l'ipotesi che questo tipo di atto criminale rap­ presenti una forma «estesa» di suicidio, che trova la propria ba­ se e ragion d'essere nel profondo timore dell'omicida di perdere il proprio partner per rifiuto o malattia, soprattutto nel caso in cui il partner è sentito come parte inscindibile dell'essere stesso dell'omicida. Il fragile lo dell'omicida, in questi casi, inoltre, ten­ de a crollare, soccombendo alle paure di separazione e rifiuto, cui segue una reazione eccessiva nei confronti dell'amore minac­ ciato, o della rottura defìditiva della relazione. Fishbain et aL, quasi a sostegno di quanto detto sopra, han­ no menzionato il copione di omicidio-suicidio di Selkin, il qua­

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le aveva scoperto che la relazione tra i due partner era stata ca­ ratterizzata da profonda intimità, quasi a rappresentare «una fonte primaria di nutrimento», e aveva aggiunto che la causa scatenante dell’omicidio, nella maggior^anza dei casi, era stata la «gelosia rabbiosa» resa più cruenta dalla frustrazio­ ne [ ... e) proprio per il grande affetto nutrito nei confronti della vittima. l’omicida non aveva poi voluto continuare la propria vita senza di lui o lei e aveva commesso il suicidio'07.

Gli stessi autori hanno poi descritto la personalità dell’esecu­ tore dell'omicidio-suicidio come «impulsiva, caratterizzata da in­ consistenza critica e frequenti crisi esplosive». Fishbain et al. hanno scritto che l’esecutore tipico dell’omicidio-suicidio è un soggetto di sesso maschile, di razza bianca, di età superiore ai trentanni, generalmente maggiore rispetto a quella della vitti­ ma. e appartenente alla stessa famiglia della vittima. Quest'ultima è di solito una donna. di razza bianca, oltre la trentina, generalmente moglie dell’omicida, mentre l’arma usata è di so­ lito una pistola. Gli stessi h^ano anche sottolineato il fatto che l’esecutore tipico dei dieci omicidi-suicidi trattati nella loro ri­ cerca viveva in una casa mobile, una sorta di roulotte, che la vittima era stata sua compagna o ex compagna, che era de­ presso e che uccideva generalmente durante il fine settimana. Una raccolta di dati riguardanti i casi di omicidio seguito da suicidio nello stato del Kentucky, nel periodo che andava dal 1985 al 1990, ha evidenziato ben 67 omicidi-suicidi nel corso dei sei ^ani presi a campione108. 11 96% degli esecutori degli omi­ cidi e delle vittime si conosceva; di essi, il 95% era di sesso ma­ schile, 1'86% era di r^az bianca e solo nel 9% dei casi si tratta­ va di persone di colore. L’età media registrata era di quarantuno anni. Il 9% degli omicidi aveva avuto luogo sul posto di lavo­ ro; nell’85% dei casi le vittime risultarono essere amici intimi o membri della famiglia stessa dell’esecutore, tanto che nel 70% dei casi l’omicida era risultato essere il marito, il fld^^to o an­ che l'ex marito (anche se con maggiore frequenza si trattava del­ l’attuale marito); il 41% delle coppie coinvolte aveva già iniziato le pratiche di divorzio. Il 10% degli esecutori era sotto gli effetti 44

di farmaci psicoattivi; il 27% di essi era risultato positivo all’e­ same etilomet.rico, il 21% dei soggetti era intossicato dall’alcol, mentre nel 13% dei casi sono state trovate nell’organismo trac­ ce sia di sostanze stupefacenti che di alcol. Al termine di una ricerca effettuata nella città di Albuquerque, Rosenbaum109 ha osservato che nella quasi totalità dei casi di omicidio-suicidio gli esecutori erano uomini (75%) ap­ partenenti principalmente a una «classe socio-economica me­ dia, bianchi non isp^alci, e ispanici», e che la casistica non in­ cludeva nessun soggetto di colore. Rosenbaum ha inoltre sot­ tolineato la frequenza di stati depressivi latenti negli esecuto­ ri degli omicidi-suicidi, comuni anche tra coloro che commet­ tono il solo suicidio, e che nei casi di gelosia paranoica i primi sintomi depressivi seguono immediatamente la rottura di una relazione, condizione scatenante dell’atto criminale. Uno studio curato da Rich, Young e Fowler110 riguardante i fattori di stress e i ca^^^atori del suicidio ha rivelato' che le persone che avevano commesso un omicidio molto spesso era­ no separate dal coniuge; la maggior parte dei soggetti-esecuto­ ri era risultato disoccupato, mentre in uno studio di Palermo et aLll1, almeno il 77% dei soggetti era impiegato regol^armente. Sempre secondo Palermo et aL 112, il 31,7% degli esecutori di omicidi-suicidi è divorziato o separato. Inoltre, Rich et aL han­ no determinato che i fattori di stress più comuni nei casi di sui­ cidio erano «conflitto-separazione-rifiuto, problemi economici e malattia»"3. Un calcolo di Hei^tìnen et al.114 relativamente al risultati di una ricerca sulle variabili correlate all’età e a eventi recenti del­ la vita di 1.022 suicidi, di cui 787 uomini e 235 donne, conclu­ deva che

[ ...) la separazione e il disaccordo in famiglia. sommati a proble­ mi sul posto di lavoro e di carattere economico. nonché la disoc­

cupazione, avevano un’incidenza maggiore tra i soggetti di gio­ vane età. Secondo l’^articolo, i soggetti maschi separati più giov^al risul­ tano essere più sensibili e vulnerabili nei confronti di eventi

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stressanti rispetto al campione femminile, e reagiscono in ma­ niera impetuosa nei confronti di problemi legati a disoccupa­ zione o difficoltà economiche in genere. È probabile inoltre che anche un uso sconsiderato di bevande alcoliche contribuisca al verificarsi dei comportamenti presi in esame, così come la con­ comitante presenza di disturbi emotivi, i quali potrebbero aver incrinato la flessibilità dell’individuo nel momento in cui que­ sto avrebbe dovuto sopportare un grave stress sociale. Nello studio di He^kinen, le variabili della separazione, delle difficol­ tà economiche e della disoccupazione erano fattori comuni tra soggetti di sesso maschile appartenenti alla fascia di età infe­ riore al cinquantanni. Vi erano inoltre correlazioni significative tra separazione e Uh croniche all’interno del nucleo f^amiliare, come anche tra giovane età e problemi economici, difficoltà sul posto di lavoro, la vita solitaria e l’abuso di alcol. È plausibile che alcuni dei fattori sopra indicati siano stati dete^alnanti anche nelle azioni degli esecutori di omicidi-suici­ di. I risultati delle ricerche di Rich e Heikkinen115, se confronta­ ti con quelli ottenuti da Paleso et ali"6, costituiscono una più solida base sulla quale costruire l’ipotesi che l'omicidio-suicidio debba essere visto come una forma di suicidio esteso a una per­ sona vicina o, forse più correttamente, all'«unità relazionale» in senso lato. Diverse conclusioni possono essere tratte dalle analisi effet­ tuate nel corso delle due ricerche menzionate. Per prima cosa, indifferentemente dalla zona geografica in cui è avvenuto l'omicidio-suicidio, l’esecutore tipico è risultato essere un uomo bianco di età compresa tra i quarantacinque e i cinquant’anni. senza una relazione coniugale al momento dell’evento, che svolge un lavoro di vario tipo a tempo pieno, probabilmente ma­ rito, fidanzato, ex fidanzato, padre o amante della vittima del­ l’omicidio, che utilizza una pistola come arma contro la vitti­ ma e se stesso e che uccide la vittima e di seguito se stesso, spesso all’interno della casa in cui vivono lui e la vittima. La vittima-tipo di un caso di omicidio-suicidio è generalmen­ te una donna di razza bianca, quarantenne, senza una rela­ zione coniugale al momento della morte, con una camera pro­ 46

fessionale che le assorbe gran parte del tempo, che è moglie, fid^^ta, ex fid^^ta o amante dell’omicida e che è deceduta in seguito a ferite da ^ana da fuoco, spesso aU'tatemo di una casa che divideva con il proprio carnefice. Le caratteristiche dell’omicida, quelle della vittima, nonché le variabili sociodemografiche e quelle osservate sulla scena del delitto variano da stato a stato, o da contea a contea in cui sia vittima che omicida vivevano: in altre parole, un unico profilo uniforme di omicida, vit^ma e scena del delitto non riesce a ri­ flettere in maniera completa e appropriata i profili comporta­ mentali e sociodemografici di una data zona del paese. Sembra esistere uno stretto legame tra l'età dell’omicida e quella della vittima: nella maggior parte dei casi i due avevano una relazio­ ne amorosa e l’età dell’uomo è in genere molto superiore a quel­ la della partner. Altro dato importante è che maggiore è l’età della vittima, maggiore è il lasso di tempo trascorso tra la sua morte e quella dell’omicida. Questo fatto potrebbe essere dovu­ to a una più profonda riflessione sulle conseguenze dell’atto commesso da parte dell’omicida il quale, quindi, non si suicida immediatamente, d’impulso. È necessario che investigatori, consulenti psichiatrici e psi­ cologi, e tutti coloro che h^ano a che fare con persone a rischio, tra cui includeremmo gli operatori dei progr^^mi attivi contro l’abuso di alcol e sost^^ stupefacenti, fa^aliarizzino con le ca­ ratteristiche demografiche degli esecutori di omicidi-suicidi, no­ nostante la rarità di questi fenomeni. Se incontrati lungo l’iter investigativo di situazioni di abuso domestico, i fattori di rischio come la malattia, la depressione, i sentimenti di rifiuto e la per­ dita del lavoro devono essere oggetto di attenta considerazione da parte degli operatori, i quali devono valutare lo stato menta­ le di tutte le persone coinvolte, per accertare la presenza di se­ gnali particolari come alterazioni repentine dell’umore, comuni­ cazioni non verbali significative e minacce verbali, o la denuncia di tali minacce da parte delle potenziali vittime. È auspicabile, inoltre, una rigida applicazione delle leggi contro la violenza do­ mestica, a tutela di quelle donne che tentino di uscire da una relazione violenta, rischiando notevoli pericoli.

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La comunità e l'autonomia individuale

Ogni società dovrebbe porre al vertice della scala delle priorità la problematica della violenza in famiglia, non solo in virtù delle conseguenze immediate (fisiche, sessuali e persino omi­ cide) sulla vittima designata, ma anche per le ripercussioni de­ leterie di carattere psicologico, familiare e sociale che il proble­ ma determina a lungo andare nella vita di tutti i componenti della famiglia, in maniera particolare dei bambini, che spesso crescono con personalità fragili e disfunzionali. Le cause delle violenze fisiche e sessuali, però, non vanno ricercate esclusi­ vamente nel fardello di gravi problemi personali che si trasci­ na dietro l’abusatore, ma anche in una situazione familiare caotica e disfunzionale. Nelle famiglie di questo tipo si riscon­ tra una condizione di estrema dipendenza o di totale indipen­ denza e l’aggressività si manifesta sia in famiglie autoritarie che in famiglie iperindulgenti. L’impulso verso l’autonomia è sempre esistito, come libertà di autodete^ninazione: sin dai suoi primi passi il bambino, e poi l’adolescente, manifesta naturalmente questo impulso che è parte integrante, quasi istintiva, del processo evolutivo di ognu­ no, e che svolge un ruolo essenziale nella formazione del carat­ tere. Ma, dal momento che ognuno vive inserito in comunità for­ mate da famiglie, ali’intemo delle quali ci si trova in continuo contatto con altri componenti della stessa comunità, siano essi genitori, figli, fratelli o sorelle o anche nonni e nonne, questo ir­ refrenabile impulso verso l’autodeterminazione non sempre tro­ va un’adeguata valvola di sfogo per la sua completa espressione. Considerato il fatto che la vita in comune rende necessario un atteggiamento di flessibilità, e di reciproca collaborazione per un sereno svolgimento della vita f^aliiare, ogni membro della rnicrocomunità dovrà necessariamente e continuamente rivede­ re le proprie scelte di autodete^ninazione e il campo di autono­ mia di ciascuno si ridurrà di conseguenza. Questo processo, però. deve avvenire senza usurpare la libertà di autorealizzazio­ ne dei vari componenti della famiglia e, ali’interno di una f^ni48

glla ideale, le scelte autonome dovrebbero tenere in considera­ zione non solo la propria persona ma anche coloro con cui con­ viviamo. Mariti, mogli e figli. nel tentativo di trasmettere le pro­ prie idee e i propri convincimenti agli altri membri del nucleo familiare, u^^^o la propria capacità decisionale autonoma ma devono, prima di esternarle all’altro, analizzare e valutare con obiettività le proprie posizioni, esercitando queil’autocontrollo che, in teoria, tiene in considerazione le opinioni e i desideri del partner, dei figli, e di altri membri del gruppo convivente. in questa situazione, gli uomini cresciuti a pane, autonomia e competizione viste come virtù car­ dini [ ...| dovrebbero mettere da parte le proprie preoccupazioni riguardo al matrimonio a beneficio dell’intimità dei rapporti e dell’interdipendenza [ ...| e devono sostituire la propria velleità di dominio morale con parità emotiva117.

Per l’uomo incline alla violenza, è arduo rinunciare a idee e pre­ concetti sulla famiglia, e un atteggiamento di diffidenza e il ti­ more dell’intimità o la paura di rivelare la propria inadeguatez­ za si trasformano in atteggiamenti possessivi di controllo e pote­ re sul proprio coniuge, o sui propri figli. L’unico punto certo è che nel corso di quasi tutta la storia del­ l’umanità, l’uomo è stato investito della responsabilità di pren­ dere le decisioni che riguardavano la propria famiglia. Nella società contemporanea, in virtù dei tanti cambiamenti avvenu­ ti nel secolo, entrambi i partner conviventi vogliono predo­ minare nel processo decisionale"".

La donna. all’interno del rapporto violento, da una parte «edu­ cata, da un punto di vista sociale, a esercitare un controllo interno sulla [ ... propria] rabbia»"9 e, dall’altra, forte della mag­ giore indipendenza recentemente conquistata, e del diritto al­ l’autorealizzazione, si mostra dapprima ambivalente su quale debba essere l’atteggiamento più adeguato, ma a volte rifiuta di assumere un ruolo subordinato nel nucleo familiare, o di tollerare un comportamento aggressivo. Per questi motivi, rea­ gisce con forza al tentativo dell’uomo di imporre il proprio do­

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minio; entrambi i partner diventano inflessibili nell’esercizio della rispettiva autonomia limitata e del loro autocontrollo; en­ trano in contrasto, si accendono liti e scontri furiosi che a vol­ te esitano in atti di violenza fìsica. Entrambi i partner si tro­ vano ad affrontare un confronto dirompente, non rendendosi conto dell’interdipendenza reciproca, della relatività dell’auto­ nomia e della necessità di compromessi vicendevoli in un rap­ porto di coppia. L’indipendenza e la dipendenza sono le due facce di una stessa medaglia e quando l’una o l’altra sono in eccesso è improbabile che la convivenza resti tranquilla e feli­ ce. Lo stesso ragionamento si applica alle relazioni tra genito­ ri e figli. Tuttavia, in quest’ultimo tipo di relazione, i genitori devono esercitare un livello di controllo sul comport^nento dei propri figli adeguato alla maturità emotiva ed evolutiva di cia­ scun figlio. Il cambiamento nella collaborazione in famiglia, e l’assenza di quella coesione che univa i suoi componenti e la cui forza si reggeva sul rispetto reciproco e la cura dell’altro, può essere in parte spiegato come conseguenza dell'individualismo selvag­ gio, del pragmatismo e dei diritti individuali non contenuti nei limiti del buon senso. Ci si potrebbe chiedere cosa abbia a che fare tutto questo con la violenza in f^niglia. Siamo dell’avviso che le ripercus­ sioni sociali di forme estreme di individualismo e pragmatismo vengano avvertite dalla famiglia spesso in modo negativo. L’in­ gresso della donna nel mondo del lavoro, oltre a raddoppiare il loro impegno, data l’assenza collaborativa del coniuge, fre­ quente nella famiglia «tipica», ha creato un doppio ruolo per le donne/madri. Le donne, come gli uomini, vengono coinvolte dalla carriera, e poiché nel lavoro e nella vita domestica si ri­ chiede un’attenzione estrema, e collaborazione di squadra, qua­ lora quest’ultima manchi i coniugi talvolta diventano quasi indi­ pendenti l’uno dall’altra e possono mostrare risentimento e rabbia nei confronti dell’autonomia dell’altro. È possibile che livelli eccessivi di autonomia da parte di uno o di entrambi i coniugi abbiano contribuito ad aumentare la frequenza delle violenze fisiche e dei divorzi, ma, probabilmente, solo qualora

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manchino le basi del rispetto reciproco del lavoro svolto da ognuno dei componenti del nucleo f^niliare. Allo stesso modo i padri, spesso assenti dalla vita familiare, perdono in manie­ ra progressiva la propria funzione di modelli e punti di riferi­ mento, dando vita a un circolo vizioso fatto di disinteresse, rifiuto, ostilità, aggressività, problemi di condotta, violenza e atteggiamenti di sfida nei confronti dei genitori da parte dei figli. In questo contesto, inoltre, in presenza dei numerosi fat­ tori patoplastici succitati, il sesso talvolta si tramuta sia in mezzo di controllo, volto a umiliare la vittima, nel caso di un coniuge, sia in violenza sessuale, incesto e aggressione. Nel 1824, la Corte Suprema delio stato del Mississippi, su­ bito seguita da quella del Maryland, del Massachusetts e del North Carolina, si pronunciò a favore del diritto del marito di infliggere alla propria moglie punizioni fisiche di modesta en­ tità120. Dal 1920, però, tutti gli stati rifiutarono la sentenza. Nonosninte le leggi oggi siano completamente differenti, negli Sta­ ti Uniti l’abuso sulle mogli continua ancora, forse a causa di idee socio-culturali antiquate che h^ino radici profonde. Dietro l'aggressività di un uomo violento si nasconde la ricerca affan­ nosa di potere e di controllo, necessari talvolta a coprire l'ina­ deguatezza del violento, li quale indossa per questo una ma­ schera di superiorità e adotta atteggiamenti autori^in, ma altre volte secondari a semplice malizia e cattiveria, senza spiegazio­ ni o giustificazioni psicologiche. Ancora oggi, da parte delle forze di polizia, del sistema giu­ diziario e della popolazione in generale c'è una certa riluttan­ za a interferire nelle liti familiari. Questo non esclude che la violenza domestica abbia ripercussioni sulla società dal punto di vista sociale ed economico, pur essendo espressione di cau­ se multifattoriali e di un rapporto aggressore-vittima spesso di tipo sadomasochistico. È naturale chiedersi per quale motivo una moglie o un ma­ rito si sottomettano al comportamento violento del quale sono vittime. Come detto sopra, vi sono fattori come il timore di ven­ dette fisiche, la totale dipendenza economica o il desiderio di te­ nere unita la famiglia. In alcuni casi, però, come abbiamo visto

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nel paragrafo sulle mogli vittime di abuso, la persona maltrat­ tata si rende conto che il suo aggressore, nei confronti del quale nutre sentimenti ambivalenti, è una persona il cui comporta­ mento inaccettabile è dovuto a psicopatologia. In altre parole, le vittime vedono i loro aggressori come individui sofferenti, ten­ dendo così a giustificare il loro comportamento a tal punto da considerare essi stessi come vittima lo stesso aggressore. Il problema della violenza domestica è complesso, non solo per la relazione dai toni sadomasochistici che spesso viene a for­ marsi tra aggressore e vittima, ma anche per il fatto che le per­ sone coinvolte, solitamente moglie e marito, portano nei rap­ porti che le legano esperienze patologiche vissute precedente­ mente al matrimonio. Al'interno del microcosmo familiare, si presentano le stesse questioni discusse nel macrocosmo socia­ le: decisioni di carattere economico e generale, relazioni umane, valori e scelte, fiducia, autonomia e autore^^zazione, paure, controllo, responsabilità e iresponsabilità. Escludendo quei ra­ ri casi in cui alla base del comportamento violento di un coniuge o altro Esiliare sono disturbi psichiatrici gravi, la violenza domestica è fondamentalmente un problema sociologico e sia la vit^rna che l’aggressore sono infelici attori/reattori di un eterno dr^^tama familiare, che può concludersi tragicamente.

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Capitolo II

GENITORI CHE UCCIDONO

D neonaticidio, l'infanticidio e il fìgUcidio

Vorremmo ora fornire una panoramica della portata storica, psicologica e scientifica del neonaticidio, dell’infanticidio e del figlicidio e analizzare alcuni casi oggetto di studio, allo scopo di approfondire la comprensione di questi crimini. La violenza domestica nel corso degli ultimi decenni ha assunto proporzioni epidemiche. La cellula fondamentale della società, il sistema «famiglia», a volte è talmente instabile da costituire una minaccia per i suoi componenti. I figli possono cadere vittime di sbalzi di umore e deliri dei propri genitori e venire maltrattati, feriti, e come abbiamo visto, a volte perfino uccisi. DeMause', in un’indagine storica sull’infanzia, scriveva che si trattava di un «incubo dal quale solo di recente, risve­ gliandoci, ci siamo liberati». aggiungendo, inoltre. che «più ci si spinge indietro nella storia, più ci si accorge di quanto fosse basso il livello di attenzioni e cure dedicate all’infanzia, un’in­ fanzia che veniva uccisa. abbandonata, malmenata. terroriz­ zata e seviziata sessualmente». Il rischio che correvano i bam­ bini di venire uccisi all'interno della propria casa per mano degli stessi genitori fu presentato, dati statistici alla mano, da Muscat nel 1988, e la violenza familiare toccò picchi tali che Gelles e Cornell scrissero che è più probabile che si possa venire uccisi, aggrediti fisicamen­ te, colpiti, malmenati, schiaffeggiati o sculacciati nel chiuso del­

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la propria casa da altri componenti della famiglia che altrove o per mano di chiunque altro2.

L’uccisione dei propri figli è un crimine presente in tutte le clas­ si sociali, senza limitarsi a una specifica categoria, e la storia of­ fre numerose testimonianze a riguardo3. La violenza perpetrata al danni dei bambini all’interno della f^nfglia per mano dei genitori stessi si presenta con frequenza continua o episodica. Spesso imprevedibile e repentina nel suo esordio, questa violenza crea scompiglio nella famiglia e provo­ ca terrore nei figli. Sia madri che padri possono trasformarsi in aggressori, ma mentre le madri spesso sono coinvolte nell’ucci­ sione di bambini più piccoli (neonaticidio e infanticidio), i padri generalmente uccidono i figli più grandi (figlicidio). In base all’età dei figli, l’assassinio della prole prende il nome di neonaticidio (entro 24 ore dal parto) e infanticidio (fino a un anno di età). Il termine figlicidio è riseiVato a bambini di età com­ presa tra uno e diciotto anmi Questo gruppo può essere ulte­ riormente suddiviso nel sottogruppo del «figlicidio precoce», che investe bambini di età compresa tra uno e dodici annf, e in quel­ lo del «figlicidio tardivo», le cui vittime hanno solitamente un’età superiore al tredici anmi Questa distinzione è chiaramente arbitrarta. ma si dimostra efficace nella formulazione della psicodin^nfca relativa al casi che verranno trattati in questo libro. Il figlicidio, termine onnicomprensivo, viene spesso utilizza­ to nel senso di infanticidio. Questo è dovuto in parte al fatto che la frequenza di neonaticidi e infanticidi è molto superiore rispetto a quella dei figlicidi, relativamente alle definizioni sopra indicate. Oltre all’uccisione effettiva, in passato i genitori erano tal­ volta coinvolti in quella che veniva chiamata «esposizione» dei propri figli, che consisteva, in pratica, nell’abbandono di un bambino molto piccolo, neonato o infante, in un luogo dove non sarebbe stato trovato da nessuno, morendo di conseguen­ za, o dove avrebbe potuto essere trovato da persone caritate­ voli che si sarebbero poi prese cura di lui.

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I tentativi di spiegare il mondo esterno all’uomo e di dare ad esso un significato hanno corrisposto, in base all'acquisizione graduale o subitanea di conoscenze, nell’arco dei secoli, a ela­ borazioni e spiegazioni della realtà di grado diverso a seconda dell’epoca presa in considerazione. L’attribuzione di fenomeni naturali a dèi o entità soprannaturali, spesso antropomorfizzati e investiti di caratteristiche emotive e comportamentali umane, ci sono giunte sotto forma di mito. Dallo studio del mi­ to è palese che anche presso civiltà e culture remote, neonaticidio, infanticidio e figlicidio fossero conosciuti e praticati, sia dall’uomo che dal mito antropomorfo da lui creato. Esiodo (VIII secolo a.C.) narra che il dio Crono (Urano per i romani), perso^nificazione del cielo, ritenendo che la propria pro­ genie avrebbe tentato di detro^^^lo, uccise tutti i figli avuti dalla moglie Gea (Rea), personificazione della terra, divorandoli quando erano ancora neonati. L’unico sopravvissuto fu Zeus, il quale, successivamente, avrebbe castrato e detronizzato il padre. Sofocle {V secolo a.C.) nelle sue opere immortalò la tragedia di Edipo. Come è noto, Edipo uccise il padre senza sapere di averlo fatto. Questa tragedia ha ispirato la formulazione del •complesso edipico» della psichiatria e psicologia psicodinami­ ca. Gli antecedenti dell’evento sono assai pertinenti alla nostra discussione. Laio, re di Tebe, era stato awertito dall’oracolo che subito dopo il proprio matrimonio sarebbe perito per mano del figlio. Per impedire che la profezia seguisse il proprio corso, Laio ordinò a sua moglie di uccidere il figlio non appena questo fosse venuto alla luce. La moglie Giocasta non ebbe coraggio di uccidere il figlioletto appena nato e contrawenne all’ordine del marito. La affidò, invece, a una delle sue servitrici con l’incari­ co di lasciarlo esposto agli elementi in modo che andasse in­ contro a morte sicura. La storia continua con l’immagine del neonato legato per i piedi e trafitto, abbandonato dalla servitri­ ce sul Monte Citerone, appeso ai rami di un albero. Chiara­ mente, quanto nomato rappresenta un tentato neonaticidio, secondo i parametri moderni, ossia l’abbandono e l'esposizio­ 55

ne, de facto, di un bambino, con il chiaro intento di ucciderlo. La brutale pratica dell’uccisione di innocenti per lapidazione, o sacrificandoli agli dèi ha origini remote, che risalgono almeno al 5.^00 a.C., ed era pratica comune nell’antica Gerico. Si narra che anche i cartaginesi, i moabiti, gli amonitl, gli egiziani, i gal e gli scandinavi immolassero i propri figli in sacrificio agli dèi. A differenza degli egizi^al e deUe popolazioni teutoniche, le fami­ glie greche e romane limitavano il sacrificio a soli tre figli. Que­ ste pratiche, al tempo, includevano il metodo dell'infanticidio e dell’esposizione. Euripide dà una perfetta raffigurazione dell’in­ fanticidio praticato nella Grecia del IV secolo a.C. I bambini venivano gettati nei flutti dei fiumi, nei letamai e nei pozzi neri, sigillati in anfore finché non morivano di inedia, oppure abbandonati su colline o strade alla mercé degli uccel­ li o delle bestie feroci che ne dilaniavano i corpi4.

Filone di Alessandria, un filosofo ebreo-ellenista vissuto nei pri­ mi dece^al dell’era volgare, o cristiana, si scagliò contro la pra­ tica del figlicidio, nei confronti della quale si espresse nei termi­ ni che seguono. Alcuni [genitori] compiono l'atto con le proprie mani: armati di mostruosa crudeltà e barbarie soffocano e strangolano il neo­ nato prima che questo possa emettere il suo primo respiro e lo gettano poi nei fiumi o nelle profondità dei mari, dopo aver attaccato ai suoi piedini un qualche materiale pesante in modo che possa sprofondare quanto più velocemente nelle acque5.

La pratica e le modalità descritte da Filone sono sostanzialmen­ te simili a quelle dei popoli dei secoli successivi. Philo narra anche di come alcune madri prendessero con sé i figli indeside­ rati e li esponessero in località desertiche, con la speranza, a detta delle stesse madri, che i piccoli potessero venir salvati da qual­ cuno. abbandonandoli. però, al loro tragico destino, perché tut­ te le bestie antropofaghe venivano attirate sul luogo e, indistur­ bate, facevano strazio delle carni dei piccoli innocenti".

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A Roma l’esposizione dei bambini, sia maschietti che femmi­

nucce, era una pratica ampiamente accettata e il padre di so­ lito «si riservava il diritto di decidere del destino di ognuno dei propri figli alla nascita»7. Seneca a Roma, come già Aristotele in Grecia, approvava l'eliminazione di bambini malformati, che venivano rifiutati dai genitori e le cui vite venivano interrotte dalle mani di esperte levatrici subito dopo fi parto. Questi bam­ bini erano visti come creature del peccato e i loro gemiti e pian­ ti erano interpretati come segno di malvagità. L'infanticidio era così frequente a quei tempi, che nel 315 d.C. l'imperatore Co­ stantino promulgò una legge per vie^tarne la pratica e fece se­ guire un editto nel quale garantiva cibo e vestiti ai figli dei pove­ ri, in modo da scoraggiare questo cri^ane. Ufficialmente, però, fu solo nel 374 d.C. che il diritto romano decretò che l'uccisio­ ne di un neonato fosse equiparata a un omicidio vero e proprio. Nonostante questo, anche dopo la caduta dell'impero romano, l'uccisione di bambini sia legittimi che illegitnfni, per la mag­ gior parte neonati, sopravvisse e continuò a essere praticata. Sant’Agostino, vescovo di Ippone (400 d.C.}, riteneva che i bambini «ritardati», minformati o meno, fossero posseduti dal diavolo. Durante fi tardo Medioevo circa 1.300 bambini di que­ sto tipo furono ritenuti incarnazione del peccato, soprattutto quando non si riusciva a fermarne il pianto disperato (anche oggi alcuni genitori larvano al punto di uccidere i propri figli perché disturbati dal loro pianto intenso e continuo). La freque^nza degli infanticidi iniziò a diminuire durante fi Medioevo e la tendenza si protrasse nei secoli seguenti, anche se la pratica rimase in vita in tutto il mondo sino al ^XVIII secolo8. La pratica dell'infanticidio era diffusa in Inghilterra, Fran­ cia e Russia. Nell'Inghilterra del 1600, il soffocamento, lo stran­ golamento, la rottura del collo, lo sgozzamento e l'annegamen­ to erano tra i mecc^alsmi lesivi più diffusi per l’eliminazione dei bambini. In Francia, all'inizio del ^XVII secolo, il padre ave­ va potere assoluto sui componenti della propria famiglia, come era successo nell'antica Roma. La sua autorità includeva per­ sino il potere di decidere della vita e della morte della propria progenie. Anche se nel secolo le cronache parlano del figli-

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cidio come di una pratica poco diffusa in Russia, se ne legge spesso nelle opere di scrittori come Tolstoj, Dostoevskij e Cechov. Il XVIII secolo fu testimone di una tale frequenza di ab­ bandoni di bambini, e della morte che ne conseguiva, che nel l 741, a Londra, Thomas Coram aprì ospedali e ricoveri per i trovatelli perché «non poteva sopportare la vista di bambini che morivano ai margini delle strade per poi finire a marcire nelle discariche di Londra»9. Solo nel corso dell'ultimo secolo questo tipo di omicidio ha iniziato a essere considerato non so­ lo immorale ma anche criminale e, come durante l'impero di Costantino, fu considerato omicidio dalla legge. Nel passato recente siamo stati testimoni di un declino del­ la frequenza dei flglicidi, ma resta comunque difficile stabilire se ciò sia dovuto a fattori di natura religiosa, al tentativo di ridefinire la moralità della società, a una visione più filantropi­ ca della vita, ala progressiva rivalutazione di principi etici e morali (vedi le questioni dell'aborto e delle «ragazze madri»), o a campagne per il controllo demografico (incremento nell'uso e nell'efficacia di metodi anticoncezionali). È comunque molto probabile che tutti questi fattori insieme abbiano contribuito al calo dei casi di figlicidio. Nonostante tutto, è un fenomeno anco­ ra presente sulle pagine della cronaca, mentre le sindromi infan­ tili da morte improvvisa o le sindromi del bambino maltrattato si presentano con molta più frequenza, le prime, occasionalmente, come forma di omicidio colposo (avvenuto per comportamento negligente), mentre le seconde come fase immediatamente prece­ dente l'infanticidio. La sindrome da maltrattamento in genere si sviluppa all'in­ terno delle mura domestiche, dove il minore è brutalizzato solit^mente dai genitori o da persone che ne fanno le veci. In pas­ sato la povertà e il terrore dell'ostracismo da parte del mondo circostante, come nel caso di donne non sposate, costituivano motivazioni considerate validissime per giustificare l'uccisione del proprio figlio. Anche oggi la maggior parte dei bambini che subiscono maltrattamenti per mano dei genitori o dei loro so­ stituti vive in condizioni che non si possono certo definire pri­ vilegiate. Inoltre, nella società contemporanea molti aggressori 58

fanno uso di droghe e alcol. I disturbi psichiatrici, inquadrabi­ li nell’ambito di patologie del tono dell’umore, o talvolta nella sfera dei disturbi dissociativi, complicano talvolta i quadri delle personalità disturbate dei genitori-omicidi. Emozioni e legami

Alla base di comportamenti impulsivi sono spesso forti stati emotivi. Si può affermare con estrema certezza che l’uccisione di un figlio è un atto innaturale e che, escludendo quei geni­ tori che compiano un tale atto sotto gli effetti di droga o alcol, un genitore che uccide il proprio figlio non può che essere in preda a uno stato emotivo alterato. Le emozioni sono un composto di sentimenti e convinzioni che motivano i pensieri e i ragionamenti e conducono a reazio­ ni comportamentali molto diversificate, o, come affermano Ka­ plan, Sadock e Grebb: «Un complesso stato emotivo con com­ ponenti psichiche, somatiche e comportamentali in stretto le­ game con affettività e umore»10. Sebbene la m^agor^^a delle persone sia solitamente in gra­ do di esercitare il controllo su se stessa e sulle proprie emozioni negative, in alcune circostanze particol^armente difficili e provan­ ti queste stesse emergono in modo disinibito. È quasi sempre durante stati emotivi estremi, siano essi sulla base di vulnerabi­ lità di natura caratteriale o nel contesto di disturbi psicotici, che si verifica l’uccisione di un neonato o di un bambino più grande. Infatti, lo stile cognitivo e il temperamento individuale sono alla base dell’interpretazione delia realtà, e della reazione alla stessa. In un contesto di disturbo psicotico, invece, la realtà può influen­ zare il comportamento anche solo in modo marginale, se non per ciò che riguarda eventuali interpretazioni erronee o deliranti del percepito. Inoltre, la presenza di allucinazioni di comando, inne­ stata su un’interpretazione delirante cronica delle situazioni esterne, è all’origine di compor^menti estremi. Le dinamiche relative all’uccisione dei propri figli, soprat­ tutto se a commettere il crimine è una madre, possono essere 59

meglio comprese e valutate se si presta particolare attenzione al significato dell’essere madre, e ai legami tra madre e figlio. Watson ritiene che l'attaccamento madre-figlio sia più forte tra gli esseri umani che tra gli animali perché l’evoluzione ha fatto sì che i bambini venissero al mondo «più velocemente» per la ristrettezza del cingolo pelvico femminile in relazione alla grandezza della testa del neonato

Indipendentemente dalla velocità del parto addotta a motivo del forte attaccaniento madre-figlio nell’essere umano, teorizzato da Watson, è indubbio che l’immaturità e il lento sviluppo del piccolo umano prolungano la dipendenza dalla madre per moti­ vi fisiologici, contribuendo al rafforzarsi dell’attaccamento. Watson ha, però, evidenziato la maggiore frequenza, in al­ cune culture, dell’uccisione di neonati fem^mine rispetto a quel­ la dei maschi, nonché la diversità di atteggiamento del genito­ re in base anche al sesso del bambino. Senz’altro il tipo di attaccamento o legame tra il neonato e un genitore, in una certa misura, viene a formarsi sotto l’influenza del tipo di richieste fatte dal neonato e del modo in cui esso risponde alle attenzioni degli altri12. È indubbio che i figli «difficili» siano spesso causa di frustrazio­ ni, irritazione e persino rabbia in un genitore, e che comporta­ menti produttivi e «affettuosi» inducano a una maggiore dispo­ nibilità, in contraddizione tra l’altro con il concetto di «amore incondizionato» dei genitori verso i figli. Spesso sono proprio quei figli «difficili» a chiedere, e richiedere, seppure in modo inef­ ficace, e non infrequentemente filtrato attraverso situazioni di disagio clinico (depressione, abuso di sostanze, disturbi psico­ geni dell’alimen^tazione, ecc.), le attenzioni e la disponibilità di un genitore. L’uccisione dei figli per mano dei genitori, ivi inclusi il neo­ naticidio e l'infanticidio, viene solitamente indicata come figlici­ dio. Resnick13, in un’analisi retrospettiva della letteratura mon­ diale relativa all’infanticidio prodotta dal 1951 sino al 196714, ha

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rivelato informazioni riguardanti 131 casi di infanticidio, con­ cludendo: Gli esecutori dell’uccisione includevano 88 madri e 43 padri [ ...1 Il periodo di massimo pericolo per le vittime è quello dei primi sei mesi di vita [ ...] più piccolo è il bambino [ ...più la ma­ dre lo vede) come una sua proprietà personale".

Resnick ha suddiviso i casi di figlicidio nelle seguenti categorie: a. figlicidio al^uistico, che vede una madre suicida dopo aver ucciso il figlio con l’intenzione di placare tutte le sofferenze del piccolo; b. figlicidi a elevata componente psicotica, quando un genitore uccide sotto l’^influe^nza di allucinazioni in forma di comando o, in parte, a causa di alterazioni paranoico-maniacali; c. figlicidio di bambino indesiderato; d. figlicidio accidentale; e. figlicidio per vendetta sul coniuge.

Quest'ultima categoria è talvolta denominata «complesso di Medea», prendendo spunto dalla storia di Medea che, per pu­ nire il fedifrago Giasone, uccise i figli da lei concepiti assieme a lui. Sempre Resnick descrive i metodi più comunemente adotta­ ti nel figlicidio (infanticidio) in base al genitore colpevole. Lo strangolamento, l’annegamento o l’asfissia con gas sono spesso prerogativa delle madri, mentre il colpire a mani nude con da staglio o l'uso di strette mortali sembrano invece essere i me­ todi utilizzati più di frequente dai padri. Altra frequente causa di morte è il trauma cranico. Lo diagnosi effettuate sui genitori, e specialmente sulle madri, al momento del cimine parlano di schizofrenia, «stato malinco­ nico» e disturbi maniaco-depressivi, oltre a disturbi della perso­ nalità, tutti equamente distribuiti; i padri, al contrario, sono più r^^mente vittime di psicosi. Resnick è dell'opinione che il rischio che un bambino corre di venir ucciso dai propri genitori dimi­ nuisce con l'aumentare della sua età: il periodo in cui fi piccolo è più vulnerabile è quando la relazione diadica madre-figlio, fatta

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di legame solido e attaccamento materno, non è stata ancora sta­ bilita. D’Orban16, in un esame retrospettivo lungo periodo di sei ^an, dal 1970 al 1975, relativo a 86 madri - accusate di omici­ dio volontario (60), omicidio colposo (12). infanticidio (4) o ten­ tato omicidio (13) dei figli - classificava le donne in madri mal­ trattatoci (perdita della ragione per collera, 36); madri con pro­ blemi mentali (psicosi o profonda depressione, rispettivamente 20 e 24); madri neonaticide (omicidio commesso entro 24 ore dal parto, 11); madri che agiscono per ritorsione (sindrome di Medea, 9); figli indesiderati (8); madri omicide «a fin di bene» (1). L’autore sosteneva la tesi secondo la quale i genitori omicidi, in particolare le madri, potrebbero attraversare una reazione dis­ sociativa nel momento in cui compiono il crimine. Nella maggioranza dei casi appartenenti alla categoria degli in­ dividui con problemi mentali, la motivazione conscia era prin­ cipalmente l'autodistruzione e il figlicidio assumeva la conno­ tazione di estensione dell’atto di suicidio [ . ]. Con minore frequenza, la motivazione principale era di natura altruistica causata da idee maniacali (lo scopo era quello di strappare il bambino a un terribile destino)17. . .

Scott18 ha classificato i genitori che uccidono i propri figli in base all’impulso a uccidere. Le categorie che ne risultavano erano 5: 1. genitori che eliminano un bambino indesiderato; 2. omicidio «a fin di bene»; 3. aggressione attribuibile a grave patologia psichica; 4. stimolo originante all'esterno della vittima (transfert di rab­ bia, tentativo di evitare una censura, perdita di status o del­ l’oggetto dell’onore); 5. stimolo originante dalla vittima (genitore maltrattatore). Nessuno dei genitori-omicidi della sua indagine era sposa­ to, mentre erano presenti diagnosi di disturbi della personalità (43%), depressione reattiva (21 %) e psicosi (16%). Quest’ulti­ mo gruppo includeva psicosi post-partum, psicosi paranoica schizoide e psicosi depressiva. In ordine de.crescente di impor-

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Scott indicava le cause scatenanti nelle situazioni di cri­ ticità familiare, tra cui ^avi problemi con il partner, problemi relativi alla casa, difficoltà economiche e di ordine sociale, tra cui la giovane età dei genitori. In un’indagine su 39 madri internate in centri di cura men­ tale che avevano ucciso i propri figli tra il 1940 e il 1983, Weisheit19, suddividendole in due periodi distinti, figlicidi commessi tra il 1940 e il 1966 e figlicidi commessi dal 1981 al 1983, ha evidenziato sostanziali differenze nella tipologia delie donne a seconda del periodo. Infatti, mentre il primo gruppo si di­ scostava in modo significativo dalla norma da un punto di vista psicologico, il secondo raggruppava donne relativ^uente «nor­ mali», concludendo che, con il passare del tempo, il figlicidio starebbe assumendo sempre di più le caratteristiche di un «qual­ siasi omicidio». In uno studio retrospettivo basato sull'analisi dei dati attinti dagli Uniform Cr^rime Reports (banca dati dell’rei contenente infor­ mazioni sui casi di crimini vari) e relativi al periodo dal 1976 al 1985, Kunz e B^ar h^rno tracciato un profilo degli assassini e delle vittime di 3.459 casi di madri o padri che avevano ucciso un figlio minore. Il 46% dei genitori aveva un'età inferiore ai venticinque e quindici non avevano ancora compiuto vent'anni. Le madri sem­ bravano quelle che con più probabilità rispetto ai padri potevano aver commesso il crimine (rispettivamente 52,5% e 47,5%). La raza degli assassini [ ...]: il 54% di razza bianca, mentre il 38% afro-americano20.

Sebbene l'età e il sesso delle vittime fossero molto variabili, il numero di maschi e femmine era uguale nei casi di uccisione avvenuta nelle prime settimane di vita. Nell’intervallo tra una settimana e i quindici ^ani di età il numero di bambini maschi uccisi dai genitori era solo leggermente più alto di quello delle femmine, mentre dai sedici al diciotto anni di età, il divario cre­ sceva enormemente (77% di maschi). Il 95% delle madri inclu­ se nella ricerca aveva ucciso i figli durante la prima settimana di vita; i crimini commessi dai padri, invece, salivano da un 63

63% quando i figli avevano circa tredici-quindici anni Imo a un picco dell’8O% quando l’età andava dai sedici anni ai diciotto. Inoltre, nello studio si indicavano l’asfissia e l’^aneg^rnento co­ me i metodi utilizzati dalle madri per uccidere i neonati, men­ tre i ragazzi più grandi erano più frequentemente uccisi dai pa­ dri u^^^mdo coltelli o armi da fuoco. In un ulteriore studio retrospettivo, Abel2' si è occupato del­ l’incidenza delle differenze r^azali nei casi di figlicidio (di vitame con età inferiore ai quindici ^ini) nella Erie Connty (New York) awenuti tra il 1972 e il 1984, rivelando un’impressionante diffe­ renza tra il tasso di omicidi di bambini di r^az nera (8,48%) e quelli di r^az bianca (0,88%). Le madri uccidevano con molta più frequenza dei padri. Il risultato di un’indagine comparativa condotta da Silverman e Kennedy sule differenze razziali nei casi di figlicidio tra lo stato dell’Ontario (Canada) e quello dell'Illinois (Stati Uniti) era che «il tasso di omicidi di bambini di colore in Illinois era molto più alto di quello di bambini bianchi o del totale nello stato dell’Ontario»22. Inoltre, si indicava nei genitori i princi­ pali esecutori del c^^ine per tutti i gruppi ad eccezione del grup­ po relativo ai ragazzi di colore più grandi. Totman, relativamente a uno studio condotto in California su 50 donne, riferiva che il 30% di queste aveva ucciso i figli «uti­ lizzando le proprie mani» e, precisava l’autrice, «esse tendono a essere più giovani del marito»23. Nel loro studio sulle donne omi­ cide, Silverman e Kennedy affermano che per le madri, infanticide o non infanticide, il sesso delle vittime è equamente distri­ buito tra maschi e femmine e per le madri non infanticide, il 31% delle vittime ha un’età inferio­ re a un anno, il 73% ha un’età inferiore ai cinque anni (...) men­ tre solo nel 3% dei casi le madri uccidono figli eli età maggiore2'.

Gli autori, inoltre, osservano che la stragrande maggior^^a delle madri non infanticide era di etnia caucasica [ ...e] che molto spesso colpivano ripetutamente i figli fino a lasciarli senza vita [...ed erano) molto più spesso le donne [che] poi si suicidavano dopo aver commesso l’omicidio25.

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Uno studio recente condotto da Lewis, Baranoski, Buchanan e Benedek ha preso in considerazione le utilizzate nei ca­ si di figlicidio da 60 madri psicotiche e non psicotiche. Coltel­ li e pistole erano le armi più utilizzate «da almeno l donna su 4 [ ... ] nel 13% dei casi per le armi da fuoco e nel 12% per i col­ telli»26. Gli autori riferiscono anche che le madri psicotiche so­ no più portate a uccidere i figli facendo uso di un’arma gene­ rica rispetto alle donne non psicotiche, ma che «l’uso delle ar­ mi era stato limitato al figli più grandi [ ... ] mentre le armi veni­ vano utilizzate molto meno frequentemente con i bambini più piccoli»27. Le donne che avevano ucciso i figli con un coltello erano tut­ te psicotiche, mentre solo 7 delle 8 donne che avevano utilizza­ to una pistola erano state dichiarate psicotiche. In una rasse­ gna della letteratura specializzata sui casi di genitori figlicidi a livello mondiale, includendo anche gli Stati Uniti, gli autori han­ no affermato: Le madri uccidono i figli con le

da fuoco con la stessa freque^nza dei padri (9%), mentre i coltelli sono stati utilizati nel 9% dei casi di figlicidio materno e nel 14% di figlicidio paterno28.

Nell'analizzare il contesto sociale nel quale i genitori commet­ tono il crimine, Goetting29, in uno studio sui casi di figlicidio nella città di Detroit tra ll 1982 e ll 1986, ha evidenziato che la maggioranza dei genitori figlicidi erano di colore, giovani e con un basso livello di scolarizzazione, spesso con precedenti pena­ li. Le vittime avevano un’età inferiore al sei e spesso la morte era sopravvenuta in seguito a lunghe e violente percosse o a sevizie. Haapasalo e Petaja hanno condotto un’analisi dei dati de­ mografici, della presenza o assenza di abusi sui bambini e del tipo di omicidio perpetrato in un gruppo di 48 madri che ave­ vano tentato di uccidere o avevano ucciso un figlio nel periodo tra il 1970 e il 1996. Fatta eccezione per 15 casi di neonaticidio, le vittime avevano un’età di circa dodici anni.

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Le madri neonaticide erano giovani, non sposate e dipendeva­

no economicamente dalla famiglia di origine, avevano negato o tentato di nascondere la gravid^^a e presentavano segni me­ no evidenti di problemi psicologici rispetto alle donne che ave­ vano ucciso un figlio più grande"".

Queste ultime erano sposate e avevano problemi familiari di en­ tità tale da essere fonte di stress estremo e ingestibile. Entrambi i gruppi avevano riferito di aver subito violenza fisica da parte dei genitori durante la loro infanzia. Le diagnosi per le omicide, le quali erano state giudicate inclini a comportamnenti aggressi­ vo-impulsivi, parlavano di disturbi mentali, stati depressivi o psicosi maniacali. Bourget e Bradford31 hanno presentato il caso di un figlicidio commesso da una donna sofferente di una grave forma di disturbo affettivo e ipocondria. Simpson e Stanton32 evidenziano un certo numero di fattori di vulnerabilità presenti nel figlicidio materno, quali l’isolamento sociale, la dif­ ficoltà a sviluppare relazioni positive e durature, nonché la pre­ senza di disturbi mentali. Guilyardo et al.33 hanno riferito di due insoliti casi di figlicidio in famiglia, di cui uno riuscito, commessi da due sorelle gemelle le quali, pur conducendo vite separate, avevano tentato di uccidere i rispettivi figli. Da un punto di vista sociologico, come risulta evidente dalle indagini condotte da Resnick e D'Orban, l’omicidio di bambini di giovane età sembra essere prerogativa di madri giovani anch'esse, mentre i padri, che di solito controllano il comportamento dei figli più grandi, sono più portati a commettere c^^am nei con­ fronti proprio dei figli maggiori. Come infatti sottolineato da Bourget e Bradford34, i quali differenziano l’omicidio di un bam­ bino (figlicidio) dal neonaticidio e dall’infanticidio, il figlicidio è raro e commesso prevalentemente dai padri. Gli autori presenta­ no le caratteristiche di genitori che h^ano ucciso 14 figli (8 ma­ schi e 6 fem^lne) e i dati demografici relativi alle vittime. La sta­ tistica che ne risulta sostiene l’assioma secondo cui le madri uc­ cidono i figli piccoli molto più spesso dei padri, soprattutto a causa di psicosi sviluppatesi subito dopo il parto. Poco più del 62% degli assassini ha sofferto di forte stress psicologico nel pe­ riodo subito precedente il figlicidio. Si è riscontrata nei genitori 66

una maggiore frequenza di disturbi da personalità borderline piut­ tosto che significative sindromi depressive. Anche i disturbi afettivi e i tentativi di suicidio si sono presentati con elevata frequen­ za. Gli autori hanno classificato i figlicidi in: 1. figlicidio patologico (motivazioni altruistiche e omicidio-sui­ cidio esteso); 2. figlicidio accidentale (sindrome del bambino maltrattato e altro); 3. figlicidio vendicativo, ossia compiuto per ritorsione; 4. neonaticidio, figlio indesiderato; 5. figlicidio paterno. Lo studio di Bourget e Bradford trasmette un importante messaggio, secondo il quale la vulnerabilità individuale gioca un ruolo importante nel complicato fenomeno. In un’analisi dei casi di omicidio di bambini, specialmente delle figlie femmine, per mano dei genitori, avvenuti periodica­ mente nei secoli passati con il tacito consenso, ossia l'appro­ vazione collettiva delle famiglie e degli enti sociali, SadofP5 si chiede cosa possa spingere una madre a uccidere un figlio quan­ do, al contrario, quest'approvazione viene a mancare. In que­ sti casi, alla base del comportamento estremo, sarebbero ter­ rore, panico, uno stato depressivo, psicotico o dissociativo. Non sono rari i casi di padri omicidi alcolizzati o tossicodipen­ denti che si mostrano assai poco tolleranti nei confronti del pianto di un figlio. Sadoff afferma:

La condizione paranoica di una madre che uccide il figlio mag­ giore è una situazione facilmente riconoscibile e trattabile con successo sollevando la donna dallo stress del doversi occupa­ re dei figli più piccoli36.

Campion, Cravens e Coven hanno analizzato le pratiche rela­ tive a 12 uomini accusati di figlicidio e hanno concluso che Undici su dodici presentavano significativi problemi psichiatri­ ci che andavano dai disturbi della personalità alle psicosi. Sette di questi uomini, tutti alcolizzati o tossicodipendenti, sof­ frivano di psicosi acute o croniche3?.

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La motivazione addotta a giustificazione dell’omicidio del figlio era che avevano interpretato male il comportamento del picco­ lo, anche se l'impulsività della propria condotta era dovuta all’u­ so di alcol o altre sostanze. «Isolamento sociale, manc^anza di sostegno da parte di una famiglia o delle organizz-azioni sociali preposte» si presentano come fattori che contribuiscono di fre­ quente al crearsi di una situazione di criticità”. Marleau, Poulin, Webanck, Roy e Laporte39 hanno condotto uno studio su 10 padri che avevano ucciso i propri figli sottolineando che, nel caso dei padri, i fattori demografici (i figli più grandi corrono un rischio maggiore di venire uccisi), socio-economici (il padre era disoccupato al momento dell’omicidio), evolutivi (decesso dei ge­ nitori, abuso da parte di un genitore), matrimoniali (l’eventua­ lità di una separazione dalla moglie), psichiatrici (psicosi) e tos­ sicologici (uso sconsiderato di bevande alcoliche o sostanze stu­ pefacenti) sono tutti associati al figlicidio paterno. L'età media degli uomini osservati nello studio era di trentadue ^mi, e an­ dava dai ventuno sino ai quarantadue; alcuni di loro erano se­ parati o divorziati; li grado di scol^^zartone era al di sotto delia media e la metà aveva precedenti penali. L'età media delle 13 vittime, invece, era di cinque anni (4,5), con un intervallo dai nove mesi sino ai quattordici ^mi, e 7 di loro erano femmine. Da un punto di vista transculturale, nelle isole Fiji, una so­ cietà non occidentale, giovani donne nubili, in circostanze parti­ colari, uccidono i propri figli40. Come in passato in Occidente, le madri generalmente appartengono a strati socio-economici bas­ si. Nel caso di gravidanze indesiderate, i più vulnerabili risalutano essere i neonati. Vari sono i meccanismi lesivi che queste donne ut^^^tano per uccidere la prole. Questi vanno dall’uso di pugna­ li, alle percosse, al lancio dei piccoli contro superfici solide, allo strangolamento o al soffocamento, sino all’annegamento e all'ab­ bandono nelle latrine. Caso A (neonaticidio) Una donna di ventanni è stata sorpresa, di mattina presto, accovacciata tra due automobili, nel retro di una casa. Si è poi udito il pianto di un neonato. Quando un passante le ha chie­ sto se per caso avesse bisogno di aiuto, la donna ha risposto

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che era tutto a posto. Il passante ha però awertito la polizia. Al loro ^arvo sul luogo, gli agenti hanno cercato in un cassonetto della sp^^tura nelle vicinanze del luogo in cui la donna si era accovacciata e hanno trovato un sacchetto di plastica conte­ nente il corpicino di un neonato di sesso maschile. La donna ha ^^messo agli agenti di polizia di aver gettato lei stessa il neonato nel cassonetto. Ha raccontato poi di essere rimasta incinta e di non aver avuto il coraggio di confessare la gravi­ danza ai genitori, aggiungendo che il padre del bambino era un uomo sposato che non aveva nessuna intenzione di riconosce­ re la paternità del bambino e che lei stessa non era in grado di prendersi cura di un altro figlio. Le sue parole furono: «È già difficile per me tenere i due figli che ho. Mi hanno buttato fuori di casa e la mia situazione eco­ nomica è un disastro. Quindi», ha continuato la donna, «ho deciso che quando il bambino sarebbe nato, non l'avrei tenu­ to». La donna ha affermato che il figlio era nato morto, ma ha poi ritrattato e ammesso che forse era vivo alla nascita e che lo aveva ucciso lei stessa soffocandolo. La donna è stata accu­ sata di omicidio premeditato. Caso B (infanticidio - Sindrome infantile da scuotimento) Un bambino di diciotto mesi è stato portato in ospedale dove gli è stata riscontrata una grave emorragia retinica, distacco bilaterale delle retine e un ematoma subdurale bilaterale. La diagnosi è stata sindrome infantile da scuotimento. Il padre del bambino ha affermato che il giorno in cui il figlio era stato ricoverato d'urgenza se ne stava occupando lui stesso a casa, mentre la sua convivente si trovava al lavoro. L'uomo ha affer­ mato che, subito dopo aver mangiato e aver fatto il riposino pomeridiano, il bambino si era svegliato e aveva vomitato una sostanza simile a formaggio «come se il latte che aveva preso si fosse cagliato nel suo stomaco». L'uomo disse di averlo preso in braccio per evitare che vomitasse nel lettino e che poi aveva preso una coperta per coprirgli la bocca e bloccare il vomito. Poi, in preda al panico, afferrato il bambino per le spalle, aveva iniziato a scuoterlo avanti e indietro «per fargli vomitare fuori

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tutto il latte». Mfermò che il bambino si trovava seduto sul letto mentre lui lo scuoteva, emettendo che forse lo aveva scosso con troppa forza. A un certo punto il bambino aveva smesso di respirare. Lo aveva afferrato di nuovo per le spalle e aveva iniziato a scuoterlo avanti e indietro con tale violenza che la testa del piccolo veniva sbattuta avanti e indietro «con movimenti velocissimi». Il bambino aveva poi perso conoscen­ za. L'uomo disse di aver pulito al bocca del piccolo perché era ancora sporca di quella sostanza lattiginosa e di averlo poi portato in ospedale dove era morto il giorno seguente. Il padre è stato accusato di omicidio preterintenzionale. Caso C (infanticidio - Sindrorme del bambino maltrattato)

Arrivati nella casa dalla quale avevano ricevuto una chiamata, gli agenti di polizia avevano trovato un bambino di tre mesi morto. Sottoposta a interrogatorio, la madre del bambino ave­ va affermato che, due mesi prima della morte, aveva rotto ac­ cidentalmente un braccio al bambino cadendo su di lui. Il brac­ cio era stato ingessato. Il padre affermò che, qualche settima­ na prima della morte del figlio, stava facendo bollire dell'acqua e il bambino faceva i capricci. L'uomo disse che tenendo il pen­ tolino pieno di acqua bollente in una mano si era girato verso il b^nbino e che l'acqua si era rovesciata sul viso del piccolo. Disse, poi, di averlo portato subito in pronto soccorso per farlo medicare. Il giorno stesso della morte del figlio, sua madre l'a­ veva lasciato in custodia al padre. Il bambino stava apparente­ mente «bene». Più tardi aveva ricevuto una chiamata dal pron­ to soccorso di un ospedale locale ed era stata informata che il figlio era morto. Nel corso dell'autopsia si erano riscontrate delle ferite este­ se, tra cui anche un emopericardio dovuto a lacerazioni del cuore causate da una stretta troppo forte che gli aveva schiac­ ciato la cassa toracica; fratture multiple delle costole, sia vec­ chie che recenti, e un'emorragia subdurale. Il padre affermò di averlo lavato con una spugna e di avergli dato il biberon. ma il piccolo aveva iniziato a piangere. Dato che il bambino non sem­ brava voler smettere di lamentarsi, aveva cominciato a scuo-

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lerlo avanti e indietro molte volte di seguito fino a quando il pic­ colo si era azzittito. Disse, però, che anche il suo corpicino «si era fermato». Il padre è stato accusato di omicidio preterinten­ zionale. Caso D (figlicidio) La polizia riceve una chiamata d'emergenza da una madre che,

tornata a casa dopo aver fatto la spesa, ha trovato la sua bam­ bina di due distesa sul letto senza segni di vita. Gli inve­ stigatori riscontravano un grosso ematoma nella regione tem­ porale del cranio della piccola e quelle che sembravano essere delle fratture alle braccia. La bambina veniva portata in ospe­ dale dove moriva poco dopo l'^^vo. L'autopsia ha rivelato poi che la morte era stata causata da un trauma cranico, con frattura del cranio ed ematomi subdu­ rali e intracerebrali. Parte del cervello era fuoriuscita dal cranio spaccato. La diagnosi post-mortem indicava chiaramente che la bambina era stata lanciata con violenza contro una superfi­ cie solida. La indagini che seguirono rivelarono che il padre della bambina, che si era occupato della piccola durante l'as­ senza della moglie, si trovava sotto l'effetto di alcol e cocaina e che si era irritato a causa del pianto incessante della figlia. Dopo aver fatto vari tentativi per cimarla, l'aveva afferrata per i piedi e aveva iniziato a farla girare velocemente, facendo­ le sbattere la testa contro li muro della camera. Aveva smesso solo quando la piccola si era azzittita. Poi aveva rimesso la fìglia nel suo lettino e, per nascondere l'accaduto, aveva detto alla moglie che la bambina era caduta dal letto. A conclusione del caso, si era constatato che il padre aveva causato la morte della piccola. L'uomo è stato accusato di omicidio premeditato. Caso E (figlicidio)

La polizia era stata chiamata a intervenire in una casa per in­ dagare su una denuncia per «uso pericoloso di una mazza da basebal». Al loro arrivo presso l'md^^rn indicato, gli agenti ave­ vano trovato un uomo, poi identificato come il marito dell'imputata, seduto sul divano della sala nel tentativo di trattenere 71

una donna che impugnava una mazza da baseball con entram­ be le mani. Quando le era stato chiesto di lasciar andare la mazza, la donna non aveva dato nessuna risposta e uno degli agenti era stato costretto a strappargliela di mano. Interrogata, la donna aveva affermato che suo figlio si trovava nel semin­ terrato dove lei lo aveva colpito con la m^^. Nel seminterrato l’agente aveva trovato un bambino di nove ^mi che giaceva su un divano, appoggiato sul fianco sinistro. Era visibile una gros­ sa tumefazione sulla parte destra della testa e del sangue nella zona periauricolare. Il bambino non mostrava segni di vita. Quando l’agente era tornato di sopra, la madre del bambino aveva chiesto se il figlio fosse morto. Quando le fu confermato che lo era, la donna aveva esclamato: «Volevo che andassero tra le braccia di Dio», riferendosi con quell’«andassero» ai suoi due figli: quello trovato nel seminterrato, nove anni di età, e l’altro, otto anni, al piano superiore, anche lui ferito gravemente dalla madre con la stessa mazza da baseball. Alla donna è stato imputato un capo d'accusa per omicidio premeditato e uno per tentato omicidio. Alla dichiarazione di non colpevol^e fatta della madre e alla sua richiesta che le venisse riconosciuta l’infermità men­ tale, il tribunale dispose che venisse effettuata una perizia psi­ chiatrica. Durante la seduta, la donna, di razza bianca, trentacinque ^mi, sedeva mostrando una certa tensione. Il suo di­ scorso coerente e pertinente era inframmezzato da pause spes­ so piuttosto lunghe. La donna aveva un’aria distaccata e si comportava quasi come un automa. Disse di non aver mai avu­ to difficoltà a scuola, che i rapporti con i propri genitori e i com­ pagni di classe erano sempre stati buoni e che all’età di ventidue ^mi aveva preso una laurea in lettere. Subito dopo la lau­ rea, aveva dapprima insegnato in una scuola media inferiore cattolica, ma, visto che non era in grado di tenere a bada gli studenti, si era fatta trasferire in una scuola elementare, dove aveva insegnato per due ^mi e mezzo. A ventitré ^mi si era sposata e, a causa del continuo stress che subiva sul luogo di lavoro e della mediocre relazione con il marito, era piombata in una profonda depressione. Aveva cominciato a cambiare un la­ 72

voro dopo l’altro, con la sper^^a che il suo stato potesse trar­ ne benefìcio. Si era anche rivolta a uno psichiatra, il quale le aveva prescritto una cura a base di Prozac (un antidepressivo) e tiotixene (Navane, un neurolettico). Mfennò che aveva iniziato a sentirsi profondamente frustra­ ta e rabbiosa nel rapporto con il marito e i figli, diventando del tutto incapace di relazionarsi tranquillamente con loro. Con il marito le cose erano andate sempre peggio e per un periodo era anche tomata a vivere con i propri genitori. Alla fine era torna­ ta a casa dalla sua famiglia, senza che però i rapporti miglio­ rassero, anzi erano divenuti così insostenibili che la donna ave­ va anche tentato di suicidarsi ingerendo un sonnifero. Prima di commettere il crimine, aveva tentato il suicidio una seconda vol­ ta ubriacandosi a dismisura. Durante il periodo in questione, la donna aveva continuato a badare alla casa e ai figli per quanto poteva. Ricordava che la notte prima di uccidere il figlio, aveva avuto dei terribili pensieri omicidi nei confronti dei figli, pensie­ ri che subito aveva scacciato perché «erano un’idea cattiva». A un certo punto, aveva pensato di utilizzare una pistola per l’o­ micidio, perché sarebbe stato indolore. Si rimproverava di con­ tinuo di essere stata costretta a lasciare i figli in un asilo diur­ no, perché era convinta che a causa di quello «non sarebbero più cresciuti bene, non avrebbero mai trovato un lavoro e non sarebbero stati in grado di sposarsi felicemente, né di crearsi una vita familiare tranquilla». La convinzione di aver deluso ogni propria aspettativa si era fatta continua e ossessiva. Disse che il giomo in cui si era veri­ ficato il fatto era stato uno come tanti altri, come la calma prima della tempesta. Aveva preparato il cestino del pranzo ai figli, li aveva accompagnati a scuola, era tomata a casa, li aveva poi ri­ presi all’orario di uscita, era rincasata con loro e aveva prepara­ to la cena per la f^niglia. Disse che mentre era a tavola per la cena aveva sentito crescere la tensione e l’agitazione, e i pensie­ ri omicidi si erano rifatti vivi con fo^a. Credeva che i figli non avrebbero mai avuto una vita normale o una casa decente e che per quella ragione sarebbero finiti in carcere una volta adulti. Per questo, iniziò a pensare che sarebbe stato meglio per loro

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raggiungere Dio. Quando ebbero ffinito di cenare, diede, come al solito, la medicina contro l’asma al figlio più grande, mentre que­ sto stava guardando la tv nel seminterrato. L’altro figlio si trova­ va nella sua stanza, al piano superiore, anche lui davanti al tele­ visore, mentre suo marito era in garage a sistemare le biciclette. Descrivendo l'atto omicida, l’imputata afermò che poco dopo aver somministrato la medicina al figlio, era stata presa da pen­ sieri omicidi nei confronti di entrambi i figli. Disse di essere an­ data a prendere la m^az da baseball che si trovava in uno stan­ zino per gli utensili e di essersi telata vicino a suo figlio, che era sveglio, tenendo in mano la m^az. La donna negò di aver provato un forte sentimento di rabbia in quel momento. Afferò di aver poi colpito con la mazza, quattro o cinque volte di segui­ to, la testa del figlio. Non era sicura di averlo ucciso, ma il figlio non parlava più e teneva gli occhi chiusi. In quel momento suo marito era tornato dal garage e, rendendosi conto di quello che la moglie aveva combinato, aveva tentato di i^mmobiliz^ina. La donna, però, era riuscita a liberarsi ed era corsa di sopra, sem­ pre tenendo la mazza in pugno. Al piano superiore aveva colpito il secondo figlio dietro la testa e aveva gridato al marito, che nel frattempo l'aveva raggiunta, di lasciar morire li figlio. L’imputata parlava in maniera piuttosto distaccata, come se stesse descrivendo un fatto che non la riguardava affatto, come se lei non fosse stata la protagonista della scena ma una semplice osservatrice. Negò di aver voluto punire severamente i figli, e di essere stata violenta con loro. Disse di aver rovina­ to la vita dei due figli perché non era stata una «buona madre». Si sentiva rifiutata da loro perché preferivano guardare la tele­ visione piuttosto che passare il tempo a giocare con lei. A un certo punto, espresse chiar^nente delle idee deliranti. Credeva che suo marito la considerasse una donna ingannevo­ le di cui non ci si poteva fidare affatto. Il suo pensiero era di rimprovero e condanna nei confronti di se stessa. Le idee os­ sessive, che l'avevano assediata per molte settimane prima del­ l'omicidio, consistevano nel ritenere che l’unico modo per sal­ vare i propri figli (di otto e nove anni) dall’insuccesso sociale come adulti era di ucciderli, perché sarebbero stati sicur^nen74

te meglio con Dio. Il suo figlicidio altruistico sembrava essere stato anche alimentato da sentimenti di vendetta nei confronti del marito. Ad ogni modo, durante la seduta ripete che l’atto che aveva commesso era stato dettato da un sentimento di amo­ re e dal desiderio di proteggere i figli dalle difficoltà che avreb­ bero incontrato in futuro. La diagnosi fu di una grave forma depressiva psicotico-ossessiva. La sua personalità prepatologi­ ca era di tipo borderline. Fu considerata a rischio di suicidio. Durante il processo le fu riconosciuta l’infermità mentale al mo­ mento dell’omicidio e fu Sfidata a un istituto psichiatrico perché venisse sottoposta a cure.

Caso F (figlicidio) In risposta a una chiamata per un presunto omicidio, gli inve­ stigatori avevano trovato in una casa un uomo di razza bianca con un coltello rinfilato da parte a parte nel polpaccio della gam­ ba sinistra. Nell'atrio della casa avevano trovato poi tre corpi senza vita coperti di sangue. Il corpo di una donna di r^^ bianca, di età compresa tra i venti e i trentanni, con un’enorme ferita al petto, le mani insanguinate e due piccole ferite sangui­ nanti sulla g^rnba sinistra, si trovava riverso sul cadavere di una bambina, anch'essa di razza bianca, che presentava vestiti e mani insanguinati. Anche la bambina era stata ferita profon­ damente al petto. Un terzo corpo, questa volta di un bambino, bianco, di circa tre o quattro anni, presentava ferite multiple al petto e aveva le mani insanguinate. L’uomo che era stato trova­ to dagli agenti al loro arrivo con la ferita di coltello sulla gamba fu poi identificato come marito e padre delle vittime. Fu arre­ stato e il capo d'accusa fu di omicidio premeditato plurimo con arma da taglio. Le autopsie hanno poi rivelato che ognuna delie vittime era stata uccisa con più colpi di coltello (da 20 a 28). L'imputato si dichiarò innocente per ragioni di infermità men­ tale e la sua richiesta di non colpevole^a fu accettata. Al mo­ mento della perizia psichiatrica disposta dal tribunale, l’uomo rivelava che due anni p^^a dell'omicidio aveva iniziato a sentir­ si sempre più ansioso, a nutrire sospetti sulla moglie, sviluppan­ do anche paranoie nei confronti dei colleghi di lavoro: pensava

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che a causa sua, a causa «di quello che era», la gente avrebbe sof­ ferto, ma non era in grado di fare chiarezza su questo pensiero al momento della perizia. Credeva che qualcrmo stesse chieden­ do favori sessuali a sua moglie e ai suoi figli, in c^nbio dei favo­ ri che lui aveva ricevuto sul posto di lavoro, ma non era in grado di spiegarsi ulteriormente. Riaffermò di non sentirsi sicuro di sua moglie che credeva lo tradisse e di temere che i figli non fos­ sero suoi. aggiunse anche che i pensieri che nutriva lo spaven­ tavano. A causa della crescente confusione mentale dovuta ai pen­ sieri intrusivi, i parenti gli imposero di farsi vedere da uno psi­ chiatra, dal quale, però, si recò solo due volte. Passò anche un breve periodo nel reparto psichiatrico di un ospedale. Quando fu dimesso, non proseguì la cura farmacologica che gli era stata prescritta e smise anche di vedere il proprio medico per­ ché diceva di sentirsi meglio. Qualche mese dopo, i suoi pen­ sieri paranoici e ossessivi si erano fatti nuov^nente sentire. Disse anche che aveva pensato di «fare la cosa giusta» e di sui­ cidarsi sul posto di lavoro, gettandosi in un fusto pieno di ver­ nice o andando a scontrarsi contro fi pilone di un ponte. Te­ meva, però, che i medici sarebbero poi riusciti a farlo rimane­ re in vita e che «gli avrebbero fatto dei favori in cambio di altri favori da parte della moglie e dei figli». Spiegò che i «favori» erano di natura sessuale. Il giorno dell’omicidio, era tornato a casa e aveva trovato i figli che scorciavano per casa e la moglie intenta a preparare la cena. Disse di aver avuto rma discussione con la moglie perché le aveva detto di non sapere cosa stesse succedendo. «Pensavo di avere dei poteri, di essere Gesù Cristo. Avevo dei poteri». aveva detto allo psichiatra. l suoi pensieri erano ossessivi e interferi­ vano con la conduzione nodale della sua vita. aggiunse che, non avendo ricevuto risposte ai suoi «messaggi telepatici». deci­ se di andarsene a letto e di rilassarsi. Quando si era alzato qual­ che ora più tardi, si era sentito meglio, ma non appena tornato in salotto i pensieri si erano fatti ancora più ossessivi. Ricorda­ va di aver afferrato un coltello e che sua moglie gli aveva chiesto cosa avesse intenzione di fare. Affermò che si era reso conto di 76

stare per fare qualcosa di sbagliato, ma che non era stato in gra­ do di fermarsi. Ricordava che sua moglie era fuggita fuori della stanza gridando aiuto e di averla colpita ripetu^tamente. «Era tutto un macello. Ero molto confuso. Li amavo tanto. Non volevo che fossero costretti a vivere in un mondo di dolo­ re. Pensavo che quella fosse la cosa giusta da fare». Ricordava confusamente di aver ucciso anche i due figli. Le vittime erano morte dissanguate a causa delle molteplici ferite al petto e alla schiena. Si trattava di un omicidio perpetrato con accanimen­ to ed estrema violenza da un marito e un padre paranoico con pensieri ossessivi. Fu giudicato non colpevole per inie^ità men­ tale. Quindici anni dopo, quando fu disposta una nuova peri­ zia per la concessione della condizionale dall’istituto psichia­ trico nel quale era stato messo in cura, fu ritenuto essere an­ cora un soggetto pericoloso per sé e per gli altri.

Caso G (figlicidio) Un uomo di razza bianca di trentaquattro anni è stato con­ dannato per omicidio premeditato del figlio di un anno. Aveva lasciato la figlia di quattro anni seduta sulla riva di un fiume ed era stato visto entrare in acqua, con lo sguardo confuso e gli occhi alzati al cielo, tenendo il figlioletto tra le braccia. Ave­ va raggiunto un punto in cui il livello dell’acqua era abba­ stanza alto e aveva deposto il piccolo sull’acqua. La morte del bambino era sopraggiunta per annegamento. L’imputato si era dichiarato non colpevole per infermità men­ tale o incapacità hi intendere e hi volere. Al momento della pervia psichiatrica disposta per stabilire la sua responsabilità penale, l’uomo appariva triste, si muoveva molto lentamente, parlava in maniera coerente ma piuttosto rapida, u^^^mdo di tanto in ^aito espressioni dettagliate e prolisse. Disse di avere im lavoro indipendente come ins^talatore di sistemi satellitari, ma che gli affari ultimamente non erano andati troppo bene. Questa situa­ zione, a cui si aggirmgevano i sospetti sull’infedeltà della moglie, lo aveva reso depresso e aveva riacceso la sua tendenza a per­ dersi in pensieri paranoici, tendenza che si era fatta sentire perio­ dicamente, in passato, unita all’idea di non essere sessualmente

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capace. Aveva cominciato a essere sempre più agitato e ad avere compor^rnenti impulsivi prima dell'omicidio, trovando sollievo solamente nella lettura ossessiva dei testi di dianetica. Con il passare del tempo, le sue paranoie si erano fatte sem­ pre più sistema^tizate fino al punto che l'uomo aveva comincia­ to a credere che «tutti in città non facevano altro che parlare di me, anche alla radio si rivolgevano a me. Ricevevo messaggi attraverso i compiti scolastici di mia figlia; persino mentre gui­ davo avevo la netta sen^sazione che la gente comunicasse con me». Parlò di alcune liti avute con la moglie perché pensava che lei lo stesse prendendo in giro e che avesse intenzione di mol­ larlo. Disse che il giorno in cui era a^egato il figlio aveva rice­ vuto la bolletta del telefono, e credendo che alcune delle telefo­ nate indicate in dettaglio fossero state fatte dalla moglie a un al­ tro uomo, ^iniziò a litigare con la donna chiedendole spiegazioni. L'uomo pensava che lei gli stesse nascondendo qualcosa. Pen­ sava persino che la sua casa fosse stata seminata di microfoni spia fatti installare dal suo precedente datore di lavoro. Parlando ancora degli eventi che avevano preceduto l'omici­ dio, disse che aveva portato al fiume i due figli per pescare. «Quando arriv^nmo lì, tirai fuori le charme da pesca dala mac­ china e ne preparai una per mia figlia. Ricordo di averle detto di fermarsi a pescare a una decina di metri da me. Poi, mi misi a preparare la mia c^arma e per un qualche motivo pensai che non ci sarebbe stato nulla di male se avessi chiesto delle esche a una donna che si trovava li. Lei non aveva esche e io ^iniziai ad avere nuovamente un senso di oppressione. Divenni rosso in viso per l'imbarazazw, anche se non avevo coscie^nza del perché lo fossi. Cominciai a sentinni vergente molto agitato». Fu allo­ ra che prese in braccio suo figlio ed entrò in acqua. «Stavo per immergerlo nell'acqua ma non riuscivo a farlo. Era come se qualcuno mi stesse ordinando di buttarlo in acqua. Non volevo farlo e mi tirai indietro con lui. Qualcosa, però, in quel momen­ to mi disse che sarebbe andato tutto bene. Quando lo immersi, stavo guardando la luna: non guardai mio figlio mentre lo met­ tevo in acqua». L'uomo disse che era ritornato sulla spiaggia senza il bambino e che si era spaventato e infuriato quando la

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figlia gli aveva chiesto dove fosse finito 11 fratellino. In seguito, in preda ala disperazione, era entrato nuovamente nel fiume e aveva tentato di suicidarsi annegando nell’acqua alta. Fu però salvato da alcune persone che si trovavano nelle vicinanze, su una barca. «Quando fui tratto in salvo su una barca, pensai di essere Gesù», aggiunse. Sua moglie riferi che l’uomo era stato depresso per quasi un anno intero e che si trovava ancora in piena depressione al momento della perizia psichiatrica. Gli fu diagnosticata una grave forma di depressione reattiva con idea­ zione paranoica al momento dell’omicidio e fu giudicato non colpevole per infermità mentale. Fu internato in istituto psi­ chiatrico statale per essere sottoposto a cure. L’uccisione di un figlio da parte dei genitori è un crimine orri­ bile. Quasi sempre si constata l’incapacità del genitore omici­ da di controllare le proprie emozioni distruttive. Il controllo delle emozioni negative ad opera di strutture cerebrali che modulano l’impulsività può venire meno anche in virtù di una disfunzione neurochimica, che si manifesta a livello compor^mentale con rabbia, ostilità, risentimento, vendetta o pensie­ ri ossessivo-aggressivi. Partendo dalla definizione fornita da Wllllams, il quale vede la cultura come base di vita per ogni società materiale, intellet­ tuale e spirituale, l’uccisione di bambini per mano dei genitori può essere considerata non esclusivamente un atto determinato dalle emozioni, ma un atto inquadrato all’interno di un partico­ lare milieu storico-culturale. Pertanto, nel tempo, con il mutare delle culture in funzione del progresso etico e morale dell’uomo, osserveremo anche cambiamento della frequenza di questi fenomeni. In passato, il numero dei casi di neonaticidio, infanticidio e figlicidio ha subito variazioni in funzione anche del clima cul­ turale, delle condizioni socio-economiche, del ruolo conferito all’autorità genitoriale e, talvolta, di una effettiva reificazione della prole. Nei casi a rischio la probabilità che i bambini cor­ rono di venire uccisi dal propri genitori è altissima al momen­

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to della nascita, o nel periodo immediatamente successivo al parto, ma ciò non esclude la vulnerabilità dei bambini più gran­ di. A volte il neonaticidio, come detto in precedenza, viene ca­ muffato con una sindrome infantile da morte improvvisa o preceduto dalla sindrome del bambino maltrattato. Abbiamo già fatto notare come in passato l'uccisione delle femmine fos­ se più frequente di quella dei maschi, e come sia più facile che i bambini più grandi vengano uccisi dai padri, mentre quelli più piccoli dalle madri. Bromberg affermava che il paradosso dell’aggressione materna ai danni di un bambino è legato a un concetto che arriva alle origini della razza umana: i creatori possono distruggere ciò che hanno creato. Quest'idea primitiva affonda le proprie radici nella preistoria. anticipando di gran lunga la nascita del diritto, dei costumi, della religione o dell'etnica41.

Non è compito facile definire le caratteristiche di coloro che com­ mettono questo tipo di atto criminale perché, come affermano Ponti e Gallina-Fiorentini, le din^amiche psicologiche che li regolano sono così differenti che sembra praticamente impossibile tracciare un profùo comune a tutti i genitori omicidi42.

Gli stessi autori suggeriscono che questi eventi debbano essere inseriti nella categoria della «sindrome omicida», a causa della molteplicità di fattori che di volta in volta entrano in gioco nella dinamica. La maggior^^a dei genitori omicidi è ossessionata da un profondo senso di inadeguatezza, è caratterizzata da gravi disturbi della personalità, personalità borderline o stati psicotici conclamati. I genitori che hanno commesso un figlicidio offrono spesso una spiegazione riguardo alle motivazioni che li hanno spinti a compiere le proprie azioni, per esempio affermando che volevano «salvare i figli da un terribile destino, Dio desiderava che fossero sacrificati per lui» o frasi analoghe43. Avviene che il comportamento di una madre con intenzioni omicide sfoci in un accanimento oltremisura, come nel caso di 80

una donna di qu^^ntadue ^an che ha colpito numerose volte la figlioletta appena nata con un coltello, sia sul corpo che sul viso44. In pochi casi si tratta di veri e propri psicopatici, se^nza alcun valore morale, negligenti, senza tracce di empatia nei confronti del mondo che li circonda e insensibili nella loro rab­ bia e aggressività. Rheingold. con un’interpretazione psicodina­ mica45, riteneva che per una donna l’omicidio di un neonato rappresentava li modo per cancellare la propria condizione di madre e un’espressione delia propria dipendenza e attaccamen­ to alla propria madre: in altre parole, la paura di crescere e di essere separata dala genitrice. Risulta ovvio da quanto sopra che la multifattorialità eziologica del figlicidio in generale, este­ so alle varie fasce di età delle vittime, la diversità sostanziale dei genitori che uccidono, dal punto di vista psicologico, socio­ economico e culturale, e l’ordine di nascita delle vittime stesse, nel senso che non è sempre il primo figlio ad essere ucciso, mi­ nimizzando quindi fattori invocanti responsabilità, sep^arazione ecc ., chiar^nente non permettono l’applicazione di interpreta­ zioni psicodinamiche «universali» a casi così diversi, che anche se interessanti da punto di vista teorico, devono essere pri­ ma validate sul c^npo e da un punto di vista statistico. Infatti i casi presentati sopra sono esempi di figlicidi deter­ minati da una molteplicità di fattori diversi. Il caso A è un tipi­ co esempio di neonaticidio nel quale i fattori dete^inanti sono il senso di inadeguatezza personale, le costrizioni sociali, la paura del giudizio da parte della società e l’incapacità di affron­ tare gli eventi che la vita ci pone davanti. I casi B, C e D sono casi di infanticidio motivati dala manc^^ di solide compe­ tenze genitoriali, inadeguatezza personale, irritabilità, impulsi­ vità e rabbia, associati, a volte, all’uso di sostanze stupefacenti o bevande alcoliche. Il caso D è quello del padre assassino, uno psicopatico intossicato dalla droga e dall’alcol, che viene irrita­ to dal piagnucolare della figlia. Il caso E. della madre che aveva ucciso il figlio di nove ^mi e tentato di uccidere il secondo figlio di otto mentre si trovava in uno stato psicotico, era stato deter­ minato da vari motivi: vendetta contro il marito, «altruismo» nei confronti dei figli e un profondo senso di inadeguatezza. 81

Nei casi E e F. l’attacco omicida è stato fulmineo e sferrato con un accanimento spropositato, avvenuto probabilmente du­

rante una crisi catatimica'6. L’uomo del caso F ha brutalmente ucciso sua moglie e i figli non solo perché voleva risp^anare loro l’abuso sessuale da parte di sconosciuti, ma anche perché era molto geloso di sua

moglie. La sua paranoia era significativa ed era scoppiata in ma­ niera incontrollabile fino a determinare l’assassinio della donna

e dei due bambini. Anche nel caso

G

i fattori che avevano cau­

sato l’uccisione del bambino erano stati molteplici. Il padre era

torturato dal'incessante sospetto dell’infedeltà della moglie e dal

timore che i figli non fossero suoi. Aveva anche sviluppato un comportamento pararanoico nei confronti dei suoi precedenti soci d'affari

1 quali, sosteneva, stavano tenutalo di portarlo alla rovi­

na. Questi sentimenti avversi, ^alti all’idea di non essere ses­ sualmente adeguato, lo avevano portato all’uccisione del figlio. Il

suo atto aveva avuto un valore altamente simbolico ed era stato

compiuto secondo modalità improvvise e incontrollabili, quasi si

fosse trattato di un’offerta sacrificale. Il suo comportamento, aveva detto l’uomo stesso, era stato una reazione alla sorte co­ smica avversa che gli era stata preannunciata.

A un’attenta analisi dei casi presentati, è possibile notare che i genitori figlicidi hanno tutti in comune un senso di inadeguate^a personale, la mancai di solide capacità di svolgere il

ruolo di genitore e di meccanismi di difesa. I casi

B. C

e

G

sono

casi poco comuni di infanticidio, in quanto tutti e tre perpetrati

da padri e non da madri, contrariamente a quanto si ritiene av­

venga solitamente. Anche il caso E è insolito, in quanto è raro che una madre uccida un figlio con un corpo contundente. In

preda alla furia, aveva infatti agito come avrebbe più tipicamen­

te fatto un padre figlicida. Un ulteriore fattore comune a tutti i genitori sopra presentati

è

stato il comportamento omicida im­

provviso, che ci ricorda quella che

è

stata definita come crisi ca-

tatimica. Nel clima culturale odierno, caratterizzato da edonismo, re­

lativismo e materialismo, 1 legami tra i vari componenti di una f^diglia sono spesso fragili e il comportamento a volte toma ad

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essere quello violento tipico delle origini dell’uomo. All’interno di quest’atmosfera sociale, i b^nbini passano spesso in secon­ do piano o perdono completamente la loro impo^^^a e diven­ tano facili prede degli umori instabili dei propri genitori e dei loro compor^menti disfunzionali. Succede, allora, che i figli siano vittime di omicidi. Da un punto di vista evolutivo e socio-psicologico si ritiene che i parenti consanguinei, in modo particolare i figli, siano più o meno immuni dalla violenza letale potenziale dei genito­ ri, in virtù di quella selezione naturale che favorisce la proliferazione degli elementi genetici degli attori nelle generazioni future, contribuendo alla sopravvivenza e al successo riproduttivo dei discendenti genetici degli attori47.

Può capitare, però, che una combinazione genitore-figlio (g^oodness ofjit) non sia perfetta, quasi sempre per motivi tempera­ mentali, ma, nei casi con outeo^ letale, anche e soprattutto per immaturità, egoismo o, in casi estremi, per infermità mentale. Inoltre, sganciati da motivazioni evolutive di continuità geneti­ ca, per una molteplicità di fattori, alcuni genitori non vedono i propri figli né come una loro proiezione genetica nel futuro, né come persone autonome da amare, riducendo quindi responsa­ bilità, energie fisiche, emotive e sociali essenziali per la crescita sana di nn figlio. La letteratura analizzata e i casi presentati dimostrano co­ me i disturbi della personalità siano molto rappresentati tra i genitori che commettono figlicidi, mentre l'infermità mentale si riscontra solo in alcuni, e principalmente nelle madri. Wilczynski divide le madri che uccidono in «cattive» e «pazze». La «cattive», scrive l’autrice, sono giudicate dai tribimali come «donne spietate, egoiste, fredde, insensibili e negligenti nei con­ fronti dei propri figli o delle proprie responsabilità domestiche, nonché violente e promiscue»48. La altre, le «pazze», continua, sono donne che senza dubbio causano la morte di un figlio, ma che «in quel preciso momento avevano la mente obnubilata per non essersi ancora riprese dagli effetti dell'aver dato alla luce nn 83

figlio»49. Ad ogni modo, siano esse «cattive» o «p^ze», rimangono sempre attori e reattori in uno dei più tragici eventi della vita e giudicarle colpevoli o non colpevoli per infermità mentale non allevia in alcun modo il senso di colpevolezza collettivo per l’in­ capacità della società di prevenire un c^rimine così orribile.

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Capitolo III

IL FIGLICIDIO E LA DISABILITÀ EVOLUTIVA: IL CASO DELL’AUTISMO

Quando il figlicidio coinvolge un figlio disabile, oltre allo scon­ certo e alla perplessità che l’atto in sé provoca in generale, evoca lo spettro del d^rnsmo sociale. Cosa porta un genitore ad atti così contrari alle proprie responsabilità genitoriali da essere pa­ ragonati, in altre circostanze, a situazioni di ossessività patolo­ gica?1 Le considerazioni storiche e socio-culturali sono state affron­ tate in altri capitoli di questo libro, ma si può senz’altro affer­ mare che i dati demografici e statistici a disposizione rivelano in modo sconcertante che nei paesi occidentali l’omicidio in­ fantile è una causa di mortalità comune2, e la maggior parte delle vittime vengono uccise per mano dei propri genitori3. Come abbiamo visto, sono varie le definizioni che si applica­ no all’atto di figlicidio4, a seconda dell’età della vittima o della motivazione del crimine. Abbiamo descritto li figlicidio altruisti­ co, omicidio commesso per «amore»; un figlicidio psicotico, senza motivazioni apparenti; un figlicidio di un figlio indeside­ rato; un figlicidio accidentale e infine un figlicidio «vendicativo»5. Nei casi di figlicidio che coinvolgono un figlio disabile, li con­ cetto di figlicidio «altruistico» si so^^ppene pericolosamente a quello di mercy («uccisione per pietà»), un concetto attuale e al centro di dibattiti nell’ambito di argomenti di etica medica riguardo a «eutanasia», «suicidio assistito» ecc. Il motivo di questa sovrapposizione terminologica è multifattoriale. In parte potrebbe dipendere dall’uso confuso e apparentemente intercambiabile che si fa, a volte, nella letteratura, di termini come uccisione per pietà,

85

morte assistita, eutanasia attiva, eutanasia passiva ecc. con il ri­ sultato di creare molta confusione e ^saa chiar^ez6. D'altro can­ to. i p^araleli fatti tra compo^^ienti animali e atti ciminosi uma­

ni, quali il figlicidio, tentano di spiegare, o inquadrare gli stessi,

tr^ite «equivalenti animali»7. Una consegue^nza imprevista però potrebbe essere di stimolare ulteriormente un'ideologia utilitari­

stica e di determinismo genetico9 contribuendo pericolosamente

ad abbassare gli standard morali riguardo a pratiche come l'euta­

in generale la «morte assistita».

nasia e

Inoltre, l'avallo sociale del­

l'uccisione per pietà può ulteriormente disinibire comportamenti

e abbas^e la guardia morale riguardo al trat^mento del sogget­ to disabile grave9. Giustificare e «comprendere» quindi il figlicidio di un disabile risalila di indurre comportamenti di imitazione. Bambini e adulti con disabilità evolutive, come gruppo so­

ciale specifico, hanno un rischio maggiore della nonna sia per il maltrattamento, che per l'abuso10, e i genitori, almeno negli

Stati Uniti,

sembrano rispondere in modo più negativo nei

confronti di figli disabili maschi, che nei confronti di figlie fem­ mine, a parità di disabilità11.

È

inoltre descritta una de-uma­

nizzazione dei bambini disabili, che sono spesso svalutati co­ me individui12. Gruppi di

advocacy

per i disabili, e ricercatori

nel campo specifico dell'etica della disabilità, segnalano con preoccupazione il numero crescente di figlicidi «altruistici» d^ani di soggetti con handicap 13.

Più

di

1.600

casi di omicidio in cui la vittima era un disa­

bile sono stati segnalati da gruppi non govemativi di

cy.

Ottanta di questi casi

L'autismo coce.

È

al

è una

(5%)

advoca-

erano persone autistiche^.

sindrome neuropsichiatrica a esordio pre­

attualmente considerato un disturbo del neurosvilup­

po a eziologia multifattoriale15 e sotto forte influenza geneticai6.

È

inclusa, nel

dsm IV

dell'Amertcan Psychiatrtc Association,

tra i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo^.

I

disturbi generalizzati dello sviluppo sono condizioni etero­

genee e nella pratica clinica viene spesso usato come sinoni­ mo il termine «disturbo dello spettro autistico» o «spettro au­

tistico»^ proprio per sottolinearne l'eterogeneità, nonché la na­

tura dimensionale della severità clinica.

86

L’incidenza è di 6,0 casi per 1.^00 bambini19. Clinicamente, l’autismo è c^arate^^to da anomalie nei com­ portamenti interpersonali, un uso anomalo o l’assenza del lin­ guaggio, reciprocità emotiva assente o ridotta e una varietà di componimenti ripetitivi. l pazienti h^ano difficoltà nel comprendere e nel prevedere il comportamento degli altri per via di uno sviluppo deficitario di una «teoria della mente», ovverosia la consapevolezza del probabile contenuto del pensiero di un altro20. Presentano inol­ tre difficoltà nell’interpretazione emotiva degli altri e anomalie prosodiche dell’eloquio. Nonostante le interpretazioni stigmatizzanti del passato ri­ guardo all’eziologia dell’autismo siano state quasi universalmen te abbandonate, la «cultura popolare» è tuttora piena di infor­ mazioni vaghe riguardo alla patologia. Se un film come Rainha difatti aumentato per certi versi la consapevolezza del fenomeno, si è concentrato solo sugli aspetti più «spettacolari» della malattia, aspetti che, per inciso, hanno di fatto portato al­ la vittimizzazione e allo sfruttamento del soggetto autistico in­ terpretato da Dustln Hoffman. Letteratura aneddotica suggerirebbe che l’autismo sia esso stesso un fattore di rischio per atti criminosi21 ma è più proba­ bile, al contrario, che, come per altre disabilità, i soggetti auti­ stici abbiano un rischio più elevato di essere vittimizzati. Nell’arco degli ultimi tre anni, in Italia, due bambini autistici sono morti in modo violento e di queste morti sono state accusa­ te le madri. Uno di questi, un rag^azno di quattordici anni, è sta­ to soffocato con un sacchetto di plastica postogli sopra il capo, e successivamente gettato in una piscina, avendo l'omicida in se­ guito simulato un furto al d^an della del giovane22. L’altro, un maschietto di tre anni con un probabile ritardo del linguaggio e problemi compo^^mentali, è stato gettato in un fiume conge­ lato, dopo che una di^agnosi ne aveva ipot^zato l’autismo23. In altri paesi, nel dicembre del 2^00 una donna di tren^rnove ^ani ha assassinato il figlio di dieci per «far cessare le sue sofferenze»24. Anche lei lo ha spinto in acqua, pur sapendo che non era in grado di nuotare. Nel 1997, una madre neozelandese ha 87

strangolato la figlia diciassettenne autistica25, e nel 1996 una bobina di dieci con sindrome di Rett, un disturbo gener^^^to dello sviluppo con molti tratti autistici, è morta per ine­ dia nella British Columbia26. Nello stesso anno, qualche setti­ mana più tardi, un bambino autistico di sei è stato affoga­ to dalla madre nella vasca da bagno nella sua casa di Montreal27. Le morti di questi bambini o adolescenti sono solo alcuni degli esempi raccolti, e possono essere classificate come figlicidi al­ truistici, «uccisioni per pietà» o più semplicemente omicidi. Il rischio di maltrattamento, abuso e omicidio domestico di un disabile dipende da una varietà di fattori. Le stress secon­ dario all’avere un figlio cronicamente malato, la mancanza di network di sostegno'28, il disagio psichiatrico nei genitori29, e forse perfino certe caratteristiche della vittima, quali compor­ tamenti maladattivi e problematici ricorrenti, aggressività fisi­ ca30, comportamenti o movimenti ripetitivi incessanti31 posso­ no favorire, ma mai giustificare, atti di vittimizzazione dome­ stica. Le stress parentale contribuisce anche alla riduzione delle attenzioni genitoriali nei confronti di un figlio3'2. L’autismo come fattore di rischio

Nel caso specifico dell’autismo si identificano una serie di fatto­ ri di rischio. L’alta incidenza di disturbi del tono dell’umore nei genitori di pazienti autisti^, per esempio la depressione delle madri che uccidono34, potrebbe in se stessa essere un fattore di rischio, in modo particolare se altri elementi stressanti sono presenti. Analogamente, se paragonati ai genitori di soggetti con altre forme di disabilità, i genitori di pazienti autistici dimo­ strano risposte specifiche allo stress, che differiscono da quelle dimostrate in altri contesti clinici, e le madri stesse dimostrano difficoltà nell’identificare lo stress35. Inoltre, i genitori di pazien­ ti autistici che sono a più alto rischio per lo sviluppo di distur­ bi del tono dell’umore sono probabilmente quelli con livelli più alti di serotonina36, un modulatore del tono dell’umore. 88

Un disturbo nel metabolismo della serotonina è stato indub­ biamente associato a comportamenti omicidi37, ma le ragioni di queste associazioni sono poco chiare, così come non è chiaro il ruolo che l'iperserotoninemia riveste nel gruppo di genitori di pazienti autistici in cui questo è stato dimostrato. È diffici­ le quindi trarre conclusioni riguardo a un «marker» biochimi­ co che funga da «fattore di rischio» per il figlicidio in questo selezionato gruppo di genitori. Certamente, studi specifici del metabolismo della serotonina in genitori figlicidi potrebbero dimostrarsi di grande aiuto nel comprendere anche le vulne­ rabilità biochimiche. Senza dubbio, variabili come il senso di auto-efficacia genitoriale hanno mostrato di incidere sui livelli di stress genitoriale in famiglie con un figlio affetto da auti­ smo38. Inoltre, le difficoltà che si incontrano nello sviluppare un legame con il figlio autistico, secondario ai problemi in am­ bito socio-cognitivo del bambino, e l’attaccamento disturbato secondario, assieme all’impossibilità per un genitore di dare un significato a comportamenti e problemi che corrispondono a un’assenza di una causa documentabile con metodiche stru­ mentali o di laboratorio, aumentano ancora di più lo stress ge­ nitoriale. Al di là dell’autismo, anche altre patologie in cui vi è una so­ stanziale compromissione della comunicazione genitore-figlio sono una fonte di grande stress per il genitore. Questo è senza dubbio il caso della sordità39. In questo gruppo, fattori etnici e culturali, il locus di controllo geiUtoriale e aspetti specifici del figlio possono mediare i livelli di stress40. Ciononostante, è chia­ ramente dimostrato che mettendo in grado il genitore di comu­ nicare con il figlio mediante linguaggi alternativi - come il lin­ guaggio gestuale dei segni, per esempio, che si apprende più rapidamente rispetto ad altre metodiche riabilitative - riduce in modo significativo il livello di stress e migliora l’autostima geni­ toriale41. Purtroppo, linguaggi o metodiche comunicative alter­ native analoghe non esistono per l’autismo. Tristemente, sono stati identificati diversi «gradi di desiderabi­ lità» in relazione al disabile42. I meno «desiderabili» sono i disabili dismorfici o con ritardo profondo, mentre un alto livello di «desi­

89

derabilità» è basato sulle competenze intellettuali e comunicative. Non è difficile vedere che molti dei nostri pazienti autistici posso­ no essere classificati come «indesiderabili».

La prevenzione stigma e l’ansia che si associano a una diagnosi di autismo si riducono mediante un'«educazione» alla malattia. Questo aiu­ ta il genitore, spesso giovane e inesperto riguardo al suo nuovo ruolo, ad acquistare, o a riacquistare il controllo di una situa­ zione profondamente demor^^^rnte, dandogli modo di antici­ pare problemi futuri e di porsi nei confronti dei figli nel modo più efficace possibile. Senza dubbio il primo atto preventivo è una diagnosi corretta. Questa, come si farebbe con qualsiasi si­ tuazione di crisi sanitaria, va fatta senz’altro tenendo presenti le vulnerabilità della famiglia quali la toller^^a per la frustrazio­ ne e lo stress, la «bontà della combinazione» (g^^faess offit) tra uno o l’altro genitore e il figlio, e contemporaneamente ricer­ cando attivamente segnali di problemi psichiatrici nel genitore stesso. Questi alcali, come la demoralizzazione e/o la depres­ sione, entr^nbe condizioni trattabili, quando presenti, deru­ bano il genitore della sua volontà di lottare, e interferiscono con gli sforzi riabilitativi. Inoltre, contrariamente a ciò che spesso viene detto al genitori, e cioè di «fare i genitori». questi stessi sono non solo parte integrante del team riabilitativo, ma. pro­ babilmente, i membri del team più impor^nti, dato soprattutto il numero di ore che trascorrono con i figli, e dato l’insufficien­ te numero di ore di terapia, di qualsiasi tipo questa sia, che so­ no disponibili per i pazienti. Infatti, with Disabi^tes EducationAct (PL 101-476) negli Stati Uniti, e la Coarta dei Dirit­ ti delle persone autistiche (C^harerjor People with Autism), adot­ tata come Dichiarazione (Written Declaration) dal Parlamento europeo nel maagio del 1996 esigono l’inclusione e il coinvolgi­ mento delle famiglie nelle decisioni terapeutiche. Infine, l’au­ mento di interesse per terapie «in casa», la loro dimostrata effi­ cacia sia in ambito terapeutico che nel ridurre lo stress geLo

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nitoriale, sottolinea ulteriormente il ruolo fondamentale dei ge­ nitori nella riabilitazione dei loro figli autistici43. Analogamente, contatti frequenti con le famiglie riguardo all'efficacia e validità di una varietà di approcci terapeutici^ aiuta a minimizzare le false speranze e le aspettative poco realistiche. In casi di pro­ gnosi di autismo si è particolarmente vulnerabili ad aneddoti di «cure miracolose» e, se anche molte «terapie» sono inutili, non necessariamente sono se^nza conseguenze45. Queste ultime pos­ sono essere economiche, etiche e morali. È oltretutto molto dif­ ficile dimostrare ai genitori l'inefficacia di terapie che durano per un periodo di tempo molto lungo, periodo durante il quale è co­ mune che vi siano anche miglioramenti spon^tanei non attribui­ bili a interventi terapeutici. Spesso, inoltre, non viene fatta una diagnosi per molto tem­ po, o la stessa manca di specificità o di «universalità». Questo è, come in tutti i casi di gap comunicativi, un substrato fertile per false speranze, numerose seconde, terze e quarte opinioni con ulteriore stress e costi, e forse, fatto ancora più impor^tante, un ritardo inaccettabile neil'inizio dell'lntervento riabilitati­ vo, fondamentale per un miglioramento della prognosi46. È tra l'altro dimostrato che un ritardo, o un'assenza, della diagnosi nel caso di disabilità, è causa di livelli elevati e non necessari di stress nelle famiglie47. In realtà un approccio franco e diret­ to è quello più apprezzato dai genitori48. Le stesse famiglie che hanno lottato così duramente e a lungo contro la «colpevolizzazione» intrinseca a interpretazioni eziologiche precedenti del­ l'autismo, si confrontano ora con una mancanza di chiarezza diagnostica e terapeutica.

Una «crisi di info^azione»49 e stadi tipicamente associati con la perdita e il lutto sono vissuti da un genitore che scopre che il figlio o la figlia sono autistici. Le negazione, la rabbia, la con­ trattazione e la rassegnazione o l'accettazione, sono tutte rea­ zioni normali. Ciononostante, le fasi consequenziali associate con il lutto non vengono vissute ed elaborate50, o sono vissute a pezzi, qua e là, per la mancanza di chiarezza riguardo aila dia­

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gnosi, alle seconde o terze opinioni. I dubbi riguardo alla tera­ pia o alla prognosi rendono ancora più arduo il «ritorno ala vi­ ta». Analogamente, bisogna tenere in considerazione il «lutto ri­ corrente» che si verifica quando il bambino non raggiunge le normali tappe evolutive51 o, peggio, quando miglioramenti sono seguiti da peggioramenti o «regressioni». Le disabilità evolutive vanno considerate come «circostanze estreme» nella vita di un genitore di un piccolo paziente, e fi back­ ground culturale, i sistemi di valori, i tratti del temperamento e lo stile cognitivo ^influe^^rno le risposte individuali a situazioni estreme52. L’impatto della mancia di supporti sociali o dello stress sulla genesi del figlicidio non è ancora chiaro, anche se il buon senso induce a credere che un rapporto vi sia, soprattutto qua­ lora esis^mo altre circostanze patoplastiche, comuni tra l’altro nelle f^niglie di pazienti autistici (depressione, solitudine, di­ scordia coniugale, senso di colpa c colpevoliz^zazioni). Il normale stress associato al ruolo genitoriale è ulteriormente aumentato dalla consapevole^^ che, per certi comportamenti, vi possono essere pochi o nessun miglioramento con il passare degli anali dalle difficoltà intrinseche al crescere qualsiasi figlio «atipico» e, non ultimo, dal fatto che la disponibilità di aiuto esterno ala famiglia, o baby-sitting. per un bambino o per un adolescente autistico è praticamente nullo. con conseguenze ovvie sul rap­ porto di coppia. Il ruolo del medico e dell’operatore sani^ino in generale è di rafforzare le potenzialità genitoriali individuali, piuttosto che di sottolineare le loro vulnerabilità. Queste ultime, infatti, in circosaliize estreme diventano più evidenti e inllue^^rno sia le proprie decisioni riguardo al futuro, indipendentemente dal fatto che questo possa o non possa essere di fatto negativo, sia le scelte terapeutiche degli operatori. Questi spesso attribuiscono ad at­ teggiamenti genitoriali dei sig^nificati eziologici che, oltre ad esse­ re impossibili da provare, così interpretati rischiano di alontana­ re ancora di più dal contesto terapeutico una famiglia che soffre^. Nel lavoro con le famiglie, per quanto arduo5‘, è opportuno non dimenticare che assieme all’aforisma «primo non nuocere»

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deve essere «secondo non abbandonare». Infatti, assieme alla prognosi grave vengono la solitudine e la paura.

È

questa pau­

ra che i sanitari devono superare per sostenere i loro pazienti e i rispettivi genitori, attraverso il conforto e l’empatia, distri­ buendo sostegno morale lungo la via. Nel fare ciò,

è

nondime­

no fondamentale operare uno screening delle famiglie a rischio

per atti di violenza domestica, probabilmente il passo più im­ portante nella prevenzione delia vittimizzazione in famiglia55. Non bisogna ignorare la disorganizzazione e il caos familiare, o

sottovalutare la pericolosità di verbalizzazioni a contenuto omi­ cida dirette nei confronti di un figlio affetto da autismo, sulla

base «razionale» dell'empatia e della comprensione umana per la situazione vissuta dalla famiglia. Anche in assenza di segna­ li ovvi di disagio, un’indagine attenta e sistematica diretta alla

valutazione del rischio per comportamenti omicidi^ deve esse­

re condotta con i genitori o con chi ha preso in carico la perso­

na autistica, quale che sia la sua età.

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Capitolo N

FIGLI CHE UCCIDONO

n parricidio Nelle famiglie disfunzionali è possibile osservare non solamen­ te fenomeni di diffidenza e distacco tra i suoi componenti, ma anche comportamenti che lungo un crescendo di intensità emo­ tiva vanno dall’amore e dall’affetto alla rabbia, all’ostilità, all’ag­ gressività e, a volte, alla violenza. Queste ultime due caratteriz­ zano spesso le relazioni tra coniugi; la violenza viene perpetra­ ta dai genitori ai danni dei figli e a loro volta i figli diventano vio­ lenti contro i genitori, o i sostituti dei genitori. Il matricidio, il patricidio e il parricidio (quest’ul^mo include sia l’uccisione del­ la madre che del padre) rivelano una frantumazione dei tabù e rappresentano principalmente la rivolta contro figure genitoriali aggressive e dispotiche. Nei casi di patricidio l’atto si manifesta frequentemente co­ me reazione alle incessanti umiliazioni cui sono sottoposti un figlio o una figlia da un padre brutale; nel matricidio, invece, spesso si tratta di una combinazione di dipendenza e di un desiderio frustrato ossessivo di vicinanza alla madre, manife­ stata da un bambino, da un adolescente o da un giovane uo­ mo, ad alimentare la violenza. Tuttavia, anche alcune madri a volte si comportano dispoticamente, umiliando i figli. Sebbene la maggior parte dei figli matricidi e patricidi non presenti psicosi, vi sono senz’altro casi di ragazzi parricidi sulla base di fenomeni allucinatoli uditivi (voci) di comando, sebbene questo sia più comune nei parricidi adulti.

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In un sistema familiare tipico, i componenti normalmente si astengono da atti gravi di violenza per risolvere le proprie con­ troversie interpersonali. Viceversa, in famiglie di tipo caotico, che nell’ambito qui trattato rappresentano il tipo più diffuso, si sviluppano violenza marginale, e violenza con occasionati, im­ provvisi comportamenti esplosivi, temporanei, ma con una va­ lenza distruttiva cronica ai danni di un equilibrio familiare pre­ cario. Diffìcilmente queste situazioni, che inizialmente si mani­ festano in modo transitorio, volgono verso modelli di serenità e normalità interazionale. Più spesso, la violenza ripetuta dege­ nera nell'«abitudinarietà» comportamentale, e la stessa violen­ za diviene il mezzo di comunicazione. In questa famiglia «osti­ le» i componenti violenti e ultraviolenti, i quali dettano le rego­ le di comportamento da rispettare e minacciano gli altri fami­ liari, solitamente la moglie e i figli, con esplosioni di violenza, mantengono il controllo totale. Pur essendo presenti trasversal­ mente nella società, situazioni di degrado socio-economico e culturale-morale sono senz’altro patoplastiche allo sviluppo di situazioni limite quali quelle descritte. Al'intemo della famiglia i figli sono sempre stati sotto il con­ trollo di un do^minus, il padre, o di una do^^^ la madre. Il signi­ ficato del controllo è molteplice e f^nigiia-dipendente, andando dal semplice amore attento, al controtio psicologico totale, e le in­ terpretazioni detio stesso controllo variano a seconda che si adot­ ti un approccio psicologico-psichiatrico, sociologico, antropologi­ co o economico. Nelle situazioni di abuso, quali quelle trattate in questo con­ testo, alcuni padri esercitavano la propria patria potestà in mo­ do possessivo, che tutto era tranne che una manifestazione d'a­ more. Durante quasi tutta la storia dell’umanità i bambini sono stati oggetto di atti di dominio, soggiogamento e ferocia. DeMause' afferma che la punizione corporale, la lapidazione o l’of­ ferta sacrificale dei figli erano comportamenti approvati in alcu­ ni passi del Vecchio Testamento. È certo, come abbiamo visto, che si è continuato a pratica­ re l'infanticidio nella società occidentale sino al secolo. Nel Medioevo i genitori erano soliti utilizzare il castigo corporale al

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fine di riportare «sulla retta via» i figli e punirli per aver tenuto presunti comportamenti scorretti o per aver commesso pecca­ ti. I bambini erano spesso visti come creature del male, e la loro punizione corporale era contemplata anche dal diritto canoni­ co. Trattare i propri figli con metodi brutali, incluse le violenze fisiche con l’ausilio di bastoni o fruste, era una pratica che av­ veniva con estrema frequenza all'interno delle famiglie e persi­ no sulla pubblica piazza. Questi stessi approcci educativi non risparmiavano la prole dei ceti ricchi e dei potenti, i quali adot­ tavano le stesse misure punitive per assicurare che le regole imposte all’interno della famiglia venissero rispettate. Nel 1835 Pierre Rivière, a causa delle continue umiliazioni subite e delie incessanti liti tra il padre, un uomo passivo, e la madre, e tra lui stesso e li padre a causa del soggiogamento vio­ lento che questo subiva da parte della moglie capricciosa, ucci­ se sua madre e i due fratelli. Il fine era liberare li padre da quel­ la che al suoi occhi era una donna maligna. Questo contadino di ventanni confessò i propri crimini affermando: «lo, Pierre Rivière, avendo massacrato mia madre, mio fratello e mia sorel­ la, desidero rendere noti i motivi che mi hanno spinto a com­ piere tale atto»2. Si trattava del primo caso di parricidio di cui si ebbe notizia in quel periodo. Il matricidio e il patricidio hanno un significato fondamen­ tale nei miti di Oreste ed Edipo. Per il primo le motivazioni, co­ me nel caso di Pierre Rivière, erano la ritorsione e la vendetta, mentre nel caso di Edipo entravano in gioco fattori psicologici molto più complessi, che ispirarono Freud nella teorizzazione dell'omonimo complesso. Il bambino maltrattato spesso, ma non sempre, al suo in­ gresso nella società assume comportamenti di tipo antisocia­ le. Scarica la propria ostilità nei confronti delle figure che rappresen^tano l’autorità all’esterno della f^amiglia: gli insegnanti e gli agenti di polizia sono spesso le vittime prescelte sulle quali sfogare quello che si è subito per mano di un parente o geni­ tore violento, sia a livello fisico che emotivo. L’adolescenza è un periodo di transizione nello sviluppo ses­ suale, fisico ed emotivo di una persona. Talvolta l’adolescente,

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anche sulla base di alterazioni fisiologiche o^onali, e in segui­ to a cos^trizioni esterne imposte dai genitori, che spesso non sembrano capire il tumulto interiore del figlio, diventa disatten­ to, non mostra persever^^ negli intenti e negli obiettivi, e at­ tacca l’autorità. Questo atteggiamento rischia di creare un con­ flitto tra il figlio che cresce e i rispettivi genitori, i quali possono reagire in m^alera eccessiv^nente rigida, nel tentativo di porre rimedio ai compor^menti del figlio. Mentre alcuni genitori sono capaci di gestire la complessità di una tale situazione, fornendo al figlio l’aiuto necessario a superare le sue perplessità adole­ scenziali e trovando un equilibrio nel loro rapporto con i figli senza esagerare con i rimproveri, altri genitori, di per sé ag­ gressivi, sia a livello verbale che fisico, e talvolta persino sessua­ le, nei confronti del proprio figlio adolescente o adulto, non han­ no le competenze necessarie per una gestione fisiologica del pe­ riodo di transizione adolescenziale. Nel periodo critico della relazione genitori-figli la co^nflittualità non ha minore incide^nza anche quando questa relazione è forte e sana. Si manifesta quello che J.W. Mohr e C.K. McKnighP chiamano lockage, fenomeno di «incastro». In situazio­ ni simili, il bambino/adolescente non è in grado di distaccarsi dalla relazione critica instaurata con i genitori, la madre, il pa­ dre o entrambi. Né si dimostra capace di continuare la relazio­ ne o di interromperla. Spinto da sentimenti di odio, in un mo­ mento di impulsività e collera, rivolge il proprio istinto omicida verso uno o entrambi i genitori per liberarsi di quella che lui vede come la loro orribile, frustrante e umiliante presenza. La decisione di uccidere il padre o la madre dipende dall’età del fi­ glio, dall’intimità instaurata con uno dei due genitori o da qual­ siasi situazione conflittuale esistente tra i due genitori. A livel­ lo inconsapevole e inconscio si potrebbe trovare nel ragazzo un’impercettibile identificazione con il padre minaccioso e vio­ lento, o un'infatuazione per la madre e una conseguente riva­ lità con il padre. Nel suo libro Kids Kil Parente: Child Abuse Adolescent Hojmicide (Perché i bambini uccidono i genitori: abuso in­ fantile e omicidio adolescenziale)4, Kathleen Heide affermava che

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. tra il 1977 e U 1986 «il matricidio o U patricidio era c^rimine quotidiano negli Stati Uditi» e riferiva che ogni anno venivano uc­ cisi oltre 300 genitori e che meno del l 0%o di questi omicidi erano perpetrati da persone più giovani di diciotto anni. Nonos^tante riconoscesse la difficoltà di trovare dati statistici riguardanti i casi di parricidio a causa della mancai di una classificazione operativa nei file dell’rei, Heide afermava: In ognuno degli anni del decennio oggetto di studio, almeno 65 genitori naturali, di cui 45 padri e 20 madri, sono stati uccisi da giovani di età inferiore ai diciotto anni5.

Douglas Sargent, in un lavoro intitolato Children Kill: A Family Conspiracy? (Bambini che uccidono: cospirazione in fa­ miglia?), ipotizza che A volte il ragazo) che uccide si comporta da involon^rto agente letale di un adulto (solitamente di uno dei due genitori) che inconsciamente incita il figlio a conunettere un omicidio così da poter poi beneficiare, in maniera indiretta, dell’atto commesso6.

Che questo sia vero o falso, Ornane il fatto che i figli sono emo­ tivamente vulnerabili e di frequente sono combattuti tra l’affet­ to per la madre e quello per il padre; pertanto, nella ricerca e nell’ottenimento delle attenzioni, i ragazzi sono spesso incapaci di valutare appieno le implicazioni del linguaggio e il significato di alcune espressioni uti^^te da un genitore furioso e minac­ cioso. Se un figlio si trova, poi, a essere testimone dei maltrat^tamenti ai danni della madre per mano di un padre spesso in­ tossicato o paranoico, per reazione naturale viene spinto a porre Ime a ciò che vede, anche se ciò significa uccidere il padre. Inol­ tre, una madre potrebbe lamentarsi con il figlio della propria condizione di soggiogamento o dei maltrattamenti che subisce da un marito brutale. La richiesta di aiuto, che il figlio è inca­ pace di an^^^rne nella sua lnter^ez e alla quale reagisce soli­ tamente senza riflettere, può portarlo a commettere un patrici­ dio: del resto, cos'altro potrebbe fare, senza abbandonare casa 99

e madre, per risolvere un problema che la madre, da adulta, non è riuscita a risolvere? La situazione sopra descritta potrebbe sottintendere la pre­ senza inconscia di un attaccamento edipico nell’atto patricida, o, nel caso del matricidio, del complesso di Oreste. Ad ogni mo­ do, qualunque fenomeno si celi a livello inconscio, in molti casi del genere entra in gioco una molteplicità tale di fattori socio­ familiari tangibili, che non è necessario andare a cercare una formulazione psicodinamica per spiegare l’atto omicida. Una crisi catatimica di Wertham, con la temporanea assenza di ini­ bizioni morali e comportamentali, da taluni identificati con il «super-Io», potrebbe spiegare perfettamente il parricidio com­ messo da un bambino. Jane Watson Duncan e Glen M. Duncan7 hanno descritto 5 casi di parricidio nei quali il bambino omicida aveva perso improvvisamente il controllo perché la sua interrelazione con i genitori era diventata per lui insopportabile. In uno dei casi pre­ sentati, il figlio aveva sparato a entrambi i genitori mentre que­ sti si trovavano nel buio di una camera, condizione che aveva evitato che il ragazzo riuscisse a ucciderli. Il ragazzo aveva am­ messo di aver tentato di ucciderli perché in preda alla dispera­ zione, e perché non aveva più speranza di riuscire a dare una svolta alla propria relazione con loro. Dopo il tentativo di omici­ dio, aveva anche tentato di suicidarsi, senza però riuscirvi. Nel secondo caso, un ragazzo quindicenne aveva sparato e ucciso la matrigna perché infuriato con lei. In un altro caso ancora, tre fratelli di dieci, tedici e quindici anni avevano uc­ ciso il padre a causa della sua brutalità al danni di tutta la fa­ miglia. Un comportamento brutale e ripetute provocazioni da parte del genitore-vittima alimentano ostilità intensa e violen­ za dis^uttiva. La vendetta è spesso un fattore motivante. Billie F. Corder et al.e, nel loro lavoro dal titolo Adolescent Ptanicide: A Comparison with Other Adolescent Murders (Parri­ cidio adolescenziale: un’indagine comparativa con altri omici­ di commessi da adolescenti), hanno messo a confronto i casi di 10 adolescenti accusati dell’omicidio di un parente o di un conoscente intimo con quelli di altri IO accusati di aver ucci­

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so uno sconosciuto. Nello studio, 6 dei parricidi avevano un padre alcolizzato che aveva sottoposto la moglie e il figlio a gra­ vi violenze; 2 matricidi avevano «una relazione sessualmente provocante eccessivamente aperta con la madre e un padre distante»9. Il ragazzo che aveva commesso il parricidio aveva un padre che aveva usato violenza ai danni della moglie/madre, la quale aveva mostrato comportamenti sessualmente accat­ tivanti nei confronti dell’esecutore. Gli adolescenti che commettono il matricidio solitamente non presentano un modello comune di disturbo della personalità. A volte, però, come sostengono Donald J. Scherl e John E. Mack, essi condividono molteplici somiglianze in fatto di «costrizione materna precoce, con un’alternata di carenza affettiva, provo­ cazione e severità, continuate fmo ad adolescenza tnoltrata»10. In questi casi, i padri sono visti come soggetti passivi e la relazio­ ne madre-figlio è intensa e conflittuale. In uno dei casi presen­ tati, un ragazzo quattordicenne matricida, la relazione con la madre era estremamente ero^^ata e l’omicida aveva visto nel­ l’atto omicidiario l’unico modo per sciogliere una tensione ormai non più sostenibile. Nella loro spiegazione del matricidio, Scherl e Mack ipo^^ano che i sentimenti nei confronti di una madre siano non esclusivamente «edipici» ma anche «pre-edipici» e che l’omicidio di una madre pre-edipica, che gli autori descrivono come virile, sregolata e promiscua, storicamente potrebbe aver preceduto il patricidio. Frederick Wertham11, che per primo ha descritto la crisi catatimica, era dell’opinione che i ragazzi che uccidono la madre so­ no solitamente giovani, intelligenti e non delinquenti, anche se mostrano un eccessivo attaccamento alla figura materna. L'infe^rmità mentale e U parricidio

I giovani adulti che commettono il parricidio spesso sono ca­ ratterizzati da infermità mentale e soffrono solitamente di fe­ nomeni allucinatori. Non è infrequente il caso di parricidi che sostengono di aver commesso l’omicidio su ordine dato a viva

101

voce da Dio. Svend Erik Mouridsen e ^al Tols^up hanno pre­ sentato il caso di un bambino di nove che aveva ucciso la madre con un colpo di pistola, senza alcun motivo apparente. Il bambino risultò essere dipendente da programmi televisivi del terrore, che trattavano morte e distruzione. Confessò alla polizia di aver commesso il crimine, e lo fece con aria distacca­ ta e senza mostrare segni di rimorso. Mouridsen affermò che

la mancanza di un contatto emotivo appropriato, l’insufficien­ te capacità di rapportarsi con la realtà e, in particolare, le allu­ cinazioni visive e uditive [come aveva sostenuto il bambino stesso] erano molto convincenti'2. Il bambino fu dichiarato affetto da schizofrenia a esordio in­ fantile. P.T. D'Orban e ^rt O’Connor'3, ìn occasione di un esame retrospettivo della letteratura sul parricidio, hanno rilevato che in alcuni crimini coi^rnessi da donne, le cui vittime erano state 14 madri e 3 padri, 6 delle assassine soffrivano di schizofrenia, 5 soffrivano di depressione psicotica, 3 presentavano disturbi della personalità e l era alcolizata. Gli autori hanno affermato che i maschi adulti che hanno ucciso i genitori soffrono solita­ mente di schizofrenia. Questo è in contrasto con ciò che è de­ scritto nel caso di bambini o adolescenti che uccidono i genito­ ri, i quali sono di solito

ragazaz tra i dieci e i vent'anni che non soffrono di alcuna pato­ logica psicotica; uccidono il padre con violeaza esplosiva in ri­ sposta alle sue prolungate provocazioni, brutalità e abusi. L’o­ micidio è seguito da un senso di sollievo piuttosto che di col­ pevolezza o rimorso. [ ...] indipendentemente dalla diagnosi psichiatrica, i matricidi [nella ricerca] erano principalmente donne nubili in età matu­ ra, che vivevano in una situazione di isolamento sociale, sole con una madre dominante con la quale avevano una relazione di dipendenza caratterizzata da ostilità14. Nell’analisi della relazione tra matricidio e infermità mentale, C.K. McKnight et al.'5 affermano che l’età e l’infermità menta­

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le costituiscono fattori di rischio in generale nei casi di omici­ dio e che, nel contesto del disagio mentale, questo avviene soli­ tamente all’interno della famiglia. Il 56% dei 500 assassini in­ glesi da loro esaminati, che avevano commesso il crimine al­ l’interno della propria famiglia, erano disturbati. Da un punto di vista diagnostico, la maggior^^a dei matricidi soffriva di schizofrenia catatonica o paranoide. In una ricerca più recente Frederick Milaud, Nathalie Auclalr e Dominique Meunier16 hanno descritto un campione di 12 uo^mi di età compresa tra i diciassette e i quarantaquattro anni considerati malati mentali, 6 dei quali avevano tentato un patricidio e altri 6 un parricidio. Si trattava di soggetti con un’età media di trentanni, celibi e disoccupati, che molto spes­ so vivevano con la vittima. La maggior parte di loro erano schi­ zofrenico-paranoici e abusavano alcol e stupefacenti, proveni­ vano da famiglie con un’an^anesi di violenza e infermità men­ tale, erano incostanti nell’assunzione dei fannaci e non ^^met­ tevano la propria malattia. Millaud e i suoi colleghi hanno sco­ perto che «in ogni caso, un delirio aveva un ruolo preponde­ rante nell’atto parricida». Le idee deliranti erano di tre tipi: di persecuzione, di grandezza e di depressione altruistica. Quan­ do queste si molestavano erano sempre accompagnate da fe­ nomeni allucinatovi uditivi, solitamente di comando. Nel picco­ lo gruppo di 12 uomini, le vittime erano state 7 madri e 6 padri. Uno studio condotto da Petit, Porot e Covandan sul parrici­ dio in Francia dal 1958 al 1968 ha rivelato 58 casi di parrici­ dio su 2.119 omicidi. Di questi crimini 44 erano patricidi, 40 dei quali commessi da figli maschi e 4 da figlie femmine. Tul­ lio Bandini e A. Di Marco hanno raccolto i dati disponibili sugli omicidi commessi in famiglia dal 1961 al 1967 in Italia. Settantasei genitori (53 padri e 23 madri) erano stati uccisi dai propri figli. Da quanto sopra, si è portati a concludere che il patricidio viene commesso con maggiore frequenza rispetto al matricidio17. Luigi Lanza nel suo libro Glio^^tói inf^wniglia ha descritto, tra vari casi di omicidi domestici, 9 casi di patricidio, tra cui 5 di patricidio perpetrati da figli maschi e 2 da figlie femmine, l 103

caso di matricidio commesso da un figlio maschio e l caso in cui le vittime erano entrambi i genitori. I casi di cui sopra face­ vano parte di un gruppo di 63 omicidi familiari, con 44 maschi e 19 fe^mmine (vittime o esecutori). La ricerca di sostiene che gli omicidi di sesso maschile solitamente uccidono vittime di sesso maschile, mentre le femmine tendono ad uccidere altre femmine. L’età degli esecutori andava dai venticinque ai quaranta­ quattro anni, ma la maggio^^a di essi aveva un’età variabi­ le tra i venticinque e i trentaquattro anni. Il 30,1% era costi­ tuito da bambini che avevano ucciso i propri genitori. Nel se­ condo gruppo, sia le vittime che gli esecutori erano principal­ mente contadini o semplici manovali che vivevano in un pic­ colo centro urbano e avevano un livello di scolarizzazione me­ dio-basso. Otto delle 11 vittime adulte del gruppo erano sotto gli effetti inebrianti dell'alcol nel momento in cui erano state uccise. Le armi utilizzate includevano armi da fuoco, coltelli e, in un solo caso, un oggetto contundente. Emanuel Tanay19 ha descritto il p^anicidio come reattivo e catastrofico quando la relazione disfunzionale all’interno della f^niglia è così pesante che, a meno che non abbandoni la fa­ miglia, il figlio finisce per uccidere o commettere suicidio. Wertham20, inoltre, ha delineato il «complesso di Oreste», caratterizzato da: - eccessivo attaccamento alla figura materna; - ostilità nei confronti della figura materna; - odio generalizzato nei confronti delle donne e indicazioni di omosessualità latente, idee di suicidio ed emotività alterata a causa di un profondo senso di colpa. Un caso di ^^^idio Un maschio portoricano di ventitré era stato visto colpire a pugni una donna mentre questa si trovava sulla veranda della sua casa. Le percosse erano continuate per un certo periodo di tempo e alla fine la do^a era stata vista seduta sul pavimento della veranda, appoggiata alla ringhiera, mentre il giovane uo­ mo, l’imputato, continuava a colpirla fino a farle sbattere ripe-

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incanente la testa contro la ringhiera stessa. L’imputato grida­ va: «Ha ucciso mio fratello!». Una volta crestato, l’imputato aveva detto agli agenti di polizia che

il

suo compor^rnento era

esploso improvvisamente e che lui aveva iniziato a lanciare og­

getti, un cuscino, il telefono, le fotografie e aveva inseguito la

madre che scappava verso l’esterno della casa. Si era poi tolto i vestiti in salotto ed era uscito correndo, l’aveva raggiunta sulla veranda e aveva iniziato a colpirla coi pugni, facendole sbattere violentemente la testa contro la ringhiera. Mfermò che si era

trattato di una crisi di rabbia. L’uomo risultò essere sofferente di schizofrenia paranoide ormai da lungo tempo. Fu arrestato

per omicidio colposo.

n

matricidio

è

un evento raro e, sebbene le figlie femmine a

volte vi partecipino attivamente o ne siano le esecutrici uniche, quando a commetterlo sono i figli maschi si tratta di soggetti sof­ ferenti di patologie psichiatriche. Nei casi di matricidio,

il padre è il figlio è

solitamente assente o distaccato e la sua relazione con

mediocre. A causa di questo, il figlio matricida sviluppa di­ pendenza eccessiva nei confronti della madre, al punto da sentir­

sene sopraffatto. Cerca di fuggir via da lei perché si rende conto della propria debole^, e della totale mancia di fo^a di volon­

tà, e teme, inoltre, di diventare completamente dipendente dalla madre. Incapace di scappare, però, la uccide, ritenendo che que­ sto lo renda definitivamente libero. Chiaramente l’omicidio non

il problema della sua dipendenza, ma esita solamente in un’accentuazione del proprio senso di colpa e solitudine.

risolve

Un caso di Nel

1996, in

un caso assai noto negli Stati Uniti, due fratelli,

uno di venticinque e l'altro di ventotto chi genitori a colpi di pistola.

bunale che

il

I

^an, uccisero i loro ric­

due fratelli dichiararono in tri­

loro crimine era la conseguenza di

di abusi

psicologici e sessuali da parte dei genitori. Non fu riconosciuta loro l’infermità mentale. I due avevano agito per avidità, perché

desiderosi di ereditare l’enorme patrimonio dei genitori. La giu­ ria li dichiarò colpevoli di omicidio premeditato e i due fratelli furono condannati all’ergastolo.

105

^riuscito

Uno studente di ventuno ^an, matricola alla Tianjin Medicai University, in Cina, non aveva avuto il cor^agio di confessare al genitori che non aveva superato quattro prove agli ultimi esami semestrali. Aveva fugato dei pensieri suicidi perché temeva che la sua morte avrebbe causato un enorme dolore al genitori. Al contrario, aveva iniziato a progettare il loro omicidio e quello della nonna, e subito dopo lo aveva commesso. Aveva tentato di uccidere la nonna strangolandola e aveva ucciso il padre con un’ascia. Poi, si era avvicinato alla madre, confessandole quello che aveva fatto e chiedendole di morire con lui. Un parriccid.io esteso In Cina un ragazzo quattordicenne ha sterminato la famiglia perché riteneva che sua madre non gli dedicasse abbastanza attenzioni. Gli omicidi erano avvenuti dopo che la madre gli aveva ordinato di tornare a letto perché era malato. Per reazio­ ne il ragazw aveva accoltellato suo padre 37 volte, sua madre 72 volte e sua nonna 56 volte. Poi, si era lavato i capelli e si era seduto davanti alla tv a guardare una videocassetta21.

Le storie di Edipo, Oreste ed Elettra, nei secoli, sono servite a ricordarci che è possibile covare gli impulsi distruttivi più im­ pensabili e innaturali e che i pregiudizi della società svolgono un ruolo impo^ante nel controllo delle peggiori emozioni umane. I tabù etico-morali hanno resistito al passaggio del tempo e sono diventati parte integrante degli archetipi umani. La demitizzazione dell’autorità e dei valori morali ha destrutturalizzato le forme preziose della vita istituzionalizzata, tra cui anche la famiglia. Tabù e dogmi morali, etici e cultura­ li, utili al fini di un contenimento di istinti aggressivi e distrut­ tivi, sono continu^nente sottoposti ad analisi, attacchi e ten­ tativi di indebolimento. Il progresso sociale ha evidenziato la necessità di un’indagi­ ne delle relazioni e dei tabù umani. Freud22, tra i primi, indipen­ dentemente dalla validità o meno del costrutto analitico, ha ten­ 106

tato di spiegare il parricidio e la relazione incestuosa, due dei principali tabù della storia dell’umanità, mediante la situazione «edipica», la paura della «castrazione» e l’analisi dei sentimenti ambivalenti che i figli nutrono nei confronti del padre. Come affermato da René Girard23, l’abolizione violenta di tutte le diffe­ renze esistenti in seno alla famiglia è ottenuta tramite il p^ricidio e l’incesto. Un clima di approcci pseudo-psicologici ha spesso insidia­ to la relazione tra i componenti familiari e quella degli indivi­ dui con la società. La figura genitoriale, paterna o materna, rischia di perdere progressivamente la sua autorevolezza, e i figli il loro entusia­ smo nel far parte di un gruppo, di una comunità o del mondo. La ribellione gravemente distruttiva, un evento un tempo oc­ casionale, e un’eccezione alla regola della conformità sociale, appare sempre più evidente a tutti i livelli della scala sociale: i figli uccidono i genitori, i genitori uccidono i figli; gli uomini abusano di donne e bambini psicologicamente e fisicamente; le persone uccidono o attentano alla vita di chi incarna l’auto­ rità; le persone si aggrediscono e si mutilano o si uccidono con brutalità secondo scelte casuali. Perché la civiltà sopravviva, i tabù, che Sigmund Freud lo voglia o no, non vanno toccati. Essi esistono anche per garan­ tire un’evoluzione etica della nostra vita quotidiana e lo svilup­ po e il mantenimento di una giustizia morale. Una compren­ sione più profonda del loro ruolo potrà quindi renderli utili e accettabili agli occhi di tutti. L’obiettività e il buonsenso sono altresì necessari al fine di ristabilire un equilibrio essenziale al bene e alla sicurezza di cui le nostre famiglie e la comunità tutta hanno bisogno.

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Capitolo V

LA CRISI DELLA FAMIGLIA

La famiglia nel passato La famiglia può de^finirsi come un gruppo di individui che vivono

sotto lo stesso tetto e, di solito, con uno dei membri identificato come il «capo famiglia»; condividono le stesse origini e sono uniti da convinzioni specifiche; oppure, aspetto molto più rilevante ai ^ai della nostra discussione, che costituiscono l'unità di base della società, avente, come nucleo, due o più adulti in coabita­ zione e collaborazione per la cura e la crescita, nonché l'educa­ zione, di figli propri o avuti in adozione1. L'impo^^^a delia fami­ glia, come meccanismo fondamentale per il ^^io^namento della società, è confermata e supportata da fonti storiche, sociologiche e religiose. L'idea della famiglia era preesistente a quelle di chiesa e sta­ to2. Pierre Teilhard de Chardin. biologo e paleontologo, affe^ava: Dato che i raggruppamenti di individui o le comunità org^vizzate e differenziate (come quelle delle formiche, delle api o degli uomini) sono relativamente rari in natura, saremmo portati a pensare ad essi come a una b^^^ria evoluzionistica, ma che (comunque) costituisce l'esempio di una delle leggi fondamen­ tali della vita organizzata'. L'uomo è ^aivato sulla terra se^nza troppo clamore [ ...mal è fuori di dubbio che esso già [parlasse! e (vivesse) in gruppo4.

A sostegno delle origini remote di alcuni tipi di raggmppamento familiare, anche John A. Garraty e Peter Gay scrivevano:

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Si può affermare con certezza che nel corso del Pleistocene me­

dio-superiore, nell’uomo si erano già delineati alcuni modelli comportamentali [ ... Uno di questi era) l'organi^^ione familia­ re, con la sua caratteristica di associazione su base pe^anente di individui maschi e femmine, in unità di piccole dimensio­ ni, aventi come scopo quello di procurarsi cibo e allevare figli5.

In origine la famiglia era costituita da un gruppo le cui fun­ zioni erano quelle di mantenere l’ordine ed essere preparati ad azioni di difesa, di svolgere - anche se all’interno di una micro­ struttura - le funzioni essenziali di quello che sarebbe diven­ tato poi lo stato. Tant'è vero che Jean Jacques Rousseau scri­ veva ne R contratto sociale: La più vecchia di tutte le forme di società, nonché l’unica natu­ rale, è la famiglia [ ) La famiglia si può considerare il primo modello delle società politiche [ J6. ...

...

La cosiddetta famiglia nucleare, elementare o biologica, sia es­

sa di tipo matriarcale o patriarcale, è stata alla base della fona­ zione di ogni gruppo sociale. La famiglia, sebbene secondo mo­ delli variabili, manteneva funzioni e caratteristiche simili in tut­ te le società7. Oltre a prowedere alla soddisfazione delle necessi­ tà dei propri componenti, la famiglia contribuisce a far interio^^are loro le istituzioni, insegna loro a svolgere ruoli sociali e tende a trasmettere loro le tecniche fondamentali di adattamen­ to, proprie della loro cultura, nonché quella condotta responsa­ bile essenziale al fini dell’interazione umana e civile. Ai primordi della società romana, il padre era un individuo autoritario e dispotico nella sua patria potestas. La contracce­ zione, l’aborto e la diseredazione dei figli erano pratiche assai diffuse. I greci e i romani erano infatti sorpresi del fatto che gli egiziani, i germani e gli ebrei crescessero tutti i loro figli8. La re­ lazione figlio-madre, nelle famiglie romane appartenenti alla classe media, era spesso soppiantata da quella «figlio-nutritore» e «figlio-pedagogo»9. Nella Roma antica «la voce del sangue parla­ va molto poco [ ] Ciò che importava più di un legame di san­ gue era il buon nome della famiglia», affermava Paul Veyne10. ...

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Seneca vedeva il vincolo matrimoniale come «uno scambio di obblighi, possibilmente non perequati, o piuttosto, differenziati, con la donna chiamata a obbedire»11. Alcuni scrittori medievali si riferivano alla famiglia come a •una comunità complessa e ra^mificata, la cui funzione princi­ pale era quella di garantire protezione». I figli venivano tenuti con cura e considerati un «bene prezioso»12. D^^nte il periodo del rinascimento, l’autorità all'interno del­ la famiglia e la responsabilità della famiglia continuavano ad es­ sere concentrate nelle mani della figura patema13. Mentre la Ri­ voluzione francese conferiva maggiore enfasi ai valori della f^amiglia, l’autorità dello stato si faceva sempre più evidente all'in­ terno della vita f^amiliare. «Le autorità pubbliche stavano [ ...) as­ sumendo un molo attivo nel processo formativo della famiglia». Ciononos^inte, il tentativo «di abbattere i con^al tra il pubblico e il privato [ ...] veniva contrastato da resistenze individuali»14. In seguito alla Rivoluzione francese, lo status e il ruolo del­ l’uomo e della donna all’interno della famiglia furono rivaluta­ ti e raggiunsero un certo livello di parità. Nel Codice napoleo­ nico veniva mantenuto il concetto cristiano della famiglia co­ me fattore elementare ed essenziale nell’ottica dell'organizzazio ne dello stato, e si sostenevano i principi di indissolubilità e monogamia del matrimonioi5. La famiglia, componente di base della società, ha anche un proprio ruolo nella dissoluzione delle culture. Durante il perio­ do di transizione dalla Repubblica romana all'impero dei Cesari «la moralità e la vita familiare venivano viste come istituzioni ormai antiquate nella struttura della società». scriveva Theodor Mommsen, e «la vita familiare vera, l'intimità e l'amicizia ave­ vano contorni ormai talmente labili [ ...che] ogni manifestazio­ ne di affetto aveva perso ogni traccia di significato»^6. Joseph Vogt scrisse che gli studiosi del XVIII secolo avevano individua­ to la causa del declino del tardo Impero romano nello sgretola­ mento del patrimonio culturale di Roma e «nello sfibrarsi del suo tessuto politico e morale piuttosto che nelle devastazioni causate dalie invasioni dei cosiddetti popoli barbari»17. Com­ mentando il declino della famiglia moderna e, in generale, quel-

lll

10 della società, Cari C. Zimmennan «ha scoperto numerosi pa­ ralleli riguardo alla relazione tra famiglia e società nella Roma imperiale [ ...] e in epoche successive»18. Agli inizi del secolo, i sociologi francesi riconobbero l’im­ portanza della famiglia, seppur con alcune differenze di vedute. Auguste Comte vedeva la famiglia come «il prototipo di tutte le associazioni umane», e affermava che «l’organismo collettivo [la società] è essenzialmente composto da famiglie che costituisco­ no i suoi veri elementi»19. Nello stesso periodo, Alexis de Tocqueville sosteneva che no­ nostante la f^amiglia di tipo patriarcale si trovasse in una fase di declino, le relazioni tra i membri di una famiglia si facevano più calorose e più intime20. Fréderick Le Play, scettico sul futu­ ro della famiglia, esp^meva le sue vedute a favore di una «fami­ glia parzialmente estesa», nella quale un solo figlio sposato sa­ rebbe diventato erede unico del patrimonio f^amiliare’i. Frederick Engels scrisse: La forma della famiglia che corrisponde alla civiltà |...| è quel­ la monogamica, in cui si manifesta la supremazia dell’uomo sulla donna e in cui la famiglia individuale assume il ruolo di unità economica della società22.

Sia Engels che ^arl indicavano la famiglia borghese prin­ cipalmente come cellula economica ed Engels la riteneva essenziahnente inferiore al nucleo f^amiliare comunistico pre­ sente nelle società preistoriche fondate sulla caccia e sul pro­ cacciamento di cibo23. Di vedute opposte era invece Max Weber, 11 quale riteneva che al di sotto delle basi concrete della società umana, si trovano gruppi di persone legate da comuni vincoli di sentimento: fami­ glie, nuclei familiari, parenti, membri di chiesa e di culto, ami­ ci, comunità24.

Nel corso dei secoli, il ruolo dei genitori ha subito un processo dicotomico sulla base dei costumi culturali e dell’arbitrarietà pratica. Il padre era visto come la personificazione dell’autorità, 112

che aveva la responsabilità della disciplina dei figli, i quali nutri­ vano nei suoi confronti un sen^mento di timore e rispetto insie­ me. La madre, invece, era il prototipo del ruolo affettivo, accom­ pagnava e sosteneva i figli nel corso del loro sviluppo emotivo con attenzioni e amore25. È solo con Herbert Spencer che tra i sociologi del secolo si iniziano a considerare l’affetto e tutti gli altri sentimenti tipici dei componenti di una famiglia come basilari per l’esiste^nza di ogni gruppo familiare26. Emile Durkheim, pur riconoscendo che tra marito e moglie stava evolvendo un processo di indipendenza, nei suoi primi scritti presupponeva che la relazione coniugale fosse di pri­ maria import^^a per la stabilità di una famiglia e che con il passare del tempo quella relazione si fosse fatta più robusta, mentre quella tra genitori e figli aveva perso forza. Una posi­ zione che alla fme Durkheim dovette rivedere, alla luce del cre­ scente numero di divorzi e dell’effetto che questi avevano sul vincolo familiare27. Talcott Parsons, che credeva fortemente nella famiglia di ti­ po patriarcale, era dell’avviso che la famiglia, anche se isolata da altre istituzioni, continuasse a fornire il sostegno emotivo necessario allo sviluppo sociale dei propri componenti28. All’inizio della seconda metà del XX. secolo, numerosi socio­ logi vedevano nella Ciniglia americana la perso^ficazione della stabilità e della continuità e la classificavano come «il più eleva­ to stato della perfezione»29. In seguito, Nathan W. Ackermann, pur riconoscendo che l’essenza della vita è U cambiamento, la crescita, l'apprendi­ mento, l’adattamento a condizioni nuove, nonché l’evoluzione creativa di nuovi livelli di interscambio tra persone e ambiente

sembrava rimettersi in linea con l’opinione generale quando af­ fermava: «La matrice della relazione umana, sia sana che mala­ ta, è la famiglia»™. Ma per analizzare le condizioni attuali della famiglia, è utile osservare il periodo storico e i cambiamenti verificatisi nel cor­ so del .XX secolo e, in particolar modo, negli ultimi decenni. 113

La soddisfazione personale per il proprio «stile di vita» è sem­ pre più rara. La paura dell’insuccesso ha contribuito allo svilup­ po di una società fatta di «lavoro-dipendenti», possessori, spes­ so frustrati, di «beni». Questi esempi richiamano alla mente la descrizione che Tocqueville diede degli americani: vanno così di fretta per riuscire ad agguantare tutto quello che gli si para davanti [...) ma, mancando di buona presa, si perdo­ no il bottino per strada nell'affannarsi verso altri paradisi31.

Alcune famiglie contemporanee, persino quei nuclei che appa­ rentemente sembrano ancora intatti, appaiono come gruppi di individui chiusi all’interno di un ipotetico cerchio. Ognuno dei componenti della famiglia sembra avere lo sguardo rivolto verso orizzonti diversi, quasi a fissare l’^^nfto. Questo infinito spes­ so equivale al nulla, al vuoto e alla solitudine32. L’economia e il mercato del lavoro hanno gradualmente in­ fluenzato il ruolo della famiglia e contemporaneamente sono stati creati una miriade di enti sociali, alcuni dei quali hanno assunto le funzioni di famiglia estesa. Ecco cosa affermava questo proposito Alvin Toffler. Quale fo^a specifica di famiglia scomparirà e quale invece pro­ lifererà, dipenderà sempre meno dalla celebrazione della santità della famiglia e sempre più dalle decisioni che prenderemo in funzione della tecnologia e del lavoro".

I rapidi cambiamenti e la necessità di essere perennemente «al passo» hanno contribuito, inoltre, a un aumento della mobili­ tà, che ha subito, di conseguenza, una forte accelerazione. La famiglie sono spesso sradicate per la perdita di un lavoro o a causa del trasferimento di una società in altre sedi e hanno spesso notevoli difficoltà ad adattarsi ai repentini cambiamen­ ti sociali ed economici. La relazioni interpersonali intessute in una società alta­ mente mobile sono spesso superficiali, e ciò ha contribuito allo sviluppo di una tendenza culturale verso forme probabilmen­ te eccessive di relativismo e individualismo. L'individualismo 114

non rappresenta l’optimum della norma sociale, in netto con­ trasto con un concetto hegeliano di interdipendenza funziona­ le che sarebbe alla base di una società integra e sana34. Questa visione della famiglia ha contribuito a creare nell’uo­ mo insicurezza, frustrazione e forse un certo disincanto nei con­ fronti della vita. La capacità di provare amore verso se stessi e verso gli altri viene meno e un edonismo sfrenato guida sempre più la vita di molti. La ricerca del bene, nel senso di un equili­ brio psicologico simile a quello riscontrabile in seno a ima visio­ ne «religiosa» delia vita, che fornisce un senso di agaape, di minore fraterno, nei confronti del prossimo e della comunità in senso lato, è talvolta persa di vista per essere sostituita con il bene materiale. A questo proposito, Giovami Paolo II ha scritto: Una volta che la vita si è alontanata dal sommo bene, è assolu­ tamente impossibile che essa rimanga autentica e completa, e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato alla «legge della vita»35.

La famiglia nella società occidentale contemporanea

Sebbene, come affermava Theodore Lidz, [ ...| la famiglia possa e debba operare molteplici variazioni al suo interno per garantirsi un posto, e in seguito mantenerlo, nelle società divergenti delle quali essa rappresenta un sub­ sistema36,

i cambi^nenti sociali devono avvenire con gradualità, affinché le persone abbiano il tempo di adattarsi ai nuovi stili di vita. Durante un processo di continuo adattamento i componenti di una famiglia devono fare tutto il possibile per tenere una con­ dotta che sia efficace ai fini del mantenimento dei valori mora­ li familiari basilari. Già negli ^mi Sessanta Robert A. Nisbet aveva messo in guardia contro il progressivo tracollo della famiglia, schiacciata dalla pressione dei cambiamenti in atto all’interno della società.

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I tre pilastri della Ge^&irtschajt, sangue, parentela e vicinato [ ...) tutti riassunti nella fanùglia [ ...] urllti nonostante tutti i fattori di divergenza^, sembrano aver perso la propria import^anza37. Le osservazioni fatte trentanni dopo da Robert N. Bellah e dai suoi colleghi riguardo allo stato della famiglia americana sem­ brano confermare quanto sopra anticipato da Nisbet. II concetto di famiglia come è stato considerato da generazioni e generazioni di americani ormai ha perso solidità. La famiglia si trova in uno stato di incertezza e spesso risuonano segnali di allarme [ ...] Il numero dei divorzi aumenta in continuazione e il significato stesso di famiglia, come siamo sempre stati abi­ tuati a conoscerlo, appare assai confuso38.

Le parole che Lidz scriveva quarant’^ani fa: «Le fetta di popo­ lazione che arriva alle nozze è più ampia che mai in passato», sono, infatti, in netto contrasto con il numero sempre crescen­ te di famiglie monogenitoriali nella società contemporanea. Al­ lora l’autore aveva avvertito: Si fa sempre più forte l'accettazione scientifica, come ha soste­

nuto sinora ll buon senso, del fatto che i bambini abbiano biso­ gno della presenza di due genitori con i quali interagire e che, preferibilmente, appartengano a sessi diversi sia nel tempera­ mento che nell'aspetto, ma che insieme formino una coalizione di genitori a integrazione e completamento l'uno dell'altra39.

Nel 1993, negli Stati Uniti i nuclei familiari costituiti dal solo genitore di sesso femminile, senza la presenza del marito e con figli propri di età inferiore ai diciotto anni, rappresentavano il 7% del totale; i nuclei con un solo genitore maschio senza mo­ glie, con figli propri di età inferiore ai diciotto anni erano inve­ ce pari all’l% del totale". Maijorie E. Starrels et al. sostengo­ no che l'elevato tasso di indigenza tra i bambini provenienti da gruppi di minorities è una diretta conseguenza della loro ap­ partenenza a un nucleo familiare con unico genitore di sesso femminile. Gli stessi autori affermano che

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il numero di bambini che vivono in stato di povertà all’interno

di nuclei familiari con il solo genitore di sesso femminile in rap­ porto alle famiglie composte da coppie sposate è cinque volte maggiore tra i bianchi; per la popolazione di colore, portorica­ na e ispanica in generale è tre volte e mezzo più elevato, men­ tre per i messicani-americani è due volte maggtore1'.

Infatti, per S. Wayne Duncan: «Le ripercussioni economiche (di un divorzio) per molti bambini e per le madri sono tali da farli piombare in uno stato di reale indigenza»42. Paradossalmente, nonostante il gran numero di famiglie monogenitoriali esistenti negli Stati Uniti al volgere del .XX secolo, Camille Paglia affusava a chiare parole che «entr^nbi i sessi h^ano tratto benefìcio dal consolidamento e dalia stabilità della famiglia»43. Arne Mastekaasa ha tentato un confronto tra status coniugale, situazioni critiche e benessere nei componenti delie f^niglie, sottolineando che gli uomini e le donne sposati godono di uno stato di felicità e soddisfazione maggiore rispetto a coloro che non sono sposati o che h^ano alle spalle un divorzio. Inol­ tre, gli uomini separati o divorziati sono molto meno soddisfatti della propria vita degli uomini vedovi44. Eppure, i divorzi sono in continuo armento. «Secondo fonti del­ l’Ente Censimenti, la metà dei matrimoni finisce con un divorzio»45. Nel 1992 li tasso di divorzi negli Stati Uniti era di 4,8 su 1.(^W matrimoni46, ll divorzio è il principale responsabile dello sciogli­ mento delle famiglie e una delle cause principali dell’inadeguata educazione impartita ai figli. Diretta conseguenza di legami fami­ liari rotti sono non solo figli illegittimi, anche analfabetismo, assistenzialismo, confusione al valori, frustrazione, rabbia, com­ portamenti distruttivi e rassegnazione. Recenti statistiche h^ano rivelato che nel 1991 negli Stati Uniti le gravidanze portate a ter­ mine da rag^e madri rappresentavano il 30% del totale47, In una recente ricerca sulla rivoluzione operata dal divorzio, il Council on Families in America riconosceva che la cultura del divorzio e dei genitori non sposati, che in molte zone ha sosti­ tuito la cultura del matrimonio, non ha attecchito, ma che nel corso di questo fallimento un prezzo altissimo è stato pagato dai b^nbini4s.

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Per William Kilpatrtck i genitori hanno perso la fiducia nel­ l’importante missione insita nell’educazione dei figli e, per que­ sto motivo, non trasmettono più quell’immagine di «detentori di una fede, una tradizione, un lavoro, una fùosofia, una visione del modo in cui le cose devono andare»49. ^Agiungeva poi che «la vita familiare richiede l’enorme sacrificio dei desideri indivi­ duali», e che sarebbe di grande aiuto «se un bambino potesse ricevere una visione della vita così grande e buona da giusti­ ficare questi sacrifici»™. La situazione che viene qui delineata è probabilmente sorta anche in conseguenza del fatto che molte persone, come asse­ rito da Beliali, «non comprendono più il significato morale delle nostre istituzioni a causa delie diffuse tensioni e degli ulteriori cambiamenti in atto all’interno della nostra società»51. È probabile, inoltre, che, negli ultimi trent’a^al movimenti di stampo femminista abbiano contribuito ai cambiamenti sostan­ ziali nella famiglia. A chiarissime lettere Bellah ha affermato che «l’appagamento individuale si è fatto sempre più strada ver­ so la vetta delle priorità di ognuno imponendosi come valore culturale di primo piano»52, e senza alcun dubbio il femminismo ha ricevuto un fortissimo impulso da questa ricerca delia rea­ lizzazione personale. L’accento posto sull’indipendenza femmi­ nile e sul rifiuto del sacrificio domestico talvolta line a se stes­ so, presen^ndo la situazione patriarcale come mezzo di oppres­ sione e dominio e non istituzione volta a disciplinare gli uomini fornendo loro le giuste motivazioni in vista delia loro futura re­ sponsabilità di padri53, ha inconsapevolmente, e in modo impre­ visto, minato la stessa istituzione «Ciniglia». Sebbene, come sostiene Christine Hoff Sommersi «li femmi­ nismo classico che difendeva strenuamente il principio della pa­ rità, sia ancora vivo nei cuori delle dorine americane», molte fem­ ministe sono convinte del fatto che le donne americane contem­ poranee non vivano più in una situazione di egemonia oppressiva maschile come invece rivendicato dal gender il femmi­ nismo di vecchio stampo. Commentando, però, gli svant^ag di quella che «i conservatori difendono come f^niglia idealizzata, di classe media e patriarcale», Barrie Thome ha alienato: 118

Le femministe sono alla ricerca di un si^gnificato di famiglia com­ plesso e quanto più rispondente alla realtà come parte di un più ampio programma di mutazione sociale [ ...1 . la frammentazione e l’isolamento che da alcuni vengono etichettati come «crisi della famiglia» sono, in realtà, una crisi sociale di ben più ampie proporziorù, per la cui soluzione Mrà indispensabile modificare l’in­ tera vita sociale, economica e politica55.

Geoff Dench sostiene che il patriarcato ha in realtà fornito agli uomini tutti gli strumenti necessari per il loro ruolo di padri che prowedono al bisogni della propria famiglia, ruolo che saranno chinati ad assumere una volta sposati. L’autore sottolinea che l’attenzione eccessiva dedicata alia ricerca dell'indipendenza da parte delle donne e ala lotta per il potere fa sentire gli uomini emarginati e non più necessari. Questa privazione del loro ruolo tradizionale indebolisce la coesione all'interno della famiglia e mina la sua stabilità economica e morale^. È comprensibile che la polarizzazione di marito e moglie basata sul potere e sul controllo non porti alla comprensione reciproca, all'accettazione e all'amore che costituiscono insie­ me la base della loro speciale relazione. Purtroppo, come ha osservato Richard Neely: Quando genitori presi solo da se stessi e dal doppio lavoro tra­ scurano i propri figli (...) questi ultimi reagiscono con compor­ tamenti tipici, quali il far uso di droghe, rifiutare la scuola ed entrare a far parte della Street culturé'7.

In tempi recenti Kilpatrick ha affermato: dato che i genitori sono spesso troppo stressati a causa dei loro frenetici ritmi di vita e troppo assorti nella ricerca del proprio appagamento personale [ ...) i figli finiscono per essere conside­ rati un inconveniente"".

Persino l’attività sessuale ha iniziato ad essere disgiunta dalla vita familiare e dalla sfera dei legami intimi di coppia (siano essi coniugali o non coniugali). «Il legame di coppia post-nu­ cleare non solo si è dissociato in una certa misura dall’attività 119

sessuale ma anche e in maniera crescente dalla procreazione di figli» afferma Neely. Ad ogni modo, come scrive Paglia, la ricerca dell’autorealizzazione da parte dell’uomo moderno non ha avuto come diretta conseguenza la felicità sessuale, in quanto l’affermazione della propria individualità e personalità libera semplicemente il caos amorale della libido. [ .. | Il matrimonio convenzionale, nonostante le ingiustizie in esso insite, teneva a freno la libido [ ..e] quando il ma^trimonio attraversa un momento di crisi, salta fuori il demone malvagio dell’istinto sessuale ( ...). L’individualismo. l’io liberato dalla so­ cietà. porta a un più rude assoggettamento alle costrizioni della natura59. .

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Charles Colson affermava che nella maggior parte delle culture orientali, la famiglia rimane l’u­ nità fondamentale della società. Nel mondo occidentale, comun­ que, il relativismo ha incoraggiato l’idea che la famiglia sia una questione di convenienza piuttosto che di convenzione™. La famiglia tradizionale, in cui i genitori detengono ruoli ben chiari e degniti, viene lentamente sostituita da ll tipo di fami­ glia non tradizionale, in cui sia il marito che la moglie accetta­ no l’alternata e l’intercambiabilità di sesso-ruolo. Alan Booth e Paul R. Amato si sono occupati dell’effetto di questi comporta­ menti non tradizionali sui coniugi e sulla prole. Sono state ana­ lizzate le risposte a un questionario di studio fornite da 2.500 individui sposati e dai rispettivi figli nel corso di rm periodo di dodici anni. l risultati hanno evidenziato come li divorzio si pre­ senti con maggiore frequenza nelle coppie non tradizionali e come i figli adulti di queste famiglie abbiano rapporti meno soli­ di con i padri di quanto non succeda al figli adulti delle famiglie tradizionali. Inoltre, le figlie adulte provenienti da famiglie non tradizionali sembrano prediligere la convivenza piuttosto che la relazione matrimoniale91. Scriveva David A. Murray:

occhi di un antropologo il fallimento generalizzato del ma­ trimonio è ll segnale di un disastro tncombente. Le culture dif­

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feriscono l'una dall’altra per molti aspetti, ma tutte le società che riescono a soprawivere sono cos^uite sul legame ma^trimoniale. Il matrimonio rappresenta l’impalcatura culturale della società [ 1 una volta che la gente smetterà di sposarsi, la continuità di una società ^uà messa in pericolo62. ...

Purtroppo in alcune fasce sociali americane un gran numero di bambini vive in famiglie in cui manca di fatto sia la presen­ za materna che quella paterna; a volte la figura della nonna prende il posto di una madre immatura, mentre la figura pa­ terna, quando è presente, è spesso privata della sua autorità o rifiuta questa responsabilità63. Murray sostiene che quando in una famiglia manca il padre, ai figli manca spesso anche il sostegno di un grappo esteso di parenti. «Quello che manca a queste famiglie è la figura di padri e mariti con un credito sociale ben definito»^4. Della stessa opi­ nione è anche Bonnie J. Miller-McLemore. La cura dei figli, occupazione centrale di ogni famiglia, è anche un’attività che investe società e comunità e la partecipazione di un gruppo più vasto di congiunti, vicini, amici, parenti e altri adulti senza legami di parentela65.

Barbara Mitchell ha intervistato oltre 2.000 giovani canadesi di età compresa tra i quindici e i ventiquattro ^ani eviden­ ziando che quelli provenienti da nuclei familiari monogenitoriali e da famiglie con una matrigna o un patrigno fuggono di casa due volte e mezzo più spesso di quanto non succeda a coloro che invece provengono da famiglie tradizionali, compo­ ste dai due genitori naturali. La ragione di queste fughe è prin­ cipalmente il conflitto con uno o con entrambi i genitori. I ri­ sultati sono in accordo con quelli di altre ricerche, che hanno rivelato che i giovani che vivono in famiglie monogenitoriali, o in famiglie con un genitore non naturale, o in f^niglie adotti­ ve, nel corso della loro infanzia ricevono meno attenzioni da parte degli adulti, tendono a uscire di casa prima dei dician­ nove ^ani e una volta fuori abbandonano gli studi con mag­ giore frequenza rispetto ai giovani che provengono da nuclei familiari composti da due genitori biologi^6. 121

Il problema non è però limitato a determinate fasce sociali, anche se si possono senz’altro riconoscere caratteristiche tipi­ che di determinate situazioni. Sylvia Ann Hewlett ha scritto: Su tutto il tenitorio americano, l’infanzia stenta a fiorire com­ pletamente: i figli provenienti da famiglie ricche, o appartenenti alla classe media o che vivono in condizioni di indigenza, devo­ no tutti fare i conti con rischi di varia natura e situazioni di ab­ bandono con una frequenza inimmaginabile per le generazioni precedenti. l problemi legati alla povertà, al divorzio, al figli con­ cepiti fuori della costanza di matrimonio e a genitori assenti, a ragazzi che entrano ed escono di casa con estrema libertà | J, a situazioni di violenza e uso di droghe, non sono più confinati a una categoria ghettizzata67. ...

Il centro di attenzione della famiglia si è spostato dai figli agli adulti. Questa è quella che viene chiamata famiglia post-nu­ cleare. la famiglia al servizio dell’individuo piuttosto che l’indi­ viduo al servizio della famiglia. Secondo la tesi sostenuta da Bellah e dai suoi collaboratori, esistono sicuramente famiglie migliori e famiglie peggiori, fami­ glie più felici e più accudenti e famiglie che lo sono meno. Il modo stesso in cui, però, gli americani istituzionalizzano la vita familiare, le pressioni e le tentazioni che la società ^americana impone a tutte le famiglie, sono essi stessi fonte di problemi [ 1 pertanto chiedere a una persona di tenere un comporta­ mento migliore, per quanto sia importante, non ^aniverà alla radice del problema6". ...

Al'interno della famiglia adulto-centrica, anche gli anziani, come i giovani, rimangono alienati perdendo lo status di rive­ renza di cui godevano in passato, quando venivano considera­ ti fonte di saggezza e detentori della continuità culturale. Al di là di motivazioni di carattere affettivo, che possono influenza­ re i rapporti anche con le generazioni più «anziane», la mobi­ lità sociale ha creato separazione in famiglie che probabilmen­ te in passato sarebbero rimaste vicine, rendendo fisicamente 122

ed economicamente impossibile prendersi cura di un ^anziano. Questo, inoltre, contribuisce in parte, assieme a fattori cultu­ rali indipendenti da quelli di natura economico-sociale, alla popolarità delle case di riposo. Un percorso possibile

Il pragmatismo e il ^funzionalismo sono diventati, nel mondo occidentale, l’essenza della vita stessa, e in un contesto fatto di disum^^^^rione e di filosofia della morte, di manc^^ di al­ truismo e di mecc^^^^rione della vita, non ci si deve sorpren­ dere della crisi che sta attraversando la f^amiglia. La fr^rnentazione della cellula fa^aliare nella società della new economy ha spesso eliminato «ogni manifestazione di intimità emotiva, sessuale e la crescita dei figli» in quanto tutto ciò spesso e volen­ tieri ha luogo al di fuori dei confini della famiglia, con partner diversi e sostituti delle figure parentali69. Tutte le funzioni tradi­ zionali della famiglia, cioè la riproduzione, il sostentamento bio­ logico, il controllo sociale, lo status e il sostegno emotivo, s^nno via via perdendo forza. Tocqueville riteneva che fosse grazie alla sua forza naturale, al suoi ^ncoli emotivi e al valori morali condivisi, che la famiglia americana era stata in grado di soste­ nere l'awento della parità e aveva scelto di conseguenza un atteggiamento fatto di più grande amore, fiducia e intimità tra i suoi membri70. Oggi tutto fa pensare che i valori morali e le virtù giochino un ruolo marginale nella vita fa^aliare e neil’educazione dei figli. Nonostante ciò, come scrive Bellali, per quanto oggi le famiglie sembrino fragili e vacillanti, esse ri­ mangono, per la maggior parte di noi, l’unica vera scena in cui possiamo esprimere la nostra piena predisposizione al bene o al male, alla gioia o alla sofferenza71.

Nonostante problemi e tensioni, la vita familiare e l’interazione tra i membri del nucleo rappresentano un’ottima palestra in cui alienarsi per affrontare i problemi interpersonali inevitabili

123

della vita.

È

proprio all’interno della cerchia familiare che ogni

individuo dovrebbe trovare quella moralità e quel sostegno ne­

cessari a conferire

il

senso del valore intrinseco di una perso­

na. nonché l’ordine morale e la responsabilità che spesso sono stati soggetti a dispersione durante i periodi di transizione so­

ciale. Una nazione, in genere,

è

l’immagine riflessa delle famiglie

è dei suoi componenti. il m^funzionamento delle singole cellule e dei vari sistemi dell’organismo è causa di malattia nel corpo umano, allo che la compongono, come la f^amiglia lo Proprio come

stesso modo la disfunzione di un componente di una famiglia

causa

il

disfacimento della famiglia stessa e produce, seconda­

riamente, una società malata. Per George

A.

Kendal una buro-

cra^^azione eccessiva e una razionalità estrema, sostenute da un’ideologia positivista e utilitaristica, hanno ridotto l’uomo a

un mero soggetto, una «menomazione di uomo», «caratterizzato da comportamenti che non solo possono essere previsti e mani­

polati, ma anche controllati»72. Ma sociale non controlla

fl

è

chiaro che la burocrazia

comportamento autodistruttivo dei suoi

componenti e risulta evidente che la condotta di ognuno

è

es­

senzialmente una questione di responsabilità personale, per

quanto risenta di influenze ambientali. Parsons, nel suo

Theoretical

View

of society

(Teoria sociolo­

gica e società moderna), ha riaffermato che «la società

è

un si­

stema di parti in stretta correlazione fra loro», ma, nella nostra

società quasi disumanizzata, molte famiglie sono prive della coesione emotiva tra i propri componenti che

è

indispensabile

per una buona crescita personale e sociale73. Questa società

confusa e alienante

è

forse una diretta conseguenza del pro­

gresso tecnologico? Nel

1980,

Toffler scriveva:

Si sta formando una nuova civiltà. Qual è, dunque, il posto che siamo chiamati a occupare in essa? I cambiamenti tecnologici e i tumulti sociali del nostro tempo non si^gnificano forse la fine dell’amicizia, dell’impegno, della comunità e delle attenzioni ver­ so gli altri? Le meraviglie elettroniche del dom^al non ^finiraimo per rendere le relazioni umane ancora più vuote e vicarie di quan­ to non siano già oggi?74

124

Il passaggio dal contatto personale e diagli scambi epistolart ai

mezzi elettronici che non prevedono un diretto contatto con l’al­ tro, come la segreteria telefonica, il fax o la e-mail, hanno ulte­ riormente contribuito alla dist^^a interpersonale75. Tra questi «ausili» il telefono rappresenta una via di mezzo, se cosi si può dire. Difatti, pur in assenzaa di un faccia a faccia, una conversa­ zione telefonica rimane una conversazione, gli interlocutori pos­ sono intuire dai silenzi, possono apprezzare le variazioni proso­ diche della voce, a forte contenuto espressivo, e addirittura si hanno durante una conversazione telefonica le stesse gesticola­ zioni che si notano durante uno scambio diretto. In un certo senso il telefono, e in modo accentuato il telefono cellulare, è un compromesso ideale tra bisogno di mobilità, bisogno di «spazio» personale, e una necessità umana di soci^^azione. Al fine di arrestare la disintegrazione della famiglia76 sono state fatte raccomandazioni sia intrinseche che estrinseche ad essa, e così scriveva Blankenhorn: Visto e considerato che nelle società umane la paternità è uni­ versalmente problematica, le culture devono mobilitarsi a con­ cepire e applicare 11 ruolo di padre per gli uomini, accompa­ gnandoli nell’espletamento del loro ruolo con l’ausilio di tutta una serie di pressioni legali ed extralegali che li obblighino a mantenere una stretta alle^^a con la madre dei propri figli e a investire in questi ultimi77.

Sia gli uomini che le donne dovrebbero essere educati a rive­ stire il ruolo di genitori attraverso programmi educativi e linee guida anche istituzionali (scuola, chiesa, organismi sociali). Nel contesto specifico della vittimizzazione domestica, visite domi­ ciliali da parte di operatori religiosi o sociali in quelle triglie considerate a rischio fornirebbero un supporto pratico e mora­ le, e inoltre offrire un metodo alternativo per affrontare i pro­ blemi personali e interpersonali. Le famiglie possono creare gruppi di supporto a livello loca­ le, di quartiere. Maggiore considerazione deve essere data sia alla fase della gravid^^a che a quella della crescita dei figli, ri­ cordando sempre che il bambino di oggi è l’adulto di domani.

125

In molte comunità i bambini, dopo la scuola, non vengono più controllati e non sono rari i casi di bambini socialmente imma­ turi che si prendono cura dei fratelli più piccoli. I quartieri necessitano di una presenza più efficace, a livel­ lo locale, degli organi di polizia, con l’appoggio e la collaborazio­ ne di tutti i residenti, in quanto servizio a beneficio della comu­ nità, anche nel tentativo di ridurre la diffusione della droga e dell'alcol. È necessario creare strutture extrascolastiche quali­ ficate e a costi accessibili, per sostenere quei genitori il cui ora­ rio di lavoro non consente la conduzione di un menage do­ mestico «tradizionale». Ognnno è chiamato a supeiVisionare le abitudini televisive dei propri figfi78. Come gius^mente ha fatto notare William Bennett:

Fa ara ^grande diferenza, per esempio, se i nostri figli ricevono dalla televisione messaggi in cw l’onestà è mostrata come punica condotta appropriata o che spingono a onorare il padre e la ma­ dre, invece di mes^^$ in cui l’adulterio è la no^a e in cui la fa­ miglia viene mostrata come destinata a disfarsi definitivamente79. È necessario contrastare in maniera vigorosa il fenomeno delle gravid^aze indesiderate. È necessario che i giovani vengano educati a tenere un comportamento sessuale responsabile.

Gli adulti e le autorità locali dovrebbero adoperarsi affinché le giovani donne evitino gravidanze in seguito a rapporti prema­ trimoniali [ ...). Si tratta di una questione di sopravvivenza, di progresso e di possibilità di una buona vita e non di arbitrario moralismo self-service80. Murray aveva giustamente affermato: «Se^nza un maschio e una femmina che si sennino responsabili della crescita di figli, non è possibile garantire le caratteristiche di stabilità e continuità so­ ciale»81. Nel 1992, 1'11,7% delle famiglie americane viveva al di sotto della soglia della povertà, mentre nel 1993 il tasso di disoccu­ pazione era del 4,5%82. Il settore privato deve accrescere la portata degli impegni congiunti atti a sostenere i cittadini nel tentativo di migliorare la propria situazione economica. Un

126

impegno di questo tipo comporta l’istituzione di corsi profes­ sionali nonché le prospettive di trovare poi un impiego, il che non solo garantirebbe agli uomini giovani di mantenere una f^niglia, ma permetterebbe, anche indirettamente, di allegge­ rire il fardello fiscale cui sono sottoposti i contibuenti. Un im­ piego, in primo luogo, equivarrebbe per questi giovani all’ac­ quisto di dignità e status, ma anche all’opportunità di avere un obiettivo. Per realizzare i punti sopra elencati è necessario struttura­ re un ordine del giorno sociale di ampio respiro, parzialmente già esistente. Nonostante ciò, il successo e la real^^mone to­ tale, e non solo parziale, di questo piano sociale non può avve­ nire se non dopo che ogni singolo individuo e la comunità tutta abbiano affrontato più dirett^nente questioni centralis­ sime come il rinnovamento spirituale personale e il concetto di responsabilità personale e sociale. È fondamentale che le persone riscoprano il valore della spi­ ritualità e quindi della religione; l'avvicinarsi al valori, alle virtù e alla moralità della vita, secondo un percorso che distribuisca anche nuova linfa vitale alle religioni istituzion^^zate, è auspi­ cabile. Infatti, come ha affermato Bellah, «senza le proprie sep­ pur imperfette istituzioni, la religione firiisce per essere vuota, privata e irrilevante»”3. Le congregazioni religiose, inoltre, «han­ no più possibilità di ispirare sentimenti di comunità morale di qualsiasi altro gruppo»84. Religo significa essere legati insieme, si^nfica comunione con l’altro a livello di singoli individui, fa­ miglie, comunità e anche di società. Forse, come ha scritto an­ cora più correttamente Iris Murdoch, la religione simboleggia elevate idee morali che diventano poi il nostro normale bagaglio e che sono più intimamente e com­ prensibilmente efficaci di quanto non lo siano i disadorni sug­ gerimenti della ragione85.

Le religioni incarnano le regole da seguire nella vita, non solo regole a uso e consumo del singolo, ma anche firializzate a un bene comune, e un credo ci unisce e funziona da potente col­ 127

lante sociale. John Locke riteneva che «l’allontanamento da Dio,

anche solo dai pensieri, dissolve tutto»86. Lo stesso Locke vede­

va la fede in Dio come un fattore essenziale per l’esistenza di qualsiasi società e, si potrebbe anche aggiungere, di qualsiasi

persona e famiglia.

È

proprio attraverso il rinnovamento spiri­

tuale di ogni individuo che vanno affrontati i problemi della

famiglia e le conseguenze sociali della sua progressiva disinte­ grazione. Quelli che Kendall chiamava menomazioni di uomo

finiscono inevitabihnente per rimanere invischiati nel disordine sociale, perché le loro anime sono in preda al caos e il tumulto spirituale, alla resa dei conti, genera disordine sociale87.

In questa ricerca di una rinnovata spiritualità, il clero dovreb­

be impegnarsi in maniera pratica in una nuova attività di

evangelizzazione delle masse, in maniera diretta, sul campo. Questa missione potrebbe essere realizzata con visite pastora­ li più frequenti nelle case dei rispettivi parrocchiani. L’uso delle

strutture religiose per la socializzazione dei giovani deve esse­ re promosso, organizzando programmi sia di carattere didatti­

co che ricreativo. I membri delle congregazioni dovrebbero es­ sere stimolati a contribuire non solo con donazioni pecuniarie,

ma anche dedicando parte del proprio tempo all’organizzazio­ ne delle attività appena menzionate.

Lo

persone anziane po­

trebbero addirittura dare un nuovo senso alla propria vita ren­

dendosi attive nella realizzazione di questi programmi: ma

è

il

clero che con la propria rettitudine morale deve essere da esem­ pio costante ai fedeli.

È

indubbio che ogni persona dovrebbe considerarsi ed es­

sere considerata, come membro responsabile della società con

precisi diritti personali: per goderne, però,

è

necessario che

ognuno si impegni personalmente. Diritti e doveri non posso­ no essere disgiunti, ma sono come le due facce di una stessa medaglia. Nessuno può permettersi di essere esclusivamente membro passivo, ricettivo di una società di massa, caratteriz­

zata da una forza alienante che ha frammentato intere fami­ glie e ci ha privati di sostegno e significato.

128

Dobbiamo tutti adoperarci per la formazione di una comu­ nità morale tenuta insieme da valori, atteggiamenti e pratiche comuni, che rimangano al di sopra della differenze etniche e culturali, ma che si rivolgano all’essere umano in senso lato, se vogliamo che tutte le nostre famiglie ritornino a far parte di un’unità integra e sana. È confor^tante sapere che, nel bel mezw della confusione so­ ciale che caratterizza i nostri giomi, la maggioranza delle fa­ miglie sia ancora costituita da persone unite, affettuose e re­ sponsabili e che queste stesse famiglie si oppongano in ma­ niera stoica alla loro disintegrazione, perché forti di quei valo­ ri trasmessi loro dalle generazioni che le hanno precedute. Perché la famiglia rimanga «il cuore della cultura della vita [ ... ) il luogo in cui la vita, dono di Dio, viene accolta e protetta contro gli innumerevoli attacchi al quali è esposta»^ è neces­ sario un convinto impegno congiunto da parte di ogni suo com­ ponente e da parte di educatori, sociologi, politici e capi spiri­ tuali. Tuttavia non solo è impossibile effettuare un’inversione di marcia, ma ciò sarebbe sconsigliabile e inutile. Al di là dei problemi succitati, la famiglia e i suoi componenti devono anch’essi adattarsi con flessibilità cognitiva, ma non etica o mo­ rale, ale esigenze dettate dalla realtà, che per quanto fonte di incognite ansiogene, è progresso, evoluzione e crescita. Ma, co­ me qualsiasi progetto di crescita, che si tratti di im organismo, di ima pianta o di un sistema org^^^ato, questo richiede un piano, delle regole e una guida.

129

Postfazione

Ho accettato con piacere di scrivere un breve commento a que­ sto volume, in quanto affronta un argomento di cui si parla mol­ to, ma forse mai abbas^tanza. L'odio e la violenza appartengono purtroppo al genere umano e spesso vengono consumati all’in­ terno di un sistema familiare. Ciò non di meno, quando si di­ venta testimoni di eventi di questo genere si è sopraffatti da vis­ suti di sorpresa, di incredulità e di profondo sconforto. Si ricor­ re in genere a spiegazioni ingenue, attribuendo un si^gnificato causale a fattori contingenti, o a interpretazioni «logiche» che sembrano meccanismi difensivi attivati contro la minaccia di una destrutturazione di punti di riferimento interni. In effetti, la comprensione del fenomeno può awenire sol­ tanto attraverso un'analisi esaustiva dei molteplici fattori che entrano in gioco in una rete di relazioni non sempre univoche. In questa opera lo sforzo degli Autori va proprio in questa direzione. L'excursus sulla violenza che coinvolge il nucleo fa­ miliare è dettagliato, e mette in evidenza la sostanziale distan­ za della famiglia vittimizzata dal modello ideale o «idealizzato» di sistema descritto dagli Autori. Si tratta di un modello in cui la definizione dei valori non è mai ambigua e rappresenta l'e­ lemento che contiene dinamiche tensive intra- ed extra-fami­ liari. Anche se il cinismo e l'abbassamento della soglia di ac­ cettazione di alcuni fenomeni rischia di inquadrare tale mo­ dello nel contesto di un «buonismo» di facile consumo, esso in effetti si rifà a quello a cui l’immaginario collettivo si è sempre ispirato; un immaginario in cui non è il «buonismo» cinico ad 131

essere un punto di riferimento, ma la bontà, contrapposta alla malvagità, il ruolo positivo e formativo del sistema familiare, matriarcale o patriarcale che esso sia. la famiglia è senza dubbio minacciata. Ma ancora una vol­ ta bisogna guardarsi da interpretazioni semplicistiche che ignorino l’evoluzione dei costumi e la nuova sistematizzazione dei ruoli f^amiliari. Ciò che minaccia la famiglia intesa come sistema sono le pressioni che attualmente gravano sui singoli membri del nucleo familiare: l’insicurezza sociale ed economi­ ca, il rapido mutamento dei valori etici, la progressiva riduzio­ ne del valore attribuito alla vita, il graduale ma costante au­ mento dell’egoismo sociale, il rifiuto del diverso e di tutto ciò che viene percepito come una minaccia al proprio benessere, sia morale che materiale. Questi stessi fattori «sociali» contribuiscono pesantemente, in associazione con elementi storiografici personali dei mem­ bri del gruppo, alla genesi di violenza e agli atti di vittimizzazione domestica. Gli Autori, infatti, sottolineano come la ma­ lattia mentale e il disagio psicologico siano spesso alla base di situazioni di abuso familiare, privando fino all’omicidio. Una maggiore sensibilizzazione nei confronti della malattia menta­ le, intesa come disturbo medico in senso lato, con una sua storia naturale, un decorso e una prognosi, e non come un fe­ nomeno sociale o come un costrutto filosofico, è quindi fonda­ mentale per una prevenzione, sia primaria che secondaria, dell’abuso domestico. È evidente, in questo riferimento, il per­ corso formativo degli Autori del testo: entrambi psichiatri, se pur con specializzazioni diverse, in criminologia e in neuropsi­ chiatria. Essi portano con chiarezza ed efficacia la loro espe­ rienza clinica in un ambito non facile, sia dal punto di vista tecnico, che, e forse ancor di più, da quello morale. Ne deriva un lavoro che, senza essere sensazionalistico, e rifuggendo dafie descrizioni scioccanti che purtroppo spesso caratterizzano i testi divulgativi su questo argomento, è un primo passo verso una maggiore consapevolezza dei fenomeni psichiatrici che si nascondono nell’ambito familiare. Fenome­ ni che, per motivi culturali e sociali, vengono tenuti rigorosa­ 132

mente celati agli occhi di coloro che invece potrebbero, e do­ vrebbero, intervenire aiutando le famiglie che ne hanno biso­ gno. È quindi un invito a non sottovalutare i segnali di disagio visibili alle persone esterne ad un nucleo familiare, che siano operatori sanitari, ufficiali di pubblica sicurezza o semplici vi­ cini di casa, segnali che possono essere il preludio di atti gravi e spesso evitabili.

Roberto Militerni Professore ordinario di Neuropsichiatria infantile Seconda Università di Napoli

133

Note

Capitolo I ' Freud S., «Progetto di una psicologia e altri scritti: 1892-1899», in Opere di SigrTUmd Freud, vol. II, Torino, Boringhieri, 1989. 2 Maguire K., Pastore AL. (a cura di), 1994, So^urce ^x>k of ^^^^.Justice Sttàtàics, US Department of Justlce Bureau of Justìce Statlstlcs, Washington, DC, Urdted States Gove^rrunent Printing Office, 1993, p. 267. 3- Palermo G.B., Faces ofViolence, Sprtngfield, C.C. Thomas, 1994, p. 54. •• Himmelfarb G., De-Moralization of ^xiety, New-York, Knopf. 1994, p. 228. 5' Wisconsin Department of Health and Social Services, Family Status of Delinquents in Juvenile Correctional Facilities, Madison, Division of Youth Services, aprile 1994. 6- Pittman F. S., Man Enough: Fathers, Sons. and the Searchfor Masculinity, New York, G.B. Putnam’s Sons, 1983, p. 133. 7- Blankenhorn D., Fatherless inAmerica. Corifronting Most Urgent ^xial Problem. New York, Basic Books, 1995, p. 222. 8 Gregor J., «Male Dominance and Sexual Coercion», in Cultural PsycholDgy, a cura di Stigler J.W., Schweder R.A., Herdt G., Cambridge New York -Melbourne, C^nbridge University Press, 1990, pp. 477-495. 9- King L.W. (trad. di), ^Exploring Ancient World Cultures, Ha^murabi's Code of Laws, eawc.evansville.edu/anthology/hammurabi.litm. pp. 1-22, IO m^zo 1997. I0' Davis R.L., Domestic Violence, Westport, CT, Praeger, 1998, p. 48, citando Stein D., Wo^man's Sp^^^ity Book, St. Paul, MN, Liewellyn Publications, 1993, p. 7. 11 Davis R.L., op. cit., p. 50, citando Buzawa E.S., Buzawa C.D.G., Do

135

Arrest and Restraining Orders Work, Thousand Oaks, CA, Sage Publishing, 1996, p. 24. 12 ^maud-Duc N., «The Law's Contradiction», in Duby G., Perrot M. (a cura di), A History of Women: Emerging Feminism .from Revolution to World War, vol. IV, Cambridge, MS, London, Belknap Press of Harvard University Press, 1995. l3- Davis R.L., op. cit., p. 51, citando Fulgham contro lo Stato, 46 Ala­

bama, pp. 146-147. " - Palermo G.B., Faces of Violence, Springfleld, il, Charles C. Tho­ mas, 1994. I5' Davis R. L., op. cit., p. 55, citando Wolfgang M., Pattems in Criminal Homicide, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1958, p. 207. 16 Pittman D.J., Handy W., Patterns in Criminal Aggravated Assault, «Journal of Criminal Low, Criminology and Police Science», 55, 1964, pp. 1242-1245. 17' Straus M.A., Gelles R.J., Steinmetz S.K., Behind Closed Doors: Vio­ lence in the American Family, Garden City, NY, Anchor Press/Doubleday, 1980. ”• Council on Scientific Affairs, American Medicai Association, Violence Against Women: Relevancefor Medicai Practitioners, «Journal of the American Medicai Association», 267, 1992, pp. 3184-3189. 19- National Coalition Against Domestic Violence, rapporto di indagine della NCADV, Denver, 1994. 20 Maguire K., Pastore AL. (a cura di), Source^wk of Justtice Sintistics, 1998 - U.S. Dep^^nent of Justice, Bureau of Justice Statistlcs, Was^ngton, DC, United States Gove^mment Printing Office, 1999, p. 299. 2' Ibidem. p. 191. 22 Gelles R.J .. Cornell C.P. Intimate Violence in Families. 2‘ ed., Newbury Park, Sage, 1990, p. 11. '2'Webster's Ninth New Collegiate Dictionary, Springfield, MS, Merriam-Webster, 1988. 2' Fitch F.J ., Papantonio A. Men Some Pe^^^ Characteri.stics, ofNervous and Mental Disorders>, 171, 1983, pp. 190-192. “■ Tho^^^ R., Palmer C.T., A Natural History oJR^x, Cambridge, ^A, London, The MIT Press, 2000, p. 77, ci^ndo Bachman R., Saltzman L., Violence against Women: Estim.ales.from. the Redesigned Su^ey, Special Report, Bureau of Justice Statistics, U.S. Department of Justice. 26 Davis R.L .. op. cit., p. 19, citando Donziger S.R. (a cura di), Real War on Crime: Report of the National Criminal Justice Commission, New York, Harper Perennial, 1996, p. 158. .

136

v Ibidem. citando B^ar Flowers R., «The Problem of Domestlc Violence is Widespread», in Swisher K.L. (a cura di), Domestic Violence.

San Diego, Greenhaven Press, 28• Lansky M.R.,

1996,

p.

13.

F^mly Genesis ofAggression, «Psychiatric ^nnals»,

23, 1993, pp. 494-499. 28- Council on Scientific Affairs, Violence. 3186. 30- Council on Ethics and Judicial Affairs, American Medicai Association, Physicians wtd Domestic Violence: Ethical Considerations, «Journal of the American Medicai Association», 267, 1992, pp. 3190-3193. 31 ■ Bro^ne A., Williams K., Resources A^^ideilityfor Women at Risk: Its Relations^p to Ratees ofFemale-Pe^rpe:rured Ho^^ide, partecipante all'Amertcan ^Society of C^riminology, Montreal, Quebec. novembre 1987. 32- Bro^ne A., When Battered WomenKill, New York, Free Press, 1987. 33' Scarpitti F.R., Nielsen AL., Crime Criminals, Los Angeles, Roxbury. 1990, p. 311. 34- Walker L., Battered Wo^^n Sindrome, New York, Springer, 1984. 35- Walker L., Terrifying Love: ^iny Battered Women Kill ^and How So­ ciety Responds, New York, Harper and Row, 1989. 36- Davis R.L., op. cit., p. 56, citando Straus M.A., «Domestlc Violence is a Problem for Men». in Swisher K.L. (a cura di), Domestic Violence, San Diego, Greenhaven Press, 1996, p. 54, il quale ha presentato alcuni studi che rivelavano ti medesimo tasso di omicidi parentali per gli uoe le donne. 3’- Ibidem. p. 56. 38- Barman S., Allen-Meares P., Neglected Victims of Murder: Children's Witness to Parental Homicide, National Association of Social Workers, Inc. (1994) ccc Code: 0037-8046/94. 39- Rapporto di indagine della NCADV. 40 Senate Judiciary Co^mmittee Report, Violence Against Wo^n: A Week in the Ufe of America, ottobre 1992. 41- Rapporto di indagine della NCADV. 40 Maguire K., Pastore A.L., Sourcebook, 1998, cit., p. 297. 40 Walker L., Terrifying Love: Why Battered Women Kill and How So­ ciety Responds, cit., p. 51. 44 U.S. Senate, Committee on the Judiciary, Ten Facts on Women wtd Violence, Sedute su: le donne e la violenza, 29 agosto e 11 dicembre 1990, p. 78. 40 Stark E., FUntcraft A., Wo^mwt Battering, Child Abuse and ^xial Heredity: What is the Relationship?, in «Maritai Violence, Sociological

137

Review Monograph», n. 31. Johnson N. (a cura di). London, Rutledge and Kegan Paul, 1985. 46- La gravid^anza nonfenna la violenza sulle donne, «la Repubblica». 9 aprile 2000. 47 Stark E., Flintcraft A., Wo^man Battering, Child Abuse Heredity: ^What is the Relationship?, cit. 48' Stark E., Flintcraft A., Wo^man Battering, Child Abuse ^and ^xial Heredity: is the Relationship?, clt. 49- Councll on Ethlcs and Judicial Affairs, Ethical Consideratlons, 3191. “■ Ibidem 5k Davis R.L., op. cit., p. 51, citando Pleck E., «Criminal Approaches to family Violence». in Ohlin L., Tonry M. (a cura di), Family Violence, vol. 2 - Crime and Justice 1640-1980, Chicago, University of Chica­ go Press, 1987. 52- Gifford J .J., Wife Battering: A Preliminary Survey of One Hundred Cases, «British Medicai Journal». l. 1975, pp. 194-197. so Klaus P., Rand M., Special Report: F^amily Violence, Was^ngton, DC, Bureau ofJustice, 1992. 54- Rapporto di indagine della NCADV. so- Bastianon V., De Benedettl-Gadini R., «Abuso e incuria verso l’infan­ zia». in F. Fercacuti (a cura di). Trattato di ^^mnologia. ^medi^icina logica e psic^^theforense, vol. 6, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 165-188. so Hotaling G.T., Straus M.A., Lincoln A., «Intrafamily Violence and Crime and Violence Outside the Family», in Ohlin L., Tonry M. (a cura di), F^nily Violence, Chicago, University of Chicago Press, 1989, pp. 315-376.

57- Walker L., Terrifying Love: Why Battered Women Kil and How So­ ciety Responds. cit. so Gelles R.J., Violence Toward Children in the United States, «Arnerican Journai of Orthopsychiatry». 48, 1978, pp. 580-592. 59- Rapporto di indagine della NCADV. so- Ibidem Ibidem

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138

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81 82 83 84-

Ibidem. Ibidem

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141

3- Wilson rtferisce che alcune popolazioni primitive praticherebbero l’in­ fanticidio, come gli indiani caribù della Baia di Hudson, che uccidono i loro bambini dopo che l’^aziano ha commesso suicidio quando una penuria di carne di renne minaccia la carestia. Inoltre, un tempo. tra gli aborigeni australiani «l’infanticidio era la pratica più diffusa per il controllo delle nascite [ ...1 venivano uccisi tra il 15 e il 50% dei neona­ ti; spettava alla madre prendere la decisione e portare a termine il lavo­ ro [di ucciderei il bambino un'ora circa dopo il parto» per annegamen­ to. Sembra che anche gli eschimesi in passato avessero accettato la pratica dell’infanticidio. 4 ■ Cit. in DeMause L.. op. cit., p. 26. 51 Ibidem, p. 28. 6- Ibidem. 7- Rouselle A., «Body politlcs in ancient Rome», in P.S. Pantel (a cura di). A History of Women: Ancient ^Goddesscs to C^hristian Saints, Con­ bridge, ^A, London, The Belknap Press of Harvard University Press, 1992, p. 307. 8- DeMause, op. cit. 9- Ibidem, p. 29. ,0- Kaplan H.l., Sadock B.J., Grebb J.A., Synopsis ofPsychiatry, 7" ed., Baltimore, Williams and Wilkins, 1994, p. 3O0. " Watson L., ^ark Nature, New York, Harper Collins, 1995, p. 295. 12 Ibidem, p. 221. 13 Resnick P.J., Child Murder by Parents: A Psychiatric Review of Filicide, «American Journal of Psychiatry», 126(3), 1969, pp. 73-82. 14 Resnick ( 1969) ha analizzato i primi studi sul figlicidio materno condotti da Baker, Morton, Batt, Gibson e Kline. '5- Resnick P.J., op. cit., p. 327. I6- D’Orban P.T., Women KiU Their Children, «British Journal of Psychiatry», 134, 1979, pp. 560-571. 17 Ibidem, p. 563. i" Scott P.D., Parents Kill ^Their Children, «Medicine, Science and Law», 13, 1973, pp. 120-126. 19 Weisheit R.A., When Mothers Kill ^Their Children, «The Social Scien­ ce Journal», 23(4), 1986, pp. 439-448. 2o- Kunz J., Bahr S.J., A Profile ofParental Homicide Against Children, «Journal of Family Violence», l 1(4), 1996, p. 355. 21 Abel E.L., homicide in Erie County. New York, «Pediatrics», 77(5). 1986, pp. 709-713.

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