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Italian Pages 224 Year 2019
Quodlibet Studio Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio
Abbecedario del reale A cura di Felice Cimatti e Alex Pagliardini
Quodlibet
Prima edizione: febbraio 2019 © 2019 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) ISBN 978-88-229-0217-7 | e-ISBN 978-88-229-1002-8 Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio Comitato scientifico: Felice Cimatti, Manuela Fraire, Francesco Napolitano, Stefano Velotti
Indice
7 Premessa Felice Cimatti, Alex Pagliardini
Abbecedario 11
Azione
Carla Subrizi
21
Buco
Antonella Anedda
25
Carne
Philippe Nouzille
35
Denaro
Federico Chicchi
45
Esitazione
Riccardo Panattoni
57
Femminilità
Manuela Fraire
63
Guasto
Cesare Pietroiusti
71
Holy Motors
Rocco Ronchi
del reale
6
77
indice
Idiota
Felice Cimatti
87
Liliana
Franco Lolli
95
Materia
Roberto De Gaetano
105
No
Paolo Carignani
117
Ogni
Federico Leoni
127
Passi
Daniela Angelucci
137
Qui
Edoardo Albinati
141
Resto
Gianfranco Baruchello
155
Solo
Alex Pagliardini
169
Tutto
Stefania Napolitano
181
Uccidere
Silvia Lippi
189
Voglio
Alessandra Campo
201
Zero
Fabrizio Palombi
211
Notizie sugli autori
Premessa
Un abbecedario è uno strumento semplice, concepito e utilizzato per occuparsi di qualcosa di semplice. Un abbecedario del reale è dunque uno strumento semplice per trattare qualcosa di altrettanto semplice, il reale. Il reale è semplice, ed è proprio a causa di questa sua intrinseca semplicità che è così difficile – si è soliti dire impossibile – definirlo, trattarlo, intenderlo, nominarlo, viverlo, frequentarlo. Un abbecedario del reale è dunque un modo, un tentativo di utilizzare la semplicità dell’abbecedario per intercettare l’estrema semplicità del reale. Ma un abbecedario del reale non è solo questo, o meglio, per essere questo deve diventare anche qualcosa di altro. In effetti l’abbecedario non è solo uno strumento semplice ma è anche uno strumento intrinsecamente legato all’alfabeto, alfabeto che sta al fondo di quel linguaggio in cui significante e significato sono disgiunti, di quel linguaggio insomma che rende conto dell’inconscio e all’interno del quale il reale non è per niente semplice, ma impossibile, eccedente, residuale, strabordante. Allora per fare diventare l’abbecedario uno strumento per trattare la semplicità del reale occorre fare un altro uso di questo strumento e dunque del linguaggio a cui è legato, cioè un uso capace di separarlo dal legame con l’alfabeto e dal legame con il significante/significato. Di che uso si tratta? E perché per intercettare la semplicità del reale si decide di usare uno strumento che è intrinsecamente legato a quel che rende inaccessibile tale semplicità? Perché non sbarazzarsi di questo strumento e/o non usarne un altro più idoneo alla semplicità del reale, cioè meno viziato dai suoi legami con il linguaggio alfabetico? Perché la semplicità del reale pur essendo di tutt’altra “natura” dal linguaggio, pur non avendo niente a che fare con il linguaggio, non è che in questo e non è che in questo come ciò che è fuori da questo, come rovescio del linguaggio.
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premessa
Dunque va da sé che per intercettare la semplicità del reale non si possa non passare e maneggiare il linguaggio, facendone però, come detto, un altro uso, un uso che lo stacchi dalla sua sottomissione al significante/significato. Riprendiamo così la prima domanda. Di che uso si tratta? Si tratta di un uso capace di fare delle singole lettere – dell’abbecedario e più in generale dell’ordine significante – delle vere e proprie lettere, cioè dei marchi del reale, delle cose – cioè delle risonanze del reale – delle pieghe del reale – cioè delle inflessioni del reale – e dei corpi – cioè delle insistenze del reale. Si tratta in sostanza di rovesciare il linguaggio, rimanendo però al suo interno. Non si tratta solo di usare il linguaggio diversamente per intercettare la semplicità del reale. Si tratta più propriamente di usare il linguaggio per separarsi da uno dei sui versanti, il significato, e precipitare nell’altro, il versante del reale. Perché le lettera è il reale del linguaggio. È l’unico reale che l’animale che parla può toccare. Tutto ciò per una ragione piuttosto semplice (non si parla d’altro in questo libro, della semplicità del semplice): perché il reale è fuori dal linguaggio ma non è che nel linguaggio, dunque non solo per intercettarlo occorre passare per il linguaggio, fare un altro uso del linguaggio, ma non si può intercettarlo che nel diventare reale del linguaggio. Ovviamente questo testo, questo Abbecedario del reale, fallisce, non riesce a compiere un’operazione sull’abbecedario e dunque sul linguaggio capace di realizzare il movimento appena descritto. Nel fallire, però indica e afferma con convinzione una direzione: per intercettare la semplicità del reale non c’è altro modo che quello di fare diventare il linguaggio reale. Felice Cimatti, Alex Pagliardini
Abbecedario del reale
Azione Carla Subrizi
È nella seconda metà del XX secolo che il termine azione si intreccia a quello di arte in modo specifico e particolare. Azione, gesto, performance o, soprattutto, performativo sono parole e concetti che indicano complessi territori di sperimentazione linguistica e pratica artistica. Un primo aspetto che li connette è, tuttavia, proprio il carattere dinamico di fatti, idee e identità in costruzione che questi termini circoscrivono anche nell’arte. La relazione tra azione, performance e performatività è quindi particolarmente interessante per addentrarsi in come e perché l’arte abbia scelto di mettere in atto idee, estetiche e, soprattutto, comportamenti. Dall’invenzione del quadro nella pittura europea tra XV e XVI secolo1, alle performance o azioni che, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, hanno impresso un radicale capovolgimento dei paradigmi percettivi e conoscitivi, identitari e affettivi, una intera fenomenologia del fare artistico e, con esso, del rapporto tra artista (o autore), opera e pubblico si delinea incessantemente attraverso svolte e rotture, trasformazioni e paradossi. È un diverso paradigma del conoscere e del sentire, tra etica, estetica e pensiero creativo, che si enuncia, in un contesto storico e filosofico attraversato da mutamenti profondi, al di là della Seconda guerra mondiale, ma soprattutto all’avvio di una fase di nuova incertezza esistenziale, dominata dal percepire che i riferimenti stavano andando in frantumi e che ciò che si erano creduti un progresso quasi scontato e un evolvere dell’umanità erano stroncati dal dolore e dalla perdita. 1 Victor I. Stoichita, L’Instauration du tableau: métapeinture à l’aube des temps modernes, Méridiens Klincksieck, Paris 1993; tr. it. L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Il Saggiatore, Milano 2013.
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Antonin Artaud è la figura esemplare di tale condizione e, proprio lui, ha decostruito le concezioni di autore e di teatro tradizionale, attraversando il testo, non più scritto e recitato ma agito con il corpo e gli affetti. Un punto di partenza per una qualsiasi riflessione sull’agire nell’arte o dell’arte non può quindi dimenticare il caso Artaud. Tra il 1944 e il 1946 Artaud realizza brevi testi per immagine che chiama «disegni scritti». Troviamo i punti di confine di una sensibilità in esilio dalle questioni in cui si divaricava la storia europea dopo il 1945, nella non inventata ma direi sentita specificità di un testo/vita, tra la dimensione intertestuale che connetteva la parola e l’immagine, la voce e il segno, la letteratura e il disegno, l’intimità e la distanza, il dentro e il fuori, il vedere o l’intra-vedere, termine quest’ultimo che sembra più pertinente per avvicinare il modo con il quale Artaud trattava il foglio non per scrivere, ma per sondare territori irrappresentabili della parola e del segno, a partire dal corpo. Verso la metà del secolo scorso, realizzare fisicamente dinanzi al pubblico ma anche lontano da esso un’azione, ha trasformato radicalmente le idee di spazio, tempo, forma e, anche, bellezza. Molte performance potevano infatti offendere, determinare choc e fastidio e essere quindi «belle» soltanto per il fatto che colpivano la percezione (anziché assecondarla) e producevano una forte sensazione, anche se talvolta di disgusto. Carolee Schneemann si rotolava tra animali morti (Meat Joy, 1964); Gina Pane si feriva in pubblico (dai primissimi anni Settanta); Vito Acconci seguiva dei passanti (Following Pieces, 1969); Joan Jonas indagava e trasformava gli orizzonti visivi nell’azione (Mirror Check, 1979). Un aspetto ulteriore da ricordare è il mutamento, con la performance, della temporalità. La performance avviene in uno spazio e in un tempo reali, così come anche il corpo, reale, agisce in modo reale. Il tempo è quello della durata, talvolta non determinata e fatta di pause e tempi non previsti. Attraverso il modo in cui la performance si articola, oscillando tra la realtà in cui si svolge e l’aspetto irreale del suo racconto, sia la dimensione spaziale che quella temporale mutano, producendo elementi percettivi e sensazioni fino ad allora inediti. Negli anni a partire dalle prime avanguardie e poi nel corso del XX secolo, la performance è cambiata e ha affrontato aspetti diversi. Non soltanto l’arte ha, attraverso queste azioni, sperimentato e esteso gli orizzonti linguistici e estetici del suo fare. La performance
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stessa è divenuta una delle ricerche più sperimentali del Novecento. Mai nella storia dell’arte, l’azione era divenuta, al di là di quanto il teatro aveva sperimentato, un modo per riflettere sul corpo e i comportamenti, sulle norme e i codici culturali e politici che erano stati alla base di concezioni, filosofia e sensibilità. Per parlare di «azione», intendendo dunque con questo termine,uno spostamento dinamico verso il fare e non la rappresentazione artistica di oggetti o anche di fatti, la riflessione, tuttavia, si imbatte immediatamente in un duplice versante semantico, tra paralleli ma non contigui sistemi di azione nell’arte: la perfomance da una parte e la performatività dall’altra. Sebbene questi termini possano indicare diverse accezioni dell’agire o fare nell’arte e presentino anche aspetti che li connettono, performance e performativo costituiscono due possibili orizzonti di significato dello stesso termine «azione». Non si tratta di un passaggio storico (molte tracce potrebbero infatti essere rintracciate in un passato più o meno lontano), ma di un’inversione concettuale che ha attraversato la riflessione critica: dalla performance come una tecnica o una pratica dell’arte al performativo come azione dell’opera, ovvero, a come l’opera agisce. Con performance si definisce un genere artistico che prevede il coinvolgimento diretto dinanzi a un pubblico di un «performer» che esegue azioni. Performativo, anche seguendo un lungo percorso di ricerca che da John L. Austin arriva, sebbene con molte differenze, a Judith Butler, si riferisce invece a un agire che trasforma, che costruisce nel suo stesso compiersi e divenire. Mentre possiamo parlare di una performance di Gina Pane, e potremmo, tuttavia, anche riflettere sull’aspetto performativo delle sue azioni, attraverso il termine performatività pensiamo invece a un’azione di Suzanne Lacy, Whisper, the Waves, the Wind (1984), ad esempio, durante la quale intorno a tavoli rotondi, installati in riva all’Oceano Pacifico, a La Jolla, gruppi di donne anziane (circa 150), vestite di bianco, parlano di se stesse, cercando soprattutto di capire se stesse, a partire dalla loro età avanzata, attraverso questo evento/azione voluto da Suzanne Lacy. Il dialogo e lo scambio come pratiche, rafforzano ogni donna partecipante all’azione, creano sintonie e fanno capire le diversità: diventano un vero e proprio esercizio collettivo di identità. In questo senso la performatività dell’opera è il mettere in azione l’identità e l’esperienza per, probabilmente, alla fine generare qualcosa di ancora inedito o, in ogni caso, una maggiore
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consapevolezza di una condizione altrimenti accettata in quanto tale. L’opera agisce trasformando la vita stessa. Il carattere performativo dell’opera d’arte è nel suo divenire, nella sua processualità a più direzioni, nella dimensione enunciativa a più livelli dove l’opera è sia luogo di convergenza sia zona di attraversamento («in between»), spazio di interazione di molti aspetti, anche esterni all’opera, con i quali entra in relazione. Tale dimensione performativa non è tuttavia esclusiva della performance. Può infatti essere individuata una performatività dell’opera (anche quadro o scultura o fotografia) e, anche, una performatività dello sguardo, ovvero come si costruisce e decostruisce la visione con l’attivazione (attraverso l’opera) di modi di vedere e entrare in relazione con l’opera d’arte. Ci sono alcune tappe importanti nella storia di tale indagine sul carattere performativo del linguaggio. Nell’importante saggio di John L. Austin How To Do Things with Words2, l’autore ha sottolineato che attraverso il linguaggio non descriviamo il mondo, un oggetto o un concetto ma «agiamo»; da cui la sua introduzione del termine «enunciato performativo» (diverso dall’enunciato constativo). Il dire è fare o agire. Una responsabilità del dire è qui sottintesa nel senso che quando parliamo «facciamo» qualcosa, concretamente. Il termine «performativo», specifica Austin, è usato nel suo saggio nel senso di «frase performativa» o «espressione performativa»: «The name [performative] is derived, of course, from “perform” the usual verb with the noun “action”: it indicates that the issuing of the utterance is the performing of an action»3. Tale prospettiva linguistica sottolinea l’aspetto performativo dell’azione. In un altro testo fondamentale, La soggettività nel linguaggio4, per la prima volta pubblicato nel 1958 e poi ripubblicato nei Problemi di linguistica generale, Émile Benveniste considera che il linguaggio non è uno strumento dell’individuo umano ma una potenzialità della soggettività umana, attraverso la quale si costruisce come soggetto. 2 John L. Austin, How To Do Things with Words. The William James Lectures Delivered at Harvard University in 1955, Oxford University Press, Oxford 1962; tr. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Roma 1987. 3 Ivi, p. 6. 4 Émile Benveniste, De la subjectivité dans le langage, «Journal de Psychologie», 55, juillet-septembre 1958; poi in Id., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; tr. it. Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 310-320.
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Judith Butler, nel 1997, pubblica A Politics of the Performative5, dove è tra linguaggio, soggettività e agire umano che si cercano altre strade per rileggere la dimensione performativa, anche nell’arte. Judith Butler parla della performatività del genere, in una prospettiva linguistica e teorica che considera il linguaggio come un’azione, fisica e concreta, attraverso la quale si costruisce la soggettività6. Per Butler, citando Mari Matsuda, «le parole non solo riflettono una relazione di dominazione sociale; le parole mettono in atto la dominazione divenendo il veicolo attraverso cui quella struttura sociale è ripristinata»7. Tra il riflettere e il mettere in atto c’è la stessa distanza che esiste, nell’arte, tra la rappresentazione e il performare o il mettere in azione un comportamento e un’esperienza. Butler, riconnettendo tra loro le riflessioni di Michel Foucault, Jacques Lacan e Julia Kristeva, tra politica, filosofia e psicoanalisi, ha realizzato un fondamentale approfondimento teorico sull’azione e la performatività, riconducendo il punto di vista su di essi nella relazione tra genere, linguaggio e potere. L’azione (nel senso del termine inglese «agency») è intesa come il punto di partenza, e non di arrivo, di una produzione di effetti da parte dell’opera. Da una parte dunque l’azione, dall’altra l’agire, da una parte un evento o una performance, dall’altra una performatività che può ridefinire campi semantici ampi: da una parte ad esempio, l’arte ha usato l’azione come un linguaggio, dall’altra ha agito concetti o campi immateriali come la memoria e gli affetti. Agire, così, assume il significato di una performatività che si inscrive all’interno di un concetto, come ad esempio è possibile parlare di performatività del pensiero, della memoria, del sentire, dell’identità stessa, oltreché dell’opera d’arte. Il carattere stesso di evento entra in gioco in questa riflessione sull’azione. Jean-François Lyotard, in Anamnèse du visible, afferma che l’arte, nell’epoca postmoderna, è un «evento» e non può che diventare una «lotta», come nel parto di un bambino, «nel senso forte, quello dell’ostetricia o della psicoanalisi», «pour donner trace 5 Judith Butler, Excitable Speech. A Politics of the Performative, Routledge, London-New York 1997; tr. it. Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffaello Cortina, Milano 2010. 6 Judith Butler, Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, «Theatre Journal», 40, 4, December 1988, pp. 519-531. 7 J. Butler, Parole che provocano, cit., pp. 26-27.
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ou pour faire signe, dans le visible, d’un geste visuel qui excède le visible»8. Tale gesto, dice ancora Lyotard, non è quello di un «soggetto cosciente»: quando l’artista compie un gesto o traccia il segno, si dispone all’apertura e all’evento, senza che possa controllare in cosa consisteranno. Griselda Pollock chiama questa fase, che viene dopo, «after-images». Interrogare l’immagine a partire da ciò che manca, agire l’immagine per attivare sguardi che vedano altro, agire la parola per sondare l’indicibile: queste sono state le questioni che l’arte e la poesia, insieme alla filosofia, si sono poste per riflettere sull’opera come evento, al di là della rappresentazione a partire da un coinvolgimento forte della soggettività, del corpo e degli affetti. Altro aspetto che quindi emerge in questa riflessione (seppur già più volte menzionato) è il corpo: come l’arte ha prima rappresentato, poi coinvolto e poi agito il corpo. Proprio a partire dalle vicende che hanno segnato un secolo di sperimentazione artistica, e maggiormente, ripeto, la seconda metà del Novecento, fino alle più recenti ricerche, il termine corpo presenta alcuni aspetti problematici. Dicendo problematico voglio sottolineare il fatto che anche un termine (e un concetto) come quello di «corpo» non può più essere considerato al di fuori dei sistemi e delle differenze culturali. C’è stato il corpo nell’arte del passato e dunque il corpo dipinto, scolpito, c’è stato il corpo esposto, il corpo assente, il corpo virtuale, il corpo tecnologico e cyber, ci sono state le infinite protesi che hanno accresciuto il corpo. Il corpo nell’arte è il sintomo di un modo di intendere il rapporto tra linguaggio e forme della rappresentazione. Agire il corpo ha introdotto pertanto differenti questioni e parlare di corpo apre infinite accezioni e significati oltreché risollecita l’interrogazione dei paradigmi estetici e culturali che sono stati alla base delle rappresentazioni del corpo. Quindi parlare di corpo nell’arte, a partire dagli anni Sessanta, implica la considerazione di come il corpo, soprattutto come comportamento, affetti, pulsioni, sia stato al centro di pratiche artistiche 8 Jean-François Lyotard, Anamnèse du visible, in Herman Parret (a cura di), Jean-François Lyotard. Textes dispersés, II artistes contemporains, Leuven University Press, Leuven 2012, p. 562 (tr. mia). Il testo – pubblicato per la prima volta nel 1997 nel catalogo della mostra di Bracha Lichtenberg-Ettinger, in Marketta Seppälä (a cura di), Doctor and Patient. Memory and Amnesia, Pori Art Museum, Ylöjärvi 1997 – è apparso poi in una versione leggermente modificata nel libro postumo: Jean-François Lyotard, Misère de la philosophie, Galilée, Paris 2000.
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per indagare i comportamenti stessi e concepire, attraverso la performance, modi di fare o agire non soltanto reali, ma critici e talvolta oltre le configurazioni della realtà stessa. Non è soltanto di performance che si parla dunque ma di azioni, in un ampio spettro di ipotesi, e di pratiche artistiche (anche cinema e fotografia) che hanno messo (e rimesso) in atto il corpo o il linguaggio della memoria e degli affetti più intimi. Gli stessi artisti hanno dato contributi importanti per la definizione di questi campi molto estesi. Gina Pane osservava che la parola «performance» ha un’origine latina: è composta dal verbo «formāre» e dalla preposizione «per» con un significato di «dare forma attraverso» che sottrae al termine il significato di «rappresentare» o «rappresentazione». Osserva anche che «l’azione-performance pratica la devianza, il gesto limite critico e poetico» e che «non opera mai per mimesi del quotidiano o altro ma attraverso la metafora»9. Quindi «performing» (agendo) è già un’indicazione di mettere in atto e cogliere l’atto mentre questo è realizzato, su un piano non del reale ma dell’immaginario. La storica dell’arte americana Amelia Jones, nel suo Performing the Body/Perfoming the Text, afferma che il libro «esplora le nuove forme della performatività nella teoria e nella pratica artistica, esaminando i possibili modi di ripensare i processi di interpretazione nella cultura visuale»10. La dimensione performativa si estende in questo libro alla possibilità di costituire un «modello» per la lettura e l’interpretazione del testo/opera d’arte. Non soltanto quindi come interpretare l’opera d’arte, ovvero con quali strumenti avvicinarsi ad essa, ma come l’opera d’arte può attivare sistemi di lettura o sistemi visivi inediti. C’è quindi un aspetto che interviene a connotare i termini azione o performatività, sul quale vorrei ancora, seppur brevemente, soffermarmi: si tratta del rapporto tra l’azione dell’arte e il complesso territorio dell’intimità. Non è possibile tracciare il momento preciso di avvio di una riflessione che si è concentrata sul rapporto tra azione, performatività, intimità e memoria e scelgo dunque quale riferimento la pubblicazione 9 Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), École Nationale Supérieure des Beaux Arts, Paris 2003, pp. 96-103 (tr. mia). 10 Amelia Jones, Andrew Stephenson (a cura di), Performing the Body/Performing the Text, Routledge, London-New York 1999, p. 1.
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di un libro: La révolte intime di Julia Kristeva, apparso nel 199711. In questo libro la «rivolta» che entra in urto con ricordi, affetti, memorie individuali, è trattata come produttrice di un «godimento» (la «jouissance» di Jacques Lacan) da intendere non come un piacere narcisistico, ma come azione indispensabile che mantiene la psiche in vita12. Questo mi sembra un punto importante che permette di pensare all’arte stessa come lo strumento in grado di compiere questa rivolta, quando l’opera arriva, con la sua azione, a scuotere sensibilità e affetti, restituendoli a una percezione attuale. Il discorso si fa così più intrecciato in quanto non si tratta soltanto di ripensare la storia di un genere artistico (della performance ad esempio o dell’azione nell’arte, sulle quali il dibattito e gli studi recenti sono molto vivi13), della sua nascita o delle sue trasformazioni, ma di una fase complessa della storia delle ricerche artistiche in relazione alla storia della critica o dell’approccio estetico più recenti all’opera d’arte. Le relazioni tra azione e memoria, tra azione e immaterialità delle emozioni, tra azione e processi cognitivi o tra azione e trauma, aprono così a ulteriori interrogativi e a territori di indagine in cui l’arte dialoga con la psicoanalisi, con la semiotica, l’estetica e la filosofia14. 11 Julia Kristeva, La révolte intime. Pouvoirs et limites de la psychanalyse II, Fayard, Paris 1997. 12 Ivi, p. 15. 13 Si vedano tra i molti titoli, i recenti: Peggy Phelan, Unmarked: The Politics of Performance, Routledge, London-New York 1993, che ripensa quella che chiama la politica della visione attraverso una prospettiva psicoanalitica; Ead., Jill Lane (a cura di), The Ends of Performance, New York University Press, New York 1998; Erin Striff, Performance Studies, Palgrave Macmillan, New York 2003, che costituisce una ampia introduzione storica alle prospettive teoriche sulla performance considerando il femminismo e le teorie queer, il poststrutturalismo e il postcolonialismo; Erika Fischer-Lichte, The Transformative Power of Performance: A New Aesthetics, Routledge, London-New York 2008; Janig Bégoc, Nathalie Boulouch, Elvan Zabunyan (a cura di), La performance. Entre archives et pratiques contemporaines, Press Universitaires de Rennes, Rennes 2010; Carla Subrizi, Punti di incontro tra scrittura, performatività e femminismo in Italia: Niccolai, Vicinelli, Bentivoglio, Santoro e Lonzi, in Maite Mendez Baiges (a cura di), Arte Escrita. Texto, imagen y género en el arte contemporáneo, Comares, Granada 2017, pp. 61-83. Si rimanda anche al recente: Shannon Jackson, Social Works: Performing Art, Supporting Publics, Routledge, London-New York 2011, che considera la pratica della performance in rapporto ad un’azione diretta al sociale. 14 Non cito in questo contesto testi di psicoanalisti sull’arte ma testi di storici dell’arte che hanno usato la psicoanalisi come strumento critico per la lettura dell’opera d’arte e dello stesso atto artistico: Griselda Pollock (a cura di), Generations and Geographies in the Visual Arts: Feminist Readings, Routledge, London-New York 1996; Jill Bennett, Emphatic Vision.
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Se si considera dunque, come l’opera agisce, si rimettono in gioco molti paradigmi estetici riguardo al tempo, alla percezione, all’efficacia dell’opera d’arte. L’arte, performativamente, può scavare, sollecitare, rimettere in atto temporalità, condizioni traumatiche, passioni e «godimento». La potenzialità affettiva dell’opera, più che il suo significato, si configura come dinamica e processuale. Jill Bennet ha parlato di una «lunga genealogia dell’arte legata all’affettività»15. Griselda Pollock si è soffermata recentemente sulla possibilità di pensare attraverso o con l’opera d’arte, attivando un processo di trasformazione estetica che interviene fin nelle condizioni più intime e dimenticate della soggettività, per riattivarle16. L’opera in questo senso, sottolinea il suo potere di agire non uniformandosi alle azioni che chiunque, in qualsiasi istante della sua vita, conduce, per abitudine o per altri motivi. L’azione dell’opera diventa un atto consapevole che trasforma prima di tutto il rapporto dell’artista con il suo fare e, in seguito, riapre quel rapporto alla molteplicità delle varianti e dei significanti. L’opera come evento, nel senso dato a questo termine, come si è già ricordato sopra, da Lyotard, nasce dunque da una lotta tra io e non io, tra artista e mondo, tra artista e il suo doppio, e produce a sua volta una lotta non nel senso di un conflitto ma di un lavoro arduo e coinvolgente per aprire gli immaginari e tracciare itinerari inesplorati.
Affect, Trauma and Contemporary Art, Standford University Press, Standford 2005; Ernst van Alphen, Art in Mind: How Contemporary Images Shape Thought, University of Chicago Press, Chicago 2005; Griselda Pollock, After-Affects, After-Images: Trauma and Aesthetic Transformation in the Virtual Feminist Museum, Manchester University Press, Manchester-New York 2013. Si veda anche: Carla Subrizi, Azioni che cambiano il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo, postmedia books, Milano 2012. 15 J. Bennet, Emphatic Vision, cit., p. 12. 16 G. Pollock, After-Affects, After-Images, cit., p. XXII.
Buco Antonella Anedda
Autopsia è un termine usato come testimonianza oculare di date o episodi da parte degli storici per rendere il loro parere più autorevole L’autopsia è l’odore del nulla. Anne Carson, Nox
Un buco è un ventre più profondo, un buco è una parte di vascello, Buco è il nome di molti ristoranti ed è una pasta cava dove far entrare il sugo. Il buco scava lo stomaco per fame, dolore, paura. È il grande condottiero dell’assenza. Un buco è nero e non rosso, buio e non luminoso, inghiotte senza restituire, la bocca dei vulcani è un buco pieno di lava, la lava scava un buco nel terreno bucandolo di fuoco. Il buco piega come suggerisce il verbo tedesco Bogen e piegando e incurvando attira nel suo nulla. Il buco non è il cratere in cui si mescola. Il buco, come succede in fisica nei buchi neri, rallenta il tempo e non fa uscire la luce. Ci guarisce da ogni illusione di Creazione, da ogni desiderio di vita. Signori, mi avete commissionato la parola «buco» il giorno in cui mia madre è morta. La notte ho dormito nel divano accanto al letto. Ho ascoltato il suo respiro diventare sempre più fioco. Alle quattro e mezza il respiro è diventato silenzio. Ho ascoltato quel silenzio con l’attenzione dovuta a ogni evento inedito. Continuo ad ascoltarlo. Se somiglia a qualcosa si trova in un bosco sotto l’eclisse quando tutti gli uccelli ammutoliscono. Sono rimasta con il silenzio e il silenzio è diventato il buco. Anzi il silenzio è stato il viatico per andare laggiù. Signore e signori, anche io conosco l’odore del nulla proprio come il cane che annusa il feretro del fratello in un libro di
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Anne Carson. Anche io so deporre lo sguardo. Sono entrata nel buco con il corpo di mia madre che ho composto consultando il sito francese: xxxx. Uno degli insegnamenti riguardava un buco: la gola. Per ricomporre i tratti del viso bisogna inserire del cotone idrofilo (molto cotone idrofilo) dalla bocca all’esofago. Mia madre è morta di cancro. Le metastasi ostruivano il condotto dell’esofago. Dopo la gola ho inserito il cotone negli altri orifizi. Nel giro di poco tempo tutto il corpo era sigillato. Il sito aveva dato indicazioni esatte. Il cotone ha riempito il vuoto delle guance, ha modellato il mento e la bocca. Riempire ha restituito un simulacro di bellezza, un viso pieno e non un teschio in cui entrano le correnti e gli spifferi. Da quel momento in poi il buco è stata la bara e poi il loculo nella cappella di casa. Un buco dentro l’altro (come le scatole di Prevert) fino al muro chiuso dal muratore. Per quanto mi riguarda il buco (allo stomaco come si suol dire) non mi ha più – o non ancora – lasciato. Ogni mattina scendo nella sua cavità proprio come nell’estate del 19xx scendevamo in un pozzo, con mio fratello. Mettevamo i piedi nei pioli di ferro fino a sfiorare l’acqua nera, voltandoci verso il gorgoglio e facendoci lambire i talloni dal fango. Nel freddo di quel cilindro buio la voce diventava profonda e la paura aveva un peso. È facile scivolare, basta che un’erba sul ferro sia troppo umida. Mio fratello risaliva in fretta, io parlavo a me stessa, severamente dicendo: vai, o lasciati cadere nell’acqua putrida. Andavo. Quando sentivo sotto la pancia il bordo della pietra e capivo di essere ancora una volta salva, strisciavo sul prato e respiravo l’aria calda del sole. Da questi ricordi si può dedurre la mia predilezione per i buchi reali e non metaforici e mentre scrivo rifletto che il buco si può declinare al femminile e diventa la buca. La buca è quella che scavano gli animali infilando le zampe nelle zolle umide. So come si pianta: si scava prima con le mani e le dita, poi si fanno scendere le radici (in profondità). Si ricopre di terra concimata anche con i vuoti del caffè o con la buccia delle patate o con gli escrementi del cane o gatto. Per i limoni sono buone le bucce dei lupini. Di nuovo con le mani si sistema la terra. La buca ha un odore che il buco non ha, per questo quando si riempie il suo nulla si dissolve. La buca è una tana, il buco no.
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La mattina presto sogno di scendere nuda in quella che si definisce nuda terra. Le ossa cadono e si sbriciolano. Nell’orto della casa nel paese dove è seppellita mia madre giacciono i resti del nostro porcellino d’india. Io e mio fratello lo seppellimmo, con grande pompa, avvolgendolo in un sudario di carta argentata, quella da forno da cui provammo anche a ricavare delle corone da mettere in testa per la funzione. Il porcellino era stato assassinato dalle nostre cure con un bagno troppo caldo. Pensavamo al suo corpo dissolto, la carta smembrata, il lavoro degli insetti. Quasi tutti facendoci le condoglianze parlano di «vuoto», ma invece noi non sentiamo la perdita, non rivogliamo indietro il corpo, non vogliamo riempire di nuovo quel vuoto. Siamo semplicemente in uno spazio il cui termine esatto è «buco». Aspettatemi. Vorrei uscire dalla mia sofferenza individuale e meditare sul grande buco nero, sul suo silenzio che forse Leopardi e il suo enorme Gallo avevano intuito. Nel buco nero la massa è così densa che la luce come ho detto non esce (infatti), il buco nero è in realtà una stella nera. Stella-nera concentrata come la terra-nera dei Quaderni di Osip Mandel’štam che amava i luoghi di frontiera perché esperto di buchi, che amava l’orizzonte perché aveva provato a buttarsi nel buco sotto la sua finestra dell’ospedale di Čerdyn’. Signore e Signori, vorrei andare avanti scrivendo ma devo misurarmi con un alcuni buchi domestici, la lavatrice, gli armadi svuotati, il water, la lavastoviglie. Tutta la casa è riempita da un concerto di macchine ronzanti che rallenta la concentrazione. Inoltre, di colpo piove, il tetto ha un buco, nulla di grave, ma ci vuole un catino e in effetti l’acqua scende dalle nuvole “a catinelle” avrebbe detto mia madre. Mi fermo a guardare la città bagnata dal vano della finestra, mi siedo perché ci vorrà un po’ prima che la pioggia riempia questa grande conca di plastica chiara. E poiché ci vorrà tempo ascolto lo scroscio del temporale e conto i tuoni e i lampi. Da sempre uso la matematica per distrarmi, da sempre sono grata delle tregue fatte di osservazione. Il buco è lo spazio dove sto infilando brandelli di alfabeto.
Carne Philippe Nouzille
Una filosofia della carne è condizione senza la quale la psicoanalisi rimane antropologia1.
C come corpo o come carne? Cosa fare con il corpo? La questione è sempre la stessa, come dopo ogni omicidio. La filosofia sembrava aver ritrovato il corpo così a lungo dimenticato. Di più, aveva finalmente scoperto come ciascuna delle proprie costruzioni poggiava su delle condizioni fisiologiche, come scrive Nietzsche all’inizio della Gaia Scienza: «È legittimo ravvisare in tutte quelle ardite stravaganze della metafisica, specialmente nelle sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, in primo luogo e sempre i sintomi di determinati corpi»2. Di questo recupero promettente, tuttavia, cosa rimane? Un corpo quasi subito ridotto, ricondotto alla pura condizione di cosa tra le cose. Il vocabolario è ingannevole: esattamente là dove si riconosce un posto unico e fondamentale al corpo, è appunto per negarlo di nuovo. Quando Merleau-Ponty scrive che «il corpo non [è] un fatto empirico […] [ha] significato ontologico»3, non parla già più del corpo. Come nemmeno non ne parla più Michel Henry quando dice che «il nostro corpo non è primitivamente né un corpo biologico, né un corpo vivente, né un corpo umano, appartiene a una regione ontologica radicalmente diversa che è quella della soggettività asso-
1 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, ed. it. a cura di M. Carbone, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1999, p. 278. 2 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Prefazione alla II ed., tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, p. 16. 3 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 267.
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luta», prima di qualificarlo come «corpo trascendentale»4. Sia proprio, nel vocabolario merleau-pontyano, o trascendentale, in quello henryano, il corpo non è più la res extensa cartesiana che rimane ciò con il quale non sappiamo cosa fare. All’opposto del corpo fisico, come afferma ancora Henry, abbiamo da fare con «un corpo che è un Io»5. Il risultato, però, di questo processo di soggettivazione del corpo, non è che smettiamo di considerare il corpo stesso, anche nel vocabolario, perché molti autori, dopo Husserl, preferiscono parlare di carne piuttosto che di corpo per questo corpo soggettivato? Tuttavia bisogna prestare attenzione e distinguere bene: c’è una grande differenza tra l’affermazione di Merleau-Ponty secondo la quale «io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio sono il mio corpo»6 e quella di Henry appena citata. La differenza tra loro è quella del mondo al quale sono legati o meno il corpo e la soggettività, e si seguirà qui la prospettiva del primo, quella che pensa il mondo. Se il corpo non è un semplice oggetto del mondo, res extensa che occupa una porzione di spazio, è perché apre la spazialità: «Se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo»7. Né lo spazio, né il mondo sono ricettacoli per il corpo, come non sono esteriori a lui, e così sarebbe tutta la significazione del reale che si vorrebbe ripensare, come Merleau-Ponty ha provato a fare in Il visibile e l’invisibile in cui il carattere carnale si estende fino alle cose, a partire dalla mia carne propria: Ciò che costituisce il peso, lo spessore, la carne di ogni colore, di ogni suono, di ogni testura tattile, del presente e del mondo, è il fatto che colui che li coglie si sente emergere da essi grazie a una specie di avvolgimento o di raddoppiamento, fondamentalmente omogeneo a essi, il fatto che egli è il sensibile stesso veniente a sé, e che, reciprocamente, il sensibile è ai suoi occhi come il 4 Michel Henry, Philosophie et phénoménologie du corps: essai sur l’ontologie biranienne, PUF, Paris 1965, p. 11. 5 Ibid. 6 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 214. 7 Ivi, p. 130.
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suo duplicato o un’estensione della sua carne. […] Le cose, qui, là, adesso, allora, non sono più in sé, nel loro luogo, nel loro tempo, esistono solo in fondo a questi raggi di spazialità e di temporalità, emessi nel segreto della mia carne, e la loro solidità non è quella di un oggetto puro che lo spirito sorvola, ma è esperita da me dall’interno, in quanto io sono fra le cose e in quanto esse comunicano attraverso di me come cosa senziente8.
Il resto del corpo o l’eccesso della carne? La soggettivazione del corpo, non soltanto supera il dualismo res cogitans/res extensa, ma anche lo scarto tra io e il mondo, tra io e le cose del mondo. Il corpo di carne non è più un limite che separa, ma che collega esteriore e interiore. Tale riappropriazione fenomenologica del corpo è possibile, tuttavia, soltanto tramite un’incarnazione del mondo stesso e tramite la messa da parte dell’organismo, abbandonato al biologico. L’accordo al quale allude Merleau-Ponty tra psichico e fisiologico9 non si fa realmente; questi organi che danno luogo, secondo Nietzsche, a tutte le filosofie rimangono sempre ciò che la filosofia non pensa. C’è un residuo del corpo del quale non si sa mai cosa fare. Non è sicuro che sia attraverso la definizione di una nuova zona, tra il corpo fisico e il corpo proprio o la carne, come prova a farlo Emmanuel Falque, che si trovi la soluzione. Infatti, egli fa emergere un altro stato del corpo, che chiama «corpo espanso (corps épandu)» che è quello del corpo che non si può considerare come un puro oggetto del mondo, che è più che un puro pezzo di «carne» (qui la lingua italiana rimane più ambigua di quella francese!), senza nemmeno appartenere ancora alla sfera della carne fenomenologica. È, in modo paradigmatico, la condizione del corpo consegnato al medico sul tavolo operatorio, «la via di mezzo del corpo espanso, né carne né corpo, né puramente soggettivo né esclusivamente oggettivo»10. Il carattere fondamentale di questo corpo espanso è forse in questo essere-consegnato, in questo abbandono di sé tra le mani di un altro per il quale la soggettività si dimette: se sono io, sempre, a conse8
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 133. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 128. 10 Emmanuel Falque, Les Noces de l’Agneau. Essai philosophique sur le corps et l’eucharistie, Éditions du Cerf, Paris 2011, p. 45. 9
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gnarmi, lo faccio ritirandomi (da) me stesso, rinunciando all’auto-affezione nell’anestesia. Si dovrebbe allora distinguere meglio tra i diversi modi di consegna di sé che propone Falque, perché tra il tavolo operatorio da un lato e il cavalletto del boia e il letto dove uno si dà all’amante dall’altro lato11, questa consegna non è per niente la stessa. Il boia e l’amante sono qua per la mia sola carne (e per la loro, chiaramente nel caso dell’amante, eventualmente in quello del boia), per l’esacerbazione della mia auto-affezione sia nel dolore sia nel piacere, ma non per il mio corpo né per il mio corpo espanso; d’altronde è il motivo per cui lo spettacolo della tortura di chi ci è caro come quello del proprio piacere dell’amante ci fanno rispettivamente soffrire e godere. Sul tavolo operatorio ritroviamo, certo, l’organico, che è la materia prima di questo corpo espanso, ma un organico che è considerato soltanto in vista della carne, quando si riprenderà, in vista dunque del futuro sentirsi bene del soggetto che lo proverà solo nel cancellarsi del sentir gli organi del suo corpo. Comunque, questa via di mezzo del corpo espanso non dice nulla del corpo fisico, né sul come raggiungerlo né su ciò che possiamo fare di questo resto. Il motivo è semplice: è che non c’è, infatti, nessun resto e che il corpo, fino a quando si tratta di corpo umano, non è mai un resto. Riprendiamo dunque la domanda iniziale spingendo al suo limite l’esempio di Falque del corpo consegnato al medico: cosa diventa quando questo corpo è già morto e fra le mani del medico legale? Non c’è più una carne da rimettere in accordo con se stessa ma soltanto una res extensa, pesata, misurata, i cui organi sono esposti ecc., e tuttavia non c’è niente che somigli in essa, né in se stessa né nel modo in cui è trattata, con il corpo di un topo o di una rana. Infatti, i tentativi come quelli di Falque sono resi vani da ciò che aveva già detto Heidegger in Essere e tempo, cioè dal fatto che, benché morto, il Dasein non diventa una semplice-presenza. Passare dalla condizione di esserci a quella di non-più-esserci non consiste per nulla in una semplice cosificazione di questo ente. Il «non più» che ormai lo caratterizza non è la pura negazione di ciò che era, o piuttosto è una negazione che lascia sempre percepire ciò che era prima, un prima che è sempre presente nel rapporto del medico legale con il cadavere, che dunque non è per lui una cosa o una somma di organi: 11 La prospettiva del libro di Falque è tutt’insieme cristologica ed erotica, come lo suggerisce il suo titolo. Da cui queste diverse applicazioni del «corpo espanso».
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Lo stesso cadavere semplicemente-presente, considerato teoricamente, costituisce ancora un oggetto possibile di anatomia patologica, la cui considerazione scientifica continua ad essere guidata dall’idea della vita. Ciò che qui è solo semplicemente-presente è qualcosa di «più» di una cosa materiale inanimata. Noi lo vediamo come un non-vivente, che è tale perché ha perduto la vita12.
Tutto l’onore di cui sono circondati i morti proviene da questa differenza fondamentale che fa, al contrario, che la profanazione di cadaveri sia considerata uno dei crimini più abominevoli. La significazione del corpo sta dunque tutta in questo legame con una carne e se rimane per ancora un po’ di tempo dopo la scomparsa di quella, è tuttavia sempre nel riferimento ad essa che appare. Inoltre, benché il non-più-esserci del defunto significhi realmente un non-essere-più-al-mondo, il defunto e il mondo tuttavia non l’hanno fatta finita l’uno con l’altro a causa di un essere-con il morto che perdura in coloro che l’hanno conosciuto. Non è dunque tanto il corpo che rimane, per così poco tempo, quanto il mondo stesso, benché privato ormai del suo perno, un mondo di cui la carne è sempre vissuta parzialmente, e per un tempo molto più lungo, da quella del defunto. I luoghi, le cose, gli esseri mi appaiono ancora nel ricordo della relazione che egli aveva con loro e nel ricordo della mia propria relazione con lui: ci siamo amati o odiati qui, abbiamo assaporato insieme questo vecchio bordeaux. Quello era un rapporto eminentemente carnale e sussiste ancora. L’assenza di chi non-è-più ci appare precisamente soltanto sull’orizzonte di questa onnipresenza. L’incarnazione del mondo che non ha smesso di realizzare quando ci-era, perché è quella di un mondo comune, che continua parzialmente, obliquamente, intorno a nuovi perni, le carni di quelli che gli erano legati. Il chiasma delle carni non svanisce subito con la scomparsa dell’esserci ma continua a rinfrangersi, come faceva già mentre era vivo. Non è dunque il corpo, come oggetto fisico, che rimane o sta in eccesso, ma è la carne che è l’eccesso per eccellenza perché è il limite con il mondo e ne è tanto inseparabile quanto lo è da una pura interiorità, da uno spirito o in qualunque modo si vorrà chiamarlo. È ciò tramite il quale c’è un mondo, ma anche ciò tramite il quale 12
Martin Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 292.
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c’è sempre un mondo. La pura interiorità è un’illusione – come lo è il puro corpo umano, non carnale. L’eccesso della carne non è soltanto rispetto al corpo di cui supera i limiti fisici; è anche rispetto all’io di cui non è la semplice sensibilità e che può condurre là dove esso non vorrebbe. Da cui il significato teologico negativo della parola. Al punto che la coppia concettuale corpo/carne non può sostituire le coppie tradizionali corpo/spirito o corpo/anima. Usando il termine «sfuggimento (échappement)» nella Fenomenologia della percezione per dire questo eccesso della carne come chiasma, Merleau-Ponty dice, a proposito della stessa sessualità che la tradizione religiosa ha associato, perfino identificato, alla «carne», questa impossibilità di una padronanza di sé: Tutto ciò che siamo, noi lo siamo sulla base di una situazione di fatto che facciamo nostra e che trasformiamo incessantemente con una specie di sfuggimento che non è mai una libertà incondizionata. Nessuna spiegazione della sessualità può ridurla a qualcosa di diverso dalla sessualità stessa, giacché essa era già qualcosa di diverso da se stessa, e, se si vuole, il nostro essere intero. La sessualità, si dice, è drammatica poiché noi vi impegniamo tutta la nostra vita personale. Ma, per l’appunto, perché lo facciamo? Il nostro corpo è per noi lo specchio del nostro essere solo in quanto è un io naturale, una data corrente d’esistenza, cosicché non sappiamo mai se le forze che ci sostengono sono le sue o le nostre, o meglio: esse non sono mai del tutto sue o nostre. Non c’è superamento della sessualità, così come non c’è sessualità chiusa in se stessa. Nessuno è salvo e nessuno è perduto completamente13.
Ripiego della carne o fallimento dell’ego? Mentre abbiamo parlato di soggettivazione del corpo nella carne, abbiamo da fare qui con un anonimato della stessa carne che può parlare in noi più forte di noi stessi. Merleau-Ponty scrive precisamente che è «questo anonimato innato di Me stesso che prima chiamavamo carne», prima di aggiungere: «La carne non è materia, non è spirito, non è sostanza. Per designarla occorrerebbe il vecchio termine “elemento” […], a mezza strada fra l’individuo spazio-temporale e l’idea, specie di principio incarnato che introduce uno stile 13 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 239-240. Una nota del Visibile e l’invisibile avvicina la carne e lo sfuggimento (cit., p. 276, nota 186).
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d’essere in qualsiasi luogo se ne trovi una particella. In questo senso la carne è un “elemento” dell’Essere»14. Paradossalmente, non è sicuro, dunque, che la carne che è stata chiamata prima «corpo proprio» sia realmente mia. Non è di nessuno, tranne dell’Essere stesso. Allora però, il problema si sposta e l’oscuro non è più il corpo che abbiamo salvato articolandolo a una carne, ma la questione diventa quella del soggetto carnale, cioè esplicitamente in quanto carnale. Infatti, allorché si potrebbe riassumere la fenomenologia della carne che proviamo a seguire qui nel bel neologismo di Lacan «estimità», contrazione dell’ossimoro «esteriorità intima»15, come ogni volta che ci collochiamo su un limite, c’è la tentazione di riportarci su uno solo dei due lati, il corpo o l’io, l’esteriorità o l’intimità. Ma di quale intimità si parla qui se precisamente la carne non è la semplice espressione dell’io? Continueremo dunque a prendere delle distanze rispetto a delle fenomenologie che portano troppo verso l’immanenza, come fa in modo esemplare quella di Henry, ma anche rispetto a ciò che può dire un Jean-Luc Marion quando parla della carne e per chi la carne, lungi di essere in eccesso, è l’immanenza prima. Non c’è carne del mondo (il mondo si definisce proprio per la sua radicale assenza di carne), ma non vi è mondo se non con una carne che lo sente, una sola carne, la mia. La mia carne circonda, ricopre, protegge e socchiude il mondo e non il contrario. Più la mia carne sente, quindi si risente, più il mondo si apre. L’interiorità della carne condiziona l’esteriorità del mondo, ben lungi dall’opporvisi, perché solo l’auto-affezione rende possibile l’etero-affezione che cresce a sua misura16.
Assistiamo qui, in dipendenza rispetto a Henry, a una duplice operazione riguardo alla carne che condiziona lo statuto del mondo: la carne è assolutamente mia e si definisce come auto-affezione. Non ci sarà dunque nessun anonimato della carne ma, al contrario, sono la mia carne ed è essa che costituisce la mia ipseità precisamente 14
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 155-156. Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 177. Cfr. Fabrizio Palombi, Estimità ovvero mente e corpo secondo Jacques Lacan, in Pio Colonnello (a cura di), Il soggetto riflesso. Itinerari del corpo e della mente, Mimesis, Milano 2014, pp. 151-165. 16 Jean-Luc Marion, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni, tr. it. di L. Tasso, Cantagalli, Siena 2007, p. 147. 15
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perché, in quanto auto-affezione, m’individualizza. Ma allora non siamo più sul limite estimo e la carne può essere senza il mondo, e dunque anche senza il corpo. Perciò, secondo Marion, «ciò che trascende qui [nella relazione erotica] l’immanenza del mio ego, non rinvia più a una regione del mondo, ma ancora a un ego, quello presunto dell’altro; tale fenomeno senza eguali non si gioca più fra un ego e il mondo, ma fra due ego fuori dal mondo». O ancora: «Noi ci doniamo reciprocamente solo la possibilità di estrarci dal mondo divenendo carne»17. Così, e d’altronde in contraddizione con ciò che lo stesso Marion aveva detto dell’apertura del mondo correlativa al sentirsi della carne, qui, al culmine dell’autopercezione dell’ego come carne, il mondo svanisce. E con lui, è anche e naturalmente il corpo che si cancella perché non c’è infatti un corpo di carne, ma un’alternativa tra corpo e carne: «Senza erotizzazione, la carne dell’altro diventa problematica, di fatto inaccessibile. Così può passare direttamente dalla sua gloria a un corpo fisico persino più umano, la forma ed essenza divina dei miei amori decomposti finisce in carogna»18. Se uno dei problemi della fenomenologia è l’incontro con il fenomeno dell’altro in carne e ossa, il fenomeno erotico di Marion fallisce come tentativo di pensarlo: riduce l’ego e l’altro a carni senza ossa, cioè senza corpi. Tuttavia, la sua descrizione dell’incrocio delle carni usa metafore che rimandano ovviamente ai corpi perché l’invisibilità della carne e il suo indicibile lasciano poco spazio alla descrizione. Questa separazione della carne dal corpo implica una doppia riduzione: dell’amore alla carne (nell’illusione che ci sia relazione erotica soltanto quando c’è amore, mentre ogni altro può darmi la mia carne, benché non fosse amato) e della pornografia al corpo. Solo la carne amerebbe mentre il corpo è pornografico. Non appena si pretende di dirne qualcosa [del godimento delle carni], non si può far altro che tornare al gioco dei corpi fisici tra di loro dei quali, al meglio, si mostrano i contatti contigui, le posizioni nello spazio, gli spostamenti e gli scontri, ma quello che viene descritto (attraverso i tratti che se ne abbozzano, attraverso la grafia) resta assolutamente estraneo all’incrocio delle carni. Alla sua invisibilità radicale si sostituisce una visibilità pienamente esposta, pubblica e prostituta; quindi la si definisce giustamente pornografia, semplicemente a causa del tentativo di una grafia che, qui, è assurdo. Come 17 18
Ivi, p. 133 e p. 185. Ivi, p. 176.
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se un corpo potesse godere e risentir (risentirsi) risentire (risentirsi), e come se questo si potesse vedere19.
Lo studio del fenomeno erotico, nel suo ripiegamento sull’intimo, arriva così al disprezzo e alla negazione del corpo in nome della carne e di un io la cui verità è soltanto carnale. Al contrario, se si prende posizione a favore di una carne estima e per una parte anonima, il suo eccesso non è l’esaltazione dell’ego finalmente pienamente dato a se stesso, ma ne segna all’opposto il fallimento, come mostra di nuovo l’esempio della relazione erotica: l’estasi dell’orgasmo cancella forse per un attimo il mondo ma cancella ugualmente l’ego. Se la struttura dell’estimità sparisce, non è a beneficio di uno dei due lati, ma al contrario è nella scomparsa di ambedue. Nel godimento della carne al suo culmine, non c’è nulla tranne l’essere ed è qui che la carne si rivela realmente come il «punto zero» di esso20, né quello del mondo né quello dell’ego, ma quello dell’essere stesso.
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Ivi, pp. 176-177. Cfr. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 132.
Denaro Federico Chicchi
1. Intensità. Il denaro è prima di ogni altra cosa un’intensità, dunque differenza, spostamento, trasformabilità, flusso. Più specificatamente, se visto in questa prospettiva, il denaro è quell’intensità che permette all’economia di funzionare in modo dinamico e accumulativo e gestire così lo squilibrio strutturale del sistema. Il problema della realizzazione del plusvalore (la vendita del prodotto sul mercato), il salto mortale della merce come lo chiamava Marx, non sarebbe risolvibile se non ci fosse il denaro. Il capitalismo è infatti, in primo luogo, quell’organizzazione sociale (ma anche quel rapporto sociale di sfruttamento) che è in grado di ottenere un rendimento crescente dall’applicazione della logica circolatoria, non a somma zero, che il denaro (la sua creazione ex nihilo), via lavoro vivo e moneta, permette di realizzare. «Insomma il denaro, la circolazione del denaro, è il modo per rendere il debito infinito»1. La moneta, che dell’intensità del denaro è il diretto rappresentante simbolico, è appesa alla sua duplicità intrinseca: da un lato segno desiderante, flusso illimitato di deterritorializzazione, e dall’altro misura, arbitrio, gerarchia, distinzioni. Insomma il denaro come mezzo per il dispendio e l’accumulazione al contempo. Detto altrimenti e in termini marxiani: sul piano monetario nel capitalismo è la differenza tra il valore e il plusvalore (aggiungiamo noi: il plusgodere) ad essere continuamente in gioco con il denaro. Il plusvalore buca il valore, rompe l’equivalenza tra domanda e offerta, introduce una dismisura, un’eccedenza in seno
1 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Éditions de Minuit, Paris 1972; tr. it. L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, p. 222.
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all’equilibrio economico2. Occorre allora «capire che nel sistema del capitale la moneta e più generalmente ogni oggetto, in quanto mercé, e dunque moneta, reale o potenziale, non è soltanto un valore convertibile in un processo universale di produzione, ma anche indiscernibilmente (non oppositivamente, dialetticamente) carica di intensità libidinale»3. Questo squilibrio è il segreto, il grande Zero, del capitalismo. Occorre ovviamente dirne di più, molto di più. La seconda via definitoria che possiamo seguire sul denaro si deve allora prendere a rovescio rispetto alla prima4, e la ricaviamo dal Lacan degli Scritti, più precisamente da La lettera rubata: il denaro, potremmo dire, è un significante senza significazione. Il denaro, in altre parole esoticamente lacaniane, flirta con lo statuto della lettera. La lettera, nell’insegnamento degli inizi degli anni Settanta di Lacan, assume come sua proprietà fondamentale l’essere un significante particolare, slegato, per certi versi, dal resto della catena significante5, presentandosi come un elemento non-articolato, «un assoluto singolare eccentrico all’universalità del significante»6. Si tratta in altre parole di vedere il denaro come un litorale (nel senso che è ciò che erode il simbolico mostrando attraverso le sue friabilità sprazzi improvvisi di reale) sospeso, seppur solo per tangenze, al di là dei sembianti. È la lettera come tale a dare appoggio al significante seguendo la legge della metafora. […] Tuttavia essa [la lettera e quindi per noi il denaro] viene promossa da lì come referente altrettanto essenziale di [per] qualsiasi altra cosa7.
Nella lettera si conta un singolare che è segnato dalla ripetizione, dalla necessità della ripetizione, da una ripetizione che s’intreccia però con la contingenza più pura. «L’eccesso del reale – irriducibile al 2
Christian Marazzi, Che cos’è il plusvalore?, Casagrande, Bellinzona 2016. Jean-François Lyotard, Economie libidinale, Éditions de Minuit, Paris 1974; tr. it. Economia libidinale, Pgreco, Milano 2012, pp. 94-95. 4 Se prima nell’interrogare il tema del denaro abbiamo cominciato a percorrere il lato esterno del nastro di Moebius ora invece partiamo da quello interno. 5 Qui si mostra molto chiaramente come tra denaro (lettera) e moneta (significante) ci sia una differenza qualitativa troppo spesso non considerata a sufficienza. Ci torneremo più avanti. 6 Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, pp. 616-622. 7 Jacques Lacan, Autres écrits, Seuil, Paris 2001; tr. it. Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 17. 3
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significante – si manifesta nella singolarità della lettera come destino, ovvero come unione radicale di contingenza e necessità»8. Il denaro è allora nel capitalismo, in tal senso, una sorta di destino fantasmatico che insiste sulla soggettività in formazione. Quella lettera che «costringe le nostre menti a funzionare come macchine calcolatrici»9, che impressiona la soggettività direttamente sulla pellicola del discorso capitalista10. Non significa forse designare a sufficienza nella lettera qualcosa che, dovendo insistere, non è lì a pieno diritto, con ragione così forte da andare avanti? Qualificare questa ragione come media o estrema vuol dire mostrare, ho già avuto occasione di farlo, la bifidità in cui si invischia ogni misura. Ma non c’è niente nel reale che faccia a meno di questa mediazione? […] La lettera, vi chiedo, non è forse il letterale da fondare sul litorale? Il litorale è ciò che delimita un intero territorio come se ne costituisse un altro. Frontiera se volete ma appunto a partire dal fatto che i due non hanno proprio niente in comune, neppure una relazione reciproca11.
In questa prospettiva la funzione del denaro è di farsi oggetto (oggetto a) «e come segno di una non equivalenza, come segno di un non rapporto e di un non-tutto»12. Anche su questo ovviamente occorre dire qualcosa di più. Il denaro fa fare un giro, porta in giro il godimento (ma potremmo forse anche dire prende in giro il godimento). Lo porta in giro nel senso che lo organizza in una partita di giro, lo misura, lo conta, lo rende disponibile all’esercizio del potere (che soggettivizza, assoggettando e assoggetta soggettivando), come chiarisce in modo esemplare Alex Pagliardini, il capitalismo è una contabilizzazione integrale del godimento13, ma al contempo il denaro fa circolare il godimento senza posa e senza limiti nel cuore 8
M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 620. C. Marazzi, Che cos’è il plusvalore?, cit., p. 31. 10 Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, Ombre Corte, Verona 2016. 11 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant, Seuil, Paris 2007; tr. it. Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino 2010, p. 107. 12 Miquel Bassols, Il denaro, Intervento nel Seminario di Politica Lacaniana di JacquesAlain Miller, Torino 8 luglio 2017, in Desecrits de psicoanàlisi lacaniana, miquelbassols. blogspot.com/2017/07/il-denaro.html. 13 Alex Pagliardini, Assumere la castrazione… o peggio, in Alex Pagliardini e Rocco Ronchi (a cura di), Attualità di Lacan, Textus, L’Aquila 2014, pp. 291-349. 9
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del discorso, in una dépense smisurata e mortifera del legame che non segna il passo e che in verità se ne infischia del contabilizzare. Processo schizo. Lo psicoanalista spagnolo Miquel Bassols afferma a riguardo: «Dunque come diceva Francisco de Quavedo, poderoso caballero es Don Dinero, poderoso signore è Don Denaro. Non c’è niente che rimanga al di fuori del suo potere – everything has its price […]. Ma il denaro nella nostra civilizzazione, per la psicoanalisi, per Lacan, non è soltanto un significante padrone. Il denaro è anche un oggetto, un oggetto di godimento esso stesso»14. Paperon de’ Paperoni che nuota nel suo denaro. Vettore imperiale schizo del valore di scambio. Per ora aggiungiamo solamente che a nostro parere è proprio in virtù di questa seconda sua caratteristica letterale (o litterale, freudianamente fecale) che il denaro ha una intima prossimità con il reale, e pur non essendo in alcun modo consustanziale ad esso, potremmo dire, ne ricalca, preferendolo ad altri, uno spigolo, una linea d’onda, letteralmente bordeggiandola. 2. Genealogia. Il denaro sul piano di realtà (sporgendosi sui sembianti che lo inscrivono fenomenicamente e fenomenologicamente) si organizza lungo tre funzioni fondamentali che si sono potute sovrapporre, determinandolo in quanto tale, solo dopo molti secoli di storia sociale15. La prima funzione si basa sulla convinzione che possa esistere un’unità di valore tanto astratta da essere applicabile a ogni tipo di transazione economica. Questa caratteristica che manifesta il flusso e che è possibile rintracciare per la prima volta in Grecia durante il medioevo ellenico, assume il denaro come un principio di generale commutabilità. Quando uno spazio sociale fa proprio questo principio, è possibile allora applicare dei criteri di trasferibilità e quindi di commercio dei prodotti all’interno dei confini della comunità, prima di quel momento davvero impensabili. Qui opera, nella formazione del denaro in quanto tale, la spinta (driver) alla determinazione di una maggiore fluidità degli scambi. Ma la metafisica Greca e occidentale non basta, il denaro sarebbe stato ben poca 14
M. Bassols, Il denaro, cit. Felix Martin, Money: The Unauthorised Biography, Bodley Head, London 2013; tr. it. Denaro. La storia vera: quello che il capitalismo non ha capito, Utet, Novara 2014. 15
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cosa, se mai fosse potuto esistere, se a questa sua prima importante funzione di astrazione non se ne fosse associata una seconda per certi versi ancora più importante e interessante. E questa volta, se vogliamo farne conoscenza, dobbiamo aprire le porte e volgere il nostro sguardo verso Oriente. In Mesopotamia esisteva infatti da secoli un sistema di calcolo e conteggio basato sulla forse più straordinaria invenzione dell’umanità: la scrittura. Le tavole di argilla con i simboli cuneiformi, scoperte non da troppi anni a Uruk, servivano infatti a tenere il conto dei debiti e dei crediti tra i regnanti, gli amministratori e i sudditi. Diversamente dagli ideogrammi egiziani, questa scrittura databile al tardo quarto millennio a.C. consisteva in segni astratti, semplici e ripetuti, delle tacche potremmo dire che, insieme ad altri numerosissimi piccoli manufatti in argilla, la cui funzione non è stata facile da decifrare per gli archeologi, costituivano un sistema complesso ma preciso di conteggio, sì quantitativo ma ancora senza un vero sistema di numerazione. Ogni oggetto costituiva simbolicamente una quantità16. Solo molto più tardi (circa nel 3100 a.C.) questo sistema di conteggio fu sostituito da un altro più evoluto che consisteva nell’imprimere l’impronta di un gettone o di un oggetto su di una tavoletta di argilla. Come sottolinea Felix Martin nel suo importante e suggestivo studio sul denaro17, questa innovazione segna davvero un passaggio epocale per l’umanità, in quanto nei fatti descrive la nascita dell’alfabetizzazione. Un calco, un’immagine impressa su di una tavoletta, sostituiva nel conteggio economico il piccolo oggetto tridimensionale fino ad allora utilizzato. In questo senso la scrittura è radice della seconda funzione fondamentale del denaro: la contabilità. Una contabilità però ancora senza moneta. La terza e decisiva funzione che ha permesso al denaro di assumere la sua fisionomia moderna è da rintracciare a partire dal principio della negoziabilità decentrata. «La nuova idea del valore economico universale rese possibile la compensazione delle obbligazioni senza riferimento a un’autorità centrale […]. Il miracolo del denaro aveva un altro gemello altrettanto miracoloso: il mercato»18. Il denaro non coincide dunque necessariamente con la sovranità monetaria, eccede lo standard fissato dal sistema creditizio centrale, lo precede e lo se16
Ibid. Ibid. 18 Ivi, p. 62. 17
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gue. Con il capitalismo industriale è la mano invisibile del mercato naturale a fissare il giusto prezzo di una merce. Tale nuova visione della società basata sullo scambio e sulla moneta come legame sociale naturale si scrive nell’economia politica liberale come sistema oggettivo che fissa degli equilibri tendenziali, dinamici ma perseguibili e raggiungibili nel lungo periodo. La concezione monetaria dell’economia subisce una torsione fondamentale, la teoria convenzionale del denaro sposta la questione politica su fattori fondamentalmente diversi: si tratta ora di rendere facilmente trasferibile il credito, di sedimentare fiducia creditizia nella popolazione, di istituire un’autorità monetaria privata capace di fare concorrenza (se non direttamente controllarne e orientarne l’operato) a quella sovrana. Il potere si sposta sulla finanza e nascono nuovi sistemi bancari. L’oggetto di esercizio del governo allora si ribalta e si riscrive come difesa dei limiti naturali del mercato capace di autoregolarsi senza interventi esterni di aggiustamento. Sarà Marx per primo (e poi Keynes in modo diverso) a mostrare come l’economia politica classica e la teoria del laissezfaire in realtà non fossero altro che fiction della scienza borghese. Ma questa è un’altra storia e non possiamo affrontarla ora. Ciò che ci preme sottolineare, a partire da qui, da questa terza e decisiva dimensione del denaro è invece ancora una volta l’impossibilità di far coincidere quest’ultimo con la moneta. Se vogliamo comprendere l’assoluta volatilità e intangibilità del segno monetario oggi, la sua tendenziale se non definitiva de-materializzazione, occorre in altre parole constatare come «la moneta è una delle forme del denaro e al contempo il denaro, è una forma idealizzata della moneta»19. La moneta svolge una funzione significante, permette di tenere traccia degli scambi e fissa delle regole, degli standard di riferimento (come fu il gold standard), ma non coglie la vera essenza del denaro, che è la sua immateriale e bifida carica libidica, prossima come abbiamo visto all’intensità del reale. Una cosa è certa, il denaro non è qualcosa che può essere fissato una volta per tutte in una misura convenzionale, in uno standard pacificante. Non si può guardare il denaro in faccia, si farebbe la fine di Re Mida.
19 Maria Grazia Turri, La distinzione fra moneta e denaro. Ontologia sociale ed economica, Carocci, Roma 2009, p. 29.
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3. Feticcio. Il denaro sul piano soggettivo è dunque per lo più un tema dell’inconscio (e risponde dunque, ad esempio, ai meccanismi di condensazione e spostamento). «Il denaro è il feticcio o fissa in sé il feticismo», così si esprime Nancy in un suo prezioso contributo ripubblicato recentemente sulla rivista «Lettera»20. Per affermare cosa? In poche battute e in sintesi che dietro al feticismo della merce, della merce capricciosa e piena di grilli per la testa, dietro al fittizio e all’idolo in realtà non c’è da fare che l’esperienza di una delusione da riscattare nuovamente, o peggio, di un altro inganno ancora più subdolo. «Il segreto svelato mette forse a nudo la produzione? Si toglie il segreto, ma la parola “feticcio” nasconde ancora un segreto non svelato: la presenza stessa della cosa, che la si chiami merce o prodotto, che la si paghi in contanti o con carte di credito, che la si veneri o che la si utilizzi». Qui Nancy pare sorprendentemente dialogare con Lyotard quando attacca i cosiddetti teorici dell’alienazione. «Capire che il sistema del capitale non è il luogo dell’occultamento di un preteso valore d’uso che gli sarebbe “anteriore” […] e infine che i segni detti astratti, suscettibili di misura e di calcolo previsionale, sono in se stessi libidinali»21. Dietro al feticcio non c’è alcuna verità da svelare, non c’è che il reale della pulsione di morte, l’impossibile, un altro enigma ancora. Eppure questa operazione di spoliazione del feticcio non credo sia totalmente inutile, come sembrano pensare i due francesi. Serve metodologicamente a produrre uno sguardo, seppur molto fugace e opaco, sul non-tutto, e più localmente a profanare il fantasma della merce che orienta il desiderio su di un piano di oggetti tra loro perfettamente commutabili e commensurabili: simulacri. Il simulacro in quanto comunicabile organizza la scambiabilità, il segno, la moneta. L’unione del fantasma e del simulacro, come dice Klossowski22, produce una duplicità: una «coerenza adultera» (una devastazione) e uno «scambio fraudolento» (un’economia politica dello sfruttamento). Lyotard insiste molto su questo impasto di godi20 Jean-Luc Nancy, I due segreti del feticcio (tr. it. di G. Fracca), in Federico Leoni (a cura di), Re Mida a Wall Street, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 21-29. 21 J.-F. Lyotard, Economia libidinale, cit., p. 95. 22 Pierre Klossowski, Nietzsche et le cercle vicieux, Mercure de France, Paris 1969; tr. it. Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano 1981. Dello stesso autore si veda anche La monnaie vivante, Joëlle Losfeld, Paris 1970; tr. it. di C. Morena, La moneta vivente, «Il piccolo Hans», 13, Bari 1977.
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mento e sintassi, di arte e prostituzione, e lo fa con una certa verve: «il problema del capitale e quello della moneta non può essere quello di affrancare il desiderio dalle sue maschere grottesche, non essendo quelle del capitale né peggiori né migliori né più o meno “autentiche” di altre»23. Il problema è allora come portare le intensità a scomporre il quadro e a muovere le pedine oltre il limite/scacchiera posto dell’economia del valore. Questa questione oggi, nell’epoca del denaro liquido e dell’egocrazia imperante, va ripresa con urgenza. Si tratta in altri termini di mostrare come il denaro non sia il reale ma solo il reale del capitalismo. 4. Epilogo. Il denaro nell’inconscio freudiano appare strettamente legato, non separato, dai concetti di sterco, regalo, bambino e pene24. Nella lezione trentadue della nuova edizione del testo Introduzione alla psicoanalisi, Freud precisa la forte relazione del denaro con le funzioni escrementizie del lattante. Cedere e trattenere, caratterizzano e descrivono lo stretto legame tra pulsione erotica anale e danaro. L’escremento quando entra nel rapporto con l’Altro diventa così qualcosa di prezioso e di contemporaneamente disgustoso. Esattamente come il denaro. Famosa è diventata la frase di Lutero che stigmatizzò il denaro come sterco del diavolo. Eppure Calvino ne fece l’unico segno della Grazia ricevuta. Con profonda intuizione, Dante aveva in tal senso collocato avari e prodighi in uno stesso girone (nel IV cerchio) dell’Inferno. La soggettività del discorso capitalista è la soggettività che assume il denaro come linea di fuga dai codici e dalle piramidi simboliche del moderno. Il problema è che questa ingiunzione alla produzione di stronzi è di doppio legame: da un lato scrive il soggetto in una stretta ma compulsiva prospettiva sfinterale (in una contabilità maschile del godimento) esponendolo, e non liberandolo affatto, dal dovere di compiacimento dell’Altro, anche se ora più fluido e deterritorializzato (è il soggetto che gode della cosa prestazionale, che viene sollecitato a defecare senza pudori) e dall’altro lo trascina nel fantasma-simulacro morale di tale indecente libertà, di cui deve saldare il debito e assumersi la responsabilità e la vergogna 23
J.-F. Lyotard, Economia libidinale, cit., p. 107. Sergio Sabbatini, Lacan e il denaro, Una prima ricognizione, «Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura», 7, Giovanni Fioriti, Roma 2008, pp. 205-241. 24
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del fallimento25, della sua costipazione, a sanzione di condotta. Ingiunzione paradossale che chiede al corpo di essere capace, contemporaneamente, di accumulare e far circolare moneta. Di trattenere ed evacuare contemporaneamente. Il soggetto nel capitalismo è il luogo di tale angoscia. «Così, quando si credeva affrancato dalla tirannide di quella passione, egli va incontro al più terribile dei disinganni e, disfatto dal panico, è costretto a riconoscere, non senza rabbrividire, d’esserne schiavo ancora»26.
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Federico Chicchi e Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. Elvio Fachinelli, La ricerca dell’oro, in Re Mida a Wall Street, cit., p. 17.
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In conseguenza del fatto che la dimensione del racconto esista, accade che all’interno della sua struttura s’istituisca, così almeno è ciò che Lacan afferma nel Seminario VI1, un flash in grado di dare origine a un’immagine, la quale crea come una sospensione del racconto che all’occasione può anche divenire uno stimolo del desiderio. È tuttavia soltanto retroattivamente che il linguaggio introduce, a causa di questo arresto del racconto, un elemento stimolante, in modo tale che la sospensione che l’immagine comporta possa assumere il valore del fantasma, sia in grado cioè di mantenere un significato erotico nei meandri dell’atto, che può anche continuare a nutrire. Un racconto, non sappiamo bene dove e quando, è già sempre in atto, qualcuno parla, anche se non sappiamo chi abbia detto che qualcuno parla2; di fatto il momento originario del racconto è comunque perso, forse non è mai accaduto in quanto tale: il racconto potrebbe anche permanere nell’ordine dell’immemoriale. Tuttavia, visto che nessuno può negare che una dimensione del racconto esista, assistiamo all’interno della sua struttura a un doppio movimento. Abbiamo infatti da una parte ciò che si racconta in quel determinato momento, dall’altra invece l’evidenza di come ciò che si racconta appartenga già alla sua stessa dicibilità. Ed è proprio grazie a questo doppio movimento della struttura del racconto che s’istituisce un flash in grado di dare origine a un’immagine. Certo, detto in que1 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre VI. Le désir et son interprétation, La Martinière, Paris 2013; tr. it. Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, Torino 2016. 2 Michel Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur?, «Bulletin de la Société française de philosophie», 3, 63, juillet-septembre 1969, pp. 73-104; tr. it. Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971.
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sti termini, si ripresenta di nuovo il tema dell’origine, ma anche in questo caso si tratta di un’origine destinata a perdersi in se stessa. L’immagine infatti non si forma direttamente, ma in conseguenza di un flash, di un accecamento per eccesso di luce; o forse, ancor meglio, potremmo dire che il flash anticipa e al contempo è simultaneo al formarsi dell’immagine, ma l’immagine si forma simultaneamente all’accecamento dell’occhio che il flash comporta. Questa non coincidenza tra racconto e narrazione, dove un essere in potenza del racconto permane in ogni possibile contenuto narrativo che si dispieghi, lascia emergere la diacronia di un accecamento alla lettura, che determina l’insorgere di un’immagine, che all’occasione può anche rivelarsi come uno stimolo del desiderio. Sebbene sia la necessità dell’esistenza del racconto a prevedere, attraverso la propria attualizzazione narrativa, il suo momento di arresto, il desiderio in realtà può essere eventualmente stimolato solo dall’immagine che si concretizza al suo interno, anziché dallo stesso dispiegarsi in cui la narrazione prende forma nel racconto. È come se il distendersi linguistico si muovesse alla ricerca dell’origine del proprio racconto, sentendosi mosso dalla sua mancanza, mentre l’immagine ripresenterebbe soltanto l’esperienza di un’espressione accecante del desiderio. Tanto è vero che è soltanto retroattivamente, come a riprendersi da quel suo stesso accecamento, che il linguaggio introduce a sua volta, nel proprio atto espressivo, un elemento stimolante del desiderio che dipende dal momento sospensivo della propria narrazione e dall’insorgere di quella determinata immagine. Dunque se il flash sospende la narrazione all’accecamento del proprio racconto, senza tuttavia che nel suo dispiegarsi intervenga un vero e proprio punto di arresto, l’immagine, che assume un valore fantasmatico, si fa significato erotico nei meandri dell’atto narrativo, mentre quest’ultimo continua a distendersi sull’interrogazione del perché quella particolare immagine si sia costituita, grazie al contenuto del proprio racconto, in quella determinata forma. Proviamo a dirlo di nuovo. Essendo un racconto sempre già in atto, ogni forma narrativa si inscrive all’interno del suo solco marcandone l’aderenza in forma diacronica. Questa sfasatura tra racconto e narrazione determina l’istituirsi all’interno della sua struttura di un flash, un arresto per accecamento da eccesso di luce, che dà forma a un’immagine. Restituisce in altri termini il linguaggio alla
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sua necessità metaforica. Così, l’immagine che si forma all’interno della struttura linguistica sembra presentare un doppio versante: uno che si rivolge al senso raffigurativo del distendersi narrativo e l’altro al solo accecamento di luce del racconto. Per questo, soltanto successivamente, in quanto è la sola immagine a rimanere comunque fonte del desiderio, il linguaggio imprime una richiesta simbolica cercando di cogliere come quell’immagine leghi la struttura della propria narrazione, la sua necessità raffigurativa, con la struttura del racconto, con ciò che il proprio contenuto espressivo sembra continuare a mancare. Mentre all’espressione del desiderio non rimane altro che l’esperienza reale del proprio accecamento. Nell’introdurre il settimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni3 Freud riporta un sogno di cui è venuto a conoscenza grazie al racconto di altre persone. Sebbene il sogno sembri appartenere abitualmente all’esclusiva esperienza di una singolarità, qui viene invece presentato come fosse in grado addirittura di rispondere a una pluralità. Innanzitutto viene confermato anche in questo caso come l’origine del racconto non sia ricostruibile, come si sia di conseguenza introdotti nella narrazione del sogno in modo tale che si riveli da subito già in atto. Anzi, Freud sembra dirci che il sogno, forse non solo questo sogno, ma il sogno in quanto tale, non possa che appartenere da sempre all’origine mitica del racconto, di cui conosciamo soltanto il riscontro di singole narrazioni. Non siamo comunque in presenza, come di solito accade, di un sogno sognato e poi riportato, ma di un sogno che gli è stato raccontato da una paziente che lo aveva ascoltato durante una conferenza dedicata proprio al tema del sogno. La reale fonte del sogno rimane dunque a Freud ignota, non sappiamo in effetti chi abbia sognato per la prima volta questo sogno, sappiamo soltanto che è stato ascoltato durante una conferenza; non solo, sappiamo anche che presentando il contenuto del sogno dei forti toni emotivi ha portato la paziente a risognarlo. Ciò che viene riportato a Freud è quindi da una parte il racconto di un sogno che manca di chi l’abbia realmente sognato, dall’altra è il racconto di un sogno che la sua paziente ha effettivamente sognato. Il fatto che 3 Sigmund Freud, Gesammelte Werke: Die Traumdeutung. Über den Traum, Fischer, Frankfurt am Main 1945; tr. it. Opere 1899: L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
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Freud nel testo riconosca che la paziente abbia risognato il sogno rimane dunque ambiguo, perché non sappiamo dove collocare esattamente questa ripetizione, non sappiamo dire se lo abbia risognato perché qualcuno genericamente lo aveva già sognato prima o se l’averlo udito durante la conferenza ha significato già di per sé che era un sogno risognato. Questa non diretta attribuibilità del sogno a qualcuno e al contempo la sua condivisibilità sognata viene ulteriormente confermata dal fatto che Freud non fornisce alcun dettaglio su che cosa leghi il caso clinico della propria paziente con il suo aver risognato proprio questo sogno. L’unica cosa che ci viene restituita è che ci sono sogni risognabili che non hanno alcuna attinenza con i sogni ricorrenti. Sembrerebbe che tali sogni esistano soltanto nel momento in cui si rivelano come appartenenti da sempre al racconto, quando è possibile cogliere con chiarezza che un racconto è già da sempre in atto, senza che nel suo distendersi gli si possa attribuire un’origine determinata. La cosa s’infittisce ulteriormente perché Freud nelle prime righe del capitolo afferma che questo sogno esige un’attenzione del tutto particolare, mentre in realtà poi gli dedica soltanto poco più di una pagina, senza introdurre alcuna particolarità interpretativa. L’attenzione che il sogno richiede potrebbe allora risiedere nel poterlo assumere come un sogno paradigmatico, che non merita alcuno sforzo particolare d’interpretazione vista la sua capacità di confermare, con estrema chiarezza, come i sogni non siano altro che un appagamento del desiderio. La stessa cosa vale anche quando afferma che la paziente nel risognarlo non mancò di ripeterne alcuni elementi, rivelando così come tra il proprio averlo risognato e il racconto ascoltato emergesse, in un punto determinato, una diretta concordanza. Possiamo avanzare soltanto delle supposizioni perché Freud non ci fornisce alcun elemento di chiarimento, se non ribadendo che nelle sue condizioni preliminari il sogno si presenti come esemplare. Non ci dice ad esempio se la paziente raccontò in un primo momento per intero il sogno ascoltato nella conferenza e poi in che termini lei lo risognò, oppure se raccontò direttamente il proprio sogno, dicendo poi che in realtà lo aveva prima ascoltato durante una conferenza o ancora se il suo sogno non era stato che la ripetizione del suo trovarsi tra il pubblico mentre ascoltava il racconto di ciò che ora era parte essenziale di quello che aveva sognato. Freud interrompe ogni
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considerazione e passa a raccontare direttamente il sogno. Un racconto che non potrà mai di conseguenza rispondere ai soli criteri di quel singolo sogno, ma unicamente al sogno apparso come un sogno risognabile. Freud sembra quindi riconoscere al suo evento il tratto singolare di una esemplarità e al contempo, come accade per tutto ciò che viene assunto in chiave esemplare, un tono del tutto impersonale. Il sogno assume così la fisionomia di una contingenza assoluta. Tutto sembra ruotare intorno alle condizioni preliminari che non smettono di renderlo risognabile; condizioni che, in quanto preliminari, non possono mai corrispondere completamente ai soli criteri del loro contenuto. Un padre ha trascorso interi giorni e notti a vegliare il proprio bambino gravemente malato, quando il bambino muore, decide di andare a riposare in una stanza attigua a quella in cui la salma del bambino è stata deposta attorniata da grandi ceri, in modo tale che dal proprio letto possa gettare all’evenienza uno sguardo sul corpo del figlio. Un vecchio è stato incaricato di portare avanti la veglia: siede vicino al letto e mormora preghiere. Dopo alcune ore di sonno il padre sogna il bambino in piedi vicino al suo letto che lo afferra per un braccio e pieno di rimprovero gli bisbiglia: «Padre, non vedi che brucio?». Il padre si sveglia e vedendo una luce chiara provenire dalla camera mortuaria accorre e vi trova il vecchio addormentato, i veli e un braccio del bambino stanno bruciando a causa di una candela che, ancora accesa, vi è caduta sopra. Appena terminato di riportare il racconto del sogno, Freud aggiunge che la spiegazione di questo sogno così commovente è molto semplice, fornita addirittura, stando sempre al racconto della propria paziente, dallo stesso conferenziere. Una luce chiara è penetrata dalla stanza attigua direttamente nell’occhio del padre, suscitando in lui una reazione simile a quella che avrebbe avuto da sveglio. Non si capisce esattamente come, ma il padre avrebbe dovuto dedurre che quella luce penetrata nel suo occhio corrispondeva al fuoco appiccato dalla candela sul feretro. Questo rimane comunque il primo livello del sogno di cui si deve sempre tener conto, può essere suscitato da qualcosa di percepito dal soggetto di ciò che accade nell’ambiente circostante. Un secondo livello potrebbe derivare dal fatto che il padre abbia mantenuto in sé l’impressione dell’inadeguatezza del vecchio scelto a vegliare la salma del figlio. A questa impressione Freud aggiunge
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anche la necessità di scindere la frase pronunciata dal bambino. Nel momento in cui dice «brucio», avviene un’associazione con ciò che con ogni probabilità il bambino avrà pronunciato durante la malattia contrassegnata da una febbre molto alta, mentre «padre, non vedi» si collocherebbe in un passato della relazione tra padre e figlio che rimane del tutto ignota, sebbene Freud ci assicuri che sia proprio questa parte della frase ad avere un carattere affettivamente molto intenso. Si tratta del tipico movimento in profondità che la psicoanalisi freudiana mette in atto, dall’immediata vicinanza con ciò che accade, in questo caso l’incendio nella stanza accanto, al dubbio sulla scelta fatta del vecchio destinato a vegliare la salma, alla parola «brucio» come la ripetizione di una scena legata alla malattia del figlio e infine «Padre, non vedi» che si trova nell’area più profonda, dove non ci è dato di giungere per deduzione evidente. Si tratta di uno spazio nel quale solo il lavoro analitico ci potrebbe condurre e che rappresenta l’area dell’affettività più intensa del soggetto, quella che rimane alla base dei reali criteri del sogno. Perché se rimaniamo al primo livello della percezione, ciò che sarebbe dovuto accadere è l’immediato risveglio, mentre in realtà, su quella stessa percezione, si produce il sogno. In quel momento di esitazione tra il risveglio e il prolungamento del sonno è subentrato infatti il desiderio: il bambino che si comporta come se fosse ancora vivo. Nonostante il fuoco, nonostante il vecchio addormentato, nonostante la malattia che ha bruciato il corpo di quella piccola vita, il bambino chiama ancora il padre e gli dice, come chissà quando nella loro vita in comune: «Padre, non vedi?». L’uomo prolunga per un istante il sonno per permanere lì, in quel punto in cui il figlio è ancora vivo con lui, a discapito di ogni tipo di riflessione che la veglia avrebbe invece in modo urgente preteso. Nel sogno è proprio la mancata reazione immediata, l’esitazione rispetto a ciò che sta accadendo che permette al figlio di continuare a vivere, perché se il padre si fosse svegliato non solo il sogno si sarebbe interrotto, ma il padre, afferma Freud, avrebbe anche abbreviato la vita del suo piccolo. Il desiderio del sogno troverebbe di conseguenza il proprio reale appagamento solo se il padre riuscisse a non svegliarsi più, se potesse dilatare all’infinito quel momento di esitazione, lì dove il figlio sarebbe rimasto vivo per sempre con lui. Rispetto alla vita della veglia, il sogno manterrebbe dunque tutta l’autonomia di una vita propria.
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In quello che abitualmente consideriamo lo stato di veglia accade allora, come Lacan sostiene nel Seminario XI4, un’elisione dello sguardo. Nell’atto del guardare si produce un taglio che stabilisce il riquadro di ciò che deve apparire in evidenza, lasciando che il resto permanga sullo sfondo. Elisione che tuttavia non concerne soltanto lo sguardo, ma anche ciò che si mostra, in quanto il suo giungere in primo piano anticipa, per alcuni versi, ciò che lo sguardo pensa di voler focalizzare. Potremmo dire che la vera e propria elisione, il suo taglio, avvenga tra ciò su cui lo sguardo si posa e ciò che allo sguardo si mostra, in modo tale che l’atto del vedere passi ogni volta attraverso un movimento evanescente che si colloca tra un punto iniziale e uno terminale. Non potendo stabilire con esattezza quale sia l’effettivo momento in cui lo sguardo ha iniziato a cogliere ciò che vede, è soltanto attraverso il momento terminale che, après-coup, si ricostruisce un tempo logico in grado di restituire l’istante del vedere. Eppure, in questa ricostruzione logica della sequenza visiva, qualcosa dell’intuizione di ciò che si mostra allo sguardo rimane elisa o perduta, lasciando che la presa dell’inconscio non concluda e un momento elusivo s’introduca all’interno di come l’incontro visivo si costituisce. Ecco perché la ricomposizione di ciò che si ritiene di aver visto consiste sempre in un recupero ingannato. Tutto questo movimento di elisione ed elusione non avverrebbe invece per Lacan nel campo del sogno. Se infatti è nella sfasatura tra ciò che si guarda e ciò che si mostra che si crea lo spazio in cui le immagini possono prendere forma, il sogno, caratterizzato proprio dal suo essere composto da immagini, si costituisce esattamente in quel punto di coincidenza tra ciò che si guarda e ciò che si mostra. Il soggetto ha così sempre una forma di scivolamento in se stesso, come nella veglia, ma in questo caso scivola nel punto in cui ciò che si mostra viene in primo piano nel costituirsi stesso di uno sguardo. Ogni forma di orizzonte infatti, ogni profondità di campo, viene meno e il carattere di emergenza in cui le immagini appaiono, il loro contrasto, l’intensificazione dei loro colori, il loro fare macchia, determina il fatto che la posizione di colui che sogna è quella di essere fondamentalmente quella di qualcuno che non vede, che rimane accecato come 4 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973; tr. it. Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1975.
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dall’improvviso irrompere di un flash. È una forma di cecità per eccesso di luce, come quella penetrata nell’occhio del padre durante il sonno, che anziché svegliarlo ha prodotto un momento sospensivo di pura cecità, un attimo di esitazione in cui non si sa che fare, ed è lì che il sogno appare in immagine a prolungare la vita del figlio. L’immagine è un tutt’uno con il fuoco che brucia lo sguardo di colui che potrà certo dire «è solo un sogno», ma che non potrà mai essere la sola coscienza di quel sogno che sta iniziando a sognare. Lo sguardo si presenta allora nella forma di una particolare contingenza, di quella che abbiamo definito una contingenza assoluta, dove, da una parte, ciò che pensiamo che si trovi ancora all’orizzonte sottostà alla propria significazione simbolica: ciò che accade nella stanza accanto, il vecchio inadeguato che sta vegliando; mentre dall’altra parte la coincidenza di ciò che si mostra in primo piano rimane un punto di arresto dell’esperienza, una sospensione dell’azione dove si colloca una mancanza costitutiva dell’angoscia di castrazione. Sebbene rimanga sulle orme della lettura che Freud propone del sogno, Lacan introduce una torsione determinante alla struttura temporale su cui il sogno sembra reggersi, non assecondando alcuna stratificazione del tempo proposta da Freud, ma lasciando che tutto affiori nella sua simultaneità. Tutto si deve tenere insieme, ogni tempo sarà sempre nello stesso tempo. Solo così il padre potrà non uscire più dal sogno, potrà rimanere senza tempo lì dove il figlio gli appare, in quella stessa immagine in cui non potrà mai smettere di cogliere come sia da sempre perso. Se infatti la funzione del sogno è quella di prolungare il sonno, se tutto quello che vi accade sembra avvicinarsi così tanto alla realtà che lo ha provocato, si può per Lacan ipotizzare di poter rispondere alle sue istanze di fondo senza la necessità di dover uscire dal sonno. Quello che conta sarà cogliere quale sia il motivo che porta il padre a svegliarsi, nel senso che Lacan sembra proporci che la questione non sia tanto stabilire perché sia bene svegliarsi o non svegliarsi dal sogno, ma piuttosto quale sia il modo in cui si faccia possibile risvegliarsi al sogno. Innanzitutto la stessa frase pronunciata dal figlio dovrà essere tenuta insieme e non spezzata temporalmente in due parti come propone Freud. Nella sua enunciazione si dovrà cogliere ciò che per il padre quelle parole continuano a perpetuare. Sono infatti le stesse parole che, come suppone lo stesso Freud, gli saranno state dette con
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ogni probabilità dal figlio a causa della febbre alta. Non solo, quelle stesse parole non possono non perpetuare nel padre anche il rimorso perché colui che ha messo a vegliare al capezzale del figlio, l’anziano, non sarebbe stato all’altezza di assolvere bene il suo compito: difatti si era addormentato. La realtà di questo incidente, il vecchio che si addormenta e il corpo del bambino che abbandonato a se stesso brucia, come lo stesso bambino dichiara, non può che risiedere all’interno di un preciso movimento di ripetizione. Il tono di rimprovero in cui la frase viene enunciata, l’afferrare il padre per un braccio, impongono qualcosa di più fatale che il solo rispondere a un accadimento accidentale. Colui che è incaricato di vegliare vicino al figlio non può che rivelarsi uno che dorme, qualcuno che avrebbe bisogno di essere svegliato, che non si accorge che il corpo del bambino brucia di febbre e che anziché intraprendere un’azione come sarebbe necessario fare, ad esempio accorrere provando per prima cosa a salvarlo, come un buon padre dovrebbe fare, preferisce dormire. D’altronde è proprio così che lo troverà quando sopraggiungerà nella stanza del figlio dopo essersi svegliato. Il movimento di ripetizione del sogno s’incentra dunque sulla schisi che si produce nel soggetto in conseguenza dell’incontro con ciò che accade. Non si tratta tuttavia di una presenza temporale della memoria che permette il concatenarsi di una successiva ripetizione, ma è la ripetizione a essere costitutiva dell’immediato taglio che l’incontro con il reale determina: il sogno non fa altro che restituirne l’immagine senza alcun principio di castrazione. Ecco perché per Lacan si tratta di una schisi che ci permette di afferrare il reale come strutturalmente mal venuto. Da una parte abbiamo infatti il ritramarsi della coscienza che instaura con il contenuto del sogno una dialettica di significazione che lo porta a mancare il sogno in quanto tale, dall’altra abbiamo la persistenza del trauma che continua inalterata a darsi come evento reale. Diciamo allora che il ritramarsi della coscienza si dispiega nel tentativo di risignificare come l’evento del sogno risponda alla determinazione imperscrutabile di una tyche, di una buona o cattiva sorte, da cui la nostra vita sembra dipendere al di là della propria volontà. Ma, come lo stesso Lacan afferma, non abbiamo mai il darsi di una tyche senza un automaton, senza l’inappellabilità in cui l’incontro accade, in modo tale che quest’ultimo, nonostante ogni sua possibile differente significazione, non potrà che
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rivelarsi, dalla parte del suo automatismo, come al di là del bene e del male. Per questo per Lacan ogni incontro è sempre un buon incontro, perché non c’è discussione. Se pertanto la schisi che struttura il sogno è nell’ordine del reale, il non risveglio risponderà allora al momento virtuale di un’esitazione che da tale schisi si lascerà attraversare senza l’inserimento di alcuna significazione. L’esitazione infatti non corrisponde mai a un semplice indugiare, ma darà all’evento del sogno il tempo della propria insorgenza di vissuto. Proviamo in questo senso, come d’altronde lo stesso Lacan fa, a immaginare il risveglio del padre, il suo accorrere con le braccia levate nella stanza accanto dove giace il figlio, il suo lamentarsi della disgrazia a causa del fuoco che brucia la salma, il suo imprecare contro la stupidità di quel vecchio che anziché vegliare, come avrebbe dovuto fare, non solo si è messo a dormire, ma continua imperturbato a farlo. Sembra di poterlo vedere quel vecchio, nonostante tutto il trambusto, il cero caduto, il fuoco che divampa, il padre che impreca, lui lì che di schiena, appoggiato sul bordo del letto, continua imperterrito a dormire. Rivelandosi fino in fondo in tutta la sua inadeguatezza, senza poter trovare alcun appiglio che permetta di giustificarlo. Così, nel momento in cui la coscienza inizia a ritramarsi, a ristabilire il senso degli accadimenti, ad accorgersi che tutto quello che sta accadendo, anche la stessa frase pronunciata dal bambino non apparterrebbe affatto al sogno, ma risponderebbe all’ordine di un accadimento reale, ci si accorge come la schisi che ha dato vita al sogno, anche dopo questo presunto risveglio, continua comunque a persistere. Perché questo ritramarsi della coscienza sul legame che esiste tra la struttura del sogno e la struttura della realtà, mantiene in sé un taglio ancora più profondo, che si situa proprio lì dove il soggetto continua a trovarsi preso in ciò che riguarda il macchinario del sogno: l’automatismo statico del suo movimento nel tempo. Tanto è vero che Lacan sembra mettere in sequenza un vero e proprio montaggio filmico: «L’immagine del bambino che si avvicina, lo sguardo carico di rimprovero e, d’altro canto, ciò che lo causa e in cui cade, invocazione, voce del bambino, sollecitazione dello sguardo, “Padre, non vedi?”». Se tutta la scena appartiene indistintamente al prolungamento del sonno: le parole pronunciate dal bambino, il suo sguardo di rimprovero, la sollecitazione su di lui dello sguardo; se tutto ciò esprime
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quello verso cui il padre si sente chiamato a dover rispondere, possiamo allora intuire come sia lui stesso, nel sogno, quel vecchio che impotente dorme al capezzale del figlio mentre brucia. Ogni tipo di veglia si è infatti rivelata del tutto inadeguata a cogliere il richiamo del bambino, per questo l’unica strada possibile è quella di rimanere addormentato e di continuare il sogno del proprio risveglio, che accorrere inutilmente lì accanto al figlio mentre brucia per l’incapacità del vecchio a saper vegliare. Perché se il nucleo del sogno, come lo stesso Freud evidenzia, rimane contrassegnato da una sorta di prelevamento dalla realtà, questo non può che comportare, dal lato del soggetto, come si sia di fronte al momento di un destarsi, a un passaggio indecidibile tra il sogno e la veglia. Tuttavia la realtà in grado di determinare il risveglio non potrà certo essere quel leggero rumore proveniente dalla stanza accanto, rispetto al quale l’impero del sogno continua infatti a mantenersi del tutto attivo; piuttosto, per Lacan, il destarsi dal sogno giunge a espressione nell’angoscia di quanto vi è di più intimo nella relazione tra un padre e un figlio. Intimità che viene a determinarsi non tanto nell’evento di quella morte che continuerà a rivelarsi del tutto inaspettata, perché un padre non potrà mai aspettare la morte di un figlio, ma si mostrerà come ciò che connota l’automatismo di un destino. Quello che si viene a raffigurare in ciò che accade casualmente nel momento in cui tutti quanti dormono: il cero che si rovescia e appicca il fuoco alle lenzuola, questo evento del tutto insensato, la sua imprevedibilità di puro incidente, la cattiva sorte che lo connota e ciò che vi è di straziante nella frase pronunciata dal bambino. Tutto questo per Lacan è una nevrosi da destino o da fallimento. Perché ciò che viene inevitabilmente mancato non è tanto l’adattamento, ma la tyche, l’automatismo dell’incontro con l’evento. Per questo il sogno che continua non è altro che l’omaggio a questa realtà mancata, alla schisi dell’incontro tra un padre e un figlio che non potrà mai darsi se non ripetendosi senza fine attraverso un risveglio indefinitamente mai raggiunto. Il loro incontro, da sempre mancato, continuerà a svolgersi tra il sogno e il risveglio, tra colui che continuerà a dormire appoggiato sul letto del figlio, e di cui, ci ricorda Lacan, non conosceremo mai il sogno, e colui che avrà sognato per non svegliarsi. Nel sogno in effetti non vi è alcun riscontro che permetta di sostenere che il bambino appaia ancora vivo, che risponda in questo modo a un
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appagamento del desiderio del padre, ma è il figlio morto che prende il padre per un braccio e in quell’atroce visione indica una soglia d’intensità tra di loro che si fa sentire come l’unico passaggio in cui il sogno può ancora essere risognato. È il desiderio, così si esprime direttamente Lacan, che si presentifica come la perdita fatta immagine nel punto più crudele dell’oggetto. Nella faglia del sogno, nella sua schisi, è come se si aprisse una voragine in cui il tempo di una vita non smette più di precipitarvi senza fine. Il sonno infatti non si prolunga per permettere al padre di avere la sensazione che il figlio, nonostante tutto, sia ancora vivo, ma per restituirgli la presentificazione di come il desiderio permanga nel riflesso di quell’immagine in cui il figlio è destinato ad apparire proprio nel punto più crudele dell’oggetto. Non si tratta tuttavia tanto di una negazione dell’esperienza della morte per affermazione della sua inevitabilità, quanto di un suo disconoscimento per anticipazione d’amore. Perché è nella schisi d’amore tra un padre e un figlio che si forma l’immagine di ciò che tra di loro è destinato a essere mancato, la loro tyche, il loro incontro reale, e non la sorte, il destino che può sempre accadere in un modo o nell’altro, rivelarsi come una buona o una cattiva sorte. L’incontro tra un padre e un figlio non potrà che rimanere comunque perso nella propria insorgenza d’amore. Per questo è solo nel momento del sogno, in quel flash in grado di dare origine a un’immagine come sospensione di ogni capacità narrativa, che può riprodursi l’unicità di tale incontro. È infatti attraverso un rito, grazie a un atto sempre ripetuto, che questo incontro, destinato a rimanere di per sé immemorabile, può essere commemorato, dato che nessuno potrà mai dire che cos’è la morte di un figlio, afferma Lacan, se non quel singolo padre in quanto padre e cioè nessun essere cosciente.
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Uno degli ultimi racconti di Karen Blixen, ormai vecchia e saggia, si intitola La pagina bianca, e narra dello strano caso relativo a un frammento di lenzuolo che proviene da una prima notte di nozze. Tale frammento è esposto assieme ad altri analoghi nella galleria di un convento di suore carmelitane famose per essere le tessitrici del lino con cui veniva fabbricato il lenzuolo della prima notte di nozze delle principesse regali. Queste in riconoscenza usavano donare al convento il frammento del lenzuolo che testimoniava, attraverso le tracce di sangue che vi erano impresse, della verginità della principessa. Nel corso del tempo i frammenti, ognuno dei quali incorniciato da una cornice dorata con oro purissimo che inoltre recava lo stemma sul quale era inciso il nome della donatrice, divengono una vera e propria collezione esposta annualmente dalle suore tessitrici alle principesse del Portogallo, ormai regine o madri di re, che vi salivano in un pellegrinaggio dal carattere «segretamente gaio». Dalle tracce impresse sulla tela si usava anche trarre degli auspici sul futuro della coppia nuziale. Insomma ogni tela era lì a narrare una storia. Ora si dà il caso che tra i molti frammenti esposti ve ne fosse uno diverso dagli altri. Sebbene fosse sontuosamente incorniciato e con la targhetta ornata con la corona regale, la sua cornice, a differenza delle altre, non recava inciso alcun nome, e lo stesso frammento di lino era bianco candido. Di fronte a questo lembo di tela color bianco puro, le vecchie principesse del Portogallo – regine, mogli e madri di terrena saggezza, ligie al dovere e avvezze all’eterna tolleranza – […] si sono spesso irrigidite1.
1 Karen Blixen, La pagina bianca, in Id., Ultimi racconti, tr. it. di P. Ojetti, Feltrinelli, Milano 1962, p. 130.
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Quel candore si è prestato nel tempo a molte congetture, perlopiù perturbanti, poiché ha evocato un dramma che si deve essere consumato durante una prima notte di nozze. Sia nel caso alludesse a un eros consumato fuori della norma – un imene non più intatto (himen in greco indica la membrana della verginità) – sia invece perché stava a testimoniare di una notte di nozze non consumata come nel dramma del Bell’Antonio di Brancati. Quella «pagina bianca» stava a testimoniare che qualcosa non era andato per il «verso giusto». Ad una rilettura recente del racconto ho pensato che poteva essere letto anche come una metafora della celebre frase di Lacan: «non c’è rapporto sessuale», che ha scandalizzato e non cessa di scandalizzare generazioni di analisti e non analisti di ambedue i sessi. Personalmente l’ho sempre trovata un’affermazione quasi prosaicamente vera, soprattutto dopo aver lavorato durante gli anni del movimento femminista tra gli altri sul testo di una pensatrice famosa, Carla Lonzi2, dal titolo provocatorio: La donna clitoridea e la donna vaginale. Testo dal quale all’epoca ho tratto la considerazione, poi approfondita e articolata nel Lacan del XX seminario (Ancora)3, che l’intero sistema relazionale è in realtà una supplenza dell’impossibilità del rapporto sessuale. Certamente a fare sesso sono convocati i corpi degli esseri umani di qualsiasi genere essi siano, ma sono corpi pulsionali, nati dall’operazione di distacco e separazione dal corpo della madre, dalla perdita dell’involucro placentare. Ciò che era familiare prima della nascita lascia il posto ad un buco che il linguaggio si incarica di scontornare, come dire che l’Uno supposto esistere prima della nascita non è mai veramente esistito poiché non abbiamo altra conoscenza che quella del corpo pulsionale, attraversato dal linguaggio, mentre del corpo extralinguistico poco o nulla sappiamo se non che esso appartiene al dominio del Reale. La pagina bianca di Blixen, in questo contesto, si colloca nel luogo dell’indecidibilità dei significati e finanche delle appartenenze. Nel senso comune il rapporto sessuale coincide con il contatto dei corpi a livello del sesso, e infatti non è questo che l’affermazione laca2 Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1971. 3 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 1983.
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niana mette in discussione, bensì l’impossibilità di una integrazione del corpo dell’uno con il corpo dell’altro, in altri termini di due che formano l’Uno. Nel Seminario XX, Lacan mette a tema, insieme alla sessualità, femminile, la differenza dei sessi e assegna a questa differenza l’impossibilità per la coppia di dissolversi nell’Uno. L’uomo nella sua fallica universalità non ha possibilità di simbolizzare la differenza sessuale se non ricorrendo all’altro sesso, quello della donna che nella sua alterità limita lo strapotere fallico. Nel 1972, negli stessi anni in cui veniva pubblicato Ancora e senza tuttavia esserne a conoscenza, Carla Lonzi scrive: «Godendo di un piacere come risposta al piacere dell’uomo la donna… esalta (si illude dico io) la complementarietà al maschio…»4. Tra le righe si può scorgere la posizione critica di fronte a quell’aspetto del discorso amoroso che invoca l’Uno – inteso come unione di due complementari che insieme formano l’unità – e infatti sempre Lonzi scrive: «la complementarietà è un concetto che riguarda la donna e l’uomo nel momento procreativo non in quello erotico-sessuale»5. L’uomo non diventa impotente pur sapendo che la donna non gode poiché il suo piacere, letteralmente piacere d’organo, è protetto dall’esistenza della domanda d’amore che la donna gli rivolge e che ne fa un soggetto parlato della/dalla relazione d’amore. Miller6 taglia corto quando descrive i due soggetti del rapporto sessuale: «Per l’uomo il godimento ha sempre qualcosa di limitato, di circoscritto, di localizzato e contabilizzabile […] La domanda d’amore occupa nella sessualità femminile un ruolo non paragonabile a quello maschile […] È una domanda che incide sull’essere del partner e che lascia a nudo la sua forma erotomaniaca, quella che l’altro la ami». D’altra parte sempre Miller afferma che: «Per amare è necessario parlare, l’amore è inconcepibile senza la parola, proprio perché amare è dare ciò che non si ha e non si può dare ciò che non si ha se non parlando, perché è parlando che diamo la nostra mancanza ad essere […] dal lato femminile, non si può godere se non della parola, con preferenza per la parola d’amore»7. 4
C. Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, cit., p. 101. Ivi, p. 81. 6 Jacques-Alain Miller, L’osso di un’analisi, Franco Angeli, Milano 2001. 7 Ivi, pp. 54-55. 5
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L’ingenuità di credere alla grande voluttà di un orgasmo contemporaneo nell’uomo e nella donna scaturisce dall’essere culturalmente predisposti a pensare che il massimo dell’erotismo sia il raggiungimento della contemporaneità degli orgasmi. Sulla contemporaneità poggia inoltre l’illusione della complementarietà, «siamo fatti l’uno per l’altra», e soprattutto l’ostilità verso una riduzione della domanda d’amore a se stessa invece che alla conquista dell’Altro. Ancora Lonzi: «Il femminismo è la scoperta e l’attuazione della nascita a soggetto… di una specie soggiogata dal mito della realizzazione di sé nell’unione amorosa con la specie al potere»8. Dal canto suo Lacan, quando definisce «godimento altro» quello della donna, lo indica per ambo i sessi come la via d’uscita dal regime fallico dell’Uno. Eterosessuale dunque non designa il genere sessuale dei soggetti della relazione amorosa bensì l’amore per le nostre singolarità incarnate. In altri termini, c’è l’invito a riconoscere che del rapporto sessuale non tutto è significante, detto in altri termini il godimento dell’atto sessuale si mantiene nel registro dell’assoluta singolarità e incomunicanza poiché «pretende» di ovviare alla perdita vitale generata dal linguaggio. Il discorso amoroso supplisce, mai completamente, a tale perdita. L’impossibilità – a cominciare dall’anatomia, fino all’assunzione del sesso – di «compenetrarsi» con l’Altro e quindi che l’uno possa sapere di cosa l’altro gode appare infine come uno dei mille volti – particolarmente significativo – del Reale. Ciò di cui l’altro gode possiamo allucinarlo, specularizzarlo, metterlo in prosa e in poesia – questo fa il discorso amoroso – e tuttavia quello che viene raggiunto è il corpo pulsionale, che si pulsionalizza, entrando nel campo dell’Altro che è appunto il campo del significante e del linguaggio. Il corpo a cui ci riferiamo è dunque sempre un corpo che dalla nascita ha subìto il trattamento del linguaggio che lo separa per sempre dal suo essere puro organismo naturale. Quello trova una esistenza in quell’archeologia del Reale che chiamiamo anatomia che gli assegna un posto ma non un nome. Tornando alla «pagina bianca», essa indica innanzitutto ciò che del rapporto sessuale non si scrive, non lascia traccia, non fa legame. 8
C. Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, cit., p. 147.
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Il lenzuolo della notte di nozze intatto allude, nella sua indecidibilità, a ciò che non può essere scambiato nel rapporto tra corpi pulsionali e che il candore del frammento consegna all’enigma che caratterizza la comparsa del Reale. Da cui forse, nell’intuizione di Blixen, l’irrigidimento delle principesse di fronte a quel frammento, a quell’assenza, a quella cancellazione di senso. Così come i frammenti segnati dalle tracce sanguigne, dice l’autrice, vengono visitati con spirito «segretamente gaio», quasi una sorta di spensieratezza che proprio quelle tracce proteggono dalla comparsa del Reale che il frammento candido vela e rivela.
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Dal momento della cessazione del battito cardiaco, hanno inizio dei rilevanti processi di trasformazione. La «decomposizione» consiste in una distruzione delle proteine cellulari dei vari tessuti per l’azione, prima di tutto, di microrganismi che preesistevano all’interno del corpo, fra cui i più numerosi sono quelli della flora batterica intestinale. Per effetto della putrefazione, il cadavere va incontro a fenomeni di alterazione cromatica, di produzione di gas, di liquefazione e di una complessiva deformazione che può giungere a renderlo irriconoscibile rispetto all’umano, parlante e dotato di nome, che era. Volendo partire da questa suggestione, un po’ icastica, del cadavere in decomposizione, corpo irreparabilmente morto e più o meno disgustosamente riconfigurato, mi sembra si possano tracciare due linee di riflessione, in parte convergenti. La prima ha a che fare con il perturbante della compresenza, sia come persistenza della vita – cioè di attivi ed evidenti fenomeni biologici – anche nella flagranza della morte, sia come consapevolezza del fatto che l’organismo umano sempre ospita, anzi è in simbiosi con, altri viventi che saranno responsabili del suo disfacimento. In generale, il decomporsi della sostanza organica sembra caratterizzato da una crescita di un elemento distruttivo che «viene da dentro», e che in qualche modo ne fa costitutivamente parte; necessario e pericoloso, presente e nascosto a un tempo. La seconda ha invece a che fare con il posizionamento semantico del significante «guasto». Questa parola – usando qui una certa disinvoltura nel riferirvisi come a un sostantivo o come a un aggettivo – può significare una temporanea interruzione del funzionamento di una macchina o di un attrezzo, oppure una condizione biologica di irreversibile e spesso drammatica trasformazione. Nel territorio della meccanica è
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un evento accidentale, in quello della biologia è piuttosto un processo progressivo. Da una parte abbiamo la rottura, la falla, il buco; dall’altra la marcescenza, l’andare-a-male, l’invasione. È chiaro che queste ultime connotazioni sconfinano facilmente dal territorio della biologia a quello del giudizio morale, in una costellazione di termini in cui, insieme a «guasto», «marcio», «impuro», trovano posto anche «difetto», «vizio» (viziato), «corrotto» ecc. Per quanto riguarda l’essere umano inteso come macchina-in-funzione, l’evento accidentale, il «colpo» (l’ictus), fa paura ma non fa «senso» e, quando si verifica, non si porta appresso connotazioni di giudizio morale negativo. Il decadimento organico, invece, essendo un processo con una lunga durata ed essendo spesso associato a una qualche abitudine dannosa – per esempio l’alimentazione fuori controllo – può essere accompagnato a giudizi, o sensi, di colpa. Inoltre l’abitudine dannosa interferisce, ovvero combina i suoi effetti, con quelli già in azione nel corpo umano – i microrganismi intestinali e non, di cui parlavo prima – e produce una sorta di (s)combinato disposto, che può, come si dice, «fare schifo», fra la colpa (il vizio, la dipendenza) e il perturbante (la presenza interna della morte, o almeno di entità potenzialmente distruttive). Su un primo livello di analisi, quello delle trasformazioni del corpo fisico, credo si possa dire che «guasto» si colloca molto vicino, appunto, allo schifo, laddove convergono l’inquietante e il cattivo. Volendo provare a spostarci verso il livello del pensiero e della produzione simbolica – tenendo sullo sfondo sia il discorso neurofisiologico che si rivolge a fenomeni di decadimento fisico del cervello, sia gli stereotipi del giudizio morale tradizionale che stigmatizza tutto ciò che sembra non aderire alle norme consolidate – potrebbe essere interessante chiedersi quali sono le modalità attraverso le quali l’attività ideativa rischia di «guastarsi». E quali i fattori in grado di determinare arresto di potenzialità simboliche, istupidimento, involuzione. Le risposte più ovvie potrebbero essere: «la televisione», oppure «facebook» o «twitter», o qualsiasi altro programma, nel mercato presente o futuro, che detti modalità di comunicazione basate su una-due frasi (spesso dentro un fumetto) e una gamma lessicale di poche decine di parole. Invece mi sembra più interessante pensare alla lettura, e all’agente mediatico considerato, da questo punto di vista, innocente e nobile, il libro. Com’è l’esperienza dell’incontro con un
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libro che, a leggerlo, si trova intollerabile? Può essere individuata una letteratura disgustosa per il pensiero, come un corpo in decomposizione lo è per i sensi? La sua intollerabilità è un problema di contenuto o di stile? Un problema di banalità dei concetti o di semplificazione eccessiva della forma scritta? Una questione politico-ideologica o di noia? Immagino di entrare in una libreria e di cercare fra gli scaffali un libro fastidioso, insopportabile, che non conosco: dove lo cercherei? In base a cosa lo classificherei come il peggiore che mi sarebbe potuto capitare tra le mani? Mi interrogo così e mi viene in mente mia zia Isa, la sorella di mia nonna materna, pittoresco e quasi leggendario personaggio della mia infanzia. Era già anziana quando io ero bambino e, essendo l’unica, nella famiglia allargata, che non lavorava fuori di casa, passavo molto tempo con lei. Lei, quando guardavamo la televisione durante la cena, pensava che Maurizio Costanzo fosse seduto al tavolo con noi, o meglio si fosse surrettiziamente intrufolato per scroccare un pasto: «Ma che vuole, ’sto grassone, da noi? Che ci viene a fare sempre a casa nostra?». Lei, irriducibilmente «signorina», era coriacemente sessuofobica: la parola «orgasmo» per lei significava una sensazione fastidiosa, tipo un caldo eccessivo, di cui doversi liberare al più presto. Lei, territoriale nel profondo, era tendenzialmente paranoica: ogni presenza estranea alla famiglia (per esempio un mio amichetto, ancor di più se di sesso femminile) era un rischio: potenzialmente, anzi probabilmente, un(a) ladro(a). Lei era campionessa di convenzionalità, di frasi fatte, di saggezza spicciola e di immediata comprensibilità. Oggi forse le sue ingenuità pre-televisive sembrerebbero innocue o addirittura divertenti; allora, per un adolescente, puzzavano di muffa, di chiuso, di stantio. Dunque dicevo, il mio libro orribile, nella libreria in cui sto girovagando, somiglia a zia Isa, richiama quel sapere, parla con il suo linguaggio. La letteratura insopportabile, che riterrei in grado di guastare il mio pensiero, non sarebbe il distante, l’incomprensibile; al contrario, sarebbe quella in grado di andare a pescare, a rimescolare («rimuginare» diceva lei) lì, in quel territorio fobico proprio perché ben chiuso dentro di me; angoscioso proprio perché radicato; schifoso proprio perché profondamente, storicamente, casalingo, Heimlich. Il sapere-di zia-Isa, la sua saggezza semplice e arcaica, le sue paure, fissazioni, modi di dire e di fare sono un po’ come i batteri che il mio corpo ospita nei suoi recessi più vari e che un giorno saranno
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responsabili del mio disfacimento. Fa paura e inquieta, quel sapere, perché sotto sotto penso che, a un certo punto, esso prenderà il sopravvento sul mio pensiero critico, creativo, complesso, flessibile, non-conformista ecc. e io, definitivamente guastato, dirò le cose che diceva lei, penserò le cose che pensava lei, dirò e penserò ciò che lei ha indelebilmente depositato in me. Ma l’artista ha un’arma a sua disposizione, per scongiurare la catastrofe che consisterebbe nel subire passivamente un simile disfacimento. Si tratta di rovesciare preventivamente, e finché si è in tempo, il pericolo in risorsa; nello scoprirne, in un gioco dialettico di creazione di nuovi livelli di senso e di valore, gli effetti «benefici»; nel fare diventare ciò che si avverte come inquietante e imbarazzante o addirittura schifoso1, un materiale con cui costruire le fondamenta stesse, il senso proprio dell’opera. (Non sto facendo qualcosa del genere, ora, utilizzando la povera zia, che è morta da più di trent’anni, per dare sostanza concettuale o almeno narrativa al presente testo?). Il modello operativo della società dello spettacolo è di appropriarsi di qualsiasi territorio (tema, modo di vivere, linguaggio) che emerga alla superficie mediatica, per farlo trionfalmente entrare in una dimensione fondamentalmente finta, di pseudo-condivisione, dove tutti dicono le stesse cose senza pensarne davvero nessuna. Di conseguenza, la condivisione possibile rimasta mi sembra stia sul piano del segreto. Ciò che mi fa vergognare e che quindi tengo accuratamente nascosto: è questo che mi conferisce statuto di singolarità. Se sono riuscito nel non facile compito di evitarne l’occultamento, anche a me stesso, nella dimensione della negazione, allora il mio segreto può insegnarmi, anche attraverso il dolore, a riconoscere i pregiudizi e desiderare il loro superamento; può condurmi, attraverso la continua e inevitabile intersecazione con l’esperienza, a un sapere realmente proprio. L’artista, di questo, fa un lavoro. L’arte può rispondere alle finzioni della società in cui le relazioni sono dettate dallo spettacolo, l’economia è trasformata in finanza e in gratta-e-vinci, e il discorso in un concoction di formulette in pseu1 «L’attrazione verso la morte […] si presenta […] nella situazione di schifo. Giacché si tratta di un problema che non può essere risolto, si rende necessaria un’energia per controbilanciare la tendenza alla dissoluzione; ed è in un atto di sublimazione, intesa come creazione di un’estetica, che questa energia si raccoglie». Da Anna Homberg, Fenomenologia dello schifo, «Rivista di Psicologia dell’Arte», I, 1, dicembre 1979, p. 41.
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do-inglese; può rispondere in modo contro-paradossale proponendo la condivisione del non-condivisibile. Così facendo, essa può determinare sia una sensazione di libertà perché dei significati si muovono, uscendo dall’ombra; sia di comunanza perché l’altro, quando si avverte che, almeno in qualche misura, contenuti e modi del segreto sono anche suoi, è sentito come simile proprio nel punto in cui ogni assimilazione sembrava impossibile. Le forze potenzialmente guastatrici sono, per un artista, il principale serbatoio di intensità e di senso. Dopo aver parlato del corpo fisico e del pensiero, vorrei concludere con il guastarsi dell’opera d’arte, e raccontare un episodio recente, che mi ha molto colpito. Nella preparazione della mostra-evento Sensibile Comune. Le opere vive, che ho curato, insieme a Ilaria Bussoni, Nicolas Martino e Laura Perrone, per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (gennaio 2017), ho proposto che una sezione della mostra fosse dedicata ad opere della collezione della gnam che sono gravemente e variamente danneggiate. Con una buona dose di coraggio, la direttrice Cristiana Collu ha accettato la proposta, e cinque opere (di Mattiacci, Fontana, Van Hoeydonck, Alfano e Pascali) sono state esposte esattamente nella situazione in cui si trovavano nei depositi o nei laboratori di restauro del Museo. Stuoia o Tela di Penelope era stata realizzata da Pino Pascali nel 1968, pochi mesi prima della sua morte in un incidente. L’opera consiste(va) in un grande rettangolo, una specie di tappeto, di cm 230 x 120, fatto di strisce di lana d’acciaio intrecciate a mano. Probabilmente lo stesso artista, in attesa di esporla da qualche parte, una volta finita, aveva arrotolato l’opera intorno ad un lungo bastone di legno. E, così arrotolata, l’opera è rimasta fino al 1996, quando i familiari l’hanno donata, insieme a vari altri lavori di Pascali, alla gnam. Già a quel punto, però, i processi ossidativi spontanei, «interni», che nel frattempo, lentamente ma inesorabilmente, avevano invaso la grande stuoia arrotolata, avevano determinato un agglomerarsi del materiale che ne rendeva impossibile lo srotolamento, anche perché ogni manipolazione, e tentativo di dispiegare la Stuoia e rimetterla nella condizione per cui era stata concepita, ne avrebbe determinato, così come ne determinerebbe ora, il sostanziale sbriciolamento.
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Pino Pascali, Stuoia o Tela di Penelope, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
Ho avuto la fortuna di assistere e partecipare fisicamente all’allestimento di quest’opera, e ad una sua, seppur molto parziale, ri-apertura (fig. 1): ho visto e toccato le pagliette metalliche incrostate le une sulle altre, tanto da rendere praticamente impossibile distinguere uno strato del rotolo dal successivo; ho visto l’irreversibile trasformazione di una scultura pensata per essere stesa a terra, in un blocco compatto; ho visto chiaramente il suo stadio progressivo, la polvere marrone, l’ossido di ferro, in cui, presumibilmente, un giorno il tutto si ridurrà; ho anche, feticisticamente, raccolto e portato via un po’ di quella polvere-ruggine che si era sparsa per terra nella stanza. Pino Pascali è, come è noto, un artista dell’Arte Povera, termine coniato nel 1967 da Germano Celant ad indicare un movimento che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, ha proposto una ricerca anti-razionalista e vitalistica, legata alla primarietà dei materiali, alle ibridazioni delle forme, alla fiducia e all’attesa felice nei confronti dei processi energetici. Parlando degli artisti dell’Arte Povera, Carolyn Christov-Bakargiev ha scritto:
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Il loro tentativo fu quello di provocare una comprensione soggettiva della materia e dello spazio, che fosse in grado di determinare un’esperienza di tutte le forme dell’energia più primarie e pervasive. Questa esperienza era da essere vissuta direttamente, e non mediata attraverso rappresentazioni, affermazioni ideologiche o linguaggi codificati. L’energia corrispondeva, da un lato, alle forze fisiche di base (come la gravità, l’elettricità, le reazioni chimiche) e, dall’altra, si riferiva agli elementi fondamentali della natura umana (come la vitalità, la memoria, l’emozione)2.
Stuoia o Tela di Penelope (1968), nell’evidenziare il processo di ossidazione, agglomerazione e sfaldamento a cui le strisce di lana d’acciaio sono andate incontro, ci racconta la storia di un’opera che è diventata qualcos’altro, grazie proprio a quei processi di trasformazione pre-logici e indipendenti dalla volontà umana, su cui si soffermava, quasi ideologizzandoli, la poetica dell’Arte Povera. Esporre pubblicamente un’opera come questa dimostra che, proprio là dove l’integrità feticizzata dell’oggetto d’arte si guasta e viene meno, si determina un inatteso valore aggiunto di senso, un ponte fra tempi diversi, che affranca l’opera sia dall’appartenenza a una certa datazione che dalla immobilità del capolavoro. Libera dalla immutabilità auratica che caratterizza in genere l’esposizione museale, l’opera danneggiata chiama l’osservatore a una vera e propria ripartizione del sensibile (per usare un termine di Jacques Rancière), invitandolo ad avvicinarsi, a prendere confidenza, a toccare. Libera dalla sua data-di-esecuzione, l’opera ridiventa contemporanea pur restando storica. Trasfigurata nell’evidenza dei suoi processi di trasformazione, seppure, anzi proprio perché, precaria, diventa una plus-opera. Vitale, memorabile, emozionante. Guasta. Come noi.
2 Carolyn Christov-Bakargiev (a cura di), Arte Povera, Phaidon Press, Londra 1999, p. 17 (tr. mia).
Holy Motors Rocco Ronchi
Come è fatto il Reale e, soprattutto, come lo si attraversa? Lo chiediamo al cinema non perché il cinema rappresenti meglio il Reale. La rappresentazione è relazione soggetto-oggetto; la rappresentazione gira intorno alla cosa e genera «simboli», «punti di vista», «espressioni parziali». Il cinema è invece come l’intuizione bergsoniana: effettua dei colpi di sonda nel Reale e ne porta alla superficie – vale a dire, sullo «schermo» – dei frammenti che del Reale sono «parti componenti» o, come meglio sarebbe dire, dei «resti». Il cinema è, insomma, un dispositivo di cattura al pari di qualsiasi trappola che l’astuzia umana dissemina nella foresta. Non ha a che fare con dei «segni», ma con delle cose che ci restituisce a pezzi, lacerate e, talvolta, irriconoscibili. Nel 2012 al festival di Cannes sono stati presentati in concorso due film straordinari che naturalmente non vincono la Palma: Holy Motors di Leo Carax e Cosmopolis di David Cronenberg. È lo stesso anno della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, che vale la pena qui ricordare perché ha lo stesso tema dei primi due ma che manca completamente il bersaglio, costituendosi come una loro involontaria parodia. Sorrentino ha del resto in Fellini il suo dichiarato ispiratore e anche Holy Motors e Cosmopolis sono film che hanno una radice «felliniana». Bisogna intendersi però sul fatidico aggettivo che faceva sorridere il regista romagnolo («avevo sempre sognato di fare, da grande, l’aggettivo»1). Fellini è il viandante nella terra dei morti (Ultimo viaggio di Mastorna). Se inclina al sogno è solo perché questo ha un ombelico che lo fissa nel Reale. Esemplare è il suo horror-manifesto del 1968, Toby Dammit, 1 C. Castellacci, L’America voleva colorare La dolce vita, intervista a Federico Fellini, «Corriere della sera», 30 marzo 1993, p. 33.
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terzo episodio di Tre passi nel delirio. Invitato da cardinali che sembrano usciti dai quadri di Scipione a interpretare il primo western cattolico della storia del cinema, il protagonista, alcolizzato e quasi demente, attraversa una Roma slabbrata all’inverosimile al cui confronto la tanto celebrata Los Angeles di Blade Runner è una rassicurante cartolina per turisti. Toby insegue il sogno infantile di una Ferrari rosso fiammante, ma la sua entrata nella città avviene a bordo di una specie di Limousine nera. Sprofondato nel sedile posteriore, preti e segretarie gli spiegano il progetto nel pastiche multilinguistico abituale nel cinema di Fellini, mentre la città morta scorre come dipinta sui finestrini della macchina, irraggiungibile e terribilmente «reale». Ebbene, ciò che vi è di «felliniano» in Holy Motors (come in Cosmopolis) è questa idea del cinema come ingresso nel Reale. Ciò è evidente fin dalla sequenza che inaugura il film di Carax dove il problema che si pone al «risvegliato» è trovare nella tappezzeria una serratura che permetta di aprire una porta, al di là della quale, sarà ancora il cinema, cioè una tela dipinta, ad attenderlo (e un gigantesco cane che scende lentamente in platea quasi a ricordare che il cinema non è, in ultima analisi, fatto per gli uomini). In Holy Motors e in Cosmopolis si viaggia in Limousine. Holy Motors è il nome della rimessa dove alla fine della giornata di lavoro, la misteriosa autista, Céline, riporta la grande macchina nera che ha ospitato le trasformazioni di Monsieur Oscar. La Limousine è l’automobile prediletta da malavitosi e uomini di potere. È l’emblema sfacciato di una ricchezza dalle dubbie origini: Eric Parker, il protagonista di Cosmopolis, è un pirata della finanza. La Limousine è anche la macchina del cinema e del sesso. Protetti dai vetri oscurati, i padroni della vecchia Hollywood si dice che vi caricassero starlette disponibili a soddisfare ogni loro voglia. La sua caratteristica fondamentale è quella di creare uno spazio segregato in movimento. La Limousine è chiusa su se stessa, completamente introflessa. Cronenberg la prolunga addirittura nell’ano del protagonista, che, ad un certo punto, sottopone ad un controllo medico la sua prostata «asimmetrica». In Holy Motors è il camerino dove l’attore si trucca, al riparo da ogni sguardo indiscreto, celebrando i misteri della maschera. I suoi finestrini non si aprono sul mondo, semmai è il mondo che deve bussare ad essi per segnalarsi come ancora presente. Parigi non si vede mai mentre Céline conduce Oscar ai suoi rocamboleschi appuntamenti: Parigi piuttosto si proietta sui finestrini e appare simile alle visioni
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notturne dei soldati delle truppe speciali dotati di quegli strani aggeggi con i quali possono mirare «oggetti» che di fatto non vedono. Senza porte e senza finestre, la monade Limousine non comunica con il fuori. Per questo è la macchina perfetta per l’attraversamento del Reale. Essa entra dentro simile a una supposta o al sottomarino miniaturizzato di Fantastic Voyage di Richard Fleischer. Difficile, quasi impossibile, immaginare un road movie su una di queste macchine. Quando si va fuori occorre un tutt’altro genere di automobili: vecchie cabriolet, spider, macchine scoperte o decappotabili. Sono macchine estroflesse, omogenee al paesaggio che percorrono. Chi le abita «vede». I road movies sono film che inneggiano al mondo. La loro categoria modale è il possibile e comunque vadano a finire lasciano nello spettatore un imprecisato senso di giubilo. I film «felliniani» sono invece delle intuizioni senza concetto, intuizioni cieche o pure impressioni traumatiche: registrano dei colpi reali, sono un susseguirsi di colpi, tra loro legati da una trama esilissima, pressoché nulla (per lo più un personaggio picaresco che quasi ad ogni episodio muore e rinasce), colpi che lasciano nello spettatore, comunque il film si concluda, un senso di indecisione circa il significato di ciò che non cessa di accadere per tutta la durata del film. Sono film senza orizzonte e, quindi, senza divenire: nessuna hegeliana «scienza dell’esperienza della coscienza» come accade invece nel film «classico», il western, ad esempio, nel quale l’eroe matura comunque nel dolore una conoscenza e noi con lui. Monsieur Oscar non apprende niente dal passato e non ha nessun futuro verso il quale aprirsi come al suo «possibile» (alla fine del film gli si offre del futuro la caricatura perfetta: ad aspettarlo a casa sono delle scimmie…). Monsieur Oscar è un attore, o meglio, un mimo. Quando scende dalla Limousine recita un copione entrando, come tutti i critici hanno unanimamente rilevato, in altri film, che sono a loro volta delle altre «Limousine», vale a dire degli spazi segregati o delle tele dipinte senza rapporto con un preteso «mondo vero» che esisterebbe là fuori. Fuori, infatti, non c’è niente perché il Reale, come l’Uno dei metafisici neoplatonici, non ha opposto. Ma se il Reale lo si attraversa solo in Limousine è perché il Reale è fatto in un certo modo. La Limousine, si diceva, entra dentro. Questa la sua peculiarità. Lo può fare perché, essendo fatta solo di dentro, del dentro essa è una pura replica. La Limousine è un tubo sigillato. A questa clausura deve fare eccezione, inevitabilmente, l’autista, che,
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fin dal Max von Mayerling di Sunset Boulevard, gode di uno statuto privilegiato. Egli è il depositario di un arcano sapere della soglia, più angelo custode che essere umano. Non a caso, nel film di Carax, l’autista Céline, quando abbandona la macchina nel garage, indossa la maschera bianca «di ordinanza», quella che sancisce la non appartenenza al genere umano di chi la porta e forse nemmeno al mondo dei vivi. Stiamo allora dicendo che il dentro è la stoffa di cui è fatto il Reale e che, insomma, se lo si dovesse disegnare, al Reale andrebbe assegnata la forma ben poco nobile di un gigantesco tubo? Il Reale è un maccherone? «Tutti scherzano sul maccherone che è un buco con qualcosa attorno, o anche sui cannoni. Il fatto di ridere, commenta Jacques Lacan, non cambia le cose»2. Lacan ha ragione. La nostra non è affatto un’affermazione grottesca come potrebbe sembrare. Ruggero Pierantoni, in alcuni saggi bellissimi e ingiustamente trascurati, si è chiesto come mai acceleratori di particelle, biblioteche universali, stazioni ferroviarie e metropolitane (a Londra detta the Tube), ma aggiungerei alla lista anche le Limousine della rimessa Holy Motors, abbiano tutte la stessa forma, quella, appunto, del tubo o della sua sezione. «Perché sono simili queste strutture? Perché – risponde – sono i luoghi delle Coincidenze». Il progetto della sala per l’ampliamento della Biblioteca Nazionale di Étienne-Louis Boullée, il grande vano scavato sotto il Gran Sasso in Abruzzo, la Stazione Centrale di Milano hanno la stessa forma perché, osserva ancora Pierantoni, sono state tutte costruite dall’uomo nella speranza dell’evento fortuito, dell’urto miracoloso che metta in contatto una frase con un cervello, riveli una particella, congiunga degli esseri umani che si cercano: sono tutte repliche artificiali del Reale inteso correttamente come luogo delle «coincidenze luminose». I luoghi degli appuntamenti sono sezioni di sfera e la loro dimensione è inversamente proporzionale alla rarità dell’evento che devono rendere possibile. Tanto più macro quanto più micro è quello che deve accadere. La Limousine è costantemente in moto nella Città perché è assetata di coincidenze. Come una trappola lasciata nel bosco, funge da rivelatrice automatica dell’evento raro laddove esso si presenti. Il cinema «felliniano» è allora surrealista non perché faccia pasticci con i sogni 2 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, tr. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 144.
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e con i loro simbolismi, ma perché, fedelmente al dettato bretoniano – penso all’incipit de L’Amour fou –, è interamente consacrato alla trouvaille. Come la memoria involontaria di Proust, esso si predispone astutamente ad accogliere ciò che non può essere progettato. Semmai sarà riconosciuto, après-coup, dopo il colpo, una volta che sarà accaduto. Il Reale è veramente un immenso tubo – lo sfero parmenideo – perché è il trascendentale di ogni coincidenza. Il cinema si inietta allora nelle sue vene, circola come una Limousine nel buio del suo corpo, per far scintillare delle coincidenze reali, trasformando così in destino quanto al senso comune e al buon senso appare solo una possibilità. Il registro del cinema «felliniano» è infatti la certezza, non la verità: certezza che qualcosa accade e non può non accadere e non un supposto sapere concernente ciò che accade in verità. Quest’ultimo punto va sottolineato con forza. La «coincidenza luminosa» non è contingenza. Il Reale non è il contingente. La sua forma logica non è quella del possibile. Finché si resta nello spazio astratto e irreale dell’immaginazione l’evento raro, ovviamente, è solo un possibile. Per questo lo scienziato può, anzi deve dubitare della sua esistenza. Appena preso dall’apparato di cattura esso però diventa Reale. La sua forma logica è ora quella necessità, per così dire, «arcaica» che Jacques Lacan ha chiamato ne pas pouvoir ne pas, non potere non. Il Reale non può essere altrimenti. Di fronte all’eclatante scoperta di un objet trouvé, Breton non ha forse la sensazione della soluzione improvvisa di un problema? Era così facile e non me ne ero accorto, non poteva che essere così… (in Holy Motors questo momento di giubilo è espresso nella sequenza della fisarmonica: tutto è bene perché il bene è l’aver luogo del tutto. Che in questa sequenza di trionfale ottimismo Carax abbia coinvolto come musicista Bertrand Cantat, responsabile della morte di Marie Trintignant, non è, credo, casuale) Il cinema, nella sua radice «felliniana», ha la smisurata ambizione di esaurire il possibile per lasciar posto solo all’ananke, al destino resosi manifesto, alla «coincidenza luminosa». La certezza dell’inevitabile (il non poter non) è il suo clima. In questo è assai poco cortese con gli umani di cui si dice che abbiano bisogno del possibile per respirare, per sognare e per vivere. I mimi, come Monsieur Oscar, vi trovano invece il loro ambiente naturale. Essi non respirano, non sognano e non vivono. Come dice Denis Lavant al decano degli attori francesi, Michel Piccoli, continuano a ripetere «per la bellezza del gesto».
Idiota Felice Cimatti
Questo scrissero i giudaizzanti: «Non sono venuto ad annullare la Legge, ma a compierla». Non così disse il Cristo. Dice egli infatti: «Non sono venuto a compiere la Legge, ma ad annullarla»1.
«Dio è morto» scrive Nietzsche nella Gaia Scienza2. E subito dopo aggiunge: «ma stando alla natura degli uomini, ci saranno ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra! E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!». Perché la “notizia” della morte di Dio è sempre di nuovo rimossa? E che significa «vincere la sua ombra»? In fondo, l’essere umano non è altro che una continua rimozione di quella morte. Dio muore ogni giorno, ma ogni giorno ce lo dimentichiamo. Ma che succederebbe se qualcuno assumesse su di sé l’assoluta radicalità di questo evento, e vivesse davvero nel tempo in cui Dio, finalmente, è morto (o meglio, smette di morire)? Per ora diamo solo una definizione: idiota è quel corpo che realmente 1 De recta in Deum fide, in Mauro Pesce (a cura di), Le parole dimenticate di Gesù, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 2004, p. 359. Si tratta di un testo dall’attribuzione incerta scritto fra il III e IV secolo d.C. contro la dottrina eretica di Marcione, che rifiutava la tradizione ebraica e considerava la figura del Cristo come un «deus alienus», affatto diversa dal Dio della Legge dell’Antico Testamento: «mai nessun critico cristiano si era assunto questo […] compito: dimostrare a partire dal Nuovo Testamento che l’umanità dovesse venire liberata dal suo stesso Dio e Padre!». Adolph von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007, p. 47. Per Marcione la figura del Cristo non ha nulla a che fare con la Legge: «il “buono”, “santo” e “spirituale” della Legge sorgono semplicemente dal suo contrasto con il male e il peccato; ma per quanto riguarda la bontà che si esprime nella misericordia e nella redenzione, non è né buona, né santa, né spirituale» (ivi, p. 183). La vita giusta non è la vita della Legge. Il Cristo non ha nulla a che fare con Dio. 2 Friedrich Nietzsche, Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, t. II, p. 117.
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vive nel tempo della morte di Dio. L’idiota sopravvive a Dio. L’idiota è l’umano dopo (non senza) Dio. Ma siccome Dio non è mai stato vivo, allora quella dell’idiota è una possibilità di vita da sempre a disposizione dell’animale umano. Prima di occuparci dell’idiota, occorre però sapere quello che si teme che succeda, se Dio muore. Ce lo dice Ivan Karamazov, nel romanzo di Dostoevskij: Che mi dispiaccia di perdere Dio? È la chimica, fratello, la chimica! Non c’è niente da fare, reverendo, fatevi un pochino più in là, sta arrivando la chimica! E Rakitin [il giovane seminarista amico di Alëša] non ama affatto Dio, non lo ama per niente! Questo è il punto dolente in tutti quelli come lui! Ma lo nascondono. Mentono. Fingono. «Hai intenzione di professare questo quando ti occuperai di critica?», gli domando. «Se lo facessi apertamente, non me lo consentirebbero», mi risponde ridendo. «Ma che ne sarà degli uomini, allora? Senza Dio, senza vita futura? Dunque, sarebbe tutto permesso, allora adesso si potrebbe fare tutto?» «Che, non lo sapevi?», mi dice e ride. «All’uomo intelligente tutto è permesso, l’uomo intelligente sa come cavarsela in ogni situazione, mentre tu hai ammazzato, hai messo il piede in fallo e stai marcendo in prigione!»3.
L’idiota non è l’uomo «intelligente», l’individuo scaltro e opportunista che riesce sempre a cavarsela. L’uomo senza princìpi, o meglio, l’uomo che ha un solo principio, quello del proprio interesse, del proprio egoismo. Precisiamolo subito, perché è un punto importante, spesso mal compreso: considerare il proprio punto di vista come l’unico punto di vista è un principio etico quanto quello opposto, quello che privilegia sempre e comunque il prossimo, il principio dell’altruismo. Da un punto di vista etico sono entrambi princìpi legittimi e argomentabili: l’egoismo non è che l’altra, inseparabile, faccia dell’altruismo. L’idiota, invece, non è altruista, perché non è nemmeno egoista. L’idiota non partecipa del dualismo fra egoismo e altruismo. Così come non è intelligente, ma non perché sia stupido. Anche in questo caso l’idiota non partecipa del dualismo fra intelligenza e stupidità. È una dote dell’idiota, non accetta mai – ma senza nemmeno dirlo, o per una “decisione” volontaria – i dualismi, e in modo naturale, senza calcoli, è sempre da un’altra parte. L’idiota sta sempre da un’altra parte. Perché l’idiota, come il Pulcinella di Agamben, mostra che «nella vita degli 3
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Villa, Einaudi, Torino 1993, p. 667.
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uomini – questo è il suo insegnamento – la sola cosa importante è trovare una via d’uscita»4. Eppure Ivan Karamazov ci dice che, se Dio è morto (e Dio è morto), allora tutto sarebbe possibile, in un mondo spietato senza regole né carità. In realtà Ivan è vittima del dualismo, che non sa pensare che per opposizioni; o le cose stanno così, oppure in quest’altro modo, il loro esatto contrario. Il punto è che un mondo senza Dio, cioè un mondo senza regole né princìpi, è in realtà un mondo senza Dio, ma che appunto ancora Dio presuppone e rimpiange. Il principio «the rules are, there ain’t no rules» (celebre battuta del musical Grease, diretto da Randal Kleiser nel 1978) è un principio etico a pieno titolo, esattamente quanto «ama il prossimo tuo come te stesso» (Marco 12, 30-31). Etica significa regole, e una regola cattiva è una regola quanto una regola buona. Dov’è che sbaglia, allora, Ivan Karamazov? Sbaglia appunto perché, come osserva Lacan nel secondo Seminario, l’assenza di Dio è ancora un modo di esserci dello stesso Dio. Se Dio non c’è, vuol dire che ci aspettavamo che ci fosse, appunto. E quindi, sia pure per sottrazione, Dio continua ad esserci. Per questa ragione, Lacan può dire: «come sapete il figlio Ivan […] dice, Se Dio non esiste… – Se Dio non esiste […] allora tutto è permesso. Nozione evidentemente ingenua, perché sappiamo bene, noi analisti, che se Dio non esiste, allora più niente è permesso»5. Si dice, solitamente, che dobbiamo seguire i nostri desideri, «va dove ti porta il cuore» recita un noto luogo comune. Il punto è: ma il cuore, perché vuole proprio questo, o quello? Come decide, il cuore, che vuole qualcosa? E che c’entra, tutto questo, con Dio? «Dio», per Lacan, significa senso. Se c’è Dio, allora c’è un qualche senso in quel che facciamo. Ma quindi «Dio» è un sinonimo di «linguaggio», questa immensa macchina sempre in funzione che non fa altro che macinare discorsi, interpretazioni, sensi appunto. Non è un caso che, nel tempo della morte di Dio, non si parli d’altro che di comunicazione e messaggi. Quello che una volta era Dio oggi è il linguaggio: «la religione è fatta per questo, per guarire gli uomini, vale a dire
4 Giorgio Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Milano 2015, p. 45. 5 Jacques Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2006, p. 148.
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perché non si accorgano di ciò che non va»6. Dio non c’è più, ma il linguaggio c’è ancora, quindi c’è ancora del senso. Quando si parla di Dio si parla allora di senso. Ma qualcosa privo di senso, non per questo non ha senso; il suo senso consiste appunto nel «non avere senso». Un enunciato negativo, ad esempio «Dio non esiste», presuppone il corrispondente, sebbene implicito, enunciato affermativo «Dio esiste». In entrambi i casi c’è Dio, sebbene in un caso in modo negativo e nell’altro affermativo. Per questo Ivan Karamazov si sbaglia, perché non basta che Dio sia morto per uscire dal mondo di Dio. È questa l’ombra di cui parla Nietzsche. Se ora torniamo al cuore, e ai suoi desideri, vediamo che quel che il cuore desidera presuppone sempre un Dio, cioè un senso. Voglio il bene degli altri? Lo voglio perché è bene – cioè il suo senso è positivo – amare gli altri. Il cuore lo vuole perché lo vuole Dio. Voglio soltanto il mio bene? Lo voglio perché anche se è un male per gli altri – cioè il suo senso è negativo – è un bene per me. Anche se il mio bene è soltanto mio, non smette d’essere un bene. Se Dio c’è, allora, posso questo; se Dio non c’è, allora posso solo quello. Ma si tratta sempre e comunque di sensi possibili, di sensi permessi. Facciamo l’esempio del segnale stradale che indica un senso unico. Prescrive due modi di comportarsi: adeguandosi a quello che prescrive, e quindi andare nella direzione indicata. Oppure contravvenendo all’indicazione del segnale, e muovere nella direzione vietata. Il paradosso del segnale è che, in fondo, definisce lo spazio dei miei desideri: puoi fare come ti dico io, oppure puoi fare come io non voglio. In entrambi i casi il «mio desiderio», in realtà, può solo quello che il segnale stradale ha previsto che posso fare. È il segnale stradale, cioè il senso, in definitiva Dio, che stabilisce quello che posso desiderare. Un senso che è talmente potente che prevede anche la sua trasgressione, tanto è anch’esso un senso (sia pure vietato, un’infrazione). Per questo, come dice Lacan, «se Dio non esiste, allora più niente è permesso». Se davvero Dio non esiste, non c’è più nessun senso – né consentito né vietato – e quindi non c’è nessuno spazio predefinito di desiderio. «Dio» significa: «puoi desiderare questo, e allora io sono contento; oppure puoi desiderare quest’altro, e allora io ti punirò». 6 Jacques Lacan, Dei nomi-del-padre. Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 102.
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In entrambi i casi si può desiderare solo quello che Dio – come garante finale del senso – ha stabilito che si possa (e non si possa) desiderare. Se quindi Dio non esiste, ecco il punto finale di Lacan, non c’è più niente da desiderare. Si desidera qualcosa solo perché Dio lo vuole, oppure – ciò che non fa nessuna differenza, per quanto attiene alla realtà del desiderio – perché non lo vuole. Questo vuol dire che è il senso la precondizione di ogni desiderio: si vuole qualcosa perché è sensato volerlo. Un desiderio del tutto al di là del senso, nessuno lo vuole. Perché non c’è nessun senso a volerlo. Se il desiderio che desidero non soddisfa, né disgusta, nessuno, perché desiderarlo? Ma Ivan Karamazov potrebbe rispondere affermando che è sufficiente che sia io a desiderarlo. Se un desiderio è mio, questo lo rende abbastanza sensato da desiderarlo. In realtà io sono quello che desidero. E se quello che desidero lo desidero perché è sensato desiderarlo, perché lo vuole Dio, allora io voglio quello che vuole Dio. Quindi non sono io a volere quello che io voglio. Lo vuole un altro. Se desidero un desiderio, allora quel desiderio non è mio. Il problema del desiderio non è se è buono o cattivo, oppure se è egoista o altruista: il problema del desiderio è il fatto che lo desidero. Il problema è il desiderio. Ma questo significa, ed è il punto che sfugge a tutti quelli che temono l’egoismo del desiderio (ad esempio quelli che pensano che il capitalismo contemporaneo non sia che l’esaltazione del narcisismo individualista), che il desiderio è sempre sociale. Lo è quando è altruista, per definizione. Lo è quando è individuale, perché l’individuo non è che la società interiorizzata, cioè è Dio dentro di me. Il desiderio non è mai di chi lo desidera. La formula finale del problema del desiderio è quella del sesto Seminario di Lacan: «il desiderio […] è anzitutto il desiderio dell’Altro»7. Io desidero quello che l’Altro desidera, cioè quello che è sensato (positivamente e negativamente) desiderare; in definitiva, quello che Dio desidera. Ecco perché se Dio non esiste non c’è letteralmente niente da desiderare. Il desiderio non è che la faccia soggettiva dell’oggettività di Dio. Ma cos’è Dio? L’abbiamo visto, è il senso, il linguaggio come macchina del senso. La condizione per partecipare al gioco di questa macchina è farsene completamente assorbire. 7 Jacques Lacan, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, Torino 2016, p. 18.
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L’individuo non è altro che «la presa dell’uomo nel costituente della catena significante»8. Non esiste alcuna soggettività originaria, si diventa un individuo solo cominciando a parlare, cioè appunto quando la bocca dice quello che il linguaggio può dire. Per questa ragione il soggetto non è che una figura del linguaggio: «se l’uomo parla, per parlare deve entrare nel linguaggio, e in un discorso preesistente. Questa legge della soggettività […] ovvero la dipendenza fondamentale della soggettività dal linguaggio, è così essenziale che su di essa scivola tutta la psicologia»9. Non solo la psicologia, anche l’etica, che parla di «giusto» e «ingiusto» come se il problema fosse soltanto nella scelta fra queste due alternative, e non si interroga sul problema fondamentale di chi potrebbe esercitare questa scelta. Abbiamo visto che Ivan Karamazov allora si sbaglia, perché la morte di Dio non getta affatto l’umano nell’anomia egoistica e narcisistica; ma si sbaglia anche perché Dio, in realtà, è morto da tempo, è morto da sempre. Come abbiamo visto, infatti, il problema etico è dualistico, se scegliere il bene rispetto allo scegliere il male. Questo significa accettare il dualismo così come si presenta, con le «scelte» (e solo quelle) che prevede. Un dualismo che dice: «il gioco è questo, scegli da quale parte stare». Ma in realtà esiste un’altra possibilità, quella dell’idiota, che senza sapere né come né perché non accetta i termini del problema. In questo senso l’idiota non è né egoista né altruista, perché si colloca a lato della loro distinzione. Per questa stessa ragione può apparire uno stupido (rispetto all’uomo «intelligente» di cui parla Ivan Karamazov), perché non sa scegliere, e quindi appare – a chi non vede più il dualismo, ma solo le «scelte» che prevede – come incapace di decisione, come uno sciocco appunto. L’idiota è come Bartleby lo scrivano del racconto di Melville, quello del «I would prefer not to», che, come osserva Deleuze, «lascia in sospeso ciò che respinge»10, e così si pone al di qua della scelta, e proprio per questo la sua «formula è sconvolgente e devastatrice e lascia il vuoto dietro di sé»11. Il punto da rimarcare è che l’idiota non vuole ottenere questo effetto, l’idiota non vuole nulla (è il soggetto 8
Ivi, p. 13. Ibid. 10 Gilles Deleuze, Bartleby o la formula, in Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 2006, p. 10. 11 Ibid. 9
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che vuole, ma ciò che vuole è «il desiderio dell’Altro»). L’idiota è efficace proprio perché non cerca nessuna efficacia. L’idiota, come Bartleby, non è che rifiuta di scegliere, è che si colloca nel campo indistinto e indeterminato sospeso fra le scelte (la sua infatti non è «né un’affermazione né una negazione»12), rifiutandole entrambe, e finendo per annullarle tutte e due. Questo è il punto più importante, per comprendere la figura dell’idiota. La scelta, qualunque scelta, divide in due il mondo, la parte che si è scelta, e quella che la scelta ha lasciato fuori, che non è stata scelta. L’idiota è colui che non accetta di dover scegliere, cioè “decide” di non accettare il desiderio dell’Altro. In realtà non decide nulla, ché altrimenti sarebbe già un soggetto, e non potrebbe che barcamenarsi fra alternative che non ha scelto. L’idiota non sceglie nel senso che sta da un’altra parte, al di qua del gioco della scelta. Per questa ragione, tornando a Bartleby, Deleuze osserva che: La [sua] formula è devastatrice perché elimina impietosamente tanto il preferibile quanto qualsiasi non-preferito. Essa annienta il termine a cui conduce e che ricusa; ma anche l’altro termine che sembra preservare e che diventa impossibile. In realtà li rende indistinti: scava una zona d’indiscernibilità, di crescente indeterminazione tra attività non-preferite e un’attività preferibile. Ogni particolarità, ogni referenza è abolita13.
L’idiota si muove in «uno spazio di indiscernibilità». In realtà l’idiota è questo stesso spazio. L’idiota testimonia che questo spazio esiste, e che è abitabile. D’altronde, è la caratteristica principale del principe Lev Nikolaevič Myškin, la straordinaria e sconcertante figura al centro dell’altro capolavoro di Dostoevskij, L’idiota. Il principe Myškin, infatti, non fa che dirlo, a chi gli chiede una precisa presa di posizione (in questo caso all’amico Evgenij Pavlovič): «“Così, su due piedi, non so dire se sono d’accordo oppure no”, rispose il principe, smettendo di ridere e assumendo l’aria di uno scolaro colto in fallo, “ma vi assicuro che vi ascolto con gran piacere”»14. Il principe Myškin non è indeciso – che è il modo in cui il soggetto vede l’idiota – al contrario, è come si presenta la vita prima di essere catturata dal dispositivo della decisione, cioè dal linguaggio e da Dio. Per questo il
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Ivi, p. 13. Ibid. 14 Fëdor Dostoevskij, L’idiota, Newton Compton, Roma 2017, p. 283. 13
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principe Myškin, come lo scrivano Bartleby, è a suo agio solo quando può ritirarsi nello «spazio di indiscernibilità»: Era preso da una strana voglia di allontanarsi, di scomparire; vagheggiava un posto scuro, deserto, ignorato da tutti, dove rimanere da solo, in segreto colloquio con i propri pensieri. Immaginava di trovarsi a casa sua, sulla veranda, ma da solo […]. Avrebbe desiderato stendersi sul divano, sprofondare la faccia nei cuscini, e restare così per tutto il giorno, tutta la notte e il giorno dopo. A momenti, gli tornavano in mente i monti della Svizzera, uno specialmente, su cui era solito arrampicarsi per contemplare il villaggio, la cascata simile a un filo d’argento, le nuvole bianche e il vecchio castello abbandonato. Oh, come gli sarebbe piaciuto, adesso, rifugiarsi lassù, fuggire tutti per concentrarsi soltanto su una cosa […] avrebbe dedicato tutta la vita a quell’unico pensiero, anche se fosse vissuto mille anni! E che tutti quanti si dimenticassero di lui […] Anzi, era indispensabile che gli altri se ne dimenticassero, che credessero di non averlo mai conosciuto e che lo sbiadito ricordo di lui non fosse altro che un sogno […]. Sogno o veglia, che differenza c’è?15
Che la posta in gioco dell’Idiota sia questo «spazio di indiscernibilità» ce lo conferma, infine, lo stesso principe Myškin, quando scopre che, in realtà, vorrebbe poter vivere tutta la sua vita nell’attimo sospeso che precede un attacco epilettico. In quell’attimo indeterminato e indeterminabile fra coscienza e incoscienza (fra «sogno o veglia» appunto), cioè prima di ogni decisione, ché ogni attacco non è che una terribile decisione e irrevocabile, in quell’attimo si potrebbe vivere un’intera vita, piena e senza desideri: «se in quel secondo, cioè nell’ultimo istante in cui l’imminenza dell’attacco lo lasciava cosciente, egli, in piena lucidità, fosse riuscito a dire a se stesso: “Sì, per questo istante si può dare la vita!”, allora, certamente, quell’istante avrebbe avuto davvero il valore di una vita intera»16. Un istante che è una intera vita, ossia una vita tutta vissuta nella pienezza della vita, sempre vita e mai desiderio, sempre e solo vita: «durante quel secondo, egli era sicuro che avrebbe potuto dare la vita pur di assaporare ancora quella celestiale voluttà che lo riempiva. In quel secondo […] si poteva capire il vero significato della frase “verrà il tempo, in cui non esisterà il tempo”»17. 15
Ivi, p. 292. Ivi, p. 200. 17 Ivi, p. 201. 16
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L’idiota è colui che, dopo la morte di Dio, vive in questo istante senza tempo (ché il tempo cronologico del passato, presente e futuro è la stessa cosa del tempo della Legge e di Dio), in un puro «spazio di indiscernibilità». Per provare a immaginare cosa potrebbe essere questa condizione, può aiutare un esperimento mentale del Premio Nobel per la fisica Erwin Schrödinger, quello diventato celebre come «il gatto di Schrödinger»18. Dentro una scatola metallica ermeticamente chiusa c’è un gatto. Nella scatola c’è anche una piccola quantità di una sostanza radioattiva, che decade nel tempo, e un contatore Geiger che misura questo decadimento. Se un atomo radioattivo decade, il contatore rileva la radiazione e fa scattare un relè che mette in movimento un martelletto che, a sua volta, rompe una fialetta di acido cianidrico, che infine avvelena e (ahimè) uccide il gatto. Dal momento che il decadimento radioattivo è un processo probabilistico (nell’intervallo di un’ora un atomo della sostanza radioattiva può decadere, ma anche no) il problema è che finché non si apre la scatola non si può sapere se il gatto nella scatola sia vivo o no. Secondo la cosiddetta funzione d’onda che misura lo stato complessivo del sistema, allora il gatto «vivo e morto sarebbero mischiati o sparsi in parti uguali»19. Il gatto è vivo? Il gatto è morto? È un po’ vivo e un po’ morto? Finché non si effettua la misurazione (la scelta, cioè finché non si apre la scatola) non è dato saperlo. Il reale del gatto è questa indecidibilità fra vita e morte. Qui non vale l’obiezione realista secondo cui anche se non lo sappiamo, né possiamo saperlo, il gatto in sé è o vivo o morto. Il punto è proprio questo, non esiste alcun gatto in sé. Non esiste un gatto separato dalla sua vita, o dalla sua morte. Il reale della vita è proprio questa sua radicale inafferrabilità e indecidibilità. Finché la scatola non viene aperta – e quindi la sua vita non viene decisa da 18 Si tratta di un esperimento mentale ideato per provare a dare una rappresentazione intuitiva di quella che lo stesso Schrödinger chiama «l’idea fondamentale della meccanica ondulatoria», cioè l’ineliminabile dualismo onda-particella, per la cui comprensione «non bastano più certi vecchi concetti che ci sono cari e sembrano indispensabili, come “vero” o “unicamente possibile”, non si può mai dire che cosa è vero o che cosa succede per davvero, ma solo ciò che sarà da osservare nel singolo caso concreto». Erwin Schrödinger, L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 78. 19 Erwin Schrödinger, The Present Situation in Quantum Mechanics, in John A. Wheeler, Wojciech H. Zurek (a cura di), Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press, Princeton 1983, pp. 152-167.
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qualcuno, che sia lo scienziato o Dio – non è che il gatto è contemporaneamente vivo e morto, al contrario, il gatto è né vivo né morto, è al di qua di questa distinzione20. Il gatto, come Bartleby o il principe Myškin, non è cioè catturabile dal dispositivo della decisione21. La vita dell’idiota, come quella del gatto, è questa inafferrabilità. Il reale è questa assoluta coincidenza del vivente con la vita che vive (e contemporaneamente muore). Il reale è il luogo dell’idiota. Non nel senso che l’idiota sta nel reale, al contrario, l’idiota è il reale della vita. Ed è il reale perché idiota è quella vita che non vuole prendere la realtà, non vuole nominarla né spiegarla. Semplicemente la vive fino in fondo. Per questo il principe Myškin vorrebbe «scomparire», vorrebbe cioè coincidere con il mondo: «allora la scomparsa è l’unico modo in cui il reale può affermarsi perentoriamente come tale, sottraendosi alla presa del calcolo»22. Quando si scompare, c’è solo il mondo, c’è solo luce. Nessuna «ombra».
20 Mentre l’alternativa logica ha la forma «A o non-A», il pensiero dialettico consiste invece «nella negazione di un’alternativa. La sua formula generale […] potrebbe essere: “né A, né B” […]. Ma se A e B sono dei contrari, e non dei contraddittori, essi non costituiscono una genuina alternativa. Quindi è sempre possibile scappare “tra le corna” del dilemma»; Enzo Melandri, La linea e il circolo, Quodlibet, Macerata 2004, p. 798. L’idiota, se lo sapesse, e soprattutto se gli interessasse, sarebbe un pensatore dialettico. 21 Che poi coincide con quello della nominazione: «corpo materiale è il nome che diamo a una catena continua di eventi che si susseguono nel tempo». E. Schrödinger, L’immagine del mondo, cit., p. 161. 22 Giorgio Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016, p. 52.
Liliana Franco Lolli
Innanzitutto, chi è Liliana? Rispondere a questa domanda non è un compito semplice: di certo, si può solamente dire che Liliana è una donna di circa cinquant’anni, ricoverata in un piccola residenza riabilitativa che accoglie persone con gravi disabilità intellettive e importanti disturbi comportamentali. Le osservazioni e le considerazioni diagnostiche che riempiono la sua cartella clinica parlano di grave oligofrenia neonatale, di autismo infantile, di totale assenza di linguaggio, di incapacità di provvedere alla propria autonomia personale, di compulsività alimentare, di atteggiamenti autolesivi, e così via. Come spesso capita nella clinica della disabilità (in special modo, in quella intellettiva), la descrizione di Liliana è fatta “per differenza” rispetto alla norma: l’elenco di competenze che mancano misura – per la sua abbondanza – la gravità della sua condizione. Nulla di quello che trovo scritto su di lei, tuttavia, riesce a dire chi sia Liliana: tutt’al più, indica la distanza tra lei e i parametri esistenziali considerati “regolari”. Liliana, infatti, è descritta, quasi esclusivamente, in termini “negativi”: non parla, non controlla gli sfinteri, non ha orientamento spazio-temporale, non è in grado di evitare situazioni per lei pericolose (come sporgersi troppo dalla finestra, attraversare la strada senza guardare, esporsi al freddo ecc.), non si relaziona con gli altri. Ciò che su di lei trovo scritto “in positivo”, al contrario, non va oltre la desolante constatazione della presenza di comportamenti problematici: si picchia violentemente il volto, tende a togliersi i vestiti, cammina o corre improvvisamente senza andare in alcun posto, mangia senza limiti, fissa lo sguardo nel vuoto, siede per terra, e così via. Al di là di ciò che in lei manca o di ciò che in lei si manifesta come problematico, cosa si può dire, dunque, di Liliana? Il grave problema intellettivo e comportamentale sembra eclissare in-
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teramente la sua persona, in una coincidenza quasi assoluta tra lei e la sua “deficienza” patologica. Liliana, vista da questa prospettiva, non è altro che la malattia psichica da cui è affetta. Non sono a disposizione altri significanti se non quelli anonimi e impersonali del linguaggio medico, dunque, inadatti a definirne l’unicità e l’irripetibilità. Una precisazione, a questo proposito, è, tuttavia, d’obbligo: sappiamo che, per qualunque essere umano (pertanto, non solo per Liliana), qualunque significante non è in grado di significarlo e che il soggetto – come ci ha insegnato Jacques Lacan – emerge come tale proprio nell’intervallo tra i significanti: detto in altri termini, il soggetto si istituisce come effetto del rinvio da un significante all’altro ed è proprio a causa di questo dato strutturale che ogni sua possibile definizione finisce, necessariamente, per mancarlo. Il significante (in quanto universale) non può dire nulla (del particolare) del soggetto. In questo, l’inidoneità del significante a connotare la specificità di Liliana non differisce, sostanzialmente, da quella che riguarda ogni parlessere. Ma la situazione di Liliana (e, più in generale, delle persone affette da gravi forme di disabilità intellettiva) presenta una caratteristica speciale, della quale non possiamo non tener conto: l’operatività del significante risulta sostanzialmente compromessa, il che deteriora e lede il processo evolutivo di affrancamento del diveniente soggetto dall’originario stato di indistinzione con l’Altro. Liliana non è “normalmente” alienata nel significante (esito del necessario ricorso alle insegne dell’Altro come unica possibilità di assicurare una consistenza identitaria al «niente» che il soggetto originariamente è), ma, letteralmente, invasa dal e confusa nel significante: o, per essere ancora più precisi, Liliana si trova a vivere in un mondo (non ancora) bonificato dalla funzione negativizzante del significante (che, come noto, nell’annullare la cosa – dunque, la sua possibile associazione ad un significato univoco e prestabilito – non può che rinviare a un altro significante e dar luogo, così, alla catena all’interno della quale il senso affiorerà come relazione tra i significanti stessi). Il mondo di Liliana è, verosimilmente, un mondo in cui il significante non ha cancellato – riscrivendoci sopra, in termini di rappresentazioni – le tracce di godimento lasciate dai ricorrenti flussi di stimolazioni (endogene ed esogene) alle quali l’organismo è sottoposto. Liliana, per dirla in altri termini, vive in un mondo nel quale sembra prevalere la dimensione di segno rispetto a quella di senso. Il suo universo significante si limita ad essere un universo nel quale agli
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eventi che si svolgono intorno a lei associa – in maniera determinata, verosimilmente, da precedenti condizionamenti – uno specifico significato: il rumore del carrello del pasto, la voce dell’educatore che l’invita ad alzarsi da terra, le urla di Pino, ognuno di questi accadimenti sembra avere un corrispettivo comportamentale indotto da un collegamento di tipo affettivo. È così, allora, che alle urla angosciose di Pino – evidentemente vissute con disagio – segue l’accentuazione di condotte autoaggressive, al rumore del carrello del pasto segue un’improvvisa attivazione massiva del corpo (che si mette alla ricerca della possibilità della soddisfazione orale), alla dolcezza delle parole dell’educatore seguono atteggiamenti di tenerezza e di contatto corporeo (discontinuo ma incredibilmente intenso) ecc. Nel contesto significante di Liliana, il significante non rappresenta, dunque, un soggetto per un altro significante ma si limita a rappresentare qualcosa (dotato di valore libidico) per qualcuno (per lei, nel caso specifico): è, in altri termini, segno non di un soggetto (e della sua ineffabile ma necessaria presenza che interroga il senso dell’esistenza stessa) ma di un oggetto (e del godimento ad esso connesso). Il mondo di Liliana, in quest’ottica, è il mondo di lalangue: un mondo di significanti (speciali, in quanto non ancora inscritti in una catena significante) in grado di incidere libidicamente l’organismo, di “affettarlo”, di snaturarlo, di renderlo sensibile alle melodie, ai rumori, alle tonalità, all’aspetto puramente musicale delle parole che la circondano. Ma non solo: lalangue, infatti, non va pensata esclusivamente come serie di significanti sonori in attesa di articolarsi tra loro per costituirsi in un discorso. Lalangue è l’insieme di tutto ciò che il mondo simbolico (l’Altro) offre al neonato in un tempo in cui il suo sistema percettivo non può che registrare ogni accadimento come isolato e privo di senso. La stessa azione specifica (quella che – come sosteneva Freud – risolve lo stato di tensione dell’organismo) rappresenta, in origine, un evento insensato, immotivato, sopraggiunto come una sorta di grazia inattesa che solo la reiterazione doterà di significato: un accadimento episodico, dunque, un S¹ al quale seguirà un altro S¹ (una nuova azione specifica) e un S¹ ancora, che acquisirà un senso (causale e teleologico) solo nel suo progressivo associarsi all’S² dell’effetto libidico (il piacere – o dispiacere – prodotto) e della volontà di recupero della condizione di quiete. L’identità di percezione – che Freud descrive come obbiettivo dell’apparato psichico
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finalizzato a restaurare l’esperienza originaria di soddisfacimento – è l’esito dell’azione (libidicamente marchiante) di lalangue sul vivente: ne deriverà la tendenza – tipica del processo primario – ad allucinare la soddisfazione stessa. Il pensiero (l’identità di pensiero, come afferma lo stesso Freud) si svilupperà come «surrogato del desiderio allucinatorio»1, come superamento, dunque, della dimensione puramente affettivo-pulsionale di lalangue, a favore della graduale conquista del valore simbolico del significante – indispensabile per la costruzione di un senso di realtà stabile (che segna, freudianamente, il passaggio al processo secondario). Ogni atto del Nebenmensh è, pertanto, lalangue: ogni gesto affettivo, ogni abbraccio, l’offerta del seno, il dialogo tonico dei corpi, il dondolamento, lo sfioramento della pelle, il porsi nel campo visivo del neonato, ciò che quest’ultimo riceve dall’Altro in termini di stimolazione tattile, visiva, propriocettiva è significante che – sebbene sprovvisto di un senso definito – provoca effetti di godimento, eventi di corpo, risposte libidiche. Tutto quanto, pertanto, accade intorno a Liliana, inevitabilmente risuona nel suo corpo, “prende corpo”, si corpsifica. Il corpo immateriale del linguaggio – per riprendere le straordinarie riflessioni di Lacan in Radiofonia –, l’incorporeo del simbolico (che contiene, per l’appunto, tutto ciò che dall’Altro proviene) penetra l’organismo (danneggiato) di Liliana, si immerge nel soma e lo fa corpo, strumento al servizio del linguaggio stesso, esiliato, da sempre e per sempre, dalla presunta innocenza delle origini. Il problema di Liliana (e delle persone con gravi lesioni neurologiche) consiste nella compromissione (causata dal danno organico) del processo – simultaneo, inverso e necessario – di incorporazione della «carne» nel simbolico (il rovescio logico dell’incorporazione del simbolico nell’organismo sopra considerato): se, per un verso, infatti, il linguaggio bonifica e trasforma il godimento originario dell’organismo tramutandolo in corpo umano (sensibile, cioè, al significante), per l’altro, è la carne a penetrare nel simbolico, a incistarsi come nucleo di reale irriducibile all’interno del significante stesso. Se è vero, pertanto, che la carne incorpora il simbolico, è altrettanto vero che il simbolico incorpora la carne: detto in altri termini, come in un nastro di Möebius, simbolico 1 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 547.
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e reale si penetrano reciprocamente, incistandosi (e differenziandosi) l’uno nell’altro. La loro articolazione necessita della mutua azione del primo sul secondo (e viceversa): il che, in effetti, appare pregiudicato dalla gravosa influenza che la lesione organica esercita sull’intero processo. Lalangue opera sull’organismo del grave disabile intellettivo modificandolo in corpo (al cui interno, infatti, rimbomba l’eco del significante asemantico che, nel suo lasciar segni di godimento, lo introduce – immancabilmente e irreversibilmente – nell’economia libidica dell’al di là del principio di piacere), ma la penetrazione non si compie all’insegna della definitiva separazione tra corpo e carne. Lalangue, si potrebbe dire, ha snaturato l’organismo di Liliana (che, perturbato dagli effetti di godimento che il significante determina, è stato proiettato in una logica che ha oltrepassato quella dominata dalla linearità della necessità della scarica della tensione in eccesso), sebbene, tuttavia, il significante non si sia emancipato – parzialmente, ma quanto basta a favorirne una nuova versione – dal legame con il godimento di cui è causa. Il vincolo tra parola e affetto, tra suono e effetto sul corpo, non ha subìto variazioni e rimaneggiamenti, è rimasto stretto e, per certi versi, inscalfibile. Il che ha ostacolato l’acquisizione di autonomia del significante dal suo sostrato libidico (autonomia che, per quanto limitata, ne avrebbe consentito l’utilizzo ai fini della significazione e della comunicazione). Il significante, in definitiva, è rimasto prigioniero della sua preistoria asemantica. In un vertiginoso passaggio di Radiofonia, le osservazioni di Lacan sembrano segnalare la specificità di tale condizione morbosa del grave insufficiente mentale: «non è così per ogni carne. Solo da quelle in cui il segno s’imprime per negativizzarle salgono poiché corpi se ne separano, i nembi, acque superiori, del loro godimento, carichi di folgori per ridistribuire corpo e carne»2. Non è così per ogni carne, afferma Lacan: ed è questo il punto che mi interessa sottolineare. Non sembra che Lacan, in questo denso enunciato, si limiti a ribadire un concetto già, in precedenza, sostenuto: e, cioè, che non tutto della carne si traduce in corpo e che, in altre parole, qualcosa (una quota di reale) residui nel corpo come suo sottofondo ineliminabile. Qui – ritengo – Lacan sostiene qualcos’altro, qualcosa in più: non ogni carne – dice – si trasforma in corpo. Non su ogni carne, cioè, il segno può imprimersi 2
Jacques Lacan, Radiofonia, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 406.
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per negativizzarne il godimento: il richiamo esplicito al primo giorno della Genesi (quello in cui Dio intervenne nel tohu-bohu – il caos che precede la creazione – dividendo le acque inferiori e le acque superiori, ponendo, dunque, le condizioni perché dalle acque inferiori prosciugate potesse emergere la vita animale e vegetale) è fatto, a mio avviso, per sottolineare il potere del significante di «ridistribuire corpo e carne», di separare il corpo dalla carne, di far «evaporare» i nembi del godimento affinché il simbolico possa prender corpo3. Non su ogni carne, allora, questo processo si realizza compiutamente: è possibile ipotizzare, coerentemente a questa specificazione, che sia il danno neurologico (e le sue conseguenze sul piano organico e funzionale) a rendere l’azione del significante insufficiente, inadeguata, inefficace nello stabilire (come lo fu, al contrario, la creazione del firmamento, nell’originario intervento divino descritto nella Genesi) il confine (che, come è ovvio, non solo divide ma anche mette in contatto) tra simbolico e reale, tra significante e godimento, tra corpo e carne. Questa impasse nel processo di separazione dei due registri, allora, vuol forse dire che Liliana è, semplicemente, carne, pura materia biologica, vita che vive in una condizione di naturale verginità (rispetto al simbolico)? Che la sua esistenza si svolge nella dimensione del reale incontaminato? Che la sua disabilità intellettiva rappresenta l’effetto della mancata corruzione del vivente (e della sua presunta innocenza) da parte del significante? Sebbene il ragionamento appaia orientato in questa direzione, niente autorizza ad una conclusione del genere: la condizione psicopatologica di Liliana mostra il groviglio originario e inestricabile tra il reale e il simbolico (e non il presunto predominio del primo sul secondo). È l’intreccio tra significante (lalangue) e organismo (preso nel suo versante biologico e immaginario), il reale che la vicenda esistenziale di Liliana mette, effettivamente, in evidenza. Il reale di un corpo che, da sempre, è il luogo in cui si incontrano il “fattore quantitativo” – l’ammontare libidico che si produce in relazione alle 3 Interessante, a questo riguardo, ciò che Lacan afferma nel corso del Seminario XXIII: «certes, le corps ne s’èvapore pas et, en ce sens, il est consistent». Letteralmente, la traduzione è: «certo, il corpo non evapora e, in questo senso, è consistente» (tradotto, nella versione italiana ufficiale, con: «certo, il corpo svapora e, in questo senso, è consistente». Jacques Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma 2001, p. 62). Mi sembra che questa frase rinforzi il concetto espresso tre anni prima: Il corpo non evapora – sostiene Lacan –, è consistente nella misura in cui da esso «salgono i nembi del godimento» e, nel separarsi dalla carne, acquista la sua dimensione di «sostanza godente».
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eccitazioni (esterne e interne) che scuotono l’apparato psichico – e i significanti (sebbene ancora insignificanti) che ad esso si associano: godimento (inteso come fremito vitale dell’organismo, scosso dal quantum libidico che lo attraversa), da un lato, e parole (non organizzate in un sistema simbolico convenzionale), dall’altro, si incrociano e si annodano in una solidarietà per definire la quale Lacan ha coniato, come noto, il neologismo joui-sens (godi-senso). Liliana è immersa in questo reale nel quale lalangue incide e marchia «affettivamente» il corpo: è il suo corpo, pertanto – in assenza di parole – a «parlare». Non c’è altro modo, infatti, di intuire i suoi vissuti se non osservando come «tratta» il suo corpo: o meglio, per essere più precisi, osservando come «è trattata» dal suo corpo (di cui, per l’appunto, Liliana non sembra, in alcun modo, essere la proprietaria). Quando capita di vederla camminare, la sensazione predominante è quella di trovarsi al cospetto di un corpo che si muove in maniera automatica, non finalizzata, quasi robotica: quando la si vede sedersi, analogamente, sembra che, senza un’apparente ragione, un interruttore anonimo abbia spento il meccanismo motorio e che quell’ammasso di muscoli e ossa, improvvisamente, si afflosci su se stesso; così come quando la si vede mangiare, l’impressione è che sia semplicemente una bocca a divorare il cibo, a masticarlo, a ingurgitarlo. L’autonomia del corpo – la cui attività non appare regolata da un progetto ma, viceversa, determinata da una necessità interna, da una spinta pulsionale indipendente dall’io, da una pressione, da una tensione e da un’eccitazione che lo rendono pulsante e fibrillante – è il dato clinico che si impone sugli altri: corpo come «sostanza godente» che, in una modalità desoggettivata e impersonale, gode di sé. Una versione del corpo che indica la persistenza del reale del Not des Lebens nell’esistenza di Liliana, la perseveranza di quell’urgenza del vivere che assilla l’organismo del vivente investendolo di flussi energetici in eccesso (legati – lo ripeto – alle stimolazioni endogene ed esogene) i quali, modulati e «disturbati», ab origine, dall’azione costante di lalangue, acquisiscono il loro statuto di meta libidica insostituibile. Il corpo di Liliana è un corpo in continua attivazione: un corpo, come visto, non pienamente negativizzato dal significante, dunque non educato, non piegato alle regole della convivenza, non interessato a rendersi desiderabile, indifferente allo scambio. Ma non per questo, non intaccato dal significante stesso,
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la cui azione, tuttavia – si potrebbe affermare –, si è limitata, nell’esistenza di Liliana, all’interferenza affettiva di lalangue: interferenza che ha perturbato la logica del principio di piacere introducendo, nella sua economia psichica, la ricerca di un surplus di eccitazione di cui le condotte autolesive sembrano essere la più vivida testimonianza. È così, allora, che il grattarsi fino a scorticarsi, il mangiare fino a scoppiare, lo schiaffeggiarsi violentemente, il denudarsi in pieno inverno sono tutte manovre di stimolazione del corpo che assicurano una soddisfazione di natura diversa, una soddisfazione misteriosa legata all’eccesso, all’esubero, alla dismisura, estranea, pertanto, a quel piacere che la riduzione al minimo della tensione garantisce. Il corpo di Liliana mette in scena qualcosa di quel reale originario che l’affermazione del versante semantico del significante – in uno sviluppo considerato normale – proietterà sullo sfondo come il suo impossibile. Reale, dunque, da intendersi come annodamento dei registri, come il nodo stesso che rende impensabile considerare isolabili le tre dimensioni sulle quali si struttura l’esistenza umana (simbolico, immaginario e reale, per l’appunto). Il «reale è tre»4, afferma Lacan nel Seminario Les non-dupes errent: tre perché è il legame tra i tre registri a costituire il sottofondo esistenziale dell’umano, è il loro viluppo a fornirgli quella consistenza che la simbolizzazione, peraltro, non potrà mai completamente dire. Il corpo di Liliana è il reale di questo inestricabile intreccio, sprovvisto, tuttavia, di quel quarto anello (che Lacan designerà in vari modi: Nome del Padre, sinthomo, atto di nominazione ecc.) la cui funzione è quella di impedire agli altri tre di slegarsi (e che, di conseguenza, rende possibile la soggettivazione del corpo, la presa di distanza da esso e il suo utilizzo come «strumento»). Per questo motivo, il corpo di Liliana è, in effetti, sempre sul punto di “capitolare”, di disfarsi, di andare in pezzi: la sensazione che si ha osservandone i movimenti convulsi e le incomprensibili pause di improvvisa inattività è che, letteralmente, stia per esplodere. Preda, si potrebbe aggiungere, di un’angoscia speciale, quella prodotta dall’impossibile separazione tra godimento e corpo che l’esistenza di Liliana (totalmente immersa in questo reale di nodo sempre sul punto di sciogliersi) sembra drammaticamente presentificare. 4
Jacques Lacan, Les non-dupes errent, lezione del 15 gennaio 1974, seminario inedito.
Materia Roberto De Gaetano
0. La materia è stata spesso pensata come contrapposta alla forma, qualcosa la cui passività necessiterebbe dell’attività dell’atto formativo per poter essere qualcosa. L’errore di tale posizione è stato rivelato, tra gli altri, da Simondon: anche solo per mantenere la forma che le si proietta, la materia non può essere pura passività indifferente, deve avere almeno la capacità di mantenere la forma stessa. Le possibilità di accogliere l’attività della forma sono legate allo stato della materia. La questione della materia è dunque in primis quella dei suoi stati: solido, liquido, gassoso. Stati che definiscono altrettanti modi di immaginare e sentire il mondo, in rapporto anche alla possibilità o meno di accogliere, e con quale grado di efficacia, l’atto formativo. Gli stati della materia riguardano sia il modo di abitare il mondo sia il modo di rappresentarlo. E l’arte gioca un ruolo decisivo nell’immaginare l’ordine materiale non solo come il corrispettivo dell’interazione uomo-mondo, ma come il luogo di un conflitto tra le forme e le forze, che nella materia trova il suo campo d’azione e nell’estetica la sede propria della sua espressione. La questione della materia più che alla fisica sembra appartenere all’estetica. E se, per esempio, staticità, peso e geometria caratterizzano la stabilità e solidità dei mondi rinascimentali (con l’integrazione uomo-ambiente), con il Barocco salta tutto questo, perché la materia comincia a tendersi e a piegarsi, a rendersi fluida, a includere il punto di vista del soggetto piuttosto che a escluderlo1.
1 Cfr. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004, cap. I.
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roberto de gaetano
Questa «immaginazione materiale», di cui parla Bachelard2, è possibile anche perché gli stati della materia sono sovrapponibili agli elementi della natura, e dunque alle forze che regolano la vita: terra, aria, fuoco, acqua. Come dare forma a queste forze? È una domanda che ha attraversato molti artisti, che hanno cercato talvolta di rappresentare l’irrappresentabile: come filmare il vento? Come far vedere la propagazione di onde sonore attraverso l’aria o i «viaggi» attraverso i cavi elettrici?3 Se è il lavoro dell’immaginazione a definire l’ordine della materia, dobbiamo distinguere almeno una duplice prospettiva in questo lavoro. Una, maggioritaria, che riguarda la rappresentazione della materia in quanto ambiente concatenato alla prassi; una seconda, che riguarda invece l’espressione della materia, la costruzione estetica di un sensibile che, svincolato dalla prassi, prende vita solo nell’arte e giunge a cogliere la «materia in sé». 1. Per il lavoro dell’immaginazione, lo stato solido della materia identifica la civiltà, dunque la terra e le forme d’azione che essa richiama. Solido è un mondo stabile, e la stabilità è ciò che garantisce le società rispetto al tramandarsi della tradizione da un lato (passato) e alla proiezione di uno sguardo fiducioso verso il mondo a venire dall’altro (futuro). La stabilità di un mondo è dunque legata alla sua solidità (non solo metaforica), perché la civilizzazione stessa è un’operazione di «striatura» (per dirla con Deleuze) dell’ambiente, attraverso la prassi. E la solidità della materia dà possibilità all’azione di effettuarsi e alla materia di mantenere i risultati di questa effettuazione. Un mondo solido è un mondo manipolabile e dunque trasformabile. È il mondo della nostra prassi quotidiana. L’azione può essere rituale e iterativa se i contesti in cui ha luogo sono segnati dal tempo ciclico, come in campagna, o può essere impre2 Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, tr. it. di A.C. Peduzzi e M. Cohen Hemsi, Red, Milano 2006. 3 Nel primo caso dobbiamo pensare al film di Joris Ivens, Io e il vento (1988), nel secondo alla voce che sale le scale giungendo fino alla porta dove c’è la bambina sequestrata in L’uomo che sapeva troppo (1956) di Hitchcock, nell’ultimo al Philip Jeffries condotto dall’energia elettrica in Twin Peaks (2017) di Lynch.
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vedibile, alimentata da dinamismo e da eterogeneità di stimoli e shock se si attua in un contesto urbano (come pensa Benjamin). Distinzione sottolineata anche da Carl Schmitt: «Perfino all’interno della medesima epoca, nella prassi della vita quotidiana, l’ambiente dei singoli uomini è già determinato in modo diverso dalla loro attività. L’abitante di una grande città si raffigura il mondo diversamente da un contadino»4. La distinzione è importante. Un mondo solido non è un mondo uniforme, e le distinzioni interne che lo animano definiscono regimi diversi di azione, e dunque di raccontabilità e di visibilità. Un contadino tende a mantenere la terra fertile, nella condizione di generare frutti nell’avvicendamento ciclico delle stagioni. Un cittadino no: sperimenta e mette alla prova la solidità del mondo, misurandone la sua modificabilità e malleabilità, fino a vere e proprie forme di «smaterializzazione». Sono in gioco diverse forme di civilizzazione. In definitiva l’imporsi della civiltà stessa, come per esempio nell’epopea del West americano, che è conquista della wilderness (l’aridità del deserto) attraverso processi di urbanizzazione. La trasformazione del mondo sarà tanto più importante in quanto si misurerà con la resistenza della materia al cambiamento. E ogni civilizzazione di materia «ostile» (come i deserti) riguarda non un singolo ma una comunità e la sua capacità di rendere abitabile in forma condivisa lo spazio. L’epos è il grande genere fondato sul racconto della trasformazione collettiva del mondo solido, che presuppone l’identificabilità degli elementi che compongono l’ambiente e dei movimenti che vi si possono attuare. Un mondo-ambiente ha delle traiettorie di orientamento evidenti. Per esempio la linea che negli Stati Uniti va da est ad ovest, e che ha guidato il sogno americano. Un mondo solido è anche quello che permette l’identificabilità dei valori che lo contrassegnano. È solo in un mondo solido che i valori si affermano, discriminando bene e male. O meglio, sono i valori a rendere solido un mondo, guidando l’azione di chi lo abita. Tant’è che quando il valore si inscrive nel titolo di borsa e nelle fluttuazioni del mercato, come oggi, la stabilità del mondo è inimmaginabile. L’etica come sfera delle scelte è inseparabile dalla solidità del mondo, dalla sua tenuta, pensata come effetto della scelta stessa, cioè 4
Carl Schmitt, Terra e mare, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, p. 57.
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della presa di posizione che àncora il soggetto alla situazione; anche solo come soggetto capace di tener fede al proprio desiderio, e dunque di decidere le situazioni5. I grandi attraversamenti dello spazio, i movimenti di comunità, contrassegnano l’emergere del soggetto nel desiderio che lo muove e nella fedeltà che deve corrispondergli. È la solidità della struttura molare del mondo, capace di orientare l’azione verso il suo tratto epico-etico e comunitario e la rappresentazione verso la «grande forma», dove l’identificabilità e la stabilità dello spazio diventano condizioni decisive per la proiezione del tratto ideale dell’azione. La civilizzazione non è in definitiva che la striatura mobile del solido, la sua modulazione, la perdita del suo stato granitico e bloccato. Stato granitico a cui è sempre corrisposta rigidità di posizioni gerarchiche (come nella società feudale). E da un certo momento in poi (dalla seconda metà dell’Ottocento), con la progressiva collocazione al centro della vita sociale e pubblica della città, il mondo solido ha iniziato a «elasticizzarsi» fino ad assumere anche tratti fantasmagorici. La città non è solo la più potente delle striature civilizzatrici, ma è l’ambiente in cui la permeabilità tra i diversi livelli e stati della materia è più marcata. Permeabilità che riguarda soprattutto il desiderio di essere (e avere) altro da ciò che si è (e si ha). E questo «altro» non è semplicemente il luogo utopico dove una comunità si reinventa (le diverse terre dell’oro che animano l’epos), ma l’ambiente segnato da benessere e stili di vita liberi, e dove i protagonisti ambiscono a scalate sociali, spesso vertiginose. Qui non c’è più il tratto «statico» della «terra madre», del tempo ciclico della vita contadina, o della wilderness da civilizzare, ma quello «dinamico» della vita urbana, della seduzione delle merci, dello status sociale ambito e delle pratiche spregiudicate per conquistarlo. Sono gli arrampicatori sociali che la letteratura francese dell’Ottocento ci ha restituito in forma ineguagliata, da Stendhal a Balzac. È il romanzo che di fatto mette in movimento la solidità del mondo, destrutturando le forme della tradizione attraverso una prassi che perde la sua prevedibilità ciclica. 5 I personaggi maschili di Antonioni sono incapaci di decidere delle donne che hanno di fronte, anche solo dichiarando il loro amore, per cui lasciano la situazione in uno stato fluttuante che non permette a situazioni e sentimenti di prendere forza.
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Se il mondo contadino è un mondo granitico, i cui tentativi di modificazione possono essere opera dell’azione, spesso violenta, del soggetto, la città è il luogo in cui le striature del mondo solido diventano flessibili, aprendosi anche agli altri due stati della materia: il liquido e il gassoso. È sufficiente pensare alla Londra di Dickens, collocata tra le acque del Tamigi (Il nostro comune amico) e i fumi delle fabbriche (Tempi difficili). Ma la città è l’ambiente più favorevole per accompagnare i processi di smaterializzazione dei solidi, identificati nella fantasmagoria delle merci, nella «sembiatizzazione del mondo» (Jacques-Alain Miller), in una sorta di spiritualizzazione delle cose, inscritta nella logica stessa dello sviluppo capitalistico e culminata con la messa in parentesi della produzione in epoca di neoliberalismo imperante e nella smaterializzazione del denaro stesso, svincolato dalle riserve auree e ridotto a mere transazioni finanziare senza radicamento alcuno. Benjamin ha scritto su questo, rileggendo la modernità, parole insuperate: Baudelaire, la Parigi del XIX secolo, il moltiplicarsi delle vetrine che identificano di per sé un passaggio di stato della materia, il solidificarsi di un liquido in un processo incompiuto di cristallizzazione che si fa trasparenza: il vetro. Le città sono senza mezzi termini i luoghi in cui gli stati della materia, a dominanza solida, si contaminano e si mescolano in una instabilità come tratto distintivo. Se l’epos racconta l’azione comunitaria per la realizzazione del sogno in un mondo stabile ed edenico, il romanzo racconta il soggetto alle prese con sogni individuali realizzabili in un mondo mobile o in perenne trasformazione. Mobilità che riguarda anche il soggetto stesso, i suoi stati d’animo, i suoi desideri, aspirazioni, pulsioni, ambizioni. Tant’è – ed è questo uno dei punti di caratterizzazione del romanzo – che la forma romanzesca tende a costruire una zona di indiscernibilità tra l’interno e l’esterno, il personaggio e il mondo. Una frontiera mobile che fa dell’interno un mondo (pensiamo al monologo interiore joyciano) e dell’esterno un insieme di segni, oggetti, atti, parole, che ne fanno il precipitato dell’interiorità dei personaggi (qui è esemplare il romanzesco felliniano che rende radicalmente indistinguibili i due poli).
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2. Il passaggio dalle forme generiche classiche alla forma romanzesca è dunque in primo luogo passaggio da un mondo solido, e dunque stabile (anche perché appartenente al passato, come l’epos, e dunque compiuto6), a un mondo mobile. Ma ciò che cambia è in primo luogo la forma dell’azione e il senso che la regola: il «chi» dell’azione nelle forme classiche ha obiettivi e valori chiari, e deve superare semmai gli ostacoli per realizzarli. Nella forma romanzesca, letteraria e cinematografica, no: quel «chi» è indeciso, incerto, spesso deambula nei contesti urbani, smarrito in ciò che vede o in ciò che prova. E dunque il romanzo in quanto invenzione della modernità (come il cinema, la psicoanalisi, la democrazia) è in primo luogo scrittura che de-stabilizza la materia, la rende malleabile, fino a svuotarla. Tutto converge verso una complessa «smaterializzazione» del mondo, dalle fluttuanti micro-sensazioni dei flâneur urbani alla vetrinizzazione dell’ambente nei passages, agli incontri con le «passanti»7 che non si trasformano né si stabilizzano mai in conoscenze. Svuotamento della materia che culmina nelle grandi architetture in ferro della seconda metà dell’Ottocento, a partire dalla Tour Eiffel. E dunque il romanzo e il cinema (che rimane un’arte di fantasmi, di spettri8) conducono a immaginare la raccontabilità di una materia che perde la sua solidità, ma non la sua capacità di mantenere una forma. Cosa che accade invece giungendo allo stato liquido della materia, all’acqua, e al mare in primis, che è appunto l’incivilizzabile, spazio «liscio» per eccellenza (per riprendere ancora Deleuze), incapace di mantenere forma alcuna. Il mare è un oggetto specifico della narrativa romanzesca, da Melville a Conrad. Ma proprio perché incivilizzabile, si è fatto oggetto di trasfigurazione ideale delle istanze realistiche, cioè a dire ha spostato il novel verso il romance. Che ritroviamo nella grande letteratura anglosassone di ambientazione marina, dal Gordon Pym di Poe ai grandi romanzi di mare di Conrad, al Moby Dick di Melville. Il mare, nella sua non addomesticabilità, costituisce nell’«immaginazione materiale» il luogo di un sentimento ingovernabile, di un elemento 6 Cfr. Michail Bachtin, Epos e romanzo, in Id., Estetica e romanzo, tr. it. di C.S. Janovič, Einaudi, Torino 1979, pp. 445-482. 7 Charles Baudelaire, A una passante, in Id., I fiori del male, tr. it. di G. Bufalino, Mondadori, Milano 1983, pp. 173-175. 8 Cfr. Jacques Derrida, Il cinema e i suoi fantasmi, «Aut Aut», 309, 2002, pp. 52-68.
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smisurato e onnipotente (sublime) che costringe chi lo abita e lo vive a spingere la propria azione al di là di ogni ragionevole limite. L’azione si carica subito di una valenza simbolica e la materia trascende e trasfigura la sua materialità, spiritualizzandosi. Il mare e l’acqua possono diventare anche gli intercessori di uno sguardo sul mondo che è precluso alla prospettiva «terrestre», uno sguardo fluido, acentrato, che ha caratterizzato, per esempio, la scuola cinematografica francese con film come Finis terrae (1929) di Epstein, con autori come Jean Vigo, con la famosa sequenza de L’Atalante (1934) in cui l’uomo, gettandosi sott’acqua a riprendere la sua sposa caduta, non solo la vede ma ne ha una visione generata dalla materia liquida, che si interpone tra lo sguardo e l’oggetto; per arrivare a film come La tempesta (1941) di Grémillon o Le tempestaire (1947), ancora di Epstein, dove il mare viene «calmato» per effetto di una magia9. Il punto è importante, perché ciò che emerge è un altro regime della percezione e del movimento che passa per uno stato della materia che non è quello solido: Perché anzitutto l’acqua è, per eccellenza, l’ambiente in cui si può estrarre il movimento dalla cosa mossa, o la mobilità del movimento stesso […]. Ciò che la scuola francese trovava nell’acqua era la promessa o l’indicazione di un altro stato di percezione: una percezione più che umana, una percezione che non era più tagliata sui solidi, che non aveva più il solido per oggetto, per condizione, per ambiente. Una percezione più sottile e più vasta, una percezione molecolare10.
L’acqua, l’elemento fluido del mondo, identifica un’assenza di stabilità, rende lo sguardo mobile e consente l’accesso ad una visione a-centrata, collocata in uno stato molecolare della materia, segnato da tratti che sospendono i concatenamenti logico-razionali della coscienza. Esemplare a tal proposito un film come Palombella rossa (1989) di Nanni Moretti, dove il perimetro di una piscina definisce la sospensione dello spazio-tempo ordinario e apre a una moltiplicazione di ricordi, sogni, immaginazioni che solo lo stato di «ammollo» poteva generare. La reinvenzione estetica della materia ci dice innanzitutto questo: lo stato liquido, il senza forma dell’acqua, la fluttua-
9 Cfr. su questo Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it. di J.-P. Manganaro, Ubulibri, Milano 1984. 10 Ivi, pp. 100-101.
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zione, liberano potenze impreviste, possibilità dello sguardo e della percezione, stati primordiali di coscienza. Potenze che disarticolano le posizioni stabilizzate, svincolano il movimento dalla stabilità del mondo e la percezione dal suo ancoraggio umano. 3. E poi arriviamo all’ultimo stato della materia, quello gassoso, che è senza forma e senza volume, impercepibile se non quando mischiato ai residui di corpi solidi come nel fumo, o quando entra in un processo di combustione e diventa fiamma e fuoco (colore e calore). È questa miscela luminosa di gas, effetto della combustione, la forma in cui prende maggiore visibilità estetica e simbolica la materia gassosa. La fiamma è una potenza ambivalente: immagine di distruzione ma anche di rigenerazione e rinascita (il calore, il sole che garantisce la continuità della vita). In ogni caso, è effetto di un processo, traccia dell’«altro» (combustione). Mentre nel passaggio dal liquido al gassoso, si passa da una percezione fluttuante a un’assenza di percezione: la materia gassosa è volatile e impercepibile, si distribuisce ovunque se non incontra ostacoli. E allora la trasposizione estetica dello stato gassoso della materia consisterà nel portare a visione ciò che non può essere visto da occhio umano, attraverso lo stile nella scrittura e il montaggio nel cinema. Significa portare la percezione nelle cose, cioè «vedere senza frontiere né oggettività»11. È il compito che nel cinema ha assolto il montaggio «materialista» di Vertov, che va oltre l’immagine liquida, che «è ancora insufficiente e non può arrivare sino alla grana della materia»12. Bisogna arrivare all’accostamento di tutto con tutto e inscrivere in questo accostamento la distanza, il tra. Significa arrivare a un universo molecolare preumano, alla «costruzione di uno stato gassoso della percezione»13. Questa molecolarità della percezione, la destrutturazione della materia come fondamento di un universo molare e pratico, è propria anche del romanzo. Come vediamo in Madame Bovary di Flaubert, quando alla fine della prima parte i coniugi stanno partendo per Tostes ed Emma, trovando il suo mazzolino di nozze, lo getta nel camino: 11
Ivi, p. 102. Ivi, p. 105. 13 Ivi, p. 106. 12
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Lei lo buttò nel fuoco. S’infiammò meglio della paglia secca. Presto ne restò solo come un cespuglio rosso sulla cenere, a rodersi a poco a poco. Lei lo guardava consumarsi. Le piccole bacche di cartone scoppiavano, i legacci d’ottone si torcevano, i galloni d’argento si fondevano; indurite, le corolle di carta danzavano lungo la placca del camino come nere farfalle, e alla fine volarono via, su per la cappa. Quando partirono da Tostes era marzo e la signora Bovary era incinta14.
L’esempio è importante non solo per come relega all’ultima riga un avvenimento narrativo significativo come la gravidanza di Emma, subordinandolo alla descrizione del bruciare del mazzolino, ma soprattutto per come fa di questa la procedura per molecolarizzare la realtà tra frammenti sonori («scoppiavano»), malleabilità della materia («torcevano»), fino alla sua dissoluzione («disfacevano»), per giungere alla leggerezza della cenere e al suo «involarsi». 4. Insomma, procedendo all’indietro, partendo dalla struttura solida della materia (con i diversi gradi di solidità) come ciò che determina un «contesto d’azione», passando per lo stato liquido e le forme della percezione alterata e fluttuante, siamo giunti allo stato gassoso e a immaginare, attraverso il lavoro dello stile e della composizione, una percezione molecolare inscritta nella materia stessa. Non più dunque la materia e i suoi stati molari, ma la molecolarità della materia in sé15. L’occhio inscritto nella materia stessa, attraverso la capacità che ha l’arte di giungere al piano di immagini-materia di cui parla Bergson in Materia e memoria16. Siamo nel 1896 e Bergson nel suo testo pensa l’esistenza di un piano ontologico della materia che precede ogni determinazione di tipo psicologico. La materia in sé, identica alla coscienza, dove tutto reagisce su tutto, non può essere oggetto di percezione propriamente detta. Quest’ultima sarà sempre
14 Gustave Flaubert, Madame Bovary, tr. it. di D. Valeri, Mondadori, Milano 1989, p. 55. Su questo cfr. Jacques Rancière, Politica della letteratura, tr. it. di A. Bissanti, Sellerio, Palermo 2010, pp. 55-76. 15 Sulla distinzione tra «molare» e «molecolare» cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Orthotes, Napoli 2017, pp. 299 sgg. 16 Cfr. Henri Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, a cura di A. Pessina, Laterza, Roma-Bari 2016.
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selettiva, rispetto al piano di variazione totale. Questo piano di materia in sé può essere solo pensato dalla filosofia o colto dall’arte: dalla scrittura romanzesca da un lato, attraverso lo stile che arriva a svincolarsi anche dalla mediazione dei personaggi per giungere alla molecolarità delle sensazioni, o dal cinema dall’altro, attraverso una pratica di montaggio capace di raccordare l’infinitamente distante o immaginare, dietro la forma delle cose, l’intensità che le attraversa: «Diciamo: rosso, soprano, dolce, profumo, e invece non c’è altro che velocità, movimento, vibrazioni»17. E allora, è nello snodo chiave tra fine Ottocento e inizio Novecento che tra romanzo, filosofia e cinema vediamo una vera e propria reinvenzione della materia, che diventa in definitiva la sede di un conflitto mai pacificato, fra l’ordine e il caos, la stabilità e il divenire, il logos e il pathos, la forma e le forze.
17 Jean Epstein, L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, a cura di V. Pasquali, Marsilio, Venezia-Roma 2002, p. 27.
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Tutti gli uomini che dicono sì mentono; e tutti gli uomini che dicono no – perbacco, essi sono nella felice condizione di quei viaggiatori giudiziosi e senza sovraccarichi in Europa; essi attraversano le frontiere dell’Eternità, senza nulla tranne un sacco in spalla – cioè, l’Ego. Herman Melville1.
Nel 1999 la casa editrice Feltrinelli ha tradotto in italiano il libro di una psicoterapeuta inglese, Asha Phillips, I no che aiutano a crescere2, che ha avuto un enorme successo in tutto il mondo. Chiunque sia immerso nella cultura psicologica ed educativa di questo inizio secolo non può avere dubbi sul senso – esplicito – del libro. I «no» sono i limiti necessari che l’adulto deve porre affinché i bambini possano crescere sani e sereni, limitati nel loro innato senso di onnipotenza. Ma se provassimo momentaneamente a uscire da questa visione educativa e normativa potremmo forse intravvedere una lettura diversa di questo titolo (non del libro che sotto questo profilo è senza ambiguità) e potremmo intendere che i «no» che aiutano a crescere non sono quelli che gli adulti pongono ai bambini, viceversa sono quelli che i bambini esprimono per affermare loro stessi a difesa della loro identità. Entrano qui in conflitto due visioni dell’infanzia strutturalmente differenti, ma che non per questo non possono essere complementari: la prima individua nel bambino il bisogno di un contenimento adul1 Herman Melville, Lettera a N. Hawthorne del 16 aprile 1851, in Id., Bartleby lo scrivano, Feltrinelli, Milano 1991, p. 56. 2 Asha Phillips, I no che aiutano a crescere, tr. it. di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 1999.
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to per potere crescere in equilibrio. Affinché questo equilibrio possa avere luogo c’è bisogno che i genitori imparino a limitare la confusione pulsionale ed emotiva del bambino. Il «no» del genitore non è affermazione di potere o imposizione gerarchica, ma espressione di un desiderio di accoglienza educativa al fine di aiutare il bambino a crescere imparando a gestire conflitti e frustrazioni. La seconda ottica invece afferma che non esistono solo un’emotività e una pulsionalità marasmatica e confusiva nel bambino che devono essere educate, ma che queste entrano in relazione con un’emotività e una pulsionalità altrettanto confuse e non riconosciute appartenenti all’adulto. Questo perché pulsionalità ed emotività non sono caratteristiche specifiche dell’infanzia, ma tratti ineliminabili dell’animale umano, dalla nascita fino alla morte. «Entrare in relazione» è un eufemismo che adombra il nodo centrale di questo incontro: il conflitto generazionale tra chi deve essere sostituito e chi viene al mondo per sostituire. Cioè in sostanza il conflitto tra il mondo adulto e quello dell’infanzia non deve essere considerato come un saltuario incidente di percorso di qualche famiglia poco capace o psicologicamente fragile, ma è la base, la struttura stessa del confronto generazionale. Se non c’è conflitto, non c’è infanzia, se il bambino non dice «no», non c’è un bambino. L’origine del «no» si situa lontano, quanto lontano non sappiamo dirlo, e non sappiamo dirlo anche se siamo proprio noi a decidere quando un certo comportamento possa essere considerato, per dirlo con Freud, «simbolo della negazione»3. Anzi, non lo sappiamo proprio perché siamo noi stessi ad attribuirgli questo senso. Siamo noi a decidere il confine tra un gesto istintivo di allontanamento, e un rifiuto intenzionale del bambino. Tutto dipende dal contesto, dalla nostra cultura di appartenenza, dal concetto che abbiamo di infanzia. Un neonato che si nutre al seno e, finita la poppata, rigurgita tutto quello che ha mangiato manifesta fisiologicamente una qualche intolleranza a quel pasto. Non c’è scelta, non c’è rifiuto, non c’è opposizione. Ma se tre mesi dopo lo stesso bambino mette in azione tutte le sue energie muscolari per non consentire alla madre di allattarlo, allora saremmo propensi a credere che quel bambino stia esprimendo a gesti chiari e inequivocabili quello che più tardi diventerà il suo «no» linguistico. Non c’è però nessuna evidenza che possa stabilire questo 3
Sigmund Freud, La negazione, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X, p. 198.
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confine. Potremmo benissimo immaginare una madre o una cultura in grado di intendere il rigurgito del bambino come una prima forma intenzionale di rifiuto, oppure potremmo considerare la protesta muscolare del bambino più grande, una modalità ancora disorganizzata e confusa di rapporto con il cibo o con la relazione affettiva legata al nutrimento. Lo psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense René A. Spitz ha cercato di definire l’apparizione del «no» e del «sì» nel bambino, in un bellissimo libro: No and Yes4, rappresentativo degli anni d’oro della psicoanalisi, quando speculazione analitica e ricerca sullo sviluppo infantile procedevano di pari passo. La capacità di mettere insieme le osservazioni sui bambini con gravi carenze affettive o con disturbi neurologici legati alla rotazione del capo con un saggio altamente speculativo, quale La negazione di Sigmund Freud, fanno di questo libro una perla nel panorama della letteratura psicoanalitica. Spitz ha trovato nel riflesso di rooting la matrice prima del gesto di rifiuto, di un rifiuto intenzionale, deliberato, volitivo. Il riflesso di rooting in realtà altro non è che uno dei riflessi arcaici e involontari presenti sin dalla nascita, come quello della marcia o della prensione, e che costituiscono, per quello che ne sappiamo, una dotazione di base, filogeneticamente determinata, del neonato. Se un neonato viene sollecitato su una guancia o verso un angolo della bocca egli girerà il capo in direzione della sollecitazione cercando poi di prendere in bocca e di succhiare l’oggetto presente, sia esso un dito o il capezzolo materno. Acquisisce in italiano nomi curiosi come riflesso di cercamento o di ricerca, perché il neonato sembra cercare attivamente qualcosa da succhiare. Bene questo riflesso innato, dotazione animalesca del bambino, e funzione centrale per la sua sopravvivenza, poiché gli consente di trovare il cibo quando questo si avvicina a lui, questo stesso riflesso che produce una rotazione del capo diviene dopo il terzo mese di vita – ormai non più riflesso, ma azione intenzionale – una rotazione che il bambino introduce quando vuole allontanarsi dal seno perché non vuole più mangiare o per allontanarsi da una qualsiasi altra fonte per lui fastidiosa. Costituisce per Spitz la prima manifestazione gestuale di quello che poi sarà il movimento che simbolizzerà il «no» linguistico prodotto dallo scuo4 René A. Spitz, No and Yes. On the Genesis of Human Communication, International Universities Press, New York 1957.
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timento del capo (anche se Spitz, più attento agli aspetti evolutivi che a quelli culturali, non si pone il problema di quelle culture che esprimono il «no» attraverso altri gesti, come per esempio l’alzare leggermente il capo). In sostanza si tratta di una sorta di precursore di una volontà umana, e non più semplice istinto animale di sopravvivenza. Questa capacità di modificare la propria reazione da riflessa a intenzionale nei confronti del mondo attraverso un atto di negazione costituirebbe una sorta di specificità umana, poiché l’uomo ha la possibilità, come scriveva Max Scheler, di ribellarsi alla costrizione animale del qui e ora determinati dall’esperienza sensibile: «Essere uomo significa […] pronunciare un energico “No” nei confronti della realtà sensibile»5. Prendiamo un esempio tratto dall’osservazione psicoanalitica del neonato. Un bambino di due mesi dorme quando una mosca, entrata da una finestra lasciata aperta per ovviare alla calura estiva, comincia a camminargli sugli occhi. Il neonato alza il suo braccio girando lievemente la testa e facendo allontanare la mosca. Riprende a dormire. La mosca torna e ricomincia a camminargli sugli occhi chiusi. Il neonato comincia a svegliarsi irritato. Comincia a piangere, arriva la madre che, non avvedendosi della mosca, si scopre il petto e gli offre rapidamente il seno. Il piccolo apre gli occhi senza reagire e quando la madre gli sollecita l’angolo della bocca con un dito il piccolo si gira verso il petto della madre e appena incontra il seno cerca con la bocca il capezzolo. Ma non succhia, si lamenta, piagnucola, poi rimane al seno mezzo addormentato. La madre dice: «Ma quanto sei pigro! Coraggio bello, se succhi esce il latte», ma non vedendolo reagire comincia a premere il seno cercando di fare uscire un po’ di latte dal capezzolo fino a quando il neonato comincia lentamente a succhiare. Dopo due minuti lascia il seno materno e all’improvviso rigurgita tutto il latte. La madre lo pulisce e poi chiede alla propria madre se non sia il caso di chiamare il pediatra. Lo stesso bambino a cinque mesi piange nervosamente nella sua carrozzina, la madre lo sente ma è impegnata in un’allegra conversazione telefonica che non sembra volere interrompere. Dopo due o tre minuti di pianti disperati giunge infine la madre che lo prende 5 Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2000, p. 137.
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in braccio e dopo aver cercato rapidamente di consolarlo gli offre il seno. Il bambino non lo prende in bocca e comincia a urlare più forte e di fronte alle insistenze della madre le punta le braccia contro il petto e tira indietro il capo violentemente, girando il volto verso l’esterno. I successivi tentativi della madre di allattarlo saranno fallimentari e alla fine rinuncerà dicendo: «Vuol dire che non avevi fame!». Un esempio a due tempi. Qual è il momento in cui attribuiamo un senso di opposizione o di volontà di rifiuto al neonato? Quando stabiliamo che un determinato comportamento sia la manifestazione di un atto di volontà e fino a quando invece lo leggiamo come un aspetto involontario se non addirittura deficitario della sua capacità di espressione? Sicuramente possiamo leggere nel bambino di cinque mesi un comportamento più evidente, più esplicito del suo rifiuto, qualcosa di più simile a un linguistico: «No, non voglio il seno». Ma perché è più esplicito? Perché è più facile per noi attribuirgli quel significato? Io credo solo perché è un comportamento più simile al nostro, cioè noi lo riconosciamo come tale. Gli diamo un senso, perché aveva già senso per noi. Il «no» del bambino nasce semplicemente nel momento in cui qualcuno gli attribuisce quel significato: non è una dotazione innata e non appartiene ad una tappa evolutiva del bambino, come vorrebbe Spitz, anche se non si può non riconoscere la funzione organizzativa a cui Spitz fa allusione6. Ma le dotazioni innate o le tappe dello sviluppo sono un’altra cosa: una dotazione innata ad esempio è che il riflesso di suzione e quello di deglutizione siano mutualmente escludenti, cioè se il bambino succhia non può deglutire e viceversa; una tappa dello sviluppo è la prima dentizione che dovrebbe avere inizio nel secondo semestre di vita. L’apparizione del «no» è invece un tratto prevalentemente culturale e noi potremmo benissimo immaginare una realtà linguistica in cui non esista la negazione e dove nessun segnale infantile potrebbe essere letto in questo modo. Perché il «no» necessita di un incontro tra gesto e significato cioè tra bambino e mondo; avviene quando, per dirla nei termini di Armando Ferrari, si crea un nodo significativo tra dimensione verticale (relazione corpo-mente del bambino) e dimensione orizzontale 6 Per Spitz il «no» è il terzo organizzatore psichico della prima infanzia, dopo la comparsa del sorriso di fronte a un volto umano e l’angoscia dell’estraneo. Vedi René A. Spitz, Il primo anno di vita. Studio psicoanalitico sullo sviluppo delle relazioni oggettuali, Armando, Roma 1973.
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(immersione della dimensione verticale in un contesto culturale dotato di senso)7. Il bambino fa un gesto, fa tanti gesti che potrebbero essere interpretati come tanti «sì» e tanti «no» sin dall’inizio, poi a un certo punto qualcuno decide che va letto in tal modo e quel «no» diventa «NO», diventa cioè un’asserzione, un’affermazione di se stesso. Per quanto paradossale possa sembrare, la prima affermazione di un bambino è proprio il «no». Altri contesti, altri sensi, altri «no». Interessante per esempio è la scelta del nome del neonato fatta dagli Ammassalimiut, una piccola popolazione eschimese isolata nei fiordi della costa sudorientale della Groenlandia, di cui abbiamo notizie grazie alle ricerche condotte per più di quarant’anni dall’antropologo e psicoanalista francese Robert Gessain: «Il Nome è proposto al bambino alla nascita dalla madre o dalla levatrice; vari nomi sono pronunciati, in segreto, contro il corpo del neonato che può rifiutare uno o più nomi attraverso il pianto e le grida; uno stato sereno indica che approva un certo nome. Si racconta che qualche volta, quando si è in ascolto dei vagiti del neonato se ne colga il senso: “Che dice?” “Dice che si chiama così…”»8. La faccenda può avere anche delle gravi conseguenze perché se la madre muore prima che il bambino possa avere accettato e imparato il suo nome, egli rimarrà per sempre senza nome principale, rimarrà un innominato, un adirangila (colui o colei che non ha nome) o adirangitsek (il non portatore di nome)9. L’attribuzione al neonato della possibilità di scegliere il nome che lo accompagnerà tutta la vita ci fa sorridere, ma sorrideremmo molto di meno se avessimo la possibilità di osservarci dall’esterno ogni volta che attribuiamo un senso, più o meno arbitrario, ai comportamenti dei neonati (o ai nostri stessi comportamenti). L’attribuzione di un senso è un’operazione individuale, famigliare, culturale, sociale e linguistica, sempre e comunque arbitraria se estrapolata dal contesto, fondatrice essa stessa di senso se osservata dall’interno. Quindi il «no» del neonato, o del bambino, deve sempre essere inserito nel mondo che a quel «no» dà senso. Eppure quel «no» è proprio la prima forma di cesura, il riconoscimento di un’individualità che dal mondo si distingue, si affranca e si afferma nell’unico modo possi7
Armando Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992. Robert Gessain, Nom et réincarnation chez les Ammassalimiut, «Boréales. Revue du Centre de Recherches Inter-Nordiques», 15-16, Suresnes 1979-80, p. 409 (tr. mia). 9 Ivi, pp. 410-411. 8
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bile: negandosi. Solo in questo modo il neonato può imporre la sua lettura della vita. Il mondo che attorno al neonato costruisce una cornice di senso (e che fra le altre cose dà senso a quel «no») rischia di uccidere, soffocare, annullare la personalità di chi deve emergere, emergere per combattere contro l’odio e l’invidia, e soprattutto contro l’amore e il possesso che rischierebbero di annullarlo. La psicoanalisi ci ha insegnato di quanto odio rimosso possa essere piena l’esperienza di crescita di un bambino, ma ha fin troppo sottovalutato quanto quell’odio non sia solo il risultato di un’irriducibile frustrazione del proprio desiderio, ma è un odio protettivo: deve proteggerlo dall’odio dei genitori, l’odio nei confronti dei figli. Non penso ai casi di abuso che escono sui giornali, penso all’odio intrinseco e diffuso del conflitto generazionale. Se i bambini potessero scrivere manuali di psicoanalisi avrebbero modo di segnalare quanto il complesso di Laio o di Giocasta (tanto per usare lo schema freudiano) sia infinitamente più forte, presente, attivo e operativo, di quella pallida e immensamente sopravvalutata passione «edipica» su cui grandi psicoanalisti (“grandi” anche nel senso di adulti) hanno consumato fiumi di inchiostro. Come si è potuto dimenticare che Laio cerca di liberarsi di Edipo, vera minaccia predetta e predestinata della sua esistenza? La tragedia dà voce alla guerra generazionale dove le parti in campo sono entrambe protese verso la propria sopravvivenza e la necessità di vincere la battaglia è un bisogno non solo del figlio, ma anche del padre. L’oracolo ha predetto quello che tutti sanno: il figlio ucciderà il padre, il suo odio è necessario, non solo per la sua sopravvivenza, ma per quella della progenie e della città stessa. Il padre che non vorrebbe mai uccidere il figlio, lo deve fare per salvare se stesso, ma non ci riesce; il figlio che non vorrebbe mai uccidere il padre, lo uccide a sua insaputa. Ma quello che sembra un destino stabilito dagli dèi e quindi ineluttabile, si intride di responsabilità umana e soprattutto della ricaduta delle azioni umane – anche se involontarie – su chi le compie10. Il bambino che grida «no» si espone, rischia e rischiando cambia: viene cioè da quel «no» modificato. Certo il bambino nasconde di meno, mostra quello che è e se vuole proteggerlo deve gridare «no!», 10 Cfr. Jean-Pierre Vernant, Edipo senza complesso, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 12-13.
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l’adulto nasconde sotto tonnellate d’amore un odio profondo per chi è venuto a sostituirlo, per chi lo soppianterà, gli prenderà vita, casa, beni, affetti; chi crescerà guardandolo invecchiare, e che sarà libero, pienamente libero, solo quando si sarà intimamente liberato di lui. Alberto Savinio aveva ben capito la portata di questa catastrofe: «si ama il bambino, oppure nel bambino si ama un’altra cosa: la madre, l’amore, l’accoppiamento di cui lui, poverino, non è se non il frutto involontario? Amiamo noi stessi nel bambino? Amiamo nel bambino il nostro proprio orgoglio?»11. Ma dal bambino in sé, l’adulto si difende, ne percepisce la minaccia e lo accoglie come un nemico: «La più grande organizzazione di difesa che esista al mondo è quella che l’umanità ha levato e tiene in perpetua efficienza contro il pericolo dell’infanzia. […] Al loro ingresso nel mondo, i piccoli uomini sono accolti come nemici. La guerra scoppia tra infanti e adulti, tra l’autorità costituita e questi fieri battaglioni di uomini minuscoli che movono alla conquista del mondo»12. Nel suo breve ed intenso scritto La negazione del 1925, apparentemente Freud non affronta il tema dal punto di vista dello sviluppo o della comunicazione, ma dal punto di vista intrapsichico. Il «no» per Freud è il corrispettivo intellettuale della rimozione, anzi ancora di più, è la porta d’accesso alla coscienza dei contenuti che altrimenti resterebbero rimossi. «Il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un pensiero può dunque penetrare nella coscienza a condizione di lasciarsi negare»13 scrive Freud. Questo non vuol dire che il contenuto sia accettato, ma è riconosciuto e poi negato, rifiutato. Un evento essenzialmente linguistico come la possibilità di negare, non è il risultato di una riduzione della forza della rimozione, sia chiaro, ma al contrario la condizione che consente di liberare materiale inconscio dalla gabbia della rimozione14. La negazione linguistica non descrive la rimozione, ma si sostituisce ad essa nello stesso rapporto che Wittgenstein descrive tra il linguaggio e il dolore: «L’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive il grido»15. La rimozione 11
Alberto Savinio, Tragedia dell’infanzia, Adelphi, Milano 2001, p. 124. Ivi, p. 123. 13 S. Freud, La negazione, cit., p. 198. 14 Cfr. Paolo Virno, Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 15 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967, p. 119. 12
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cancella un pensiero, la negazione invece, al pari dell’affermazione, lo porta a galla, lo sottolinea. L’esempio di Freud: «Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione»16, non fa che rivelare le vere intenzioni del parlante, una sorta di excusatio non petita. Ma anche il più comune giochetto infantile: «Non pensare a un cane!» induce immediatamente a pensare a un cane quanto l’imperativo contrario «pensa a un cane!». La negazione linguistica, diversamente dalla rimozione psichica, negando afferma, negando l’esistenza di qualcosa ne comprova l’esistenza, magari non la accetta, ma la vede, la indica. Come spiega Benveniste, diversamente dalla rimozione, la negazione linguistica «deve formulare esplicitamente quanto vuole sopprimere» e di conseguenza «un giudizio di non-esistenza ha anche necessariamente lo status formale di un giudizio di esistenza», in quanto non può «annullare la proprietà fondamentale del linguaggio, cioè l’implicita assunzione che a ciò che è enunciato corrisponde qualcosa, qualcosa e non “niente”»17. Coevo all’apparizione del «no», per Freud, è lo sviluppo della capacità di giudizio, la capacità di discernere tra ciò che è e ciò che non è. Anzi, per meglio dire, è proprio la creazione del simbolo della negazione a portare a pieno compimento la facoltà di giudizio. E l’apparizione della funzione di giudizio – «il pronunciamento dell’attività giudicante» lo aveva chiamato Freud nel saggio del 191118 – è la chiave di volta per lo sviluppo del pensiero, funzione liminare tra il pensare e l’azione, tra il pensare e il fare, un’azione di prova: «Il giudicare è l’azione intellettuale che decide la scelta dell’azione motoria, che pone un termine al differimento del pensiero e assicura il passaggio dal pensare al fare»19. Ma in fondo cosa è questa funzione che si pone a mezza via tra il pensare e il fare, questa azione di prova che interrompe il differimento del pensiero, che spinge verso l’agire, se non il linguaggio? E quello strano e nuovo uso descritto da Spitz, delle stesse attività motorie riflesse che consentivano al neonato di cercare il seno e a partire dal terzo mese di allontanarsene in maniera non 16
S. Freud, La negazione, cit., p. 197. Benveniste, Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, in Id., Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 103-104. 18 Sigmund Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. VI, p. 455. 19 S. Freud, La negazione, cit., p. 200. 17 Émile
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più riflessa, ma intenzionale, non è forse già un passaggio dal pensare al fare, o un «fare pensando», cioè, in nuce, una forma prodromica di linguaggio? E il linguaggio costituisce il canale di passaggio da un piano endopsichico ad uno comunicativo e sociale, attraverso una continua modificazione e dell’uno e dell’altro. La negazione è e può essere soltanto linguistica. Senza un linguaggio non c’è negazione. Un bambino senza linguaggio non può negare, ma un osservatore può interpretare un determinato gesto come un «no». Che lo sia o non lo sia non ha alcuna importanza, essenziale è che ci sia qualcuno disposto a considerarlo tale: in questo modo un Ammassalimiut potrà vantarsi tutta la vita del nome che si è scelto, lascito indiscutibile di tutti i nomi che ha scartato. Tutto questo fa sì che un processo descritto in termini prevalentemente intrapsichici divenga azione, fare, e quindi scambio, comunicazione, linguaggio. Qui si inserisce e si esprime il «no» del bambino, la sua capacità di riconoscere e di negare o di rifiutare qualcosa di inaccettabile, da negare perché non gli appartiene o forse proprio perché intuisce che gli appartenga. È la prima forma di anticorpo psichico che riconosce e distingue tra ciò che è proprio e ciò che è estraneo, per dirlo in termini psicologici, tra il me e il non-me ed è, come il sistema immunitario, una prima forma di definizione di identità, ma a rischio di errore, a rischio cioè di confondersi e di sviluppare malattie autoimmuni sotto la forma di difese psicopatologiche20. In sostanza il grido «no», è una sorta di primario riconoscimento di se stessi che, necessariamente, avviene in negativo: «io non sono questo!» è la prima forma di definizione e di delimitazione di se stessi. Se questo ha valore nell’infanzia, ancora maggiore sarà la sua importanza in adolescenza, quando il rifiuto di una definizione esasperata da parte di un mondo che pretende ossessivamente di attribuire senso, coglie il ragazzo nell’impreparazione di chi ancora deve fare esperienza per conoscersi e definirsi. Il suo «no» è una forma di rispetto per se stesso: Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo21. 20 Mi sia consentito di citare un mio saggio su questo tema: Paolo Carignani, Difese fisiche e difese psichiche, «Parolechiave», 22-24, Roma 2000, pp. 385-413. 21 Eugenio Montale, Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, p. 30.
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È una percezione interna, ma anche una comunicazione al mondo. «Io sono io, proprio perché, percependomi, non riconosco, non accetto, ignoro quello che sono e quindi sono a me stesso estraneo». Detta in altre parole è questa la conclusione dell’articolo di Freud quando afferma che nell’inconscio non esiste il «no», mentre è l’io che nega il riconoscimento dell’inconscio22: il «no» nasce dalla negazione di ciò che mi è nascosto, ma ciò che mi è nascosto è, nel senso più intimo, ciò che sono. Attraverso la negazione di qualcosa che non accettiamo, ma di cui non possiamo più negare l’esistenza, prende espressione l’irriducibilità di fondo del sistema freudiano Inconscio-Coscienza, ma anche, potremmo aggiungere, del problema corpo-mente, del dualismo emozione-pensiero, dello scarto – non solo temporale – tra sensazione e percezione. Si tratta in sostanza di un problema dialettico che nasce, per dirla con Jean Hyppolite, da una «negazione della negazione»23. Il conflitto, sul piano intrapsichico, non è sanabile e la tensione di fondo tra il «no» e il «sì», tra il rifiutare e l’accettare, non può trovare da un punto di vista ontologico nessuna soluzione, se non una serie di precari e instabili equilibri. Ma se il «no» è necessario alla sopravvivenza psicologica, la sua esasperazione comporta rischi gravi: dal «no» duro e disperato di una ragazza anoressica, a quello urlato nelle forme giovanili antisociali, al gentile, delicato, ma irremovibile «I would prefer not to» del Bartleby melvilliano. Ma c’è anche un «no» etico, quello della relazione con il mondo, con la società, con il potere, che comporta responsabilità e scelta e, come diretta conseguenza, un prezzo da pagare. Quello che porta il prigioniero sotto tortura a tacere, un piccolo gruppo di professori universitari a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime fascista, il commerciante a non pagare il pizzo o, più in generale, le mille forme sparse sul pianeta di disobbedienza civile. E il prezzo, come ricorda il poeta Konstantinos Kavafis, può essere molto alto: Arriva per taluni un giorno, un’ora In cui devono dire il grande Sì O il grande No. Subito appare chi Ha pronto il Sì: lo dice e sale ancora 22
S. Freud, La negazione, cit., p. 201. Jean Hyppolite, Commento parlato sulla Verneinung di Freud, in Jacques Lacan, Scritti, Fabbri, Milano 2007, vol. II, p. 888. 23
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Nella propria certezza e nella stima. Chi negò non si pente. Ancora No, se richiesto, direbbe. Eppure il No, il giusto No, per sempre lo rovina24.
24 Konstantinos Kavafis, Che fece… il gran rifiuto, in Id., Poesie, tr. it. di F.M. Pontani, Mondadori, Milano 1972, p. 11.
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Finito, infinito «Omne ens habet rationem», ogni cosa ha una ragione. È il «grande principio» che Leibniz introduce insieme nella sua logica e nella sua metafisica1. Questa corrispondenza tra cose e ragioni è anzi la via leibniziana all’antico sogno della filosofia, portare alla coincidenza l’ontologia e la logica, il reale e il pensiero. In una lettera Leibniz fa un esempio celebre, quello delle due gocce d’acqua. «Non esistono due gocce d’acqua interamente uguali», «i comuni filosofi si sono ingannati quando hanno creduto che vi fossero cose differenti solo per numero»2. Se ci sembrano identiche, il fatto è che non abbiamo guardato bene. Non abbiamo analizzato abbastanza, non abbiamo sviluppato a sufficienza l’analisi dei predicati che ineriscono alla prima goccia come alla seconda goccia. Le cose cambieranno non appena spingeremo abbastanza avanti l’analisi. Cioè non appena la spingeremo all’infinito, come forse solo Dio potrebbe fare. Certo, c’è qui una grande questione. Leibniz decide di pensare dal punto di vista di Dio, cede a una sorta di «vizio d’infinità», com’è stato chiamato acutamente3. Lascia a Kant la rinuncia all’intuizione intellettuale e la conseguente umanizzazione del leibnizianesimo. Ma per chi cede al vizio dell’infinito e spinge l’analisi all’infinito, è chiaro che la prima goccia è tutt’uno con tutti i suoi predicati, e la seconda goccia 1 Gottfried Wilhelm Leibniz, Sui principi di contraddizione e di ragion sufficiente, in Id., Scritti filosofici, Utet, Torino 1968, vol. II, p. 171. 2 G.W. Leibniz, Lettera a Clarke (agosto 1716), in Id., Scritti filosofici, cit., vol. II, p. 328. 3 Renato Cristin, Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione, Bompiani, Milano 1990, p. 87.
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tutt’uno con tutti i suoi predicati, e che questa analisi infinita dell’una e dell’altra goccia sarà la «ragione» della prima, la «ragione» della seconda. Quelle che chiamiamo la prima come la seconda goccia non saranno che quell’analisi «in sintesi», in ogni punto di quella sintesi. «Ogni» è il nome di questa sintesi, che è tutta la sintesi che c’è, in ogni punto in cui c’è. Cioè, in ogni soglia analitica del suo dispiegarsi, in ogni fibra della sua analisi infinita, in ogni punto in cui la sua continuità si risolverà analiticamente. E questo indipendentemente dal fatto che ci sia un Dio a saperlo, ogni goccia essendo più nel profondo un Dio che agisce («sinteticamente», le virgolette sono d’obbligo), benché non un Dio che sa («analiticamente», sempre tra virgolette) che agisce. La grande questione di cui sopra si sposta: la rinuncia kantiana diventa improvvisamente meno necessaria, salvo ammettere che ogni cosa è Dio in atto, e che non c’è una monade centrale. Perché ogni periferia è centro, se ogni cosa ha una ragione, e da questo punto di vista sembra più vizioso rinunciare all’infinito, che cedere al vizio dell’infinità. Nome, limite Ogni cosa ha un concetto e uno soltanto, ogni concetto ha una cosa e una soltanto. Non c’è un’idea della goccia a cui riportare questa goccia o quella goccia, e neppure c’è questa goccia o quella goccia dalle quali estrarre un’idea di quella che sarebbe la goccia in sé. La sostanza è tutta nella serie dei suoi predicati: e come la serie dei predicati è la serie infinita, infinitesimale, infinitesimalmente divisibile, degli eventi che accadono alla goccia, così, allo stesso modo, la goccia è la serie infinita, infinitesimale, infinitesimalmente divisibile, della sostanza a cui accadono gli eventi. La goccia cade qui piuttosto che là, ora piuttosto che allora, da quella nuvola che la deposita su questo vetro, lungo il quale scivola lentamente fino a condensarsi così e non altrimenti, includendo per esempio un certo minuscolo frammento di polvere, e poi evaporando lentamente al sole, restringendo i suoi contorni a misura che il vapore se ne torna in cielo, incluso in una nuova nuvola, catturato da un nuovo vento. «Il predicato è l’esecuzione di un viaggio»4. 4
G.W. Leibniz, Lettera a Arnauld (luglio 1686), in Id., Scritti filosofici, cit., vol. I, p. 86.
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Nessuna goccia esiste, evidentemente. Al posto della goccia, il principio di ragione mostra l’unità di un processo infinitamente divisibile, mostra la serie infinita e infinitesimalmente divisibile degli eventi e dei predicati che si raccolgono in ciascuno di quei punti, di quelle soglie, di quegli eventi, cioè di quei predicati, che chiamiamo «goccia». Al posto della goccia, non un oggetto ma un «objectile» scrive Deleuze, forse memore di Artaud, che parlava in modo simile di «subjectile». Sorta di fondo plastico, di sostanza malleabile che è in ogni transizione tutta la sua plasticità, la sua individuazione in atto, la sua corposa morfogenesi5. Solo un certo modo di guardare e pensare potrà pensare di sospendere il divenire, isolare in esso una serie di soglie, risolvere ciascuna soglia nell’accoppiamento di una certa sostanza immutabile eppure eminentemente mutevole, e di un certo accidente mutevole eppure eminentemente immutabile. Da una parte una goccia, che si suppone identica a sé, pura idea della goccia; da un’altra parte un qualche attributo, per esempio una certa trasparenza, che si suppone anch’essa identica a sé, pura idea della trasparenza indifferentemente predicabile di questa goccia, del vetro di questa finestra, degli occhi di questa donna. Nessuna casualità in questa strana simmetria, in questa strana reversibilità dell’immutabile mutevolezza della sostanza e della mutevole immutabilità dell’accidente. Essa dice bene che ciascuno di questi accoppiamenti sarà puramente nominalistico, e il campo del reale sarà del tutto evacuato a favore del campo della rappresentazione. L’intensità dell’evento risulterà allora perfettamente risolta nell’estensione di una serie di pose e nei misteriosi vuoti che cadranno tra una posa e un’altra posa. Il fatto è che avevamo guardato quelle gocce attraverso l’algoritmo nominalistico del linguaggio, che pone un soggetto, rendendolo perciò stesso identico a sé, e giustappone al soggetto un predicato, anch’esso destinato ad essere eternamente coincidente con se stesso. L’ordine della rappresentazione, la logica dei «comuni filosofi», come li chiama Leibniz, è perfettamente reversibile, ambivalente, immobilistico. 5 Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004, p. 30. Antonin Artaud scriveva all’amico André Rolland il 23 settembre 1932: «ecco un brutto disegno dove ciò che viene chiamato il soggettile (subjectile) mi ha tradito», cit. in Jacques Derrida, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, Abscondita, Milano 2005, p. 11, dove Derrida dedica un’ampia e ricchissima riflessione a questo termine artaudiano.
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L’algoritmo del linguaggio è nominalistico per la semplice ragione che funziona intorno al segreto del nome e si organizza intorno a una sintassi che fa del nome un soggetto e del soggetto la sostanza a cui inerirà una predicazione a quel punto puramente accidentale. Ogni nome funziona come l’allucinazione di una perfezione. Lo ha compreso definitivamente Henri Bergson: l’efficacia specifica del nome consiste nel fotografare il reale in una posa assoluta, sciolta dal divenire, cristallizzata in una sorta di compiutezza6. La sintassi greco-latina-moderna pone poi il nome in luogo di soggetto, cioè di sostanza, e fa della predicazione un momento strutturalmente dipendente, fa del divenire un’avventura ovviamente accidentale. Di più: se il segreto del nome è la perfezione di una posa, il destino di quella sintassi, conclude Bergson, è di fare del divenire un’imperfezione, del processo una decadenza. L’accusa che i moderni hanno rivolto di continuo all’aristotelismo e alla sua dottrina del soggetto/fondamento e del predicato/accidente si radica in questa archeologia ben precisa e inaggirabile. Accusa di verbalismo, denuncia di un sapere di parolai, che non a caso può emergere solo in un tempo in cui il sapere inizia a scriversi senza parole, grazie a quei silenziosi caratteri matematici che si mettono in cammino in Occidente sul finire del Medioevo. Anche Leibniz ripete quell’accusa: «La metafisica è stata trattata ordinariamente come una mera dottrina di termini, senza venire alla discussione delle cose»7. La metafisica avrebbe ridotto il reale, e la sua forza, la sua intensità, a un gioco di specchi, spettacolo prestigioso in cui il sonno si spiega con la vis dormitiva, il processo si riduce a una successione di stati, e la successione da stato a stato si spiega non con una forza ma con un altro nome, che reduplica l’immobilità che avrebbe dovuto smuovere. Se «ogni» è l’operatore di ogni monadologia, è anche l’operatore di ogni «realismo». Leibniz formula il «gran principio» proprio perché vuole reintrodurre l’intensità nella metafisica, la forza nella fisica, il desiderio nella psicologia, il reale nel pensiero. In un certo senso, Leibniz può formulare il gran principio solo perché non pensa affatto in latino o in francese o in tedesco, ma si limita a tradurre in quelle lingue, a tradurre ciò che ha pensato nella scrittura della «sua» matematica. Il principio di ragione non è che 6 Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 248, 257, 269. 7 G.W. Leibniz, Lettera a Clarke, cit., pp. 248, 257, 269.
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un tentativo di esprimere, nell’algoritmo del nome e nella sintassi greco-latina, ciò che gli si rendeva visibile con la scrittura matematica dell’infinitesimale, e in particolare con quell’operazione che dopo di lui avrebbe preso il nome di passaggio al limite. Scrive Leibniz nello Specimen dynamicum: «Se, nei dati, un caso si avvicina in maniera continua a un altro e svanisce infine in esso, occorre necessariamente che anche i risultati di tali casi si avvicinino in maniera continua nelle soluzioni cercate, e terminino infine reciprocamente l’uno nell’altro»8. È la definizione del calcolo infinitesimale che troviamo ancora in Couturat, che la riformula usando apertamente la nozione di limite, ma in termini quasi identici: «esso consiste nel calcolare i limiti di rapporti e i limiti di somme, ossia nel trovare i valori fissi verso cui convergono rapporti o somme di valori variabili nella misura in cui essi decrescono indefinitamente secondo una data legge»9. Macchina, automa Leibniz formula il suo «gran principio» in un’epoca che tutti definiscono come l’età degli automi. Tutti noi abbiamo ammirato nei musei il fantoccio di un indiano che fuma la pipa, di un gentiluomo che suona il clavicembalo, di una vecchia megera che si alza la gonna e libera in aria un beffardo zampillo. Ma non dobbiamo ingannarci. L’età in cui Leibniz opera non è l’età degli automi, è l’età delle macchine. E la formula di una macchina è quella con cui Descartes definisce l’estensione: partes extra partes. Tutto nell’universo cartesiano è fatto di parti esteriori le une alle altre. La discontinuità ne è il principio logico e ontologico, e solo assumendo un universo discontinuo si può immaginare di costruire una macchina e di studiare l’universo come una macchina. E la differenza tra macchina e automa è presto detta. L’automa si muove. È ciò che si muove da sé, secondo un impulso tutto proprio (il verbo greco mao significa amo, desidero10). O addirittura secondo 8 Gottfried Wilhelm Leibniz, Specimen dynamicum, in Antonino Drago (a cura di), La riforma della dinamica secondo G.W. Leibniz, Hevelius, Benevento 2003, p. 119. 9 Louis Couturat, De l’infini mathématique, Blanchard, Paris 1973, p. 23. 10 Pierre Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Klincksieck, Paris 1978, voce «Automaton».
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una sapienza tutta propria (a mao si collegano manthano, mathesis, mathema11). La macchina si limita a essere mossa. Quello di macchina è un concetto intimamente teologico. Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza. Ogni macchina è mossa da altro, suppone un’ulteriorità, attende che un uomo o un dio la mettano in moto. Quanto a lei, la macchina è fondamentalmente immobile. Questo mondo macchinico è anch’esso inevitabilmente un mondo rappresentato. Il reale è già stato oppure sarà, ma non «è». La vita (della macchina, del mondo) è totalmente passata, e la macchina o il mondo sono ormai cadaveri, oppure è totalmente a venire, e la macchina o il mondo sono ancora troppo imperfetti per vivere. La morte è lo stato fondamentale dell’universo, e di quello stato fondamentalmente cadaverico, la vita non può essere che un misterioso supplemento o un’incomprensibile complicazione. Solo il rovescio della formula cartesiana delle partes extra partes consente di pensare il vivente. Se «ogni cosa ha una ragione», la materia non è estensione di partes extra partes, ma intensità e partes intra partes, materia infinitamente divisibile, e divisibile in modo tale che l’elemento semplice ottenuto per divisione sarà ancora complesso, sarà sempre d’altra natura. «L’unità di materia è la piega, non il punto»12. L’uno è sempre un po’ più di uno, anche se non sarà un due, che sarebbe semplicemente un uno più un altro uno. All’automa non serve che la vita sopraggiunga da fuori, come una causa venuta dal lontano passato o dal lontano futuro, già sempre venuta o ancora sempre a venire. La temporalità dell’automa è tutta presente, benché la presenza di quel presente sia tutt’altro che semplice, tutt’altro che coincidente con sé. Il passato e il futuro non ne sono che le pieghe o le tensioni interne. Cade ogni teologia del Dio a venire o del Dio ormai venuto. Cade, non perché Dio sia morto, ma al contrario, perché Dio è più che mai vivo, è un nome dell’intensità di ogni cosa, o di quel lato per il quale ogni cosa è intensa, oltre che estesa. Se l’algoritmo del linguaggio sostituisce al reale una collezione di istanti privilegiati, e dunque morti, l’elemento del reale e del vivente, per chi scrive matematicamente, è l’elemento mobile, cioè, con Bergson, il «momento qualsiasi», espressione straordinaria e letteralmente inesauribile13. Ogni istante è l’i11
Ibid. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, cit., p. 10. 13 H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., p. 269. 12
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stante privilegiato, e lo è perché assolutamente qualsiasi, perfettamente grigio, in fondo vuoto: vuoto di cose, vuoto di significati, istante non decisivo ma indecisivo. È nell’assorto automatismo dell’istante qualsiasi, cioè di qualsiasi istante, che l’universo si singolarizza integralmente, si risignifica incessantemente, si sintetizza analizzandosi. Punto di vita, punto di morte Nel suo corso sui Primi principi della logica a partire da Leibniz14, Martin Heidegger accosta genialmente al principio di Leibniz, «ogni cosa ha una ragione», l’intuizione di Angelus Silesius, «die Rose hat keinWarum, sie blühet weil sie blühet (la rosa non ha perché, fiorisce perché fiorisce)». Lo fa al solo scopo di demolire Leibniz, l’alfiere della ragione calcolante, come Heidegger ama dire, e per innalzare Silesius, ieratico custode dell’essere incalcolabile. Da una parte il mondo amministrato dai computer, dall’altra la capanna nella Foresta Nera. Ma forse tutto sta a intendere adeguatamente quel «weil», che nel testo di Silesius obbedisce a un’esigenza speculativa assolutamente specifica e originale. Se «warum» dice la cosa (was) da cui proviene (um) un’altra cosa, iscrivendo l’intera serie in un regime di esteriorità e di successione, «weil» dissolve invece la causa nell’effetto e l’effetto nella causa, iscrivendo questa che non sarà più una serie in un regime di perfetta continuità o simultaneità che tuttavia non è mai un regime di coincidenza ma anzi di differenziazione continua, di continuità come continua differenziazione. «Warum» risponde bene all’esigenza di dire che la rosa «non ha una ragione», il che suppone pur sempre l’ipotesi contraria, che la rosa «ha» una ragione, che poi certo viene negata, ma che intanto è stata isolata, ritagliata, fissata, separata. «Weil» risponde magnificamente all’esigenza di dire che la rosa «fiorisce in quanto fiorisce», che la rosa «è» la sua ragione. Non è proprio ciò che dice Leibniz col suo «gran principio»? Ogni cosa «è» una ragione, dunque ogni cosa è una monade. Il principio di ragione riorganizza la logica leibniziana secondo le stesse 14 Cfr. l’esame che Martin Heidegger svolge sui diversi significati di ragione in Leibniz: Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, in Id., Gesamtausgabe, Klostermann Verlag, Frankfurt am Main 2007, vol. 26, pp. 139 sgg. (tr. mia).
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movenze con cui la monadologia riorganizza l’ontologia leibniziana. Ogni cosa è una monade significa anzitutto: ogni monade è un punto di vista, ogni cosa ricapitola l’universo nella propria singolarità, ogni evento grande o piccolo implica in sé ogni altro evento grande o piccolo. La celebre metafora leibniziana del punto di vista15 è chiarissima e insieme scivolosissima. Ogni monade è come lo spettatore di una città, e tutta la città è presente in quello spettacolo, sebbene non tutta allo stesso modo, alcuni edifici e viali essendo in primo piano, certe vie e piazze nello sfondo, altri quartieri ai margini del visibile. Tutto è in tutto, questo il principio, schiettamente neoplatonico, apertamente continuista, a cui la metafora del punto di vista serve da illustrazione. Persino la specificazione di poco fa, «ogni evento grande o piccolo», è di troppo. Ogni evento è un grande evento nel senso che ha la forza di ricapitolare in sé ogni cosa, di spostare in sé ogni cosa, per quanto infinitesimalmente. Ma più profondamente, ogni evento è piccolo, ogni evento è un evento qualsiasi, ogni evento è semplicemente un evento, e dirlo grande o piccolo non dice di lui, dice invece di un punto di vista su di lui, e in questo senso è solo un altro evento, un altro evento qualsiasi tra infiniti altri eventi qualsiasi. È forse a questo punto che la chiarezza della metafora del punto di vista lascia posto a una certa inadeguatezza. Perché la vista suppone l’esteriorità del vedente e del visto, laddove il continuismo leibniziano esige che non ci siano partes extra partes ma solo partes intra partes, che insomma le cose viste siano interne alla visione e che quindi sia la città stessa a vedersi, per quanto singolarmente, cioè risolvendosi integralmente in un’infinità di singolarità auto-visive, che oltretutto non cessano di singolarizzarsi infinitesimalmente, cioè di slittare, di spostarsi, di guardare diversamente, di lasciarsi implicare in altri sguardi diversi e capaci di diversificarla. Solo le macchine percepiscono, perché sono fatte di partes extra partes e sono partes tra altre partes extra partes. Gli automi invece esprimono, perché sono partes intra partes. Leibniz chiama «espressione»16 questa percezione senza percezione, questo accordo senza contatto, questa complicità di perfette solitudini, questa armonia senza significato, questa gioia che è gioia di nulla. 15 16
Gottfried Wilhelm Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001, § 57. Ivi, § 59, § 62.
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Ogni punto di vista è allora un punto di vita, cioè un automa. Ogni suo atto è espressivo, cioè implica immediatamente la distesa delle molteplici cose viste o vissute o per qualsiasi «ragione» frequentate. La implica in ogni punto, o meglio in ogni tratto, dato che non ci sono punti, sezioni, predicazioni, ma piuttosto linee, slittamenti, «flussioni» (calcolo delle flussioni era all’epoca l’altro nome del calcolo infinitesimale). Per le stesse ragioni continuiste, ogni punto di vita, non appena vive ed esprime (e in ogni istante vive, cioè slitta, fluisce), immediatamente viene anche vissuto o espresso da ogni altro punto di vita, nell’infinitesimale slittamento di ogni altro punto di vista, nel minuscolo spostamento della loro «ragione» diveniente, che sarà, beninteso, in ogni istante o in ogni tratto, tutta la ragione che c’è, tutto il reale che c’è. Dunque ogni punto di vita sarà un automa che produce in se stesso continuamente la macchina o la macchinazione del mondo nelle partes extra partes previste e prescritte da quel suo punto specifico, da quella sua vita singolarissima, da quel suo modo assolutamente peculiare di tagliare l’universo secondo un certo piano, di ricucirlo in un mondo che è il mondo della sua «ragione». Ogni punto di vita è un automa che macchinizza l’universo facendone il proprio mondo interiore, sicché assolutamente reale sarà solo la perfetta solitudine di quel punto di vita, e assolutamente simbolica sarà la macchina che gli si dispiega dentro, simbolizzando anzitutto il suo stesso evento. Per le stesse ragioni, ogni punto di vita è la macchina di ogni altro, è vissuto da infiniti altri automi e cioè da infinite altre vite, non cessa di passare e precipitare in altre monadi, di esserne catturato e implicato e affollato, dunque non cessa di farsene esplicazione, di divenire loro macchinazione in concomitanza col mobile divenire del loro automatismo, di dispiegarsi come loro corpo esteso e quasi morto, estrema propaggine di quell’altra vita, propaggine quasi morta ma mai morta, piuttosto eternamente moribonda. Ogni punto di vita è un punto di morte. Così, ogni punto è doppio, è due punti in uno, è un prendere e un essere preso, un implicare in sé e un essere implicato in altro, cioè un esplicare altro facendosene estensione ed esplicazione e un fare dell’altro la propria esplicazione e la propria estensione ed estrinsecazione. Ogni punto è questa unità doppia, attiva perché passiva e passiva perché attiva, perfettamente vuota perché perfettamente piena e perfettamente piena perché perfettamente vuota. Ogni punto
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è questa soglia perfettamente insostanziale, perché il pieno è dal lato dei corpi che quella soglia dispone ai propri confini come propria intima alterità, come propria alterità non negativa, non separata, non discontinua, ma continuamente allontanata e nella lontananza continuamente richiamata e ripiegata a una misteriosa ininterrotta intimità. Ogni punto è questo tratto simultaneamente analitico-sintetico, un tratto che nel suo tracciarsi, nel suo star sempre tracciandosi, divide ogni cosa e fa sì che ogni cosa ridivida a partire da sé l’universo delle cose secondo le ragioni inesauribili di quel tratto, e allo stesso tempo tiene insieme ogni cosa e ogni cosa di ogni altra cosa secondo le stesse ragioni di quel tratto che ha prodotto divisione e proprio perciò riunione. Ogni punto è questa figura disegnata sempre e soltanto da un altro tratto che va tracciandosi altrove, e anzi disegnata dagli infiniti altri tratti che vanno tracciandosi altrove, e che hanno in quella figura il loro rovescio, la serie delle divisioni che essi hanno prodotto a cascata, l’estensione del loro corpo che è il loro corpo perché muore la loro vita.
Passi Daniela Angelucci
Sin dagli anni Quaranta Jacques Lacan si occupa dell’invidia, della rivalità aggressiva1, come una delle conferme più evidenti della scissione costitutiva della natura umana. L’invidia sarebbe un sentimento inevitabile nell’essere umano sin dal momento della nascita della sua soggettività, nella «fase dello specchio»: nel riconoscere la propria immagine in una superficie riflettente, alla presenza di un terzo che conferma tale riconoscimento, si instaura nell’infante, insieme alla consapevolezza giubilatoria di sé in quanto soggetto, anche una lacerazione. Con l’immagine sdoppiata e dunque alienata in cui riconosco il mio corpo, ora visto per intero – un’immagine di me stessa più coesa e capace di padronanza di quella che vivo nella realtà dell’infanzia –, appare anche l’io ideale, la cui perfezione di fatto non potrò mai eguagliare. Lo scarto tra come sono e come vorrei essere scatena il primo affiorare dell’invidia, di un’aggressività sentita in primo luogo nei confronti del mio io ideale, che sarà tuttavia il prototipo di tutte le altre rivalità2: verso i fratelli, le sorelle, i miei simili che mi appaiono, anche indipendentemente dagli elementi oggettivi, per qualche aspetto migliori e più «pieni» di me. Si tratta di una riproposizione del narcisismo freudiano che mette in luce, insieme all’innamoramento per la propria immagine, il tratto suicidario presente nel mito, la pulsione di morte, l’aggressività che corrisponde qui al tentativo continuo di colmare uno scarto incolmabile. 1 Cfr. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, e Jacques Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, in Id., Scritti. Volume I, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1972. 2 Cfr. Daniela Angelucci, Lo sguardo senza invidia: il cinema e la maschera dell’Io ideale, «Fata Morgana», 22, 2014, pp. 57-65.
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Chiedersi se sia possibile un’esperienza esistenziale intensa, che possa permeare di sé tutta la nostra vita, in cui l’aspetto invidioso, aggressivo, venga superato significa dunque chiedersi, seguendo Lacan, se è possibile mettere a tacere l’elemento di lacerazione, di scissione del mio io, che tuttavia, come abbiamo detto, è costitutivo. Siamo insomma nel paradosso, poiché – almeno secondo la descrizione che abbiamo accettato come presupposto – l’esperienza di una scissione è contemporanea all’antropogenesi, siamo questa scissione. Eppure, Lacan stesso, nel Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), dopo aver descritto l’essere umano come colui che non può uscire dal simbolico e dall’immaginario, sembra suggerire che nell’esperienza dell’arte, in particolare della pittura, lo sguardo, caratterizzato dall’inquietudine propria dell’umano, sintomo di invidia e di ricerca di qualcosa che è sempre da un’altra parte – invideo vuol dire, appunto, guardare storto, guardare di traverso –, viene domato, si ferma, può sostare. Lacan collega qui la funzione del quadro come «doma-sguardo» alla pacificazione del carattere invidioso e «disperato», «vorace», del nostro guardare3. Se l’esperienza della scissione, dello scarto tra quello che sono e quello che vorrei essere, della separazione tra il mio presente e un possibile altrove, è tipica dell’umano e del suo tendere verso la trascendenza (Lacan ci parla di simbolico, cioè di linguaggio nel suo senso più ampio, ma il linguaggio è proprio ciò che ci separa da noi stessi, dal nostro essere qui e ora, dal nostro reale), è possibile chiamare l’esperienza di un superamento della scissione, di uno «stare presso di sé», un’esperienza di immanenza, concetto spinoziano che riprendo dalla filosofia di Deleuze. Pensare l’immanenza significa nelle sue opere la possibilità di un incontro con la vita impersonale, con le forze vitali non organizzate, che escluda ogni criterio trascendente, ogni mediazione. In questa prospettiva, come è stato affermato4, Deleuze trova un alleato nel pensiero dell’ultimo Lacan, che si volge al reale: un’alleanza niente affatto scontata (è nota la prospettiva critica con cui Deleuze e Guattari hanno guardato alla psicoanalisi nell’Anti-Edipo, 1972), ma convincente. Secondo Lacan nell’esperienza or3 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, pp. 105-114. 4 Cfr. Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano 2015, cap. I, Etica.
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dinaria il reale è sempre intrecciato ai registri dell’immaginario e del simbolico, attraverso i quali istituiamo la nostra realtà, addomesticando il reale puro attraverso le nostre rappresentazioni5. Reale puro vuol dire invece non correlato all’essere umano e alla legge, senza tuttavia che questo significhi prendere la strada dell’immaginario, dell’allucinazione, del delirio. È possibile, allora – e desiderabile – incontrare il reale? Oppure, provare l’esperienza dell’immanenza? Né in Lacan, come abbiamo visto nella descrizione della nascita della soggettività nel doppio dell’immagine, né in Deleuze – che parla di «divenire-animale», «divenire-minoritario», «divenire-altro» – esiste un reale originario per l’essere umano, esso è già da sempre perduto, non pensiamo quindi a una regressione, a un ritorno a uno stato originario, biologico. L’immanenza è concepibile solo come esperimento, tentativo di attraversamento e superamento di quella esperienza ordinaria nella quale siamo trasportati, e a volte alienati, dal significante e dall’interpretazione. È possibile quindi parlarne come esito, come esperienza singolare sebbene, spostando la questione sul piano esistenziale, occorre auspicare che possa avere un effetto di ritorno, una retroazione sulla nostra realtà. Ebbene, anche per Deleuze e Guattari questo superamento avviene nel caso dell’arte, in grado di incarnare l’evento, ripetendolo in un’espressione che tuttavia non cristallizza il divenire, ma mantiene molteplici «vie di fuga», fluidità e apertura. Nel testo del 1991 Che cos’è la filosofia?, i due autori presentano vari modi di pensare l’immanenza e di coglierla senza che la trascendenza «faccia capolino»: se la filosofia costruisce un piano di immanenza creando concetti, la scienza opera un congelamento del divenire che ne permette una penetrazione, l’arte, con i suoi blocchi di sensibilità, di movimento-durata, consente un contatto con l’immanenza, con il reale, che tuttavia non ne snatura il continuo divenire. Contraddicendo gli stessi autori, che non intendono assegnare un privilegio a nessuna delle tre strade proposte, sembra che l’arte sia la più perseguibile tra le tre vie di pensiero, un’arte che – diversamente all’esperienza pacificante descritta da Lacan nel Seminario XI – qui sembra condurre l’artista e i fruitori 5 Per un approfondimento, cfr. Sergio Benvenuto, La psicoanalisi e il reale, Orthotes, Napoli-Salerno 2015. Scrive Benvenuto: «tra il reale […] e il soggetto (costituito di rappresentazioni) c’è una sorta di cuscinetto che addomestica il reale, cuscinetto in cui ritroviamo le nostre rappresentazioni, e quindi ci ritroviamo», p. 91.
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ad attingere qualcosa di imponderabile, di impensabile, talmente intenso da essere a volte insopportabile. Anche in questo caso, però, si tratta di un’uscita dal simbolico, dall’interpretazione e dal significato, non soltanto laddove si parli di arti visive; persino la letteratura, arte del linguaggio, deve azzerare l’uso simbolico, rappresentativo, e in fondo prendere la lingua alla lettera, come qualcosa di materiale, «cosale». È questo che intendevano i due autori nel testo del 1975 su Kafka, parlando di una deterritorializzazione del linguaggio, di un’uscita dalle interpretazioni e dalle metafore che deve approdare a una «letteratura minore». Scriveva Deleuze, insieme a Claire Parnet, in Conversazioni: «Siamo costretti a passare attraverso i dualismi, perché questi sono nel linguaggio, il problema non è quello di liberarsene, ma bisogna lottare contro il linguaggio, inventare un balbettamento, non per raggiungere una pseudo-realtà prelinguistica, ma per tracciare una linea vocale o scritta che farà colare il linguaggio fra questi dualismi e che definirà un uso minoritario della lingua, una variazione inerente»6. Prima di passare al titolo di questo scritto, ovvero al tema dei passi, del camminare, vorrei sottolineare tre punti rispetto a ciò che ho proposto finora: 1) Non si sta affermando che la trascendenza sia cattiva e l’immanenza buona. La trascendenza è costitutiva dell’umano, organizzare il reale attraverso l’immaginario e il simbolico è il nostro modo di stare al mondo, è ciò che ci rassicura rispetto al reale del corpo, con le sue sofferenze. Tuttavia, è forse possibile immaginare una serie di esperienze che non siano sotto il segno di questa separazione dalla vita, intesa come campo di forze vitali, non organizzate. Tale esperienza di contatto con il nostro reale non è necessariamente pacifica, può essere intensa al punto da risultare inquietante. 2) Con esperienza di immanenza intendo un superamento della scissione, non un annullamento, perché si tratta, parafrasando Deleuze, di un «divenire-immanente», non di un ritornare immanente. Se sono letteralmente questa scissione in quanto essere umano, non posso tornare indietro, a una specie di animalità sottesa. L’immanenza è sempre un compito, per l’umano non è un ritorno perché non c’è mai stata, se è vero che il soggetto nasce guardandosi in immagine dal di fuori, nutrendo desideri inarrivabili, negando il suo presente per cercare sem6
Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, Ombre corte, Milano 2006, p. 41.
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pre altrove. 3) Una possibile esperienza dell’immanenza, per esempio di tipo estetico, è di certo necessariamente puntuale, ha un inizio e una fine. Lo stesso deve dirsi di quel gesto del camminare di cui scriverò. E tuttavia, si tratta di qualcosa che ha un effetto pervasivo, che lascia tracce, nel modo di guardare il mondo o anche, per esempio, nelle nuove relazioni che vengono istituite. In questa prospettiva, mi sembra che un’esperienza estetica dell’immanenza sia rintracciabile, più che nell’opera d’arte, in una certa modalità del camminare, proposta nel corso della storia soprattutto da alcune avanguardie artistiche7. Il presupposto però è che questo camminare non sia un movimento mirato, bensì sia pensato al di fuori di un uso strumentale, che non sia un atto, ma un gesto, ovvero, secondo la definizione dello stesso Lacan, «qualcosa fatto per fermarsi e sospendersi»8. Il paradigma di questo tipo di passeggiata senza scopo è quello della «deriva», proposta e praticata negli anni Cinquanta e Sessanta dai situazionisti e descritta da Guy Debord nel suo Testo sulla deriva: «Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano, per una durata di tempo più o meno lunga, alle ragioni di spostarsi o agire che sono loro generalmente abituali, concernenti le relazioni, i lavori, gli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri che vi corrispondono»9. Camminare senza meta conduce a un uso creativo degli ambienti cittadini, a un uso del tempo non strumentale, poiché il «comportamento spaesante» lascia emergere incontri, imprevisti, possibilità: si tratta infatti di svincolarsi dai «penosi obblighi di un appuntamento normale» per un «appuntamento possibile». L’attitudine della deriva – che implica anche un aspetto ludico, provocatorio – permette di vedere non tanto qualcosa di nuovo, ma la stessa cosa con occhi diversi, da una prospettiva diversa. Soprattutto, la deriva è uno dei metodi che dovrebbe approdare alla costruzione di situazioni, ovvero alla «costruzione concreta e deliberata di momenti (ambientazioni contingenti) della vita, e la loro 7 Preciso che Deleuze non scrive del camminare in questo senso, anche se si occupa del concetto di balade, dell’«andare a zonzo» tipico dei film della modernità nei libri sul cinema; d’altro canto, le avanguardie di cui scriverò non usano il concetto di immanenza. 8 J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 114. 9 Guy-E. Debord, Teoria della deriva, in Pasquale Stanziale (a cura di), Situazionismo, Massari, Bolsena 1998, p. 56.
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trasformazione in una qualità passionale di ordine superiore»10, come scrive ancora Debord in quello che si può considerare il manifesto teorico del movimento, Rapporto sulla costruzione delle situazioni. Si incontrano qui un elemento propriamente ludico, l’aspetto della rinuncia ad uno scopo qualsiasi, ma anche l’aspetto costruttivo di un soggetto che crea l’ambiente e le premesse perché eventi «di qualità passionale superiore» accadano. Nell’ambito di una critica alla società dello spettacolo – non semplicemente società delle immagini, ma società in cui i rapporti sono mediati dalle immagini, in cui «tutto ciò che era direttamente vissuto, si è allontanato in una rappresentazione»11, come scriverà Debord nel 1967 –, la situazione è la provocazione a quel gioco che è la presenza umana, è la costruzione di una nuova vita quotidiana, basata sulla liberazione del desiderio. Secondo Debord è questa vita che la società capitalistica annulla, trasformandola in «tempo libero», separato e specialistico, così come l’arte è divenuta attività isolata, borghese, un lusso da concedersi quando gli altri bisogni sono soddisfatti, da cui l’affermazione da parte dei situazionisti della necessità di un superamento dell’arte. Una diversa concezione dello spazio porta con sé anche una diversa concezione del tempo e di uso del tempo. La teoria situazionista non sostiene un tempo lineare, né circolare d’altra parte, ma, appunto l’idea di una temporalità puntuale, declinata al presente, alla ripetizione di infiniti eventi singoli, unici: in Rapporto sulla costruzione delle situazioni i membri dell’Internazionale situazionista sostengono infatti, risolutamente, «una concezione non-continua della vita» in cui la nozione di unità deve essere sostituita «dalla prospettiva di istanti isolati della vita»; o ancora, affermano, occorre «agire come se non ci dovesse essere futuro». Si comprende insomma che non si tratta di una pratica separata, ma di un modo di vivere: «le difficoltà della deriva sono quelle della libertà»12. La pratica della deriva eredita lo spirito ironico di alcune avanguardie, del dadaismo, del surrealismo, movimenti che hanno praticato in modo differente passeggiate sovversive e senza scopo. Del 1921 è la 10 Guy Debord, Rapport sur la construction des situations, citato in Mirella Bandini, L’estetico, il politico. Da Cobra all’Internazionale situazionista 1948/1957, Costa & Nolan, Milano 1999, p. 281 (tr. mia). 11 Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 53. 12 Guy Debord, Théorie de la dérive, citato in M. Bandini, L’estetico e il politico, cit., p. 222.
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prima «visita» dadaista, a Parigi, come vuole l’eredità della flânerie baudelairiana13: intellettuali, scrittori, poeti, tra cui André Breton, Paul Éluard, Louis Aragon, Tristan Tzara si incontrano davanti alla chiesa di Saint Julien le Pauvre per dare inizio alla prima escursione nella città «banale», ordinaria, durante la quale lo spazio urbano viene trasformato tramite azioni poetiche, letture, incontri e scambi con i passanti, alla ricerca dell’«inconscio della città»14. Tre anni dopo, nel 1924, ancora Breton e Aragon, insieme a Max Morise e Roger Vitrac, raggiungono in treno Blois, meta scelta a caso su una mappa, e da lì si incamminano nella campagna per la prima «deambulazione» surrealista, fatta di movimenti spontanei e senza meta, di conversazioni prolungate e senza scopo. La passeggiata, insieme alla scrittura automatica, ai sogni, al rilievo di coincidenze misteriose – tratti tipici della poetica e della pratica surrealista –, viene intesa come un’esplorazione della soglia tra vita cosciente e vita sognata, un modo per portare alla luce i meccanismi di funzionamento della psiche. Se nel surrealismo il comportamento spaesante ha il fine di fare emergere la parte inconscia di chi deambula e della città, questo aspetto sarà criticato come borghese, troppo «passivo» dai situazionisti15, la cui deriva, che pure favorisce e accoglie gli incontri e gli imprevisti, è preceduta da uno studio psicogeografico degli ambienti urbani. Se il soggetto di Debord è cosciente e politicamente consapevole, tale per cui l’attitudine della deambulazione surrealista può sembrargli troppo passiva, in un certo senso «infantile», nel pensiero di Breton la passeggiata senza scopo, l’affidarsi al caso, è un modo per «espellere l’uomo da se stesso», per depotenziare il predominio dell’io. 13 Cfr. Alberto Castoldi, Il flâneur. Viaggio al cuore della Modernità, Bruno Mondadori, Milano 2013; ma anche Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006. 14 Si potrebbero citare anche versioni contemporanee di questa pratica, per esempio l’attività di Ian Sinclair (cfr. Id., London Orbital. A piedi attorno alla metropoli, Il Saggiatore, Milano 2002), quella di Stalker (cfr. www.osservatorionomade.net/), ma anche la recente azione performativa di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Quando non so cosa fare, cosa faccio? 15 Lo sottolinea per esempio Pierre Macherey: «Se confier au hasard objectif […], c’est attendre passivement que, le moment venu, il débloque la situation présente […]: alors que les seules expériences dignes d’être pratiquées aux yeux de Debord sont celles qui sont menées sans garanties de succès à l’intérieur de ce monde-ci, de manière systématique même si c’est en l’absence de toute référence à des fins». Pierre Macherey, Debord et l’expérience de la dérive, in François Coadou, Philippe Sabot (a cura di), Situations, dérives, détournements, les presses du réel, Paris 2017.
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Tale aspetto è evidente nel concetto surrealista di «caso oggettivo», ovvero il carattere di quegli oggetti e quei luoghi che, al di là dell’iniziativa cosciente, di ogni tentativo di previsione o padronanza, si rivelano decisivi e paradossalmente infallibili. Così le coincidenze di cui è popolato il romanzo di Breton Nadja (1928) – resoconto degli incontri fortuiti e decisivi del poeta con la flâneuse Léona Delcourt – guadagnano la loro necessità, la loro ineluttabilità après coup, come afferma Lacan riferendosi alla tyche, al fato, definito proprio «incontro con il reale»16, incontro sempre mancato e tuttavia destinale. Camminare senza meta per le vie di Parigi, cogliere le corrispondenze misteriose (mai volontariamente ricercate, ma semplicemente trovate) svela gli aspetti latenti degli spazi e delle cose, contro ogni autorità realistica e ogni supremazia della volontà. L’après coup, tempo dell’inconscio e del camminare senza meta, in cui l’elemento casuale diventa necessario una volta compiuto, descrive con precisione anche il momento della riuscita artistica (ed è infatti esplicitamente rivendicato da vari artisti, come i pittori Picasso e Bacon, ma anche il regista Jean-Luc Godard, che parla di «definitivo per caso»), laddove si abbandoni l’idea di arte come espressione a posteriori di un pensiero già compiuto: il progetto deve essere massimamente aperto, indefinito, pronto a integrare elementi inaspettati. E può descrivere forse anche il tempo di chi compie l’esperienza artistica, ed estetica in generale, che necessita certamente di una disponibilità da parte di chi guarda, legge, ascolta, ma che non può essere programmata a priori in alcun modo. Per tornare alle prime pagine di questo testo, nella possibilità di un gesto casuale ma massimamente significativo – come una deriva che liberi dagli impegni di una vita specializzata, un’erranza che ci svincoli dalle imposizioni della vita ordinaria – risiede la possibilità per il soggetto, per l’io, di uscire da se stesso e dalla propria esistenza fatta di simboli e mediazioni, di rappresentazioni, per esperire un contatto diretto con la vita e con il reale. I passi senza meta immaginati in questo scritto hanno a che fare con uno spazio e un tempo diversi da quelli della vita abituale, in cui ci proteggiamo (e ci salviamo) grazie alle costruzioni del simbolico e dell’immaginario, offrendo una sosta nel qui ed ora, nel nostro presente e presso noi stessi. 16
J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 52.
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Lo strano intreccio di attività e passività che emerge in questo tipo di esperienze – come posso favorire il caso? – può essere precisato tramite il concetto di «uso» proposto da Giorgio Agamben nel libro L’uso dei corpi (2014), che collega tale categoria politica e figura della prassi umana alla situazione in cui essere umano e mondo sono in assoluta e reciproca immanenza. Agamben parte dall’analisi del verbo greco chrestai, usare, verbo mediale che esprime un nuovo rapporto tra soggetto e oggetto, situandosi tra attivo e passivo: il soggetto compie l’azione che tuttavia ha una ricaduta non su un oggetto, ma su se stesso, chrestai esprime dunque la relazione che si ha con se stessi. Al proposito Agamben cita proprio Spinoza, filosofo dell’immanenza, che nel Compendio della grammatica ebraica descriveva questo statuto singolare del soggetto agente e paziente nello stesso tempo proponendo precisamente l’esempio del verbo «passeggiare». Nello spagnolo usato dai sefarditi passeggiare è pasear-se, passeggiar-si (così nel francese il verbo è se promener), come espressione che indica un’azione in cui paziente e agente entrano in una soglia di indistinzione. E qui, scrive Agamben, «la sfera dell’azione di sé su di sé corrisponde all’ontologia dell’immanenza»17. Costruzione di situazioni di «qualità passionale superiore», sperimentazione dell’immanenza, contatto con il reale sono modi diversi per immaginare lo stesso superamento di quella ricerca continua, «vorace», introdotta dalla scissione originaria. Si tratta di un superamento che si palesa come un’uscita e non un ritorno, quasi uno sprofondare nella scissione che la conduca al suo limite, allo stesso modo in cui Deleuze descriveva la letteratura come la possibilità di sospingere il linguaggio a «un limite, un fuori», oltre la soglia comunicativa, come «deterritorializzazione». E non a caso questo termine deleuziano, spesso abusato, rimanda alla terra, a un movimento, a un’uscita da territori chiusi verso spazi aperti e incontri inaspettati. Le passeggiate senza meta, i passi verso il reale implicano una perdita, sia della strada corretta sia del dominio su una parte di sé, per guadagnare invece una sosta presso se stessi come singolarità non individuali e un’aderenza al reale della vita, del proprio corpo e del proprio presente.
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Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 54.
Qui Edoardo Albinati
È la base di tutto, da dove partono le persone e i discorsi, dove si sta, ci si sofferma e si abita, da dove si fugge ed eventualmente si ritorna, ma anche l’indicatore più puro della mobilità dato che segue come un’ombra fedele l’io, lo accompagna ovunque. È forse la parola più prossima al gesto, e più facilmente sostituibile da esso, e che più utilmente lo sostituisce, restituendo all’udito, almeno in qualche frangente, il primato che siamo soliti attribuire alla vista. «Dove sei?» «Sono qui!» grida il disperso che si sbracciava invano per essere individuato, o il naufrago verso la scialuppa dei soccorsi. Funge da richiamo ed è richiesta di aiuto, di compagnia, di attenzione, nonché di ammirazione. «Qui» è un segno semplice quanto enigmatico per il fatto che svela la natura innanzitutto individuale, soggettiva, del prendere parola, emergendo dal silenzio e slanciandosi, per così dire, dal luogo fisico dove avviene il discorso come fosse un trampolino; tuffandosi nel suo imprevedibile svolgimento. Prendere parola richiede dunque un certo coraggio o almeno un po’ di sfrontatezza (come ben sanno i timidi), o forse il suo opposto, l’umiltà: quella di riconoscere fin da subito la limitatezza della propria prospettiva, un orizzonte finito, assumendo il rischio di parlare da un punto che necessariamente non è universale, non può esserlo, anche perché un istante dopo potrebbe essere altrove, anzi lo è già, dal momento che a parlare è sempre una moltitudine di esseri sparsi in ogni dove, ciascuno dei quali, in modo quasi sfacciato, ingenuo o esibizionistico e arrogante, pretende di essere unico (e in effetti lo è) pur sapendo benissimo di non esserlo. Ma non ha nulla di babelico questo coro in cui ogni voce dice «qui»; non ingenera alcuna confusione, al contrario, assicura un fondamento corporeo del discorso, lo circonda, in questo modo proteggendolo, con un territorio proprio che può
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essere ristretto come il cocuzzolo di una montagna o una stanzetta da circumnavigare solo col pensiero, oppure ampio come una città o una regione o un popolo («qui da noi si cena alle sei e mezza…» oppure «si mettono le ginocchia sotto il tavolo cinque volte al giorno» potendo designare le abitudini domestiche di una specifica famiglia di proprietari terrieri, quanto quelle dell’intera grande Russia…) o addirittura la Terra stessa, il «qui» dove sbarca il marziano col suo messaggio ultimativo da consegnare all’umanità, al nostro pianeta malato – anche se il caso vuole che quel luogo sia Villa Borghese, a Roma, cioè il «qui» dove purtroppo nessuno dà mai retta a nessuno. La mobile fungibilità sempre efficace e sfuggente del «qui» rivela, mostrandone la trama al dritto e al rovescio, l’elementare legame tra il dentro e il fuori, il vicino e il lontano, il proprio e l’altrui, non in quanto opposti o meramente complementari, ma appunto perché destinati continuamente a scambiarsi l’uno con l’altro. Per praticità o rozzezza, noi tendiamo a semplificare caratteri e ruoli fissandone il significato in una figura convenzionale e facile da richiamare al bisogno, da ripetere sempre identica. Sono appunto parole come «qui» (e «io», «tu», «adesso», «questo», «ieri»… la cosiddetta deissi) a scompaginare questa fissità descrittiva riformulandola ogni volta a partire da una relazione fisica, concreta, sempre in atto e in continuo mutamento, meravigliosamente reversibile. La coppia mitologica di Mercurio e Vesta, ad esempio, si scopre più vera, profonda, significativa e persino funzionale se inquadrata sotto l’insegna unificante del «qui» capace di includere sia la mobilità sia la quiete, il vagabondaggio e il rifugio, il centro e i cerchi che vi si allargano intorno spostando di continuo l’idea stessa che esista un centro, fondandolo e rifondandolo e rifondandolo ancora laddove scaturiranno azione e parola; quindi le due divinità non come una coppia polare, casamondo, ma come un’unica essenza che corrisponde tanto all’errare quanto al dimorare. La grammatica dell’esistenza fonda insieme questi due aspetti e poi li distingue solo per comodità, lasciandoci però sempre liberi di praticare il «qui» come un luogo assoluto proprio perché inesorabilmente personale, privato, intoccabile per quanto relativo, cioè relativo al soggetto, a me, alla mia vita, vera o inventata che sia: il luogo dunque che può essere quello natio oppure quello trovato al culmine estremo di un viaggio, presso gli Ottentotti o gli Iperborei, ma che resta allo stesso titolo originario, cioè capace di
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dare origine alla mia parola, dove io ho poggiato il peso del mio corpo in un punto qualsiasi del globo, o al limite ho sognato di poggiarlo, ecco, posso dirlo, ci sono stato, sono stato qui (che a questo punto è probabile sia già diventato un lì), e in un qui tuttora io sono, nessuno può sottrarmi il mio qui, questo qui, almeno finché campo. Quando Petrarca nella sua lavoratissima versione tardo-medievale di I wish you were here richiama con un’esca pietosa la sua amata, adopera un’articolata gamma di forme verbali, ciascuna precisamente adatta a designare un tempo diverso, un’epoca della vita, addirittura di quella postuma, ma un unico luogo, quel luogo: è solo nel «qui» dove «regna Amore» che può essere vissuto il convegno. Il «qui» fonda l’intera canzone. «Vieni vieni qui… vieni vieni qui… stiamo vicinissimi…», singhiozzava molti anni fa un cantante facendo intanto il gesto equivalente col dito indice a uncino. Eppure è singolare come nella proverbiale espressione «hic et nunc» si tenda a privilegiare il secondo termine quasi cancellando il primo, al punto che l’espressione nel suo insieme finisce per significare «adesso», e poco altro. Se interrogata, qualsiasi filosofia corrente dell’«hic et nunc» risponderebbe semmai celebrando l’attimo da carpire al volo, e la sua fuggevolezza. Si tratta forse di un fenomeno di progressiva desensibilizzazione alla categoria dello spazio, visto come un tutto omogeneo, indifferenziato, privo di qualità? È l’ubiquità istantanea garantita alle nostre parole ad aver reso trascurabile il punto in cui vengono effettivamente prodotte, rendendolo ininfluente? Da dove parla, chi parla, dov’è, c’è ancora da chiederselo? Forse non vale la pena. Ma privato del suo hic, lasciato a galleggiare nel nulla, il nunc non diventerà a sua volta indiscriminato, generico? Sembra che a passare sia solo il tempo: ma non «passa» a sua volta anche lo spazio, quello spazio che noi per prima cosa siamo, e che quindi anche abitiamo e attraversiamo? L’incipit del «qui» è invece tanto labile quanto necessario e fondativo. È un podio, un’ara, quella sporca ultima meta, un pulpito o un confessionale. Equivale alle crocette di nastro adesivo su un palcoscenico dove un attore o una cantante dovranno farsi trovare per ricevere nel petto la freccia o attaccare la loro romanza investiti dal fascio di luce. Attenzione, non un passo avanti o indietro o di lato, anche se la scena verrà spostata la sera seguente in un teatro cento chilometri lontano, dove «le point de repère» verrà identificato e fissato con la
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stessa cura del giorno prima. Daccapo, daccapo, ogni volta daccapo, per replicare quel luogo indispensabile e unico. Non appena lo si pronuncia, in effetti, sprigiona dal «qui» un inevitabile effetto drammatico, o anche patetico, come se fosse seguito da un punto esclamativo che lo rafforza, o dai languidissimi puntini di sospensione… Se preso a esempio, nel ragionare di letteratura per l’unico verso praticabile che è quello tecnico, dovrebbe servire a tagliar corto con le indagini sul tasso di autobiografismo presente nella scrittura di romanzi e poesie, e se questo sia un bene o un male o semplicemente un dato costitutivo, e allo scrittore tocchi emendarsene o meno. La letteratura e più in generale la scrittura trattano di persone e oggetti dislocati, perduti o immaginari, presenti solo nella forma di un’eco verbale: eppure si dimostrano capaci di trascinare con semplici artifici deittici nella direzione di qualcosa che è assente, che è lontano nello spazio e nel tempo o addirittura non esiste affatto, e di farlo in modo appunto «commovente», che ci cattura e ci fa muovere verso quelle persone e quegli ambienti e paesaggi. «Là ci darem la mano/ là ci direm di sì…»: non esiste forse nulla di più struggente, malizioso e al tempo stesso preciso dell’indicazione data da quel monosillabo in apparenza tanto vago, capace di attrarre lo sguardo pieno di aspettative del seduttore e della sua preda (nonché di lettori e ascoltatori) verso un punto che si sposta in avanti come l’orizzonte per il viaggiatore. Alla stessa stregua, quanto è calzante ed efficace la filastrocca inaugurale della striscia «Qui comincia l’avventura/ del signor Bonaventura»?
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Spazio bianco tra le righe scritte e tra le figure disegnate dalla penna o dalla matita. Itinerario (spazio) che rimane da percorrere (viaggio, gara) in salita, discesa e in piano. Spazio che circonda il corpo racchiuso in un ambiente «limitato» (stretto). Quanto di una vicenda (notizia, racconto, immagine) non è stato scritto, detto, narrato, pubblicato, disegnato, registrato, pensato, anche con mezzi tecnici. Rottami rimasti, di disastro, naufragio, incidente, catastrofe. Quanto avanza di cibi e bevande nei contenitori di cucina, mensa, dopo i pasti. Quanto rimane da fare, capire, salvare, registrare, raccontare… Quanto si può definire con la parola «eccetera». Quanto si può definire con la parola «risparmiato». Materiali, energie, idee, sprecate in parte, in un’azione anche «artistica». Quanto era previsto, dovuto, atteso, promesso, discusso e non lo è stato fatto, eseguito, completato, narrato. Rifiuti di esecuzioni di un comando, ingiunzione, (una disobbedienza). resto: prima persona del verbo restare (non me ne vado). Quanto non si è perduto o si è dimenticato, anche in parte. Quanto capiterà di rifiutare, accettare, con piacere, dolore, noia, sdegno (in futuro). Rischio (di ogni tipo) possibile. Le residue ceneri di un corpo umano dopo la cremazione. Quanto, nel redigere questo elenco, non mi è venuto in mente.
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Frammenti di materiali non impiegati, non usati o scartati alla fine di una giornata di lavoro da me archiviati in scatole di plexiglass, negli anni Settanta, con il nome di Leftovers (dei quali seguono, nelle pagine successive, alcune immagini).
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Come un uomo ama una donna? Per caso! Jacques Lacan1
Una cosa semplice «Non esiste che l’Uno»2 afferma Lacan nel suo Seminario XIX. Si tratta di un’affermazione di non facile decifrazione. Per questo, e non solo, si tratta anche di un’affermazione molto problematica – molto della pratica psicoanalitica dipende da come si intende questa affermazione. Solo, significante con cui siamo alle prese, va a mio avviso messo in relazione con la decifrazione di questa affermazione. Per farlo mi pare prezioso utilizzare un altro passaggio dello stesso Seminario: «Che cosa è la psicoanalisi? È il reperimento di un significante che ha marchiato un punto di corpo»3. Solo è un significante che si presta molto a essere inteso in una chiave patetica ed esistenziale. La solitudine nera, o peggio ancora bianca, è un elemento inesorabile della vita e della clinica, ma non percorrerò questa strada. Solo è un significante che può essere inteso a partire dal problema del Hilflosigkeit, dallo stato di derelizione, di inermità in cui si trova il soggetto privato dell’Altro, o meglio in cui si trova il soggetto privato dell’Altro in cui viene rappresentato e perciò alle prese con l’Altro del desiderio e/o del godimento. Solo, qui indica allora un cer1 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent, lezione del 18 dicembre 1973, inedito (tr. mia). 2 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XIX. «… ou pire», Seuil, Paris 2011, p. 200 (tr. mia). 3 Ivi, p. 151.
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to tipo di legame del soggetto con l’Altro. Lacan ha sviluppato molto questa via4. Non è quella che percorrerò. Non seguirò dunque queste due strade ma una terza, più fredda e meno romantica, ma a mio avviso decisiva. Si tratta di una cosa molto semplice, intendere solo a partire da una faccenda elementare, ossia dall’incidenza del linguaggio del vivente, cioè a partire dal c’è dell’Uno. Uno-tutto-solo (il reale della psicoanalisi) Riprendiamo la nostra frase. Che cosa è la psicoanalisi? È il reperimento di un significante che ha marchiato un punto di corpo. Partiamo dal termine significante. Questo ha tutta l’aria di essere un po’ fuori posto. In effetti è una forzatura. Significante è ciò che significa qualcosa. Ciò che incide il vivente, che marchia un punto di corpo, non è un significante, in quanto non è qualcosa che significa qualcosa, non è qualcosa che rappresenta il soggetto – e/o che lo fa sorgere rappresentandolo. Quel che marchia il vivente non è un significante ma è qualcosa che ha a che fare con il significante e per questo a volte manteniamo impropriamente questo termine. Non si tratta infatti di significante ma di ciò di cui il significante è fatto, cioè si tratta di lalingua. Come si può intendere allora la marchiatura del vivente? «Voi fate parte del farfugliare dei vostri antenati»5 afferma Lacan, farfugliare «che il vostro corpo veicolerà»6. Semplificherei la cosa così. Attorno a quell’essere vivente che siamo soliti chiamare umano si parla una certa lingua e si produce una certa atmosfera. Possiamo chiamare questa lingua e questa atmosfera lalingua – quel che circola attorno e attraversa quel vivente che chiamiamo umano, quel che tale vivente sente e aspira. Questa lalingua non può che colpire, urtare, incidere, marchiare, alterare, sfasare, tagliare il vivente – lalingua non può che fare ciò e non fa altro che questo. La ripetizione di questa marchiatura e di questa alterazione, il farsi corpo di questa marchiatura e di questa alterazione, è un modo per intendere il reale della psicoanalisi. 4 Decisivi in tal senso alcuni passaggi del Seminario VI (in particolare p. 20 e p. 470) e del Seminario X (in particolare cap. X). 5 Jacques Lacan, Le malentendu, «Ornicar?», 22-23, Paris 1982, p. 12 (tr. mia). 6 Ibid. (tr. mia).
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Occorre qui una precisazione. Per certi versi è più corretto dire che il reale della psicoanalisi è il marchiare, il tracciare, il tagliare, è la marchiatura in atto, il taglio in atto, l’alterazione in atto, mentre l’incidenza di lalingua sul vivente è solamente una variazione di questo reale. Detto altrimenti il reale della psicoanalisi è una spaccatura-marchiatura-alterazione in atto, una spaccatura-marchiaturaalterazione che non è che spaccatura-marchiatura-alterazione e che non è che la ripetizione della spaccatura-marchiatura-alterazione. Di questa cosa al contempo così chiara e così strana la faccenda dell’incidenza di lalingua nel vivente riesce a fornircene una delle versioni più semplici e intuitive (non terrò conto di questa precisazione, se non indirettamente, nel seguito del ragionamento). Uno-tutto-solo (l’Uno solo Uno) Potremmo subito porci una domanda un po’ ingenua: perché avviene la ripetizione di questa marchiatura-alterazione? Da una parte possiamo e dobbiamo dire che c’è questa ripetizione perché non c’è mai un momento in cui l’essere vivente non è attraversato da lalingua. Dall’altra parte, e in modo un po’ più significativo, possiamo e dobbiamo rispondere che c’è questa ripetizione perché questa marchiatura-alterazione non è che ciò e dunque non può che ripetersi e non può che ripetersi come tale. Detto in modo leggermente diverso possiamo e dobbiamo dire che questa marchiatura-alterazione non può che ripetersi perché è in sé ripetizione. Questa cosa che non è che marchiatura e alterazione non è per niente una cosa, non è per niente qualcosa, ma è solo una marchiatura e un’alterazione, non consiste che in questo, sta tutta qui. Siamo qui alle prese con il c’è dell’Uno, con la pura ripetizione della marchiatura-alterazione, del marchiare-alterare, del tracciare-tagliare. Pura vuol dire qui che la marchiatura-alterazione non è che ciò e dunque non può che ripetersi «che come ciò». Proprio per questo possiamo e dobbiamo dire che siamo qui alle prese con l’Uno-tutto-solo. Questa pura ripetizione è dell’ordine dell’Uno, cioè di ciò che non consiste che nel proprio accadere, che non consiste che nel marchiare, nel tracciare, nel tagliare, e dunque non diventa mai altro e non si declina mai come altro da sé. Va da sé
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che questo Uno proprio perché non consiste che in ciò – questo Uno dunque che è taglio in sé e non di qualcuno su qualcosa, che è marchio in sé e non di qualcosa su qualcosa, che è alterazione in sé e non di qualcosa per qualcosa di altro – questo Uno proprio per questo non manca di niente, dunque è un tutto: è l’Uno-tutto. Per le stesse ragioni, cioè perché non è che ripetizione di una marchiatura, non è che ripetizione del taglio, non è che il marchiare e il tagliare, questo Uno è solo, cioè non si rapporta a niente, non è preso in un rapporto che lo rende altro da sé, non è in relazione ad altro, non ha nell’altro (nell’Altro) il luogo in cui dispiegarsi e realizzarsi, non ha nella differenza da altro il proprio modo di essere. La marchiatura in atto, l’alterazione in atto, non è che marchiatura-alterazione, è in sé marchiatura-alterazione, e non marchiatura-alterazione di qualcosa a opera di qualcuno, di qualcuno per qualcosa ecc… cioè non è marchiatura-alterazione di altro, per altro, nell’Altro, ma è solo un marchiare-alterare ed è semplicemente un marchiare-alterare. Solo «indica» allora che c’è dell’Uno solamente e semplicemente come Uno, cioè come marchiare, tagliare, alterare. In quanto solo ciò, tale Uno è anche solo, cioè separato da tutto. Ma in quanto solo ciò, tale Uno è anche ovunque, perché essendo solo marchiatura è anche la causa di tutto, del soggetto, dell’Altro, dell’amore ecc… che di questa marchiatura sono un effetto, un effetto che risponde – dunque l’Uno-tutto-solo è ovunque come causa, dunque come qualcosa che è separato dall’effetto. Solo indica allora che questo Uno c’è solamente e semplicemente in quanto Uno – solo indica l’«Uno come Uno»7, l’«Uno come tale»8. Da qui consegue il solo come separato e il solo come causa. Da questo ragionamento si deduce facilmente che l’Uno-tuttosolo non è isolato e non patisce alcuna solitudine. L’errore fatale Qui è in gioco il rischio di un errore fatale. L’errore fatale è intendere l’Uno-tutto-solo come qualcosa, e per di più come qualcosa di chiuso, di autoreferenziale, di masturbatorio, e dunque – e su questo 7 8
J. Lacan, Le séminaire. Livre XIX, cit., p. 189 (tr. mia). Ivi, p. 144.
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dunque ci sarebbe molto da dire – distruttivo, mortifero, de-generativo. Chiuso, come vedremo meglio poi, è una proprietà che può avere qualcosa che, preso nell’essere altro, è chiuso rispetto a questa presa – dunque è una proprietà che non può avere l’Uno-tutto-solo (il quale non può avere né questa né altre proprietà, perché avere proprietà è una conseguenza dell’essere articolato nell’Altro. Dunque ad esempio l’Uno-tutto-solo non può avere la proprietà dell’esilio, o del rifiuto dell’Altro, o della rigidità identitaria, proprietà che spesso gli vengono attribuite, commettendo, ripeto, un errore fatale). Accanto a questo errore fatale ce n’è un altro – che poi è lo stesso. Si tratta dell’errore di considerare l’Uno-tutto-solo come uno stato, come una condizione, dalla quale occorre uscire e/o nella quale si è a rischio di sprofondare. Questo errore fatale – molteplice errore – ha un unico nome: immaginario, prendere l’Uno-tutto-solo come Uno immaginario. Questo errore soffre di un evidente vizio di forma, ossia intende l’Uno sempre e solo a partire dall’Altro. Vignetta clinica: «Basta così!» Prendiamo ora in considerazione un altro elemento del passaggio di Lacan, la declinazione al passato di marchiare, cioè «ha marchiato». Già da quanto scritto in queste poche righe si evidenzia l’aspetto problematico della declinazione al passato. L’Uno-tutto-solo si sta sempre ripetendo, dunque è sempre e solamente al presente. Come mai allora Lacan declina al passato la faccenda del marchio? Per una ragione direi semplice. Nella vita di ciascuno l’attualità dell’Uno-tutto-solo si concretizza e presentifica in alcuni urti particolari. In modo del tutto casuale – questo punto va tenuto presente – nella vita di ciascuno l’attualità dell’Uno-tutto-solo deposita dei marchi, dei punti di ustione, alterazione, di fremito, di taglio, che non faranno altro che ripetersi e determinare il destino di chi li ha incontrati. Sottolineo che la cosa avviene in modo del tutto casuale, il che già ci dovrebbe far capire l’importanza di mantenere distinti e separati, cosa per niente facile, l’alterazione in sé che è l’Uno-tutto-solo dalla deposizione di tale alterazione. Una breve vignetta clinica può forse farci intendere meglio il ragionamento. Dopo diversi anni di analisi Claudia incontra – attraver-
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so il lavoro dell’inconscio e come urto all’interno del transfert – che quel che ha marchiato la sua vita è stato un «basta così», il quale è stato il marchio che a caso ha provocato un «fremito di corpo», un’irruzione di godimento. Questo «basta così» è stato il marchio che come tale si è ripetuto nella vita di Claudia, cioè come un basta così del corpo che faceva ed era irruzione di godimento. Questo «basta così» incessantemente all’opera nella vita di Claudia è quel che, ovviamente, ha determinato il suo modo di godere, e di conseguenza il suo modo di amare, di lavorare, di dormire ecc. Aver incontrato questo marchio nella sua analisi, averlo incontrato nel transfert all’insegna del caso e del trauma, le ha permesso di fare l’esperienza della disgiunzione tra il marchio «basta così» e la marchiatura in atto, il taglio in sé del reale. Non posso qui entrare nel merito di questa ampia questione. Mi limito a dire che stiamo toccando uno dei punti decisivi rispetto alla fine analisi, in quanto la fine analisi sta proprio nella separazione tra il marchio e la marchiatura, tra ciò che ha fatto trauma e il trauma, tra ciò che taglia e il taglio («faccende» disgiunte che la vita, o forse è meglio dire la nevrosi, ha sovrapposto). L’analisi ha permesso a Claudia di ri-incontrare il marchio «basta così», di ripetere dunque il trauma dell’incontro con questo marchio e di sperimentare la sua «natura» casuale, cioè che non ci sono ragioni del «fatto» che le sia capitato proprio questo marchio, ed è proprio l’incontro con questa assenza di ragioni del marchio ad aver «costretto» Claudia a occuparsi della marchiatura in atto, del reale, di cui il suo marchio «basta così» in fondo non era che una tiepida e ripetitiva difesa. Ciò le ha permesso di staccarsi un po’ da questo marchio e di trovare un modo per acconsentire alla marchiatura in atto. Uno-tutto-solo/Uno nell’Altro La marchiatura è l’Uno-tutto-solo. Il marchio che la marchiatura deposita e inscrive, che fissa, è l’Uno nell’Altro. A partire dal marchio che la marchiatura deposita si istituisce l’Altro – dunque il soggetto – come risposta e interpretazione di tutto ciò. In questo Altro così istituito il marchio sarà l’Uno, ma appunto sarà l’Uno nell’Altro.
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reiterazione della marchiatura (reale) = Uno-tutto-solo
marchiatura (reale) deposizione della marchiatura (marchio) istituzione dell’Altro Uno nell’Altro (marchio nell’Altro)
reiterazione del taglio in sé (reale) = Uno-tutto-solo
taglio in sé (reale) deposizione del taglio (taglio) istituzione dell’Altro Uno nell’Altro (taglio nell’Altro)
Questo Uno nell’Altro è quel che fonda l’Altro e che pertanto non può non essere nell’Altro e al contempo non può esserci – proprio perché ne è fondamento – come uno dei suoi elementi. Questo Uno nell’Altro dunque non è che nell’Altro ma come altro da questo Altro, dunque come taglio nella concatenazione dell’Altro, come marchio nel differimento dell’Altro, come interruzione del funzionamento dell’Altro, e proprio perciò come perno, scansione, orientamento dell’Altro. Questo Uno nell’Altro è, detto altrimenti, ripetizione e fissazione nella mobilità dell’Altro, impossibilità nella simbolizzazione dell’Altro, taglio nel concatenamento dell’Altro, irruzione nel funzionamento dell’Altro ecc. A questo Uno possiamo, ma solo a questo Uno, attribuire la proprietà del solo come chiuso, inarticolato, monolitico, fisso, ma appunto fisso nella plasticità dell’Altro, chiuso nell’apertura dell’Altro, l’inarticolato nell’articolazione, il senza senso nel senso, ciò che non funziona in quello che funziona ecc. Ma anche in questo caso, cioè quando siamo alle prese con l’Uno nell’Altro e non con l’Uno-tuttosolo occorre evitare di intenderlo come uno stato da cui uscire an-
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dando verso l’Altro, come un rifiuto masturbatorio dell’Altro, come un isolamento mortifero dalla vita dell’Altro. Occorre evitare questa lettura, cioè il secondo errore fatale, errore che ha sempre lo stesso nome, ossia intendere anche questo Uno, questo Uno nell’Altro e il suo essere solo, in termini immaginari. Questo Uno nell’Altro può essere inteso anche come tratto unario, il che ci fa intendere una cosa preziosa sulla funzione del marchio. Prendiamo la vignetta di Claudia. Ogni elemento della sua catena significante, dell’Altro, da una parte si articola con altri elementi – portando a spasso Claudia di qua e di là – mentre dall’altra parte ogni elemento della stessa catena significante in cui Claudia è dispiegata non fa che ripetere «basta così», fissando ogni «cosa» di Claudia a questo marchio. Singolare/Particolare Torniamo alla vignetta clinica. Il marchio «basta così» è la particolarità di Claudia. Questo marchio è un certo modo di godere – lato asemantico del marchio. Questo marchio è un certo modo di essere di Claudia – lato semantico e dunque propriamente significante del marchio. Nella vita di Claudia l’incontro con «basta così» è avvenuto attraverso un grido della madre, un «basta così» non si sa rivolto a chi, che è stato una frustata nel corpo e del corpo, che è stato propriamente un «basta così» del corpo – il suo corpo si è arrestato per diversi minuti (non entro nei dettagli) – e che da lì in poi ha prodotto questo «basta così» del corpo, una ripetizione di un «basta così» del corpo9. Questo passaggio meriterebbe decisamente una trattazione a parte. Per la nostra riflessione è sufficiente sottolineare che il reale – la marchiatura – si manifesta nella vita di Claudia attraverso questo incontro – il marchio – ed è sufficiente ribadire l’importanza di tenere 9 Questa è una della possibili variazioni dell’incidenza del marchio, quella in cui il tipo di marchio determina un certo modo di godere. Ci sono altre possibili modalità. Porto un esempio. Per Luca il marchio è «accoppato», questo ha fissato un’irruzione di godimento, ma nient’altro – ossia non ha dato vita a un particolare modo di godere ma solo alla necessità che nella vita di Luca il marchio «accoppato» si ripeta, si ripresenti, insista (nelle modalità più variegate), perché è attraverso questo, e solo attraverso questo, che si ripete la fissazione di godimento.
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distinti i due livelli, quello della marchiatura e quello del marchio, in quanto il secondo è sì una manifestazione del primo ma anche una difesa dal primo, e il primo continuerà a essere in atto al di qua del come è stato inglobato nel secondo. Per la nostra riflessione non va trascurato un altro aspetto. Il corpo di Claudia è il substrato attraverso cui si deposita il marchio, ma il punto non è tanto il trovarsi in questo modo al cospetto di un corpo marchiato, ma il trovarsi in questo modo al cospetto dell’emergenza, dell’irruzione del corpo-marchio. Il marchio «basta così» ha, come detto, un versante semantico, che ha determinato nella vita di Claudia un certo modo di essere, ad esempio una certa insistenza della coordinata «basta così» nel suo modo di rapportarsi con l’altro sesso. Questo versante semantico è un aspetto importante ma secondario e non va mai confuso, come spesso si fa, con la peculiarità della concezione di Lacan dell’incidenza di lalingua nel vivente. Il punto decisivo è che «basta così» è un marchio del corpo nel senso che è un marchio che si fa corpo ed è un corpo che si fa marchio e che dunque si ripete come marchio-corpo, nel caso di Claudia come «basta così» del corpo – il corpo di Claudia ripeteva l’irruzione di godimento del marchio «basta così» facendosi «basta così», godeva di sé diventando «basta così», dunque arrestandosi, spegnendosi, bloccandosi ecc. Se il marchio «basta così» è la particolarità di Claudia, la marchiatura in atto invece è la singolarità di Claudia, l’Uno-tutto-solo. Questa marchiatura in atto, questa alterazione perenne, questa reiterazione del taglio, non ha alcuna particolarità, non ha alcuna proprietà, non ha alcuna declinazione, non ha alcuna qualità. Siamo qui alle prese con la dimensione impersonale e processuale del vivente. L’analisi ha permesso a Claudia di acconsentire a questa singolarità, ossia di darle una piega, di frequentarla e dunque sfumarla in una qualche e imprecisata maniera. Trauma/Ciò che fa trauma Possiamo dire la faccenda in altro modo, ossia che l’Uno-tuttosolo è il trauma – il taglio in sé, la marchiatura e alterazione – e l’Uno nell’Altro è ciò che fa trauma – l’incontro contingente che fa trauma
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e che determina una necessità. La nevrosi sovrappone difensivamente le due variazioni del trauma – possiamo senz’altro dire «del reale». L’analisi deve separare queste due variazioni. Spesso, e a ragione, si critica questa impostazione per la sua scarsa aderenza all’esperienza. Il trauma è un’esperienza netta, chiara, forte, eloquente. Perché quest’esperienza che spesso non è per niente legata al linguaggio si incarna e presentifica sempre in un elemento linguistico, fosse anche dell’ordine di un marchio? – esempio «basta così». Per due ragioni. La prima. Nella contingenza traumatica, o nelle contingenze traumatiche, ciò che fa trauma, ossia che deposita una fissazione e dunque una ripetizione è sempre un marchio linguisticamente determinato, anche quando, per fare un esempio molto semplice, la contingenza del trauma è uno schiaffo o una violenza sessuale. La seconda ragione, ben più importante, è invece relativa al trauma sempre in atto, il quale secondo Lacan è sempre «linguisticamente» caratterizzato, cioè è legato al «si parla». Certo siamo al cospetto di un linguaggio ridotto a brandelli, a frammenti, a intonazioni, addirittura, come accennato, all’aria che si aspira, ai solchi dell’aletosfera10 – appunto un’atmosfera ma solcata, cioè fatta di tagli – ma è pur sempre di «fatti» linguistici che si tratta. Pertanto il trauma contingente – o i traumi contingenti – non essendo che una interpretazione e ripetizione di tale trauma in atto non può che essere linguisticamente orientato e determinato. Si gode Fino ad ora abbiamo fatto riferimento in diverse circostanze al farsi corpo dell’Uno-tutto-solo. Con farsi corpo dell’Uno-tutto-solo si intende il «si gode», ossia che «un corpo è qualcosa che si gode»11, cioè un corpo è qualcosa che sta godendo. Provo a spiegare questo difficile passaggio. La reiterazione dell’alterazione in atto, del taglio in atto, della marchiatura in atto, prende sostanza, prende consistenza – ecco il farsi corpo –, la cui sostanza e consistenza è fatta di taglio, marchiatura, alterazione. Il godimento è proprio questa alterazione 10 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2001, cap. XI. 11 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011, p. 23.
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perenne, l’essere sempre e solo in atto di questa alterazione, o meglio è il prendere consistenza di questa alterazione. Il si gode, il si sta godendo, è dunque sinonimo del farsi corpo dell’Uno-tutto-solo, della «corps-sistant»12 dell’Uno-tutto-solo. Possiamo farci un’idea del farsi corpo dell’Uno-tutto-solo, ossia afferrarne dei lembi, attraverso la pratica analitica, direi soprattutto dall’atto della fine analisi – qui, e forse solo qui, l’Uno-tutto-solo si afferma come tale. Ma qualcosa del genere possiamo afferrarla, in modo direi più bastardo, anche dall’ascolto di quella strana creatura che è un analizzante – ad esempio dal «corpo saetta» di cui Marinella ha parlato per anni, dal proprio corpo che insegue il proprio corpo senza che ci sia distanza tra i due (e che dunque non sono due) di cui ha parlato Giovanna per molto tempo (un corpo che ricorda molto quello di Buster Keaton in Seven Chances, un corpo che «corre, come se fosse corso»13). Possiamo afferrare qualche lembo del farsi corpo dell’Uno-tuttosolo, anche qui in modo bastardo, nell’arte – in qualcosa dell’arte e in alcune declinazioni di questo qualcosa. Qualche esempio: «l’intera immagine che si muove e palpita»14 in qualche momento ripetuto del cinema di Carmelo Bene; l’«immagine nervosa i cui granelli danzanti finiscono col prendere corpo»15 nel primo cinema di Philippe Garrel; la ripetizione squilibrata di alcune performance di Bruce Nauman16; le vedute di Barnett Newman17; la lingua che diventa mormorio in alcune pagine di Antonin Artaud18; il corpo che diventa le forze che spingono sul corpo in alcune opere di Francis Bacon19; i film fatti di urti del primo Jean-Luc Godard e quelli fatti di impressioni del suo ultimo cinema; la lingua che si sfinisce nelle ultime opere di Samuel Beckett20; il corpo che diventa organo o che cola via (in particolare in 12 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXIV, L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre, lezione del 14 dicembre 1976, «Ornicar?», 12-13, Paris 1977, p. 10 (tr. mia). 13 Gianluca Solla, Buster Keaton, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, p. 48. 14 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017, p. 221 15 Ivi, p. 233. 16 Bruce Nauman, Barbara Casavecchia, Elena Volpato, Bruce Nauman. Inventa e muori, a+mbookstore edizioni, Milano 2005. 17 Barnett Newman, Il sublime, adesso, Abscondita, Milano 2010. 18 Non basta dunque il mormorio, il fracasso, occorre far sì che la lingua diventi mormorio e fracasso. 19 Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2004. 20 Laura Cerrato, Beckett. El primer siglo, Colihue, Buenos Aires 2007.
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Hey Girl!), in alcune opere di Romeo Castellucci21; l’opera ridotta ad un colpo in Shoot e 747 di Chris Burden; il mouvant di Lionel Messi; le stonature assolute della musica dei Pavement ecc. Questa lista, un po’ casuale come molte liste, potrebbe ovviamente estendersi, forse all’infinito, o forse, invece, potrebbe terminare rapidamente. Ma il punto non è questo. Il punto, in sintesi, è che ogni qual volta siamo alle prese con un prendere consistenza di un marchiare, di un tagliare, di una spaccatura, di una alterazione ecc… siamo alle prese con un afferrare e toccare l’Uno-tutto-solo. Se vogliamo un attimo porre l’accento sull’arte possiamo dire che l’arte è tale quando riesce a fare questo, a dare consistenza al marchiare, al taglio in sé. Quando l’arte si limita a dare consistenza al tagliare in qualcosa, al marchiare in qualcosa, alla frattura in qualcosa ecc… non riesce a toccare l’Uno-tutto-solo. Quando l’arte decide di dare consistenza al tagliare di qualcosa, al marchiare di qualcosa – molta oscenità dell’arte contemporanea è in questa direzione – rifiuta l’Uno-tutto-solo e decide di farne qualcosa di immaginario. Riprendiamo il nostro ragionamento e ribadiamo che il farsi corpo dell’Uno-tutto-solo, il si gode, non indica un corpo alterato, tagliato, marchiato, ferito, sfasato, ma un’alterazione, una marchiatura, un tagliare, che è corpo. Ma al contempo occorre distinguere questo farsi corpo dell’Uno-tutto-solo anche dal corpo-marchio di cui abbiamo parlato. Il corpo-marchio è sì alterazione, spasmo, taglio, spaccatura, ma «è appunto ciò» localizzato in un «modo», depositato in una certa versione, mentre il farsi corpo dell’Uno-tutto-solo è solo il prendere consistenza del marchiare, tagliare, alterare. 21 Si veda la bellissima recensione di Pietro Bianchi all’ultimo lavoro di Romeo Castellucci: www.doppiozero.com/materiali/tannhauser-secondo-romeo-castellucci. Rispetto alla riflessione dell’amico Pietro la nostra è caratterizzata da uno sfasamento. Per Pietro Bianchi il farsi corpo dell’Uno-tutto-solo, quella che lui chiama la dimensione monista del godimento, è sempre una distorsione in atto in qualcosa, un perturbamento permanente nel simbolico, l’eterna inquietudine di ogni forma, dunque ciò che impedisce a qualsiasi cosa di coincidere con se stessa, a qualsiasi trama di dispiegarsi (si veda a tal proposito l’altrettanto decisiva riflessione di Pietro Bianchi sul film Nymphomaniac di Lars von Trier, www.leparoleelecose. it/?p=14600). La nostra sfasatura, che è quella che a mio avviso suggerisce l’affermazione dell’Uno-tutto-solo, sta nell’intendere e maneggiare la distorsione in sé, la spaccatura in sé. In quest’ottica il reale non è tanto una distorsione in qualcosa, una spaccatura in qualcosa, quanto qualcosa che è solo spaccatura, distorsione. Così facendo si tenta di cogliere la dimensione affermativa del reale, di scommettere su questa. Al contrario insistere nell’intendere il reale come distorsione in qualcosa significa insistere sulla sua dimensione negativa.
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Godere di sé Continuando a portare avanti la nostra distinzione tra Uno-tuttosolo e Uno nell’Altro, cioè tra marchiatura e marchio, tra taglio in sé e taglio dell’Altro, tra c’è dell’Uno e tratto Unario, la via del farsi corpo ci conduce a rimarcare un’altra distinzione, quella tra il si gode, ascrivibile all’Uno-tutto-solo e il gode di sé, ascrivibile all’Uno nell’Altro. Quando Lacan dice che un corpo è «una sostanza che gode, e la sola cosa che non sia un mito, un corpo gode di se stesso, ne gode bene o male»22, sta dicendo qualcosa di relativo all’Uno nell’Altro. Che cosa significa questo? In parte lo abbiamo visto. La marchiatura – Uno-tutto-solo – deposita, scrive, attraverso il vivente, attraverso l’organismo un modo particolare di spasmo, di fremito, di alterazione, che è il corpo pulsionale, il corpo godimento. Come visto la ripetizione che tale marchio avvia determina e produce il modo di godere particolare di chi ha ricevuto tale marchio. Il fatto che il modo di godere consista nel ripetere il marchio, marchio che è irruzione del corpo-godimento, fa dire a Lacan che il corpo gode di se stesso – in effetti il corpo godimento produce godimento, cioè gode, nel ripetere il modo in cui è sorto, nel ripetere «quel che è stata la sua fioritura»23. Reale L’Uno-tutto-solo ci offre una variazione del reale della pratica psicoanalitica, variazione che sussiste accanto a quella più nota e insistita nell’insegnamento di Lacan, ossia «il reale è l’impossibile»24. Tale affermazione compare per la prima volta nel Seminario XI e da qui in poi ritorna con grande insistenza in tutti i successivi Seminari, fino all’ultimissima fase del suo insegnamento. Tale definizione, «il reale è l’impossibile», subisce delle torsioni e dei rimaneggiamenti, tra cui uno dei più significativi è la definizione «il reale in quanto è l’impos22
Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXI, cit., lezione del 12 marzo 1974 (tr. mia). Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XIX bis, Le savoir du psychanalyste, lezione del 4 maggio 1972, inedito (tr. mia). 24 Jacques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003. 23
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sibile da sopportare»25. Questi rimaneggiamenti non modificano il come si intende il reale, cioè il fatto che il reale lo si intende a partire dal simbolico, attraverso il simbolico. «Il reale è l’impossibile» è una definizione complessa, può essere intesa in molti modi, ma di certo definisce il reale nel simbolico, «il reale considerato dal punto di vista dell’ordine simbolico»26, un reale «che è sotto il dominio del simbolico»27. Non solo, «il reale è l’impossibile» definisce anche che siamo alle prese con un reale prodotto dal simbolico, conseguente l’incidenza del simbolico e inerente al simbolico come sua impossibilità interna. Il c’è dell’Uno, cioè l’Uno-tutto-solo, cioè la marchiatura in atto e il si gode, spinge e afferma un altro reale, un reale come tale, un reale fuori simbolico e, bisogna dirlo, un reale pre-simbolico. Un reale che da un verso si reitera come tale, «non cessa di scriversi»28, dall’altro si lascia prendere dal simbolico e nel lasciarsi prendere dal simbolico lo fonda – e in questo sarà poi l’impossibile. Il verso in cui il reale dell’Uno-tutto-solo si reitera come Uno-tutto-solo è quello in cui si afferma, a mio avviso, la posta in gioco più propria della pratica analitica, ossia la sua chance di non essere un’altra ipnosi e di non perire, come tutto, nel sonno del senso, e la sua sfida, ossia occuparsi del reale, del si gode, cioè di quel che, almeno fino a nuovo ordine, l’essere che chiamiamo umano non riesce proprio a sopportare.
25 Jacques Lacan, Apertura della sezione clinica, «La Psicoanalisi», 55, Astrolabio, Roma 2014, p. 15. 26 Jacques-Alain Miller, Cose di finezza in psicoanalisi, «La Psicoanalisi», 60, Astrolabio, Roma 2016, p. 146. 27 Jacques-Alain Miller, L’inconscio reale, «La Psicoanalisi», 43-44, Astrolabio, Roma 2008, p. 241. 28 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXV. Le moment de conclure, lezione del 20 dicembre 1977, inedito (tr. mia).
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Sciocchi coloro che non sanno che la metà vale più del tutto! Esiodo1
1. Che Platone affidi alla voce di quello che considerava «un buffone»2, Aristofane, l’onere e l’onore di narrare il più resistente mito sull’amore della tradizione occidentale, fa quantomeno riflettere. Viene il sospetto che ci sia un malinteso che va al di là della strategia autoironica attraverso la quale il Platone del Simposio deride la concezione cosmologica che sarà esposta dal Platone del Timeo3; un malinteso strutturale, se è vero che il mito ha la funzione di fornire un rivestimento immaginario ad un elemento di struttura, rendendolo perciò trasmissibile. Il mito narrato da Aristofane nel Simposio mette in scena la finzione di un soggetto indiviso, figura che ha la perfezione della sfera «tutta rotonda, col dorso e i fianchi formanti un cerchio […] quattro mani e altrettante gambe, e sopra il collo tondo due facce simili in tutto […]»4, rappresentazione di un godimento pieno e autosufficien1 Nèpioi, oudèìsadinòsopléonèmisinpantòs; adopero la traduzione proposta da Marisa Forcina, in Id., Ironia e saperi femminili, Franco Angeli, Milano 1998, p. 65. 2 Jacques Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino 2008, p. 96. 3 «Il discorso di Aristofane è la derisione dello sphairos platonico, così come è articolato nel Timeo» (ivi, p. 104). Con altri intenti, anche Martha Nussbaum sottolinea il fondo ironico del discorso di Aristofane in: La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, il Mulino, Bologna 2004. 4 Platone, Simposio, Fabbri, Milano 2000, 189e.
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te, irrimediabilmente perduto nel momento del taglio imposto dal dio che separa il bizzarro personaggio sferico in due metà «come si fa per le sorbe»5. Da questa divisione nasce – così narra il mito – l’amore, il desiderio, guidato dalla nostalgia, di ricongiungersi con la propria metà, la quale non sarebbe altro che «il contrassegno di se stesso»6. Raffigurazione emblematica dell’operazione di divisione soggettiva che Lacan attribuiva al linguaggio, il quale separa il soggetto da se stesso imponendo una rinuncia all’immediatezza della soddisfazione, affinché questa possa essere cercata attraverso la via del desiderio. Raffigurazione che copre con l’inganno dell’amore il malinteso del desiderio, così come si rivela nella struttura del fantasma che lo governa: $◊a, formula che indica il rapporto del soggetto diviso (la metà del Tutto nel mito di Aristofane) con ciò che resta di quel godimento pieno di cui, in realtà, non ha mai avuto esperienza. È, si potrebbe dire, il primo malinteso che rende il mito di Aristofane appropriato al magnifico commediante che lo pronuncia: la metà mancante non è mai stata davvero posseduta, perché non esisteva prima della separazione; nell’amplesso simbiotico della sfera non c’è né soggetto né altro, e dunque nemmeno… l’amplesso. Mai posseduta, la metà mancante non potrà di conseguenza mai essere ritrovata; il secondo malinteso riguarda infatti la natura stessa di ciò che manca al soggetto diviso, per il quale il mito tratteggia il sogno narcisistico di una perfetta e simmetrica complementarietà. Niente di più ingannevole nella prospettiva freudiana, per la quale complemento del soggetto diviso non è «l’altra metà», un altro corpo ugualmente mancante a cui ci si unirebbe per formare un Tutto, ma un oggetto parziale, una parte del corpo che nell’ontogenesi psichica funge da organizzatore della pulsione localizzando e attivando le zone erogene. Sarebbe quindi l’oggetto, il pezzo di corpo che l’Altro offre o chiede, attraverso il quale guarda o chiama7, e non l’Altro in quanto tale, a configurarsi come mancante innescando il desiderio;
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Ivi, 190e. Ivi, 191d. 7 Lacan individua una serie degli oggetti parziali appartenenti al campo della domanda e del desiderio dell’Altro, incarnato in prima istanza per l’infans nell’altro genitoriale: oggetto orale, anale, scopico e vocale (cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino 2007). 6
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comune degradazione della vita amorosa8 che viene coperta, nel mito come nella vita quotidiana, dal miraggio dell’amore, aspirazione a «fare Uno»9, o essere Tutto, derivante dal narcisismo, dal momento che l’Uno dell’amore «[…] è innanzitutto della stessa natura di quel miraggio di Uno che si crede di essere»10. Ma il miraggio rimane tale, e, potremmo aggiungere, per fortuna, poiché la condizione del desiderio e con esso della vita psichica consiste precisamente nella sua impossibilità e/o insoddisfazione. Lo stesso Platone, per bocca di Aristofane, sembra infine ironicamente alludervi facendo intervenire nel suo racconto «Efesto con i suoi strumenti»11 che, rivolto ai due innamorati, chiede loro se vogliono essere nuovamente saldati insieme per vivere «fino al termine della vita come un solo essere»12, ammonendoli però obliquamente sul possibile risultato dell’operazione: «ma state attenti se è proprio questo che desiderate e se ne sarete contenti, quando l’avrete raggiunto»13. 2. Il mito di Aristofane è comunemente noto come mito dell’androgino, sebbene in realtà la differenza sessuale non sembri assumere nessuna particolare rilevanza ai fini della dinamica dell’amore che vi si sostiene: che il Tutto originario si riveli costituito da due metà di sesso maschile, di sesso femminile o di sesso differente la complementarietà rimane esattamente simmetrica. È un mito unisex. Più sincero, o forse più apertamente maschile, un altro mito della separazione, quello narrato nel libro della Genesi. Qui, attraverso un evidente capovolgimento della realtà ma una altrettanto chiara aderenza alla struttura del fantasma, è a partire dall’uomo, Adamo, che nasce la donna o meglio l’oggetto femminile, oggettivazione della mancanza dell’uomo tanto da essere estratta dal corpo di lui. Non più due metà, due uomini, due donne, nemmeno un uomo e una donna, ma un uomo 8
Cfr. Sigmund Freud, Totem e tabù, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1975, vol. VII. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 1983, p. 63. 10 Ivi, p. 47. 11 Platone, Simposio, cit., 192d. 12 Ivi, 192e. 13 Ibid. 9
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e il suo presunto complemento, il pezzo di corpo sacrificato a Dio e rivestito delle sembianze femminili affinché appaia simile all’uomo, ma non troppo. Il soggetto resta dunque uno, come in effetti già nel mito platonico dove la metà «altra» è solo il riflesso speculare della prima; ciò che viene escluso, in entrambi i casi, è la differenza, la reale presenza di un altro, un’altra. Almeno fino a un certo punto, perché il racconto biblico non si ferma a un funzionamento senza resti dell’economia del fantasma, che avrebbe assicurato la permanenza nell’ignoranza dell’Eden. Come sottolinea Assoun14 la differenza rivendica i suoi diritti proprio nel momento in cui, dopo un rapporto sessuale, Adamo si addormenta soddisfatto di aver «reintegrato la costola»15 e lascia la donna sola, temporaneamente sospesa dal suo ruolo di oggetto, «posta davanti alla questione della mancanza che è»16. Probabilmente non soddisfatta come il suo compagno – niente simmetria – lei resta sveglia a interrogarsi e, soprattutto, «ha voglia di parlare»17. La parola femminile, parola per antonomasia negata nella tradizione occidentale, non può che introdurre una faglia nel Tutto dell’Eden, inducendo una nuova separazione; per farlo però, come ogni parola, ha bisogno di essere ascoltata, di trovare il suo destinatario: il serpente, «il più astuto di tutti gli animali»18, rappresentazione che si può definire demonica nell’accezione che proprio il Platone del Simposio aveva esplicitato attribuendola a Eros, ovvero quella di un mediatore tra terra e cielo, tra mondo sensibile e mondo delle idee, in questo caso, tra la totalizzante soddisfazione dell’ignoranza e la parzialità del sapere19. La tentazione indotta dal serpente si configura appunto come una promessa di sapere che implica però la rinuncia all’autosufficienza del Tutto, alla compiutezza della soddisfazione così come al sogno della complementarietà; per la coppia, ormai definitivamente divisa in due 14
Paul-Laurent Assoun, Freud et la femme, Payot, Paris 2003. Ivi, p. 286. 16 Ibid. 17 Ibid. 18 Genesi 3,1. 19 La rappresentazione di Eros come daimon, qualcosa di intermedio tra gli dèi e i mortali, è introdotta proprio dall’unica figura femminile presente nel Simposio, Diotima, la sacerdotessa che ha edotto Socrate sui misteri dell’amore. Diotima inizia infatti il suo discorso ammonendo Socrate a non «forzare ciò che non è bello a essere brutto, e ciò che non è buono a essere cattivo» (Platone, Simposio, cit., 202b), dimostrando dunque i limiti della dialettica socratica e la necessità di assumere la parzialità del vero. 15
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soggetti separati, due sessi differenti, non è previsto ricongiungimento: ciascuno seguirà il compito, ugualmente duro ma diverso, che Dio gli ha assegnato. Ma, a ben guardare, la rinuncia è tale unicamente adottando la prospettiva maschile. Soltanto Adamo, infatti, sembrava conoscere la mitica soddisfazione della pienezza dell’Eden, mentre colei che dal momento della caduta acquisterà il nome di Eva, madre di tutti i viventi20, a quel tipo di paradiso non è mai del tutto appartenuta. 3. Se ciascun soggetto nasce al mondo sotto il segno della nostalgia del Tutto, mitica rappresentazione di una impossibile dimensione antecedente l’avvento del linguaggio, per qualcuno, o per qualcuna, ciò non vale… del tutto. Il mito greco, il mito biblico, declinano in maniera diversa la medesima struttura sottesa al funzionamento del fantasma, ciò che determina per ciascuno, per ciascuna, l’economia del godimento attraverso la dinamica del desiderio. Il fantasma organizza il godimento del soggetto intorno alla funzione dell’oggetto parziale che Lacan chiama anche «oggetto causa di» desiderio dal momento che, lo abbiamo visto, la metà perduta, la costola estratta, costituiscono in prima istanza la fonte del movimento desiderante: rinunciando alla eterna sazietà del Tutto il soggetto acquista il privilegio della fame che gli consente di vivere nutrendosi di qualcosa, non di tutto, nemmeno di niente. Perché l’oggetto si costituisca nella sua funzione è però necessario che gli venga conferito un valore libidico nell’universo del linguaggio, ovvero che riceva una significazione fallica; il fallo non in quanto oggetto ma come significante «destinato a designare nel loro insieme gli effetti di significato»21 consente alla serie degli oggetti parziali di formarsi in après-coup in virtù di una misura comune, l’esperienza della perdita il cui prototipo simbolico diviene appunto la castrazione22. La dinamica del desiderio sarebbe dunque regolata per tutti, uomini e donne, sulla valenza del 20
Cfr. P.-L. Assoun, Freud et la femme, cit. Jacques Lacan, La significazione del fallo, in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II. p. 687. 22 Cfr. Sigmund Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X; J. Lacan, La significazione del fallo, cit. 21
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significante fallico, unisex come il mito di Aristofane se inteso appunto nella sua funzione simbolica ma in realtà maschile quanto il mito biblico, se ci si pone nella prospettiva del reale del godimento. L’altra metà infatti non è, e non può essere, realmente, il riflesso speculare della prima, non più di quanto una donna possa essere una costola dell’uomo; la teorizzazione lacaniana ne tiene conto indicando una differenza tra i due sessi che rimane irriducibile, assoluta, andando oltre la dialettica che dirige la danza tra le due metà complementari. Tra i due sessi, o meglio tra quelle che Lacan chiama le due logiche del godimento, non direttamente sovrapponibili all’anatomia sessuale, c’è una sfasatura che già Freud aveva individuato23, e che segnala la questione dell’alterità radicale dell’Altro, con il quale «non c’è rapporto» perché manca, rispetto al godimento, la misura comune data dalla significazione fallica. Ricorrendo ai quantificatori aristotelici Lacan costituisce due classi, potremmo dire due metà, non simmetriche né complementari, in cui può situarsi ciò che chiama il parlessere, mettendo così l’accento non tanto sul soggetto del linguaggio quanto sul corpo pulsionale, anch’esso determinato dal linguaggio: due logiche del godimento appunto. ∃x ~Fx ∀x Fx
~∃x ~Fx ~∀x Fx
S(A)
F
a
L
La prima è regolata, come abbiamo visto, dal significante fallico (F), che fonda l’insieme di «tutti gli uomini» (∀xjx), insieme dunque maschile pur comprendendo anche quelle che vengono chiamate donne in virtù dell’anatomia; in definitiva tutti gli esseri parlanti che hanno dovuto rinunciare al Tutto per esistere come tali, ricevendo in cambio il desiderio orientato dal fantasma (S→a), tranne uno, l’eccezione necessaria per fondare l’insieme ($x~jx), il padre dell’orda primaria descritta da Freud in Totem e tabù24. 23 Cfr. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in Id., Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. XI, p. 240. 24 S. Freud, Totem e tabù, cit. Anche Freud è stato, in questo caso, inventore di miti: la narrazione che prevede alle origini della civiltà l’assassinio del padre, detentore di potere
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La seconda classe non costituisce un insieme, poiché manca l’eccezione che lo fonderebbe: se non c’è donna che non sia soggetta alla significazione fallica (~$x~Fx), non tutto nella donna lo è (~∀xFx). La negazione del quantificatore universale viene qui adoperata da Lacan per indicare quella quantità di godimento che, per ciascuna donna o meglio per chiunque si collochi in questa logica sfugge alla regolazione del significante fallico: L donna, dove la barra sull’articolo determinativo indica l’impossibilità di designare un universale femminile, è «non tutta» fallica25. Questo implica che da un lato il suo desiderio si dirige verso il significante fallico (L→F), corrispettivo dell’oggetto del fantasma (a), dall’altro il suo godimento si rivolge verso ciò che Lacan indica con S(A), scrittura che segnala ciò che allude alla mancanza dell’Altro, elemento paradossale poiché si tratta di rappresentare, in qualche modo, la mancanza stessa, ma in ultima analisi elemento costitutivo del nostro essere parlanti, necessariamente impegnati nello sforzo di dire qualcosa per cui non esistono parole, ma che non esisterebbe senza parole. Siamo lontani, in questo caso, dalla nostalgia del Tutto: né il mito platonico né quello biblico saprebbero veicolare il senso di questa modalità di godimento così difficile da approcciare, e che credo non potrebbe mai essere illustrata dal mito ma si troverebbe piuttosto sul versante della poesia, paradigma di una parola per essenza refrattaria alla compiutezza. 4. Ancora di più la si può incontrare, a mio avviso, in alcuni scritti femminili, consapevoli o meno di trattare questa materia evanescente. Ne scelgo due, a partire dalle mie personali preferenze rispetto alle suggestioni che donano sulla possibilità di pensare in maniera radicalmente differente la questione del desiderio e del godimento, e dunque anche dell’amore, al di là della struttura sottesa dal racconto mitico. assoluto, da parte del gruppo dei fratelli, che a partire da questa colpa originaria si vietano vicendevolmente omicidio e incesto, rende conto della costituzione dell’insieme degli uomini in virtù dell’esclusione del padre morto, esempio mitico del libero accesso al godimento, che assume la funzione di operatore simbolico. 25 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XX, cit.
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Nel 1900 Lou Andreas-Salomé scrive Riflessioni sul problema dell’amore, saggio antecedente all’incontro dell’autrice con la psicoanalisi freudiana e che evoca piuttosto lo stile e la lingua di Nietzsche, riferimento più prossimo a un pensiero che si pone in rapporto di evidente discontinuità con la tradizione filosofica occidentale. L’immagine che Salomé offre dell’amore è infatti per molti aspetti antitetica a quella articolata dal mito dell’androgino. In amore si è in due fin dalle origini e tali si resta se l’amore permane, due estranei, impossibili da assimilare l’uno all’altro26. La differenza radicale viene così collocata in partenza al cuore del rapporto d’amore, che si nutre dello stupore di fronte a un Altro non più conoscibile, opaco, ma che lascia la sua impronta nel mondo trasfigurandolo per l’amante in un universo di segni, di tracce della sua presenza o, che è lo stesso, della sua assenza. Non a caso la Salomé evoca in questo senso la poesia, che canta l’amato o l’amata facendolo/a rappresentare dal «[…] mondo intero, l’universo, e anche la piccola foglia che trema sul ramo, il raggio di luce sull’acqua»27. Non c’è brama di ricongiungimento, gli amanti non si appartengono, e l’amore sembra piuttosto una finestra sul mondo, un mezzo – una mediazione, come Eros il demone – per raggiungere la vita, in una maniera che ha qualche analogia con quanto Platone nel Simposio fa dire a Diotima, dove l’amore per l’altro, per il suo corpo, il suo nome, la sua singolarità, innesca l’ascesa che conduce infine a trascendere le singole esistenze nell’amore sovraindividuale del Bene, ciò che ovunque ed eternamente è amabile. Ma per Salomé, a quanto pare, la trascendenza è già data nell’amore individuale: se c’è congiunzione infatti, in questo tipo di amore, non è tra i due amanti, ma tra corpo e psiche, che partecipano del medesimo, indistinto godimento, al contempo carnale e spirituale: Si produce infatti nella singola persona stessa una specie di ebbra, esultante attività in cui si intrecciano le più alte forze produttive del suo corpo e le più elevate capacità mentali. […] il corpo e lo spirito conoscono con forza elementare, giorni e ore di rinnovata felicità della loro unione: e allora sono giorni di gran festa ed esultanza, e l’intima gioia che pulsa fin nelle ultime fibre non ha fine28. 26 Lou Andreas-Salomé, Riflessioni sul problema dell’amore, in Id., La materia erotica, Edizioni delle donne, Roma 1977, p. 23. 27 Ivi, p. 37. 28 Ivi, pp. 28-29.
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Gioia, esultanza, festa, ma anche produttività, fertilità, creazione, sono significanti ricorrenti nel testo di Salomé per esprimere l’essenza del rapporto d’amore, che anche in questo caso rievocano le parole di Diotima, per la quale amare significa «partorire in bellezza sia nel corpo che nell’anima»29. Accezione che suggerisce per l’amore un’economia libidica ben diversa da quella che ha il suo punto nodale nella nostalgia del Tutto, e che consisterebbe invece nella eccedenza, disposizione a riversarsi fuori di sé, espandersi nel mondo, decisamente in contrasto con l’aspirazione fusionale30. Di questa esuberanza vitale dal carattere potenzialmente smisurato, «senza fine»31, Lou Andreas-Salomé non trascura di menzionare l’altra faccia, la egualmente smisurata desolazione del disamore, poiché l’amore è in realtà, come la creatività, qualcosa di «intermittente»32 ma che, quando c’è, è incapace di credere nella propria fine33. La fertilità che per Salomé contrassegna l’amante si spegne dolorosamente, lasciando il posto alla terra, per antonomasia arida e sterile, del «deserto»34, nel momento in cui l’amato/a viene meno al suo ruolo di mediatore nei confronti della vita, non prestandosi più al delizioso inganno35 in cui consiste la verità dell’amore, poiché la verità, avrebbe detto Lacan, è anch’essa, come la donna, non-Tutta. La si può dire soltanto a metà36. La festa, gioiosa dispersione di energia, sembra costituire per Salomé il modello economico dell’amore; il termine ricorre lungo tutto il saggio conferendo alla scrittura stessa dell’autrice un carattere 29
Platone, Simposio, cit., 206b. Cfr. L. Andreas-Salomé, Riflessioni sul problema dell’amore, cit., p. 42. 31 Ibid. 32 Ivi, p. 34. 33 È uno dei punti in cui Salomé riprende più esplicitamente un tema nietzscheano, richiamando quella «profonda eternità» che ogni piacere pretende (cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 1): «proprio nella loro fugacità esse [le passioni] sono perciò sempre come avvolte e circondate da profonde eternità – e solo questo accento quasi mistico nel nostro mondo del continuo cambiamento rende la loro felicità così intensa, la loro sofferenza così tragica». L. Andreas-Salomé, Riflessioni sul problema dell’amore, cit., p. 34. 34 Ivi, p. 35. 35 Ivi, p. 29. 36 Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2001, p. 36. 30
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di esuberanza, uno stile singolare che aderisce così al suo oggetto: lo si gode, leggendo. L’evento e l’umore della festa ricorrono altrettanto spesso in Orlando, famoso e bellissimo romanzo di Virginia Woolf del 1928. Romanzo, ma non solo, «biografia», come recita il sottotitolo (Orlando: a biography è il titolo originale del libro), ma non proprio, «lunga lettera d’amore»37, come la definì Nigel Nicolson, figlio di Vita Sackville-West a cui il romanzo è dedicato, Orlando confonde i generi letterari tanto quanto i generi sessuali; e in effetti, con la sua protagonista che transita da un secolo all’altro e da un sesso all’altro, Orlando è anche una inesauribile e singolarissima antologia femminista: denuncia dell’arbitrarietà del binarismo sessuale, parodia dei ruoli sociali di genere, derisione delle concezioni dominanti (maschili) sul cosiddetto sesso debole, e soprattutto espressione di una soggettività femminile inedita, del suo modo di amare e di godere, di cui la «festa» è una delle cifre. Così, ad esempio, il villaggio festeggia la riappropriazione, da parte di Orlando, del castello e delle terre che le erano state confiscate: Cavalli furono attaccati alle carrozze, per il solo gusto di staccarli in seguito. Berline e landò vennero scarrozzati vuoti e senza posa su e giù per la strada principale. Discorsi vennero pronunciati davanti all’Albergo del Bue; vi risposero quelli dell’Albergo del Cervo. Il borgo era illuminato a giorno. Cofanetti dorati si sigillarono accuratamente sotto campane di cristallo. Monete d’oro vennero debitamente e coscienziosamente sepolte sotto le pietre. Si fondarono ospedali38.
Ebbrezza che si riversa nel mondo, dissipandosi («berline e landò vennero scarrozzati vuoti e senza posa…») o creando («si fondarono ospedali…»), non importa, «è l’estasi di gioia che conta»39, dirà Orlando osservando una barchetta giocattolo sulla Serpentine di Hyde Park e affrettandosi a telegrafare all’amato lontano per comunicargli la sua scoperta: «Una barchetta da quattro soldi sulla Serpentine. Estasi»40. La barchetta che le ricorda l’assenza dell’amato diventa l’estasi che consente di sentirne la presenza: «estasi», godimento del traportarsi «fuori di sé» (ékstasis) che Lacan colloca sul versante 37
Nigel Nicolson, Ritratto di un matrimonio, Rizzoli, Milano 1976, p. 22. Virginia Woolf, Orlando, in Id., Romanzi, Mondadori, Milano 1998, p. 806. 39 Ivi, p. 831. 40 Ibid. 38
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«non tutto fallico» dell’economia pulsionale. Ma l’estasi non avrebbe senso se non ci fosse la possibilità di scriverne, e in effetti la scrittura è per eccellenza il segno della mancanza dell’Altro. È in assenza dell’Altro che si scrive; così Orlando, partito lo sposo, si chiude in camera per un anno intero portando finalmente a termine il suo poema; così Virginia Woolf, partita l’amata Vita, si appresta a scriverle una «lunga lettera d’amore»41, Orlando. Nostalgia? Forse, ma non è questo il sentimento prevalente che trapela dalle pagine del diario della scrittrice, testimonianza del suo lavoro creativo, piuttosto, anche in questo caso, una sorta di ebbrezza, una forza travolgente. Iniziata come un gioco, la scrittura di Orlando la cattura completamente: «[…] cammino costruendo frasi; me ne sto seduta ad architettare scene; sono, in breve, nel fitto della più grande estasi che io conosca»42; di nuovo l’estasi, un rapimento imprevisto come quello dell’amore, che trascina l’autrice e la lettrice, o il lettore, in una prosa dal ritmo veloce e sregolato, come la Woolf l’ha immaginata fin dal principio43. Altro che nostalgia del Tutto! «Voglio alzare i tacchi e filare» scrive Virginia Woolf44.
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Cfr. supra. Virginia Woolf, Diario di una scrittrice (1953), minimum fax, Roma 2005, p. 168. 43 Cfr. ivi, p. 154. 44 Ibid. 42
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Edipo è colpevole ed innocente. Colpevole di aver commesso il parricidio e l’incesto, ed innocente, perché non sapeva quello che stava facendo. Lo stesso succede ai nevrotici di Freud che uccidono in sogno il loro padre: essi realizzano il loro desiderio, anche se non lo sanno. Ciò che resta al soggetto, una volta sveglio, è l’ambiguità dei sentimenti nei confronti del padre: tristezza per la perdita, godimento per la libertà conquistata, e colpa per l’atto compiuto. È lì che comincia l’analisi: associazioni logiche ed illogiche, false connessioni, incoerenze, equivoci, paralogismi, errori… Aperture e chiusure. Interruzioni e riprese. Senso e fuori-senso: è a partire da questa alleanza, in cui il fantasma dell’Edipo si annoda alle incoerenze del linguaggio, che si «fa» l’analisi. Nell’Interpretazione dei sogni e in Formulazioni sui due principi del corso degli eventi psichici1, Freud analizza il sogno di un paziente che non sa che suo padre è morto: nel sogno suo padre gli sta, per l’appunto, parlando. Neanche il padre sa di essere morto2. Nel paradosso – «l’assurdo» dice Freud3 – il desiderio rimosso (di uccidere il padre) s’esprime attraverso il sogno: il sogno mette in scena un padre che è simultaneamente vivo e morto, ed è in questa contraddizione che si focalizza la questione paterna nell’Edipo4. La questione pa1 Sigmund Freud, Formulations sur les deux principes du cours des événements psychiques, in Id., Œuvres complètes, PUF, Paris 1998, vol. XI. 1911-1913, p. 20. 2 «[Il padre] era di nuovo in vita e parlava con lui come una volta, ma […] era comunque morto e non lo sapeva» (tr. mia). Sigmund Freud, L’interprétation du rêve, in Id., Œuvres complètes, PUF, Paris 2004, vol. IV. 1899-1900, p. 478. 3 Ibid. 4 Lacan darà un’altra interpretazione al sogno, precisando che l’Edipo è una maschera alla struttura del desiderio, desiderio determinato dal significante, e non dal parricidio
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terna e il suo smacco, la sua utilizzazione autoritaria ed arrogante, all’interno della psicoanalisi come al di fuori. Il richiamo del padre si esprime nell’individuo e nella società: ci vuole un padre con cui potersi identificare, un padre da amare, esaltare, idealizzare, ma soprattutto un padre da uccidere per farlo poi rinascere – infinitamente – dalle sue ceneri. L’uccisione del padre e la sua resurrezione si ripetono ciclicamente nel fantasma, assieme agli effetti sintomatici, nell’individuo e nella società. «[…] l’ambivalenza propria al complesso paterno persiste nel totemismo e nella religione»5 nota Freud nel 1912. E precisa il legame che esiste fra il totem, il parricidio e l’interdetto: Se è vero che l’animale totem è il padre, i due principali comandamenti del totemismo, le due prescrizioni tabù che ne costituiscono il nucleo – il divieto di uccidere il totem e quello di servirsi sessualmente di una donna che appartiene al totem – coincidono, per quanto riguarda il loro contenuto, con i due crimini di Edipo, che uccise suo padre e prese come donna sua madre, e con i due desideri originari del bambino, di cui la rimozione insufficiente forma forse il nodo centrale di tutte le neuro-psicosi6.
Il mito del padre dell’orda sposta il complesso paterno individuale nella forma collettiva, e dà al padre, in quanto morto, una funzione sociale, religiosa, e legislativa: il totem «blocca» le mozioni pulsionali che sono sempre, secondo Freud, di natura incestuosa7. Freud insiste sulla sua tesi nel 1939, facendo un’analogia tra il bambino e l’uomo primitivo. I due odiano e temono il padre, ma nello stesso tempo l’ammirano come modello e desiderano prenderne il posto. L’identificazione è consustanziale al parricidio, parricidio che termina, per i fratelli dell’orda, in un atto cannibalico al fine di potersi «assicurare dell’identificazione con [il padre avvenuta] attraverso l’incorporazione […]»8. L’assassinio collettivo, continua Freud, por(Jacques Lacan, Le séminaire. Livre VI. Le désir et son interprétation, La Martinière, Paris, 2013, p. 118). Deleuze e Guattari parleranno anche loro di una «maschera» dell’Edipo. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’Anti-Œdipe. Capitalisme et schizophrénie, Éditions de Minuit, Paris 1972, p. 109. 5 Sigmund Freud, Totem et tabou, Gallimard, Paris 1993, p. 295. 6 Ivi, p. 275. Abbiamo sostituito il termine di «psico-nevrosi» con quello di «neuropsicosi» (Neuropsychoses in tedesco). 7 Ivi, p. 262. 8 Sigmund Freud, L’homme Moïse et la religion monothéiste, in Id., Œuvres complètes, PUF, Paris 2010, vol. XX: 1937-1939, p. 161 (tr. mia).
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ta «ad una sorta di contratto sociale. [È così che] nacque la prima forma di organizzazione sociale fondata sulla rinuncia pulsionale, la riconoscenza degli obblighi reciproci, l’installazione di un numero di istituzioni indistruttibili (sacre), di conseguenza i princìpi della morale e del diritto»9. Il padre morto simbolizza la rinuncia pulsionale dei fratelli dell’orda, ed esercita così la funzione legislativa, presente anche nel mito individuale: la legge si esprime nella fase fallica dell’Edipo attraverso l’idealizzazione che culmina nel parricidio, e la colpa (Schuld10) che ne segue. La colpa ha da un lato il valore di un divieto, e dall’altro testimonia l’accettazione della castrazione. Nel parricidio concepito come un sistema di legislazione, legge e colpa si danno la mano: da questa alleanza nasce il super-io11, figura oscena e feroce che martorizza il soggetto. Un certo aspetto normativo dell’Edipo è presente anche nell’idea degli «stadi», stadi che sono per Freud delle tappe per il «giusto» sviluppo del soggetto. Quando il processo arriva a buon termine, il soggetto entra nella «genitalità» che è, per Freud, la «forma ultima della sessualità»12. Il mito dell’Edipo13 si trasforma così in criterio direttivo, cioè risolutivo14, dunque ideologico. Il complesso si trasforma in finalità, in altre parole, in processo normalizzante. Quando le fasi restano incompiute, secondo Freud si installa la nevrosi: lo scenario immaginario del parricidio si ripete nei sintomi generati dalle identificazioni patologiche, dalle inibizioni causate dall’angoscia di castrazione o dalla colpa, 9
Ibid. In tedesco, Schuld significa «colpa» e «debito». 11 «Il super-io conserva il carattere di padre; più il complesso d’Edipo è stato forte e più la sua rimozione s’è rapidamente prodotta (sotto l’influenza dell’autorità, dell’istruzione religiosa, dell’insegnamento, delle letture), e più severa sarà più tardi la dominazione del super-io sull’io come coscienza morale, vedi come sentimento di colpa inconscio» (tr. mia). Sigmund Freud, Le moi et le ça, in Id., Essais de psychanalyse, Payot, Paris 1981, p. 275. «[…] il super-io è diventato l’erede del complesso». Sigmund Freud, Quelques conséquences psychiques de la différence anatomique entre les sexes, in Id., La vie sexuelle, PUF, Paris 1969, p. 131. 12 S. Freud, L’organisation génitale infantile, in Id., La vie sexuelle, cit., p. 113 (tr. mia). 13 Lacan definisce l’Edipo come un mito nel 1936. Jacques Lacan, Les complexes familiaux dans la formation de l’individu, in Id., Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 52. Vedi anche Claude Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Plon, Paris 1958, p. 243. 14 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., p. 159. 10
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dalle impasse sessuali e intoppi di ogni sorta: il padre da uccidere o già morto invade la realtà psichica del soggetto e la domina, attraverso la fissità del fantasma «stabilizzato» nel sintomo. Ma esiste un Edipo veramente «concluso»? Possiamo pensare che la questione dell’assassinio del padre si regoli una volta per tutte per il soggetto e per la società? È piuttosto la sua indecidibilità che incontriamo nella clinica, indipendentemente dalla patologia del soggetto, anche quando l’analisi è terminata. Freud stesso nota la rarità di un Edipo «normale»: notevole è la rarità con la quale ci si riesca a liberare [riconciliandosi con il padre ed emancipandosi dalla sua pressione] su un piano ideale, cioè in una maniera che è, psicologicamente come socialmente, corretta. Ma i nevrotici non riescono mai a risolvere il problema, il figlio resta tutta la vita sottomesso all’autorità paterna non essendo in misura di trasferire la libido su un oggetto sessuale esteriore. […] la femmina può avere lo stesso destino. In questo senso, è giusto dire che il complesso di Edipo deve essere considerato il nodo delle nevrosi15.
Ora, un Edipo instabile è veramente il sintomo del nevrotico? O al contrario, ciò che fa sintomo è più il fatto di volergli trovare ad ogni costo un senso ultimo, una fine? Da notare che Freud, quando considera il possibile fallimento dell’Edipo, si riferisce esclusivamente alla nevrosi, e mai alla psicosi: lo scompenso psicotico non ha come causa il disfunzionamento del mito. Freud parlerà di «regressione narcisistica» nella schizofrenia, di «regressione allo stadio sadico-anale» nella paranoia, ma mai di una «regressione edipica». È Lacan che, nel 1956, evoca l’idea di un possibile incidente dell’Edipo nella psicosi: «In una psicosi, ammettiamo volentieri che qualcosa non ha funzionato, che qualcosa non si è completato essenzialmente nell’Edipo»16. Ciò che non ha funzionato si colloca a livello del complesso paterno, o più precisamente alla questione del parricidio, che Lacan chiama «forclusione del Nome-del-Padre»17. 15 Sigmund Freud, Evolution de la libido et organisations sexuelles. XXIème conférence, in Id., Conférences d’introduction à la psychanalyse, Gallimard, Paris 1999, p. 428. 16 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre III. Les Psychoses, Seuil, Paris 1981, p. 227. 17 Il Nome-del-Padre è il padre simbolico, che corrisponde al padre morto dell’orda, l’animale totemico che inscrive la legge del divieto dell’incesto, che protegge i fratelli e
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Il termine «forclusione» è la traduzione del termine Verwerfung, utilizzato da Freud nel 1911 nella sua analisi del caso Schreber: «Non è corretto dire che il sentimento represso da dentro sia proiettato fuori; si dovrebbe dire piuttosto che ciò che è stato abolito dentro (Verwerfung) riviene da fuori»18. L’odio verso il padre, rimosso dal nevrotico, perseguita lo psicotico – l’odio gli riviene da fuori –, a partire dalla sua forclusione: è il meccanismo proprio della paranoia. Lacan associa la forclusione alla funzione paterna: è la parola del padre, e non l’odio nei suoi confronti, che «riviene da fuori» come istanza persecutrice. Se per Freud è l’affetto che è forcluso, in Lacan è il linguaggio, in quanto parola del padre, un padre che incarna, come «significante», la funzione simbolica. Con il concetto di «forclusione del Nome-del-Padre», Lacan reagisce alla nozione di «perdita della realtà» nella psicosi, secondo la proposizione di Freud nei suoi due articoli del 1924, Nevrosi e psicosi e La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi. Freud sostiene che nella psicosi – si riferisce all’amentia di Meynert –, vi è un problema di percezione del mondo19, e che l’io si è ritirato da un «frammento della realtà»20. Per Lacan, questa nozione di «realtà» – materiale, obiettiva – non tiene, dal momento che Freud aveva sempre fatto prevalere la «realtà psichica»21, poiché è attraverso questa che il soggetto percepisce la rende loro giustizia. A distinguere dalla persona del padre, il Nome-del-Padre esercita la funzione simbolica in quanto operatore del discorso. Sulla «forclusione del Nome-delPadre» vedi J. Lacan, Le séminaire. Livre III, cit., pp. 360-361; vedi anche: J. Lacan, D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose, in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 558. 18 Sigmund Freud, Remarques psychanalytiques sur l’autobiographie d’un cas de paranoïa (Le Président Schreber), in Id., Cinq psychanalyses, PUF, Paris 1954, p. 315. 19 Sigmund Freud, Névrose et psychose, in Id., Névrose, psychose et perversion, PUF, Paris 1973, p. 284. 20 S. Freud, La perte de la réalité dans la névrose et dans la psychose, in Id., Névrose, psychose et perversion, cit., p. 284. 21 L’espressione «realtà psichica» indica il desiderio inconscio ed il fantasma legato a questo. «Quando ci si trova in presenza di desideri inconsci espressi nel modo più vero, siamo ben costretti a dire che la realtà psichica è una forma d’esistenza particolare da non confondersi con la realtà materiale». S. Freud, L’interprétation du rêve, cit., p. 504. «I fantasmi possiedono una realtà psichica opposta alla realtà materiale […]; nel mondo dei nevrotici è la realtà psichica che detiene il ruolo dominante». Sigmund Freud, Leçons d’introduction à la psychanalyse, in Id., Œuvres complètes, PUF, Paris 2000, vol. XIV: 1915-1917, p. 396.
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realtà materiale. Lacan cerca di pensare la maniera in cui un soggetto costruisce la sua realtà psichica, e per questo, a seguito delle tesi di Lévi-Strauss, conclude che la realtà psichica è strutturata dal simbolico, nella stessa maniera in cui Lévi-Strauss considera che è la funzione simbolica a determinare la realtà sociale22. Negli anni 1956-1957, per Lacan, questa istanza simbolica corrisponde al Nome-del-Padre. Ne segue la teoria della psicosi: se la realtà è perduta, vuol dire che l’istanza del simbolico non ha potuto operare, da cui l’idea di una forclusione del Nome-del-Padre per caratterizzare l’emergenza di una psicosi. L’assimilazione del simbolico al Nome-del-Padre e alla funzione paterna23 fa problema. Il Nome-del-Padre è il significante della legge inscritto nel linguaggio: l’Altro della legge duplica l’Altro del linguaggio: il Nome-del-Padre diventa l’«Altro dell’Altro». Ma «non c’è Altro dell’Altro»24 conclude Lacan nel 1959, modificando così la sua posizione e proponendo, a partire da questo momento, che l’Altro (simbolico) è bucato e inconsistente: come legge e come garante del soggetto. Se il «tappo» del Nome-del-Padre nell’insegnamento di Lacan salta quasi subito, avrà invece un grande successo fra i suoi discepoli, che faranno del simbolico un equivalente della legge del padre morto, e la chiave del buon funzionamento del soggetto e della società. Inutile dire che questo simbolico non ha niente a che vedere con quello della struttura dei miti di Lévi-Strauss, e neanche con il mito dell’Edipo freudiano. Se il simbolico è implicato nella realtà psichica, esso non ha necessariamente una funzione legislativa. E se possiamo pensare il mito dell’Edipo freudiano come sottomesso alla funzione simbolica, come l’ha pensato Lévi-Strauss25, dobbiamo precisare che per l’antropo22
C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit., p. 232. «Non possiamo qui sviluppare tutti gli aspetti della funzione del padre, ma ve ne faccio notare una delle più sorprendenti, che è l’introduzione di un ordine, di un ordine matematico, la cui la struttura è diversa dall’ordine naturale». J. Lacan, Le séminaire. Livre III, cit., p. 360. 24 J. Lacan, Le séminaire. Livre VI, cit., p. 353. 25 In Antropologia strutturale, Lévi-Strauss paragona lo sciamanismo alla psicoanalisi: la forza taumaturgica delle due pratiche deriva da ciò che egli chiama «efficacia simbolica», in altre parole, dal confronto fra i segni appartenenti a sistemi differenti ma che hanno la stessa struttura. Attraverso l’efficacia simbolica, lo sciamanno e lo psicoanalista possono «provocare un’esperienza», l’atto clinico in senso proprio. L’efficacia simbolica 23
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logo la legge del simbolico non è la legge del padre, legge stabilita a partire dal suo assassinio. È vero che nell’Antropologia strutturale, Lévi-Strauss parla di «leggi che limitano il mondo del simbolismo»26: le leggi sono delle costanti che si ripetono in sistemi comparati, e che producono delle mutazioni della struttura. Nel mito freudiano, sono i rapporti fra gli elementi che inscrivono la differenza nelle fasi edipiche, e che hanno valore di legge, e non esiste nessun’altra legge all’infuori di questi rapporti. Le costanti hanno valore di legge solo perché producono delle variazioni: le fasi dell’Edipo organizzano una certa realtà psichica, ma in assenza di un ordine progressivo, e senza nessuna rigidità. È così che il simbolico governa la realtà psichica in Freud: a partire dai rapporti fra gli elementi che producono le variazioni della struttura. Perché l’invariante strutturale non è un’essenza, ma un complesso. Il simbolico non è la legge, e ancora meno il padre (morto e/o vivo). La necessità di un padre organizzatore e pacificatore appartiene al bambino, al nevrotico e al primitivo: nel sistema totemico, scrive Freud, il padre accorda «tutto ciò che l’immaginazione infantile [può] attendersi [da lui], protezione, assistenza, attenzione, in cambio dei quali, bisogna impegnarsi a rispettare la vita, in altre parole, non ripetere su di lui [il totem] l’atto che aveva fatto soccombere il vero padre»27. Ma non dimentichiamoci che in Freud, il padre legislatore è anche una figura del super-io, istanza incomoda e devastante, per il soggetto come per la società. Se Freud resta moderato nei confronti della funzione garante ed accomodante del padre, Lacan lo è di meno nel 193828, attribuendo garantisce la concordanza fra il mito e le operazioni organiche nello sciamanismo, e fra il mito e le operazioni linguistiche nella psicoanalisi. Sotto transfert certamente: nella cura sciamanica il mito è ricevuto dalla «tradizione collettiva», allora che nella cura psicoanalitica, il paziente produce il suo mito in quanto «tesoro individuale». La storia è restituita sotto la forma di un «mito vissuto»: è così che opera la «funzione simbolica», a partire dall’omologia fra la struttura del mito e la struttura dell’inconscio. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, cit., pp. 228-230. 26 Ivi, p. 233. 27 S. Freud, Totem et tabou, cit., p. 294. 28 Lacan finirà per contestare il primato della funzione paterna. Il Nome-del-Padre diventera, nel 1963, «i Nomi-del-Padre» al plurale; poi «Padre del nome», funzione operante anche nella psicosi. Lacan parlerà di una «forclusione di fatto», cioè di una forclusione «enunciativa», in quanto la «dimissione» del padre accompagna parallelamente l’«enunciazione» del figlio. Il Nome-del-Padre diventa un’istanza contingente. Gli effetti
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al padre una «funzione di riparazione […] [e] una funzione di sublimazione di fronte all’Altro materno mortifero»29. «L’Edipo ci dà il prototipo della sublimazione» continua Lacan: il padre diventa la soluzione ad ogni sregolatezza pulsionale, in particolare in relazione all’istanza materna. In questo scritto, Lacan mette in relazione le nevrosi contemporanee al declino dell’immagine paterna30, immagine che ha, per il Lacan dell’epoca, una funzione salvatrice ed idealizzante. La confusione fra le nozioni di «padre», «legge» e «simbolico» nasce da qui. Ma il padre come il suo assassinio e la sua rinascita è solo un fantasma, un contenuto come altri nell’Edipo, e non l’essenza della funzione simbolica (che Lévi-Strauss scopre con l’analisi della struttura dei miti, a partire dall’omologia fra i sistemi dei segni). Deleuze e Guattari criticano l’idea del parricidio e, di conseguenza, l’idea di una funzione organizzatrice del padre, in particolare nel passaggio dalla sua dimensione immaginaria alla dimensione simbolica31. Ma l’Edipo freudiano, che opera a partire dalla funzione simbolica come è stata descritta da Lévi-Strauss, non si duplica nella funzione paterna: la struttura dell’Edipo è sottomessa alla legge della variante e non alla legge del padre. È la «legge» dell’Edipo: non ci sono che varianti32 nella sua struttura. Fasi e non stadi. Simultaneità e non progressione. Vi è legge nella mutazione del complesso, e non nell’uno dei contenuti possibili di questo, anche quando questo contenuto si chiama «Nome-del-Padre», «padre simbolico», o «padre morto».
clinici sono conseguenti. Se la forclusione è «decisa» dal soggetto, lo psicoanalista sarà tenuto a dirigere la cura a partire da questo dato di fatto. 29 J. Lacan, Les complexes familiaux dans la formation de l’individu, cit., p. 55. 30 Ivi, p. 60. 31 G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe, cit., p. 110. 32 È Freud stesso che utilizza questo termine durante le sue conferenze d’introduzione alla psicoanalisi del 1916-17. S. Freud, Evolution de la libido et organisations sexuelles, cit., p. 428.
Voglio Alessandra Campo
«Ho una piccola pulsione aggressiva nei confronti dello schiavo» – dice Madame «Voglio che venga crocifisso»1
1. «Capriccio, adoro in te la ragion pratica!». Sono convinta che la maggior parte di voi pensi che a parlare, in questo enunciato, sia l’inconscio della Zarina, una delle più terribili, peraltro, perché capace di torcere, con un supremo atto della volontà, persino il kantiano imperativo categorico. Quasi nessuno sa, invece, che questa è stata, con tutta probabilità, la segreta esclamazione di un Kant stordito dalla sublime voce della sua Dea che, solenne, sentenzia: «sic voleo, sic jubeo». Il passo, in latino, si trova nel settimo paragrafo del primo capitolo dell’Analitica della Critica della ragion pratica, alla fine di una nota che segue la formulazione della legge fondamentale2. Dopo aver instaurato un paragone con la geometria pura, Kant si sofferma sul carattere incondizionato della regola pratica, presentata come proposizione pratica categorica a priori, e sul carattere immediatamente legislatore della ragione. Questi due caratteri, com’è noto, rendono conto del fatto che la volontà, quando è pura, è determinata in 1 Jacques-Alain Miller, La teoria del capriccio, in Id., L’osso di un’analisi, Franco Angeli, Milano 2000, p. 69. 2 Per Kant la coscienza della legge morale «non è fondata su nessuna intuizione pura, né empirica; mentre essa sarebbe analitica, se si presupponesse la libertà della volontà, per la quale, però, come concetto positivo, si richiederebbe un’intuizione intellettuale, la quale qui non si può affatto ammettere. Eppure, per riguardare senza falsa interpretazione questa legge come data, si deve ben notare che essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per esso si manifesta come originariamente legislativa (sic voleo, sic jubeo)». Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft; tr. it. di F. Capra, Critica della ragion pratica, Einaudi, Torino 1979, p. 40.
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modo obiettivo, ossia non patologico. La volontà pura non è affiziert perché «è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche […], determinata mediante la semplice forma della legge»3. Agire in conformità al dovere, e solo per il dovere, è infatti per Kant una questione di forma e non di contenuto. Meglio: di una forma che si comporta come contenuto. La forma diviene materia e il pratico agisce il come patologico: voilà il miracolo della volontà pura, pura ma non santa. Affinché sia santa è necessario «ancora uno sforzo» che, però, non è lo sforzo repubblicano di Sade. 2. L’esperienza, l’esperienza sensibile, nella seconda Critica, conta assai poco. Ciò che la ragion pura non deve oltrepassare per garantire validità alla conoscenza, la ragion pratica deve, viceversa, trascenderlo. Dall’esperienza, la ragion pura, nel suo uso pratico, non deve lasciarsi contaminare perché per Kant la «materia», sia che coincida con l’amore di sé, che con il piacere, l’utile o l’interesse privato, non può in alcun modo costituire il movente della moralità. Movente alla cui ricerca, l’intera Critica della ragion pratica è dedicata. «Triebfeder» è la parola tedesca per «movente», ma tra i suoi significati figurano anche «spinta» e «impulso». In altre parole, contrariamente a quanto si crede, nella Critica della ragion pratica la pulsione c’è. C’è e comanda. 3. Proposizione sintetica a priori che si impone di per sé, la legge morale non è un fatto dell’esperienza, ma della ragione, della ragion pura che, quando determina immediatamente la volontà, è già pratica. La sua coscienza è un factum di questa stessa ragione e «factum», hanno notato quasi tutti i commentatori, non significa «dato», «accadimento», «fatto empirico». La ragion pratica non è, cioè, una ragione positivista. «Factum» significa «opera», «azione». Fatto significa atto. Un atto che la psicoanalisi di Freud e di Lacan, ci insegna a riconoscere come atto dell’inconscio. La legge morale è «dentro» di noi nella misura in cui è inconscia, ma l’inconscio, insegna ancora la psicoanalisi, non è un «dentro». Sia fatta perciò la sua volontà, come in cielo, stellato, così in terra, morale. 4. Nella sesta satira di Giovenale, meglio conosciuta come Satira contro le donne e dedicata all’annosa questione se un uomo debba o meno sposarsi, le parole «hoc voleo, sic jubeo, sit pro ratione 3
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voluntas»4 sono pronunciate dalla bocca di una spietata donna megera che, contro il volere ragionevole, ma non razionale, del marito (per Kant solo il razionale è morale e solo il morale è razionale), ordina di uccidere il loro schiavo: «ammazzamene uno perché voglio». Dietro l’imperativo categorico, ha osservato Jaques-Alain Miller, c’è una donna che fa i capricci e il capriccio femminile, a differenza di quello maschile, ha sempre un ché di mortifero. I capricci dei signori «non vanno, infatti, molto lontano»5. Al massimo, culminano in un motto di spirito. Ma quelli di una donna non solo non si discutono: molto spesso hanno persino a che fare con la morte di un uomo. La pulsione, rigorosamente al femminile, è sempre pulsione di morte perché da quando Pudicitia e Astrea hanno abbandonato questa terra, le donne sono divenute perverse e crudeli, avide e sanguinarie; perciò, questo è il suggerimento di Giovenale all’amico Postumo, tanto vale suicidarsi o andare con un ragazzino. 5. Lacan sostiene che la domanda sottointesa dalla seconda Critica – cosa devo fare? – si possa formulare in questo modo: mi devo o non mi devo sposare? L’etica kantiana è, per Lacan, l’etica del celibe, un celibe che ambisce a rimanere tale fintanto che La donna è La Zarina (e si noti che il bersaglio di Giovenale non è il genere femminile tout court ma la specie delle matrone romane). È forse per questo che, nel Seminario VII, Lacan pensa l’etica come un’erotica al di sopra della morale? La satira, ha scritto Miller, «ci offre l’accesso al rovescio di Roma»6 e, aggiungiamo noi, al rovescio dell’imperativo categorico. In quanto espressione di una volontà universale, onnitemporale e impersonale l’imperativo categorico mostra il suo vero volto: un capriccio di donna, un capriccio elevato a legge. E Kant, evidentemente, è alla donna-aggressore che è identificato. Non certo all’uomo che avanza tiepide ragioni di calcolo e buon senso, buono, ovviamente, non dal punto di vista morale. La morale kantiana non coincide con il servizio e l’amministrazione, borghese, dei beni. Il «tu devi» dell’imperativo categorico tradisce piuttosto un «sic voleo» focoso, ardente e, soprattutto, indifferente alla legge. Il cuore del capriccio è l’assenza di legge, di una legge che imbriglia la 4
Giovenale, Satira VI, vv. 219-224. J.-A. Miller, La teoria del capriccio, cit., p. 69. 6 Ivi, p. 76. 5
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volontà, tenta di normalizzarla, e ciò sebbene sia indubitabile che il movimento che va dal Desiderio-della-Madre al Nome-del-Padre coincida con un progresso, con un progresso della civiltà mediato dalla metafora paterna. Ma allora, come può, il capriccio funzionare come la verità della legge morale? 6. Il capriccio, questa «fiamma della volontà»7, è un miracolo e non una sciagura. E lo è allo stesso modo in cui lo sono i lapsus, gli atti mancati e i déjà-vu, vale a dire: al modo di una formazione dell’inconscio. Il capriccio è un atto dell’inconscio e, come tale, è un miracolo della volontà. Ma di che volontà si tratta? Di una volontà santa o sadica? Pura o impura? Libera o assoggettata? Senz’altro di una volontà assoluta perché autonoma e incondizionata. Il primato della ragion pratica è il primato della ragione del capriccio e… osate, con la ragione, ciò che può il capriccio! La vertigine della causa sui, almeno per un attimo, lo stesso del Witz, è assicurata. Siete voi che, qualora troviate il coraggio di osare, di osare volere (volere aude!), sicuri non vi sentirete. Dopo il capriccio, come dopo ogni atto, il soggetto non è più lo stesso. L’io non è più come prima. 7. Nel capriccio, il soggetto è contemporaneamente suddito e sovrano, autonomo e sottomesso perché il capriccio è al di là del bene (Wohl) e del male (Übel). Il capriccio è il Bene (Gute) ed è il male (Böse). Contemporaneamente. Il male per l’io e il bene per l’inconscio. In uno stesso e angosciante momento. In questo senso il capriccio è un «infinito finiente»8 per riprendere l’espressione con cui Bertrando Spaventa sintetizza il senso della monadologia bruniana. Nel capriccio è infatti questione dell’infinito del godimento che parassita il finito del desiderio, è questione, cioè, del Medesimo, di quel Medesimo che, per il Lacan del Seminario VII, è dell’ordine del reale del godimento. L’amore del prossimo, il desiderio del suo bene si iscrivono viceversa nell’utilitaristico e ingannevole registro dell’immaginario: il prossimo è il simile e il simile, da «simul», è un inganno. Sempre. Pertanto, del comandamento evangelico, ciò che occorre sottolineare non è tanto la riduzione dell’altro al sé (ama il prossimo tuo come te stesso), quanto, piuttosto, l’alterazione del se stesso nell’altro (ama il prossimo tuo come te stesso). Nel rapportarsi 7
Ivi, p. 71. Bertrando Spaventa, Rinascimento, riforma, controriforma, La Nuova Italia, Venezia 1928, p. 237. 8
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al proprio desiderio occorre fare di se stesso il prossimo9 perché la legge del desiderio è una legge a distanza. 8. La Critica della ragion pratica è, secondo Žižek, il tentativo di rispondere alla domanda: esiste una pura facoltà del desiderare? La risposta di Kant è negativa perché la facoltà di desiderare, anche quando è superiore, è sempre e soltanto una facoltà di rappresentare. «Io desidero» significa, per Kant, «io rappresento». In questo senso quella del desiderio è una legge della distanza. La facoltà di desiderare non è quindi morale in senso stretto: la causalità pratica, in quanto causalità noumenica, Kant la suppone immediata e intransitiva, dunque estranea alla mediazione fornita dalla rappresentazione. Il soggetto morale, in tanto è libero e autonomo, in quanto non è mediato da alcunché. Se «io penso» significa «io sono sottomesso», sottomesso anzitutto al giuoco della rappresentazione, «io voglio» significa «io sono libero» e la volontà, quando è libera, taglia con la catena delle determinazioni e delle ragioni («la volontà brilla nel taglio del soggetto»10) perché il dominio della volontà pura è, per Kant, «il dominio in cui l’uomo non è soggetto all’incantamento implacabile delle cause e degli effetti»11, ovvero all’incantamento del tempo (genitivo soggettivo e oggettivo). 9. Non c’è etica senza incondizionato e l’incondizionatezza è sinonimo di atemporalità. Atto dell’inconscio, la legge morale è inconscia essa stessa e l’inconscio, si sa, Freud lo dice zeitlos, atemporale. Le condizioni da cui occorre affrancarsi sono quelle imposte dal post hoc ergo propter hoc, vincolo che fa della Critica della ragion pura una pura prigione. Prigione del fenomeno, schiavitù della fallacia della relazione causale, la gabbia della prima Critica è la gabbia di un senso interno, il tempo, ma claustrofobico. Se la Critica della ragion pura è un’indagine della causalità naturale, la Critica della ragion pratica è un trattato sulla causalità psichica, ben diversa da quella psico-logica. Per Kant la libertà è trascendentale perché la sfera pratica è una sfera atemporale. Questo significa che 9 «È proprio della legge del rapporto del soggetto umano con se stesso che egli faccia di se stesso il suo prossimo nel suo rapporto con il proprio desiderio». Jacques Lacan, Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1986; tr. it. di A. Di Ciaccia, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, p. 90. 10 J.-A. Miller, La teoria del capriccio, cit., pp. 71-72. 11 Ivi, p. 70.
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è noumenica. Causa dell’atto conforme al dovere che si dice come «Sollen» è qualcosa di spontaneo e libero, in quanto fuori dal tempo e dalla rappresentazione. La libertà trascendentale deve infatti essere pensata come indipendente da tutto ciò che è empirico e temporale, vale a dire, come precisa Kant, «dalla natura in generale» e dal suo «meccanismo». Un atto è libero se è estraneo alle inclinazioni, alle ragioni e alle determinazioni, ossia a ciò che fa della libertà, quando è soltanto fenomenica e naturale, nient’altro che la libertà di un girarrosto12, quindi una falsa libertà. 10. Per Kant l’uomo non è libero dove crede di esserlo ma è molto più libero di quanto sappia perché, nella misura in cui è trascendentale, la libertà è, al contempo, libertà della libertà e della non libertà. L’uomo, per Kant, è sempre libero nello stesso modo in cui Lacan afferma che dice sempre la verità. L’uomo è sempre libero, e dunque sempre morale, che lo creda o no, che lo voglia o no. Anzi: dove si crede autonomo è in catene (la credenza è il regno degli enunciati dell’io), mentre dove si sa dipendente e alienato, è in realtà libero (il sapere è sempre il sapere inconscio dell’enunciazione). O penso (di essere libero) o sono (libero): anche il cogito pratico, come ogni cogito, è il cogito di Eulero. Questo significa che il soggetto è diviso. Kant lo sa bene dal momento che, come hanno osservato tutti gli psicoanalisti dopo Lacan, nell’imperativo categorico è l’Altro che parla, un Altro che è il soggetto stesso: das Selbst, il medesimo. 11. Il vero movente della moralità è l’oggetto pulsione della volontà: l’oggetto a piccolo, causa del desiderio. Invisibile ma effettuale, pratico e non patologico, a piccolo è «ciò» che si incontra nell’inciampo di ogni determinazione causale. Il vincolo del post hoc ergo propter hoc è fallace perché, di fatto, fallisce. Zoppica. E l’inciampo della causalità deterministica è affermazione della causalità pratica, una causalità mediante libertà (durch Freiheit). Ma la mediazione della libertà è una mediazione immediata e, perciò, è solo nella misura in cui sono alienato (A è barrato, «non c’è Altro dell’Altro») che sono libero, in uno stesso tempo e che lo voglia o no. Il soggetto è libero malgré soi perché la stessa emergenza del soggetto, del soggetto dell’inconscio, è già un atto libero. Che l’io ne sappia poco dipende dal fatto che l’in-conscio è in primo luogo l’in-saputo. Di conseguen12
I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 119.
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za, «la ragione, quando si tratta della legge della nostra esistenza intelligibile (della legge morale) non riconosce alcuna differenza di tempo, e domanda soltanto se l’evento mi appartenga come fatto [Tat] mio»13. Eppure se è mio, lo saprò solo dopo. Nell’atto il soggetto non è diviso ma nemmeno c’è. Nella soggettivazione senza soggetto l’atto è tale solo se fa male, solo se provoca orrore, orrore all’io che se ne crede ogni volta il padrone. Nell’atto l’io soffre perché il soggetto, l’inconscio, è felice. Il dolore, per Kant, è l’unico criterio della moralità. 12. La legge morale è una legge della causalità che determina se stessa perché, come l’inconscio, la legge morale è causa sui. Tutto il problema è allora capire in che modo la legge morale possa funzionare come movente di ciò che atemporale non è, come, cioè, la libertà, ratio essendi della legge morale, possa causare quell’essere che libero si crede ma non si sa. Una volontà libera è una volontà capace di determinarsi secondo la pura forma della legge (Alena Zupančič parla in proposito di «transustanziazione etica»14). E la pura forma, la forma che agisce come materia, è a piccolo, oggetto puro e insolito, vuoto causativo, niente con qualcosa che gli gravita attorno. «La legge morale non è altro che il desiderio allo stato puro»15 ha detto Lacan e il desiderio allo stato puro si raggiunge «dopo il reperimento del soggetto rispetto all’a»16, quando cioè «l’esperienza del fantasma fondamentale diventa la pulsione»17. 13. Il grande merito di Kant secondo Lacan, ciò che lo rende «più vero» di Spinoza ad esempio, è di aver tematizzato la scissione tra felicità (principio di piacere) ed etica (al di là del principio di piacere). Non c’è rapporto tra felicità e virtù ed è per questo che la morale kantiana, come la psicoanalisi, è al di là del ben-essere: entrambe deridono «il servizio dei beni» e se ne infischiano, coraggiosamente, del calcolo delle utilità. «Bene» in tedesco si dice però in due modi: «Wohl» e «Gute». Il primo è conforme al principio del piacere e al 13
Ivi, p. 120. Alenka Zupančič, Ethics of the real. Kant, Lacan, Verso, Londra 2000; tr. it. di L.F. Clemente, Etica del reale. Kant, Lacan, Orthotes, Napoli 2012, p. 45. 15 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1990; tr. it. di A. Di Ciaccia, Il seminario. Libro XI. I concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 271. 16 Ivi, p. 269. 17 Ibid. 14
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dovere come necessità omeostatico-naturale (Mussen). In questo senso è causa pathomenon, causa come una mira o una meta. Il secondo dice invece l’al di là del principio di piacere e afferma il carattere sovrasensibile, ma non sovrasensuale18, del dovere (Sollen). Per questo è causa noumenon, causa come un movente oscuro o una spinta cieca. «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, in ogni tempo, come principio di una legislazione universale [allgemein]»19 significa, in effetti, «intuisci il Bene, intuiscilo intellettualmente!», senza rappresentazioni. «Non affidarti alle evidenze sensibili che fanno di te un ente particolare e condizionato!». Il soggetto etico è il punto in cui «l’universale giunge a se stesso e ottiene la sua determinazione»20, ma questo punto è un punto reale, e perciò insopportabile. 14. La legge morale ha di mira il reale come tale perché punta dritta al godimento che del bene – bene che non si sa mai di chi sia dice Lacan21 – attesta ripetutamente lo scacco. Il bene, Wohl, è infatti inconsistente dal punto di vista etico, quello del reale, e consistente dal punto di vista immaginario, quello dell’io-ideale e dell’ideale dell’io. Wohl è il bene del principio di piacere, è l’oggetto buono, laddove la stoffa di das Gute è quella del godimento. Das Gute ist das Ding, «ciò che già fa legge […] di capriccio, di arbitrio, persino di oracolo»22 e che priva il soggetto di ogni garanzia in quanto oggetto contemporaneamente prossimo ed estraneo, buono e cattivo. Nessuna Sicherung è garantita a chi compie un atto morale. Un atto si compie, che il soggetto lo voglia o no, che si senta sicuro o no. Perciò da das Ding, come dal desiderio e dalla sua realizzazione, ossia dall’incontro con la pulsione, non facciamo che difenderci «automutilandoci». Volontà fuori legge, improvvisa e assoluta, il capriccio è, invece, il sì alla pulsione e per questo è un miracolo. Ma fare dell’ordine della pulsione l’oggetto causa del desi18 Il sovrasensualismo è la dottrina di Masoch. Il termine indica «lo stato culturale di una sensualità trasmutata», Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch. Le froid et le cruel, Éditions de Minuit, Paris 1967; tr. it. di G. De Col, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1996, p. 79. 19 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 39 (corsivo nostro). Si noti che «allgemein» significa anche «comune». 20 A. Zupančič, Etica del reale, cit., p. 89. 21 J. Lacan, Il seminario. Libro VII, cit., p. 370. 22 Ivi, p. 86.
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derio è l’impossibile, l’impossibile a sopportarsi per il soggetto che, nel capriccio, «scompare in quanto (vi) è agito»23. «Voglio ciò che mi spinge pulsionalmente» è il cogito acefalo di una volontà davvero sovrana, una volontà che al «Tu devi» della pulsione risponde «sì, lo voglio», lo voglio nella gioia e nel dolore, eternamente. «Sì, lo voglio», nonostante la frustrazione. L’eterno ritorno, dice Miller, non è altro che un capriccio generalizzato. 15. Per Kant il dolore è l’unico caso in cui è possibile «con i concetti a priori determinare la relazione di una conoscenza […] con il sentimento di piacere o dispiacere»24. La legge morale provoca dispiacere, un dispiacere che Freud, in Una difficoltà della psicoanalisi, definisce nei termini di una ferita narcisistica. Copernicana, la legge morale debella la presunzione, umilia il punto di vista, patologico, delle inclinazioni sensibili e, tuttavia, nella misura in cui «questa legge è qualcosa di positivo in sé, e cioè la forma di una causalità intellettuale, ossia della libertà, così, quando in opposizione al contrario soggettivo, cioè alle inclinazioni in noi, indebolisce le presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto del rispetto»25. Il rispetto, sentimento positivo che non ha un’origine empirica e che viene conosciuto a priori, è il cuore della moralità kantiana in quanto cursore che rivela la presenza angosciante di das Ding. C’è del rispetto, c’è della Cosa-Legge. Immediatamente. Il rispetto infatti non è il movente della moralità: è la moralità stessa. Ma anche il rispetto, in Kant, si dice in due modi: Achtung e Ehrfurcht. Solo il primo è davvero morale perché solo il primo resiste alla tentazione di ripristinare ciò che l’imperativo categorico comanda di abbandonare: la coscienza, la coscienza morale e temporale. Il soggetto pratico non è, cioè, un masochista morale perché il bene non è l’oggetto né della volontà né del programma del super-io, super perché sadico e sadico perché ideale, dunque freddo e crudele. Il rispetto per il super-io è il timore e il timore non è un sentimento 23 J.-A. Miller, La teoria del capriccio, cit., p. 72. «Il bello del capriccio è che il soggetto vi assume la sua volontà così come la volontà che lo agisce. Il divino del capriccio – si attribuiva il capriccio per eccellenza agli dèi – è un “io voglio”, non ciò che può essere legge per tutti, ma “voglio ciò che mi spinge pulsionalmente”. Esprimo come un “io voglio” assoluto ciò che mi aziona come pulsione, ciò che mi spinge come pulsione» (ibid.). 24 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 90. 25 Ivi, p. 91.
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morale in quanto è ancora una rappresentazione, un dolce fantasma di delitti e castighi. 16. La legge morale è una semi-legge che implica un semi-dire perché l’obiettivo di Kant non è quello di costruire una nuova morale. Kant vuole una nuova formula, una formula che valga un mathema. La morale kantiana è more mathematico e l’imperativo categorico, formulazione solo significante che dice come e non che cosa fare, è lì a dimostrarlo. Enunciazione senza enunciato la legge morale non vuole né prescrive: non risponde né soddisfa. Non significa nulla perché il suo versante, versante analitico ante litteram, è quello dell’atto e non del senso. E Kant vuole che si compiano atti etici perché è l’atto, e non la coscienza, che completa la legge morale in quanto «legge dell’insaputo». Che sarà stata legge, lo si saprà après-coup, ad atto compiuto e desiderio realizzato. Ecco perché, l’imperativo erotico e categorico lacaniano afferma che non bisogna cedere sul proprio desiderio: non cedervi significa realizzarlo e realizzarlo significa portarlo sino in fondo, sino al fondo della pulsione, alla superficie di un capriccio o di un tic. Quello di Sygne de Coûfontaine ad esempio. Realizzare il desiderio significa attraversare il fantasma fino a incontrare a piccolo che lo sostiene. L’infinito dell’oggetto causa del desiderio finisce come oggetto parziale della pulsione ed è solo una volta che è de-assolutizzata e che si trova non-tutta, che la causa può essere ceduta, ammazzata. Come una cosa qualunque. Come uno schiavo o un figlio. Se la pulsione è sempre pulsione di morte è perché, come insegna proprio Giovenale, «non c’è infamia più grande del preferire la vita alla dignità, e del perdere, per amor della vita, ogni ragione del vivere»26. 17. L’atto etico è ultimativo e talvolta inumano. Il prezzo della sua umanità può coincidere col sacrificio dell’umanità stessa perché la sua realizzazione è abissale, dell’ordine di una scelta assoluta (Versagung). «Sublimate quel che volete, bisogna pur pagarlo con qualcosa. Questo qualcosa, si chiama godimento»27. L’operazione mistica e idealizzante che fa di una megera, La Donna sadica o La Dea, si paga con una libbra di carne. Che lo si voglia o no. Il punto è: esserne degni. Perciò, anche nei riguardi della megera e del mistero che 26 27
Giovenale, Satira VIII, vv. 83-84. J. Lacan, Il seminario. Libro VII, cit., p. 373.
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incarna, la questione se sia buona o cattiva appare ora senza importanza. Parafrasando il Lacan del Seminario VII, ultime due righe, si può ben dire che l’importante non è sapere se la donna sia buona o cattiva in origine, quando cioè vuole e ordina; l’importante è sapere cosa verrà fuori dal sacrificio dello schiavo, una volta che il marito lo avrà ammazzato del tutto, una volta, cioè, che avrà attraversato il suo fantasma e fatto di quell’ordine la causa, reale, del suo desiderio.
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Il reale […] è quanto resiste in modo assoluto alla simbolizzazione. Jacques Lacan1 Per una curiosa avanguardia lo si trova già nel Parmenide […] di Platone […]. La data del discorso analitico suggerisce di applicare a un reale come il triangolo aritmetico, matematico per eccellenza, ossia trasmissibile fuori senso, l’analisi con cui Frege genera l’Uno dall’insieme vuoto, nato ai suoi tempi, ossia quando scivola verso l’equivoco del nome del numero zero per stabilire che zero e uno fanno due. Jacques Lacan2
Lo zero è un «segno della mancanza» che, nella storia della matematica, è stato lungamente caratterizzato da una «mancanza di segno»3 prima che alcune culture umane fossero in grado di concettualizzarlo e, successivamente, diffonderlo. Lo zero, espressione quantitativa dell’assenza di quantità, sembrerebbe facilmente associabile al registro lacaniano del reale definito, nella prima citazione in esergo, come un’insuperabile resistenza alla simbolizzazione. Cosa, infatti, è meno rappresentabile del vuoto, del nulla o di quella differenza che distingue l’uno dal molteplice? Questi riferimenti permetteranno, forse, al lettore d’orientarsi lungo la ver1 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud, Seuil, Paris 1975; tr. it. Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 2014, p. 82. 2 Jacques Lacan, «… ou pire», «Scilicet», 5, 1975, pp. 5-10; tr. it. «… o peggio», in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 539. 3 Cfr. Alain Badiou, Marque et manque: à propos du zéro, «Cahiers pour l’Analyse», 10, 1969, pp. 150-173; tr. it. Marca e mancanza: a proposito dello zero, in AA.VV., Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, Boringhieri, Torino 1972, p. 129.
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tiginosa scivolata, storica e teorica, del secondo esergo che slitta, in poche righe, da un dialogo platonico alla ricerca fregeana sui fondamenti dell’aritmetica, coeva alla fondazione della psicoanalisi. Scritti e seminari di Lacan contengono diverse occorrenze del termine «zero» sebbene nessun testo o seduta seminariale gli sia stata specificamente intitolata. La discreta presenza dello zero nel discorso lacaniano è attestata anche dai principali repertori psicoanalitici, da noi consultati, nei quali non abbiamo trovato alcuna voce dedicata a questo particolarissimo numero4. Più precisamente possiamo attestare circa 54 occorrenze del termine «zero» nel complesso dei testi seminariali5 alle quali se ne devono sommare altre 24 nei testi pubblicati6. Non essendo possibile in questa sede considerarle tutte, ci limitiamo a un’analisi meramente quantitativa che indica una concentrazione di 11 occorrenze nel dodicesimo seminario intitolato Problèmes cruciaux pour la psychanalyse7. Nel corso di quest’ultimo si tennero le due relazioni di Yves Duroux (1941) e Jacques-Alain Miller (1944) che vennero pubblicate, l’anno seguente, sulla rivista «Cahiers pour l’Analyse». Lacan riprese successivamente le riflessioni proposte da Miller generando un’interessante discussione, riguardante l’esegesi dei testi e l’interpretazione delle teorie lacaniane, infulcrata proprio sul concetto di «zero», che si protrasse a lungo e le cui conseguenze s’avvertono ancora oggi. Per questo ci concentreremo sul dodicesimo seminario proponendo una sorta di carotaggio, nel terreno del reale, delle riflessioni di Lacan sullo «zero». Le nostre ipotesi sono due; la prima individua nel soggetto il punto «zero» dove il simbolico s’intreccia con il reale e, la seconda, definisce il reale come «zero assoluto» del senso. 4 Cfr. Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, Paris 1967; Roland Chemama, Bernard Vandermersch (a cura di), Dictionnaire de la Psychanalyse, Larousse, Paris 1998; tr. it. Dizionario di psicanalisi, Gremese, Roma 2004; Dylan Evans, An Introductory Dictionary of Lacanian Psychoanalysis, Routledge, New York 1996; Jean-Michel Rabaté (a cura di), The Cambridge Companion to Lacan, Cambridge University Press, Cambridge 2003. 5 Henry Krutzen, Jacques Lacan. Séminaire 1952-1980. Index référentiel, Economica, Paris 2009, pp. 937-938. 6 Jacques Lacan, Écrits, Seuil, Paris 1966; tr. it. Scritti, Einaudi, Torino 1974; Id., Autres écrits, Seuil, Paris 2001; tr. it. Altri scritti, Einaudi, Torino 2013. 7 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XII. Problèmes cruciaux pour la psychanalyse, inedito.
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La natura del soggetto La rivoluzione lacaniana inizia all’insegna dello slogan «l’inconscio è strutturato come un linguaggio» ed è proseguita rileggendo i testi freudiani, prima, alla luce di Ferdinand De Saussure (18571913) e, poi, di Roman Jakobson (1896-1982) ed Émile Benveniste (1902-1976). Successivamente Lacan applica concetti presi a prestito dalla logica e dalla matematica per approfondire l’analisi della struttura linguistica dell’inconscio ispirandosi, in alcune occasioni, anche alle ricerche di Gottlob Frege (1848-1925), citato nel secondo esergo, e di Bertrand Russell (1872-1970). La fondazione della nuova scuola lacaniana nel 1964, alla quale aderisce anche un gruppo di giovani normalisti di formazione epistemologica al quale appartiene Miller, sviluppa questi spunti presenti nella riflessione lacaniana prospettando la possibilità d’applicare la fondazione fregeana dell’aritmetica all’analisi lacaniana della struttura del soggetto8. Tale approccio sembrerebbe particolarmente fertile perché trasformerebbe i noti paradossi della logica fregeana, individuati da Russell, in altrettanti punti di forza in grado di dare conto del funzionamento aporetico del soggetto9. Torniamo sulla scena del dodicesimo seminario dove compaiono, all’inizio del 1965, Duroux e Miller. Il primo propone un intervento introduttivo intitolato Psicologia e logica nel quale si definiscono le argomentazioni fregeane come «una macchina che si potrebbe ordinare secondo […] un asse orizzontale in cui opera la relazione d’equivalenza, e un asse verticale […] specifico della relazione tra il concetto e l’oggetto»10. Sulla base di questa operazione il filosofo tedesco si propose di costruire l’insieme dei numeri naturali sulla sola base dei concetti di «zero» e di «successore». Il presupposto di questa operazione è costituito dagli antichi princìpi d’identità e di non contraddizione che tradizionalmente sostengono tutte 8 Élisabeth Roudinesco, Jacques Lacan. Esquisse d’une vie, histoire d’un système de pensée, Fayard, Paris 1993; tr. it. Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 325, 328-330. 9 Anna Castallo, Il soggetto nel linguaggio. Strumenti di linguistica e di logica, «La Psicoanalisi», 56-57, 2014-15, p. 267. 10 Yves Duroux, Psychologie et logique, «Cahiers pour l’Analyse», 1-2, 1966, pp. 3338; tr. it. Psicologia e logica, in AA.VV., Cahiers pour l’Analyse, cit., p. 47.
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le dimostrazioni logiche11. Sulla loro base Frege definisce il numero zero come il concetto di «non identico a sé» sotto il quale ricade ogni altro concetto contraddittorio. Lo zero viene definito per mezzo della «contraddizione logica che è la garanzia della non esistenza dell’oggetto»12. Perché Duroux avrebbe proposto queste riflessioni sui Fondamenti dell’aritmetica (1884) ispirandosi, forse, ai precedenti riferimenti lacaniani? Possiamo rispondere ricordando che, secondo Lacan, non esiste una vera e propria identità del soggetto ma solo i suoi inesauribili processi d’identificazione13. Potremmo dire, in altre parole, che il soggetto ha una natura dinamica e, quindi, non potendo mai essere diacronicamente uguale a se stesso, possiede uno statuto contraddittorio che, almeno da questo punto di vista, lo avvicina al concetto fregeano di «zero». Normalmente un enunciato contraddittorio è considerato insensato eppure, come dimostrerebbe il caso dello zero, esso resterebbe trasmissibile e, dunque, apparterrebbe al reale lacaniano. Questo ragionamento segue dal nostro secondo esergo e mostra che l’identità soggettiva, insieme «a ogni possibile “essenza” del soggetto» sia definitamente «perduta» per la psicoanalisi lacaniana. Tuttavia, una simile «perdita può […] essere designata da un significante […] della mancanza» che è dotato d’una sua logica caratteristica14. Questo tipo di ragionamento sconfina, probabilmente, nel paralogismo e, tuttavia, crediamo possa parzialmente esprimere quella circolazione di discorsi che ispira l’intervento di Miller al dodicesimo seminario intitolato La sutura. La sutura Il suo esordio, riguarda la logica del significante, definita come «logica dell’origine della logica» che, come tale, non obbedisce alle «leggi» di quest’ultima15. L’allora giovane filosofo si premura di sottoline11 Jacques-Alain Miller, La suture: éléments de la logique du signifiant, «Cahiers pour l’Analyse», 1-2, 1966, pp. 39-51; tr. it. La sutura (Elementi della logica del significante), in AA.VV., Cahiers pour l’Analyse, cit., pp. 56-57. 12 Y. Duroux, Psicologia e logica, cit., p. 47. 13 Cfr. Fabrizio Palombi, Jacques Lacan, Carocci, Roma 2009, p. 128. 14 A. Castallo, Il soggetto nel linguaggio, cit., p. 267. 15 J.-A. Miller, La sutura, cit., pp. 51-52.
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are la somiglianza, solo apparente, del suo «procedimento» con quello fenomenologico dal quale si differenzierebbe per il diverso punto di partenza assunto dal fenomeno del «disconoscimento» che, nel suo caso, è costituito dalla «produzione del senso» e dalla «rimozione»16. Tale disconoscimento viene definito come «sutura» e indica la relazione «tra il soggetto e la catena del suo discorso» dove il primo compare come «l’elemento» mancante della seconda e si riferisce esplicitamente ai Fondamenti dell’aritmetica (1884) di Frege17. Il futuro genero di Lacan si concentra proprio su quello che il progetto antipsicologista del filosofo tedesco mirava ad escludere. Miller esamina la «funzione del soggetto» nella costituzione della successione dei numeri naturali che resterebbe attiva «in quanto il numero funziona come suo nome»18. Frege avrebbe bisogno d’un «cardine» per far funzionare il suo sistema che si troverebbe nella massima di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) secondo la quale «sono identiche quelle cose di cui l’una può essere sostituita all’altra […] senza che la verità venga meno»19. L’insieme individuato dal concetto di «zero» fregeano sarebbe, allora, vuoto proprio per non violare la validità del principio d’identità. Sarebbe, ancora, il «concetto della non identità a sé assegnato al numero zero, a suturare il discorso logico». È importante evidenziare soprattutto come, «nella costruzione autonoma del logico» sia stato indispensabile, per eliminare «ogni riferimento al reale, evocare al livello del concetto un oggetto non identico a sé»20. L’operazione logica fregeana serve per cucire una sorta di buco e, concettualizzando il «non concettualizzabile», per pensare la mancanza come una «cosa […], la prima non reale del pensiero»21. In questo modo, nell’estensione di tale particolarissimo concetto cade un solo oggetto, costituito dallo «zero», che può, dunque, essere contato come «uno». Questa paradossale forma di contabilità trasforma quello che, nel reale, è «soltanto un bianco» nella matrice concettuale dell’insieme 16
Ivi, p. 52. Gottlob Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch-mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Koebner, Breslau 1884; tr. it. I fondamenti dell’aritmetica. Una ricerca logico-matematica sul concetto di numero in Id., Logica e aritmetica, a cura di C. Mangione, Boringhieri, Torino 1965. 18 J.-A. Miller, La sutura, cit., pp. 53-54. 19 Ivi, p. 56. 20 Ibid. (corsivi dell’autore). 21 Ivi, p. 58. 17
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dei numeri naturali. Questi ultimi sarebbero così costituiti con una sorta di «metonimia dello zero» al fine di suturare la mancanza costituita dallo «zero assoluto» occultandolo, per così dire, «sotto» la stessa successione numerica22. Sospendiamo, per ora, le interessanti conseguenze della possibilità di assolutizzare lo zero, che abbiamo evidenziato in corsivo, e proseguiamo l’esame dell’articolo. Miller, a questo punto, considera una sorta di proporzione costituita, da un lato, dallo «zero» e dalla «successione dei numeri» e, dall’altro, dal «soggetto» e dalla «catena significante», che sarebbero caratterizzate dallo stesso tipo di «rapporto»23. Lo zero potrebbe essere, dunque, usato per indicare quella non identità del soggetto con se stesso, che viene esclusa dal reale, e per costruire la struttura linguistica caratteristica della cultura umana della quale i numeri sarebbero, insieme, espressione e «formulazione elementare»24. Miller confronta la tradizionale «definizione del segno come ciò che rappresenta qualcosa per qualcuno» con la sua riformulazione lacaniana secondo la quale «un significante rappresenta un soggetto per un altro significante»25. La definizione di Lacan mostrerebbe come «l’inserzione del soggetto nella catena» sia una forma molto particolare di «rappresentazione necessariamente correlata a un’esclusione»26. Quest’ultima indicherebbe la «sutura» della soggettività, sino a quel momento mai menzionata da Lacan27, e la sua assimilabilità allo zero come dimostra anche l’operazione fregeana che vuole prescindere da un soggetto che conta. Metafisica e logicismo L’intervento di Miller è subito oggetto di critiche appassionate tanto che Alain Badiou (1937), in un successivo articolo comparso sulla medesima rivista, sostiene che la stessa «logica del significante» potrebbe essere considerata come una forma di «metafisica dell’Essere e del suo 22
Ivi, p. 60 (corsivo nostro). Ibid. 24 Ibid. 25 Ivi, p. 62. 26 Ibid. 27 É. Roudinesco, Jacques Lacan, cit., p. 354. 23
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Pieno»28. Essa, inoltre, non potrebbe pretendere d’avvolgere l’«ordine scientifico» o di cancellare la «rottura epistemologica»29 che lo caratterizza. L’approccio di Badiou sembra, almeno qui, ancora molto vicino alla distinzione althusseriana tra ideologia e scienza costruita sulla filosofia politica e l’epistemologia francese del tempo30. Badiou usa la teoria dei metalinguaggi e il teorema d’incompletezza per sostenere che lo zero indicherebbe «non la mancanza di un termine […] ma una relazione mancante»31. La sutura non avrebbe luogo perché semplicemente non esisterebbe quel «soggetto della scienza»32 teorizzato da Lacan e Miller, ma anche, aggiungiamo noi, da Gaston Bachelard (1884-1962). Questa tesi, in contrasto con l’epistemologia bachelardiana, importante punto di riferimento di Badiou e citata anche in questo articolo, costituisce, forse, il punto di maggior criticità dell’articolo. Élisabeth Roudinesco (1944), nella sua documentatissima biografia di Lacan, ritiene che l’intervento di Miller costituisca l’inizio della radicalizzazione logicista e della sistematizzazione del discorso lacaniano rispetto alla quale lo stesso Lacan avrebbe manifestato, almeno inizialmente, una certa titubanza33. Di parere opposto lo psicoanalista Stoïan Stoïanoff-Nénoff che, ritenendo il discorso logico centrale per Lacan, ricostruisce una serie di citazioni di Frege contenute nei testi dello psicoanalista francese, antecedenti l’intervento di Miller34. Entrambi, comunque, concordano sull’importanza del testo di Miller e del dodicesimo seminario come ulteriore punto di svolta della riflessione lacaniana. Lo zero assoluto Il tema della sutura viene ripreso qualche volta da Lacan, nel corso delle seguenti sedute del dodicesimo seminario, ma la riflessione più interessante viene proposta nella lezione d’apertura del seminario 28
A. Badiou, Marca e mancanza, cit., p. 129. Ivi, p. 116 e n. 2. 30 Cfr. ivi, pp. 115, 124. 31 Ivi, p. 129. 32 Ivi, p. 130. 33 É. Roudinesco, Jacques Lacan, cit., p. 354. 34 Stoïan Stoïanoff-Nénoff, Qu’en dira-t-on? Une lecture du livre XII du «Séminaire de Jacques Lacan», L’Harmattan, Paris 1996, pp. 123-126. 29
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successivo. L’importanza di questo testo è dimostrata dalla sua prima pubblicazione, con il titolo di La scienza e la verità, come conclusione degli Scritti35. Lo psicoanalista francese riflette sul tema della scissione del soggetto che «lo strutturalismo permette di elaborare logicamente» e della sua relazione con la scienza36. Lacan approfondisce la questione sino a spingersi ad affermare che «spetta alla logica la funzione di ombelico del soggetto»37. Però, egli sostiene ambiguamente anche che «il soggetto in questione rimane […] un correlato antinomico perché la scienza risulta definita dalla non riuscita dello sforzo per suturarlo»38. Il brano, scritto nel consueto stile lacaniano, si presta almeno a una doppia interpretazione sulla quale gli studiosi si sono divisi. Infatti, da un lato, Lacan sembrerebbe allontanarsi dalle tesi di Miller perché, senza citarlo, sostiene il fallimento dell’operazione di sutura del soggetto teorizzata da quest’ultimo39. Dall’altro, lo stesso brano potrebbe anche richiamare il carattere paradossale della sutura, in quanto fondata sul concetto di contraddizione, sostenendo implicitamente la lettura milleriana di Frege40. La sutura ricompare nel sedicesimo e, soprattutto, nel ventitreesimo seminario insieme a un altro concetto milleriano. Lacan scrive che «il reale va cercato […] dal lato dello zero assoluto […]. Non c’è limite a ciò che si può immaginare come alta temperatura […]. La sola cosa che ci sia di reale è il limite in basso. È questo ciò che chiamo una cosa orientabile, e per questo motivo il reale lo è. C’è un orientamento, ma questo […] non è un senso»41. Lo psicoanalista francese sembra evocare la termodinamica, che indica un limite inferiore per la temperatura (circa -273, 15 gradi centigradi) ma non uno superiore, per “shakerarla” con la logica. Lo «zero assoluto» sembrerebbe, allora, indicare un ipotetico orientamento verso il basso per il reale anche perché questo viene, lacanianamente descritto, sempre in termini negativi come «ciò che non è», «impedimento», «inciampo» e «ostacolo insuperabile». Per35
J. Lacan, Scritti, cit., pp. 859-882. Ivi, pp. 860-861. 37 Ivi, p. 865. 38 Ibid. (corsivi nostri). 39 É. Roudinesco, Jacques Lacan, cit., p. 354. 40 S. Stoïanoff-Nénoff, Qu’en dira-t-on?, cit., p. 122. 41 Jacques Lacan, Le séminaire. Livre XXIII. Le sinthome, Seuil, Paris 2005; tr. it. Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma 2006, p. 117 (corsivi nostri). 36
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ché Lacan ci tiene a precisare la differenza tra «senso» e «orientamento»? Per rispondere bisogna ricordare che, in francese come in italiano, il termine «senso» non è solo sinonimo di «significato» ma anche di «orientamento» e di «direzione» come dimostrano le locuzioni quali «senza senso» e «insensato». Approfondendo questa analogia potremmo pensare il senso come una direzione che collega un oggetto, un evento o un soggetto ad altri poli donando loro un valore. Il senso d’un oggetto, come insegna il celebre esempio del martello in Essere e tempo42, è costituito dalla sua funzione: potremmo, allora, immaginarlo come appeso a una rete che, come una ragnatela, tiene insieme tutte le cose del mondo. Risalendo i suoi fili, dall’uno all’altro, possiamo ricostruire i loro sensi. Sino a dove? A quale telaio potrà essere fissata questa rete? Se definiamo una simile cornice come «vita», «mondo» oppure “reale” ci rendiamo conto che la nostra esistenza non può essere valutata in termini di senso se non vogliamo commettere un errore logico. Se la vita è la condizione di possibilità del senso allora possiamo riflettere solo sulla «vita del senso» ma non sul «senso della vita». Si tratta, in estrema sintesi, della nietzschiana morte di Dio che non esprime solo il dissolversi dell’orizzonte religioso ma un universale ridimensionamento dell’importanza del senso recepito anche dalla psicoanalisi lacaniana. Infatti, poche righe dopo, Lacan ribadisce che «il senso è forse l’orientamento» ma quest’ultimo «non è un senso perché esclude il fatto della copulazione fra il simbolico e l’immaginario»43. Come comprendere, allora, il valore di questo «zero assoluto» che indica un orientamento ma esclude il senso? Forse è utile richiamare un altro «zero assoluto» usato da Miller per indicare un’«assenza» che viene suturata dallo «zero numero» spostandosi sotto la «catena» significante44. Lo zero assoluto indicherebbe, allora, il reale lacaniano come assenza di senso e resistenza alla simbolizzazione, entrambe assolute.
42 Martin Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer Verlag, Tübingen 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 95. 43 J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII, cit., p. 117. 44 J.-A. Miller, La sutura, cit., p. 60.
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Edoardo Albinati è nato a Roma nel 1956. Da oltre vent’anni lavora come insegnante nel carcere di Rebibbia. Tra i suoi libri il più conosciuto è La scuola cattolica (Rizzoli, 2016); il più recente, scritto insieme a Francesca d’Aloja, è Otto giorni in Niger (Baldini+Castoldi, 2018). Antonella Anedda (Angioy) vive attualmente a Roma. Il suo ultimo libro di poesia Salva con nome ha ottenuto il Premio Viareggio 2012. Tra i saggi pubblicati: La vita dei dettagli (Donzelli, 2009) e Isolatria (Laterza, 2013). Ha tradotto poeti classici e contemporanei. Di prossima uscita per Einaudi, un volume di versi, Historiae. L’antologia Archipelago (Bloodaxe, 2014), tradotta dal poeta Jamie McKendrick ha vinto il John Florio Prize, 2016. Daniela Angelucci insegna Estetica nel Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre. Tra le sue principali pubblicazioni in volume: L’oggetto poetico (Quodlibet, 2004); Estetica e cinema (a cura di) (il Mulino, 2009); Deleuze e i concetti del cinema (Quodlibet, 2012), tradotto Deleuze and the Concepts of Cinema (Edinburgh University Press, 2014); Filosofia del cinema (Carocci, 2013). Gianfranco Baruchello vive e lavora tra Roma e Parigi. Ha utilizzato, sin dalla fine degli anni Cinquanta, media diversi: dalla pittura al cinema, dall’installazione all’activity. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei musei di tutto il mondo (Roma, New York, Washington, Filadelfia, Barcellona, Monaco, Amburgo, Londra, Parigi). Negli ultimi anni ha partecipato a Documenta (2012) e alla Biennale di Venezia (2013). Tra le mostre personali recenti, quelle a Roma (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 2011), Amburgo e Karlsruhe (Deichtorhallen e ZKM/Zentrum für Kunst und Medien, 2014), Milano (Triennale, 2015), Londra (Raven Row, 2017), Nizza (Villa Arson, 2018), Rovereto (Mart, 2018). Alessandra Campo è assegnista di ricerca in filosofia presso l’Università degli Studi dell’Aquila e membro del Centro di Psicoanalisi e Filosofia Après-
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Coup. Si occupa da diversi anni dei rapporti tra filosofia e psicoanalisi, con particolare riguardo alle implicazioni metafisiche e cosmologiche della teoria freudiano-lacaniana. Ha curato il volume L’uno perverso. L’uno senza l’altro: una perversione? (Textus, 2018) ed è autrice del saggio Tardività. Freud dopo Lacan (Mimesis, 2018). Paolo Carignani, psicoanalista della Tavistock Society of Psychotherapists. Federico Chicchi, professore associato presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia dell’Università di Bologna, insegna Sociologia economica e del lavoro e Sociologia del lavoro presso la Scuola di Scienze politiche dell’Università di Bologna. È membro del Coordinamento Nazionale dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi (ALIPSI) e fa parte delle redazioni della rivista «Lettera» e della rivista «Sociologia del lavoro». Insegna Trasformazione dei legami sociali presso l’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata – IRPA (sedi di Grottammare e Milano). Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Roberto De Gaetano è professore ordinario di Filmologia presso l’Università della Calabria. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’immagine contemporanea. Cinema e mondo presente (Marsilio, 2010), La potenza delle immagini. Il cinema, la forma e le forze (ETS, 2012), Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente (Pellegrini Editore, 2015), Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia (Rubbettino, 2017). Ha curato l’opera in tre volumi Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita (Mimesis, 2014-2016). Dirige la rivista «Fata Morgana», anche nella sua versione web. Manuela Fraire, psicoanalista, membro ordinario SPI, autrice tra l’altro di saggi sul rapporto fra femminile e materno. Federico Leoni insegna Antropologia filosofica all’Università di Verona, dove è anche coordinatore scientifico del Centro di Ricerca per la Filosofia e la Psicoanalisi. Tra i suoi libri: Habeas corpus. Sei genealogie del corpo occidentale (Bruno Mondadori, 2008); L’idiota e la lettera. Quattro saggi sul Flaubert di Sartre (Orthotes, 2013); Jacques Lacan, l’economia dell’assoluto (Orthotes, 2016). Silvia Lippi è psicoanalista a Parigi, docente IRPA e membro ALIPSI. Franco Lolli è psicoanalista membro di ALIPSI e Espace Analytique. Dirige la sede di Grottammare della scuola per la formazione in psicoterapia IRPA. È supervisore di numerosi enti pubblici e privati. Scrive sul «manifesto» ed è autore di saggi psicoanalitici.
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Stefania Napolitano, psicoterapeuta di orientamento lacaniano e dottore di ricerca in Studi di Genere, ha insegnato come docente a contratto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Ha pubblicato per Quodlibet due monografie: Dal rapporto al transfert (2010) e Clinica della differenza sessuale (2015). Philippe Nouzille è professore e decano della Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma. Si occupa in particolare di fenomenologia. Ha scritto Au-delà de soi. Révélation et phénoménologie (Hermann, 2014) e curato diversi volumi tra i quali Fenomenologia e umanesimo. L’uomo immagine irrapresentabile (Aracne, 2015) e L’animale (Aracne, 2017). Alex Pagliardini, psicoanalista, membro ALIPSI, docente IRPA, responsabile Jonas Roma. Tra i suoi libri Il sintomo di Lacan (Galaad, 2016) e Jacques Lacan e il trauma del linguaggio (Galaad, 2011). Fabrizio Palombi è professore associato presso l’Università della Calabria, docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali, direttore dell’«Inconscio. Rivista italiana di filosofia e psicoanalisi», membro della International Research Area on Foundations of the Sciences dell’Università Lateranense e dello Husserl Circle. Tra le sue pubblicazioni: Jacques Lacan (Carocci, 2009) ed Elogio dell’astrazione. Gaston Bachelard e la filosofia della matematica (Mimesis, 2017). Riccardo Panattoni insegna Etica e psicoanalisi presso l’Università di Verona, dirige il Centro di Ricerca Tiresia per la Filosofia e la Psicoanalisi presso la stessa Università. Insegna Critica e clinica presso l’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata) di Milano. Insieme a Elio Grazioli cura per Moretti & Vitali la collana «Imm’» sulla cultura visuale. Dirige con Federico Leoni per Orthotes la serie «Le parole della psicoanalisi». Tra le sue ultime pubblicazioni: Black out dell’immagine. Saggio sulla fotografia e gli anacronismi dello sguardo (Bruno Mondadori, 2013), Siamo cambiati dalle immagini. Esitazione, responsabilità, incanto (Moretti & Vitali, 2014), Giorgio Agamben. La vita che prende forma (Feltrinelli, 2018). Cesare Pietroiusti, artista, nato nel 1955, vive a Roma. Laurea in Medicina con tesi in Clinica psichiatrica (1979). Co-fondatore del Centro Studi Jartrakor di Roma (1977), e della «Rivista di Psicologia dell’Arte» (1979). Uno dei promotori dei progetti Oreste (1997-2000). Docente di Laboratorio arti visive, IUAV, Venezia (2004-2015); MFA Faculty presso LUCAD, Lesley University, Boston (2009-2016). Membro del collettivo Lu Cafausu e iniziatore della Fondazione Lac o Le Mon, San Cesario di Lecce (2015). Dal 1977 ha esposto in spazi privati e pubblici, deputati e non, in Italia e all’estero www.pensierinonfunzionali.net
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Rocco Ronchi è docente di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi dell’Aquila. Tiene corsi e seminari in varie università italiane e straniere. Insegna filosofia presso l’IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata) di Milano. Dirige la collana «Filosofia al presente» della Textus edizioni dell’Aquila e la scuola di filosofia Praxis (Forlì). Tra le sue più recenti pubblicazioni: Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli, 2012); Gilles Deleuze (Feltrinelli, 2015); Il canone minore. Verso una filosofia della natura (Feltrinelli, 2017); Bertolt Brecht (Orthotes, 2017). Carla Subrizi è professore associato di Storia dell’arte contemporanea presso La Sapienza Università di Roma. È presidente della Fondazione Baruchello. Tra le sue pubblicazioni recenti, oltre a numerosi saggi, Gianfranco Baruchello. Archive of Moving Images (Mousse Publishing, 2017), Baruchello. Certain Ideas (Electa, 2014), Azioni che cambiamo il mondo. Donne, arte e politiche dello sguardo (postmedia books, 2012), Introduzione a Duchamp (Laterza, 2008). Tra le recenti mostre da lei curate: Verifica Incerta - Documents & Souvenirs (8 rue Saint-Bon, Parigi, 2014), Duchamp Re-Made in Italy (Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 2014), Camuflajes (La Casa Encendida, Madrid, 2009). Con Franca Sinopoli e Mariella Combi dirige la rivista «Novecento Transnazionale».
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Eugenio Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo Furio Semerari (a cura di), Che cosa vale. Dell’istanza etica Stefano Besoli, Roberto Redaelli (a cura di), Emil Lask. Un secolo dopo Aldo Masullo, L’Arcisenso. Dialettica della solitudine Sebastiano Galanti Grollo, La passività del sentire. Alterità e sensibilità nel pensiero di Levinas
estetica e critica
Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’«amoroso regno» Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel Paolo D’Angelo, Il problema Croce Amelia Valtolina, Il sogno della forma Un’idea tedesca nel Novecento di Gottfried Benn Luca Serafini, Etica dell’estetica. Narcisismo dell’io e apertura agli altri nel pensiero postmoderno Mario Farina, La dissoluzione dell’estetico. Adorno e la teoria letteraria dell’arte Alfonso Musci, La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce Paolo D’angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. I: dal Settecento al Romanticismo
filosofia e politica
Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Laura Bazzicalupo, Salvo Vaccaro (a cura di), Vita, politica, contingenza Leo Strauss, Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso Marina Montanelli, Massimo Palma (a cura di), Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte Mauro Ponzi (a cura di), Marx e la crisi Rudy M. Leonelli, Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant Giulio Azzolini, Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi Giovanni Ruocco, Razze in teoria. La scienza politica di Gaetano Mosca nel discorso pubblico dell’Ottocento
filosofia e psicoanalisi
Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi
il pensiero etico e religioso
Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo
Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana Massimo Giuliani, Per un’etica della resistenza. Rileggere Primo Levi Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil Franco Nasi, Traduzioni estreme
Valentino Baldi, Il sole e la morte. Saggio sulla teoria letteraria di Francesco Orlando Antonella Ottai, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La poesia (1815-1817) Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La prosa (1816-1817) Antonio Girardi, Arnaldo Soldani e Alessandra Zangrandi (a cura di), Questo e altro. Giovanni Raboni dieci anni dopo Valentina Polci, Voce fuori coro di Dolores Prato. Trascrizione e commento dei frammenti autografi su Roma capitale d’Italia Amaranta Sbardella, Il mostro e la fanciulla. Le riscritture di Arianna e del Minotauro nel Novecento Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini Gonzalo Celorio, Saggio di Controconquista Laura Barile, Il ritmo del pensiero. Montale Sereni Zanzotto Emiliano Alessandroni, L’anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura Tommaso Giartosio, Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo Angela Albanese, Identità sotto chiave. Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del sogno e del cinema Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922)
lettere. ultracontemporanea
Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain Matteo Majorano (a cura di), La giostra dei sentimenti Giusi Alessandra Falco, La violenza inapparente nella letteratura francese dell’extrême contemporain Sylviane Coyault et Marie Thérèse Jacquet (a cura di), Les chemins de Pierre Bergounioux Matteo Majorano (a cura di), L’incoerenza creativa nella narrativa francese contemporanea
lingua, didattica, società
Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina Ilaria Tani, Lingua e legame sociale. La nozione di comunità linguistica e le sue trasformazioni
musica e spettacolo
Luca Aversano, Jacopo Pellegrini (a cura di), Mille e una Callas. Voci e studi
scienze del linguaggio
John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio Franco Lorenzi, Alejandro Marcaccio (a cura di), Testualità e metafora
scienze della cultura
Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei «Promessi Sposi» Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale Roberta Coglitore, Le vertigini della materia. Roger Caillois, la letteratura e il fantastico Daniele Balicco, Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo
scienze umane e sociali
Franco Bianco, Studi su Max Weber 1980-2002 Franco Bianco, Il giovane Dilthey. La genesi della critica storica della ragione
teoria delle arti e cultura visuale
Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo Laura Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia. 1995-1970 Alessandra Acocella, Caterina Toschi (a cura di), Arte a Firenze 1970-2015. Una città in prospettiva Luca Pietro Nicoletti, Argan e l’Einaudi. La storia dell’arte in casa editrice Carlotta Sylos Calò, Corpo a corpo. Estetica e politica nell’arte italiana degli anni Sessanta Ferdinando Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari