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Italian Pages 112 [116] Year 2013
Mauro Lenci
A destra, oltre la destra La cultura politica del neofascismo italiano, 1945-1995
Saggi e studi
Didattica e Ricerca
Lenci, Mauro A destra, oltre la destra : la cultura politica del neofascismo italiano, 1945-1995 / Mauro Lenci. - Pisa : Pisa university press, 2012. - (Saggi e studi. Didattica e ricerca) 320.5330945 (22.) 1. Neofascismo 2. Movimenti di estrema destra - Italia - 1945-1995 CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
In copertina Un frontespizio della rivista satirica della Nuova Destra: “La voce della fogna”.
© Copyright 2012 by Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 43 56126 Pisa Tel. 050 2212056 - Fax 050 2212945 [email protected] www.pisauniversitypress.it
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ISBN 978-88-6741-049-1 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, d ella legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail segreteria@ aidro.org e sito web www.aidro.org
Indice
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1. Le radici teoriche della destra radicale: Julius Evola . . . . . .
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2. La galassia ideologica del neofascismo . . . . . . . . . . . . . . .
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1. Alla ricerca di un fascismo più autentico: l’incontro con Julius Evola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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2. Pino Rauti e l’ “Ordine Nuovo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3. Clemente Graziani e la “guerra rivoluzionaria” . . . . . . . . . .
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4. Pino Rauti: dalla “guerra sovversiva” al problema del consenso
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5. Adriano Romualdi: una cultura di destra per l’Europa . . . . . .
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6. Franco Freda: la disintegrazione del sistema . . . . . . . . . . . .
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7. L’anarchismo di destra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3. Dalla destra radicale alla nuova destra . . . . . . . . . . . . . . .
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1. I nipotini di Julius Evola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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2. Una scintilla d’oltralpe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3. Julius Evola ed il “mito incapacitante” . . . . . . . . . . . . . . .
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4. Verso un “gramscismo di destra” . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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5. Uscire dal “tunnel del fascismo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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6. Il fascino dell’ambiguo ’77 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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7. Verso una completa autonomia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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4. Il pensiero politico della nuova destra italiana . . . . . . . . . .
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1. “Il nemico principale”: il liberalismo . . . . . . . . . . . . . . . . .
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2. Per una democrazia organica e libertaria . . . . . . . . . . . . . .
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Indice
3. Superare Hegel e Gentile, verso “nuove sintesi” . . . . . . . . . .
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4. La ricerca della terza via . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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5. Le contraddizioni della Nuova Destra . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Introduzione
La cultura politica del neofascismo, nell’Italia della prima repubblica, è stata sovente descritta come un deserto dal quale emergevano solo poche figure notevoli e rari eventi degni di nota. L’immagine del deserto, di una landa desolata, è stata spesso evocata proprio dall’interno di quel mondo. Un mondo ed una cultura che ormai sono stati confinati, dall’evoluzione della politica italiana sempre più ai margini del sistema. Prima, quando il Msi si è trasformato nel 1995 in AN, un partito che è stato definito come moderato e conservatore1, poi soprattutto nel momento in cui AN è andata a scomparire nel ventre molle del Pdl. Una palude che alla fine è riuscita a digerire e metabolizzare persino i residui elementi rimasti della cosiddetta “destra sociale” e dalla quale sono scampati solo pochi irriducibili. Questo libro mira a ricostruire, in estrema sintesi, la cultura politica della destra radicale dalla fine del secondo conflitto bellico sino al 1995, mettendo in risalto i contributi teorici più importanti e quegli episodi che hanno lasciato un segno tangibile nella storia neofascista. Una cultura politica, quella del neofascismo, che ha accarezzato continuamente la tentazione golpista e che ha vagheggiato improbabili soluzioni rivoluzionarie, senza rimanere insensibile alle sirene della violenza. Tutto questo nel segno di un’identità “altra” rispetto alla democrazia liberale borghese. Eppure, anche all’interno di questa destra, si è verificato un progressivo cammino di avvicinamento nei confronti del tanto odiato regime democratico. Non solo ciò è avvenuto, ovviamente, per quanto riguarda la sua componente conservatrice, la cosiddetta destra d’ordine in doppio petto, ma anche per quella che viene considerata la sua anima nazionalrivoluzionaria2, la quale ha compiuto un’accettazione strumentale della modernità dai primi anni ’70, ricalcando da questa sponda politica la “doppiezza” togliattiana e poi riscoprendo la lezione di Gramsci sull’egemonia sull’esempio della Nouvelle Droite francese. Questa fase di profondo rinnovamento ha dato P. Ignazi, Destre postindustriali, “Il Mulino”, 2000, n. 1, p. 154. R. Chiarini, La destra italiana: il paradosso di un’identità illegittima, “Trasgressioni”, 1993, n. 17, p. 114 (già in “Italia contemporanea”, 1991, n. 185).
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Introduzione
vita al movimento della Nuova Destra italiana, che ha deciso di tagliare tutti i ponti con la sua area culturale di provenienza nel momento in cui il Msi, preda di “una folgorazione sulla via di Damasco”, ha deciso di accettare valori come “il liberismo economico, l’individualismo, il liberalismo politico, l’occidentalismo, che per 48 anni il partito neofascista [aveva] avversato criticato, maledetto e deriso, magari in modo confuso e coerente, ma di tutto cuore”3. Sul panorama culturale della destra radicale certamente giganteggia una figura, quella di Julius Evola, il tradizionalista, “superfascista”, dal quale, nel bene e nel male, si sono dipartite tutte le strade, più o meno fedeli alla sua dottrina, che sono state tracciate all’interno di questa area. A lui è dedicato il primo capitolo, nel quale viene analizzato il suo pensiero politico sviluppatosi tra il 1925 ed il 1974, l’anno della sua morte. È proprio perché le idee di Evola rappresentano quasi integralmente le radici teoriche del radicalismo di destra, che abbiamo affrontato la loro formazione durante il ventennio, derogando ai limiti cronologici del volume. Nel secondo capitolo si è tentato invece di ricomporre in un quadro d’insieme autori e tematiche che hanno caratterizzato la galassia neoevoliana dal 1945 fino ai primi anni Ottanta, prendendo in considerazione personaggi come Pino Rauti, Clemente Graziani, Adriano Romualdi o Franco Freda, per arrivare sino agli esiti terroristici del cosiddetto “anarchismo di destra”. Il terzo ed il quarto capitolo hanno cercato di approfondire la conoscenza dell’episodio forse più interessante prodottosi nell’alveo del Msi, e cioè la nascita e la trasformazione di quel movimento che i mass-media hanno identificato con il termine Nuova Destra e che, secondo il suo maggiore esponente, Marco Tarchi, è durato dal 1974 al 1994, l’anno del trionfo berlusconiano, dello sdoganamento missino, e della comparsa sulla scena politica di varie tipologie di destra, che a detta degli stessi membri del movimento hanno reso definitivamente inservibile tale termine4. Il terzo capitolo, in particolare, ha voluto illuminare proprio quel difficile periodo di transizione, tra il 1968 ed il 1981, che ha portato la Nuova Destra a liberarsi dall’abbraccio soffocante del Msi, elaborando idee e con M. Tarchi, Msi: il futuro è a destra?, “Diorama Letterario”, 1993, n. 174, pp. 3-4. M. Angella, La nuova destra. Oltre il fascismo fino alle “nuove sintesi”, Firenze, Fersu Editrice, 2000, pp. 165-168. Questa lettura è stata ribadita da Tarchi nel recente, La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra, Firenze. Vallecchi, 2010, pp. 443-476.
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Introduzione
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cetti provenienti dalla parallela esperienza della nouvelle droite francese e del suo mentore Alain de Benoist. Il quarto capitolo, infine, si è concentrato sulle tesi politiche più originali espresse da questo movimento che, ormai sganciato da qualsiasi tipo di nostalgia verso il fascismo, si era lanciato verso la ricerca di “nuove sintesi”, con altri movimenti, a destra come a sinistra, purché uniti dalla medesima critica verso il liberalismo e la globalizzazione di stampo americano.
Capitolo 1
Le radici teoriche della destra radicale: Julius Evola*
Dopo la seconda guerra mondiale, ha scritto Giuseppe Parlato, sarebbe stato l’incontro con Julius Evola che avrebbe rinfoltito “il bagaglio culturale del Msi e dei movimenti della destra radicale”1. Egli infatti sarebbe diventato la vera guida ed il maestro di pensiero di molti giovani neofascisti: alcuni di questi, come ci ha raccontato Pino Rauti, lo incontrarono casualmente attraverso la lettura di suoi libri reperiti fortunosamente durante un periodo di reclusione nelle patrie prigioni2. In seguito, soprattutto tra il 1949 ed il 1950, la sua abitazione romana sarebbe diventata addirittura “la meta obbligata per molte generazioni di fascisti”3. Ma per quale motivo, nell’immaginario collettivo della destra di allora, la figura di Evola ascese ad una simile popolarità, assunse una tale importanza a discapito, per esempio, di personaggi come il filosofo Giovanni Gentile? Dino Cofrancesco ha scritto che dopo la sconfitta poteva rimanere fascista solo chi * Gran parte di questo capitolo è già apparso in un articolo dal titolo Julius Evola ed il pensiero fascista della nuova Destra, “Tempo Presente”, 1995, n. 169-170. G. Parlato, I fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 299. Secondo Marco Tarchi, Evola è stato “l’autore di gran lunga più letto e discusso dai giovani della galassia neofascista” (M. Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Parma, Guanda, 1995, p. 55). Di Tarchi vedi anche Cinquan’anni di nostalgia. La destra italian dopo il fascismo, Milano, Rizzoli,1995, pp. 91-96. 2 “ci sono stati, dunque, diecine di giovani romani di destra, per lo più studenti, per lo più reduci della RSI, che «incontrarono» Evola attraverso i suoi libri, e quei libri lessero nelle celle della prigione romana di Regina Coeli. Infatti (…), nella biblioteca di Regina Coeli, v’erano alcuni libri di Evola. Fu lì che molti di noi lo conobbero per la prima volta, tra una detenzione e l’altra”. (P. Rauti, Evola: una guida per domani, “Civiltà”, 1974, nn. 8-9, p 12). 3 N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da salò ai centri sociali di destra, Milano, Sperling & Kupfer, 2006, p. 51. 1
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avesse trovato una spiegazione convincente della disfatta e avesse messo in discussione l’apparato istituzionale del regime e tutti i compromessi a cui si era sottoposto per sopravvivere. Bisognava, cioè, che ci si staccasse dal mito del Duce e del fascismo reale e che ci si ricollegasse, invece, a un fascismo più autentico: un siffatto fascismo – continua Cofrancesco – non potendo essere (ancora) di questo mondo, doveva rinunciare a una caratteristica saliente di quello storico – il ricordato “progressismo borghese” – in virtù del quale poteva presentarsi come la terza grande rivoluzione dell’Occidente, dopo quella liberale e quella socialista […]. Ove al contrario, il fascismo fosse stato sottratto alla linearità del continuum storico che, dal cristianesimo porta all’ ’89 e al ’17, e fosse stato visto come una sorta di antimondo, come il principio della luce in lotta con quello delle tenebre, in una vicenda alterna di vittorie e sconfitte dispiegata nei secoli e destinata a riproporsi ciclicamente fino alla consumazione dei tempi, né il bunker di Berlino, né la barbarie di piazzale Loreto avrebbero potuto intaccare la fede dei “veri credenti”. I tempi erano maturi per sostituire alla lezione invecchiata di Giovanni Gentile quella tradizionalista di Julius Evola4.
Diventa quindi fondamentale, per capire in che modo sarebbe andata costituendosi la cultura della destra radicale italiana, analizzare in modo più approfondito il rapporto che era intercorso tra Evola e l’esperienza fascista globalmente intesa. Quando, nell’ottobre 1922, i fascisti marciavano su Roma, Julius Evola era un rampollo dell’aristocrazia romana che, nutrito di letture nietzscheane, si era gettato sin dal primo dopoguerra nell’agone artistico d’avanguardia dell’epoca, divenendo uno dei più attivi e fervidi sostenitori del movimento “Dada” di Tristan Tzara. Proprio in quel fatidico 1922, Evola stava vivendo un periodo di profondo travaglio: non solo aveva intenzione, come avrebbe fatto di lì a poco, di abbandonare definitivamente le sperimentazioni in campo poetico (l’anno precedente aveva già interrotto la sua esperienza in campo pittorico), ma, condizionato da esempi come quelli di Michelstaedter e di Weininger, all’età di circa ventitré anni aveva seriamente meditato il suicidio. “Questa catastrofe – racconta egli stesso – fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione che io ebbi nel leggere un
D. Cofrancesco, Le destre radicali davanti al fascismo, in P. Corsini, L. Novati (a cura di), L’eversione nera, Milano, Angeli, 1985, p. 98.
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testo del buddhismo delle origini”5. In conseguenza di questi episodi egli si sarebbe dedicato allo studio della filosofia e, parallelamente a questa, all’approfondimento dei “testi sacri” della sapienza orientale, iniziando quel cammino teorico che lo avrebbe portato nel 1934, con l’uscita di Rivolta contro il mondo moderno, a dare un definitivo assetto al suo sistema di pensiero, identificabile con il nome di “Tradizionalismo integrale”. Il vero esordio politico di Julius Evola si ebbe, però, soltanto il 1 maggio 1925, quando, sulla rivista “Lo Stato Democratico”, diretta dal duca Giovanni Colonna di Cesarò, apparve un suo scritto dal titolo Stato, potenza e libertà. Il 3 gennaio dello stesso anno Mussolini aveva tenuto alla Camera il famoso discorso sull’affare Matteotti che di fatto aveva sancito la fine del sistema liberaldemocratico e l’inizio del vero e proprio “regime fascista” realizzatosi poi praticamente con le cosiddette leggi “fascistissime”. Queste due date sono particolarmente significative perché Evola negli anni seguenti fu criticato, in certi ambienti fascisti, per non essere stato un militante ante-marcia e per aver iniziato la sua battaglia politica quando ormai il fenomeno rivoluzionario sembrava essersi assestato. Tra il 1922 e il 1925, dunque, Evola manifestò un certo disinteresse per la politica, ma questo, forse, era dovuto solamente all’esigenza di una chiarificazione interiore; in definitiva, da un’analisi dei suoi testi filosofici ed esoterici, ma anche della precedente attività artistica scopriamo, come scrive Marco Rossi, una sorprendente continuità nei contenuti spirituali essenziali; sembra che Evola abbia il “problema di trovare le coordinate semantiche, linguistiche e culturali di una struttura ideologica che possiede già chiara e precisa, nella sostanza dei primi anni Venti”6. Nel passare ad analizzare quello che è stato l’impegno politico vero e proprio di Julius Evola durante il ventennio, vorremmo anzitutto far notare come colui che si sarebbe dimostrato fino alla morte come uno dei più lucidi, coerenti e accaniti nemici della democrazia, fosse invitato a scrivere su una rivista che ne difendeva apertamente i principi. Cosi racconta Evola questo curioso episodio: Il mio primo scritto politico derivò da un invito del duca Giovanni Colonna di Cesarò, con cui ero in rapporti di cordiale amicizia, a gettar giù qualcosa per una sua rivista (…). Risposi che avrei potuto scrivere solo una demolizione J. Evola, Il cammino del cinabro (1963), Milano, Scheiwiller, 1972, p. 20. M. Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione, l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli anni Trenta, “Storia contemporanea”, XXII (1991), n. 6, p. 1056.
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della democrazia – ed egli accettò, dicendomi consistere proprio in ciò il privilegio della “libertà democratica”7.
In Stato, potenza e libertà Evola individuò e descrisse due domini distinti della politica, quello della “potenza” e quello della “violenza”: il primo andava ricondotto a un principio di legittimità superiore che si imponeva in virtù di qualità intrinseche; il secondo, invece, la “violenza”: o “forza bruta”, era “sempre qualcosa di strumentale, che non ha in sé un principio autonomo di azione”8. Da questa distinzione, come scrive Marco Rossi, “nascevano le premesse per una durissima critica al fascismo”, che veniva giudicato come un movimento sorto da circostanze contingenti e mancante di radici culturali e spirituali, arrivato al potere tramite una detestabile serie di compromessi – dimostrando una notevole abilità demagogica nell’inquadrare le masse nei fermenti postbellici. Evola descrisse il fascismo come una “ironia di rivoluzione” che doveva solamente al rispetto formale dell’ordinamento giuridico-costituzionale allora esistente la propria riuscita incontrastata. L’Evola di questo periodo, secondo Rossi, si poteva definire un “antifascista-antidemocratico”9. È indubitabile però che il barone nero, come ci ha raccontato nella sua autobiografia intellettuale Il cammino del cinabro, non avrebbe potuto “non simpatizzare contro chiunque combattesse le forze di sinistra”10 e questo nonostante la sua ferma convinzione che la vera rivoluzione avrebbe dovuto calarsi dall’alto, condotta dal sovrano stesso. In quello stesso periodo Evola fece la conoscenza di Arturo Reghini, il tramite che lo mise successivamente in contatto con René Guénon. Fu proprio allora che si rese conto della netta divaricazione esistente tra il sapere iniziatico e la filosofia moderna. Reghini inoltre era già stato protagonista di una polemica nella quale si era segnalato come il sostenitore di una visione del sacro di tipo “pagano-romana”, in contrapposizione e in netta antitesi con il cristianesimo. Forte di questi suoi ancoraggi spirituali, Evola progettò “un abbastanza chimerico tentativo di agire sulle correnti politiche e culturali del tempo” e si propose di influire in qualche modo sulla direzione che la rivoluzione fascista stava prendendo, con l’in-
J. Evola, ll cammino del cinabro, cit., p. 76. J. Evola, Stato potenza e libertà, “Lo Stato democratico”, 1925, n. 7, p. 4. 9 M. Rossi, Lo Stato democratico (1925) e l’antifascismo antidemocratico di Julius Evola, “Storia contemporanea”, XX (1989), n. 1, p. 21. 10 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 76. 7 8
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tento di agire all’interno del sistema, partecipando direttamente alla battaglia politica dalla tribuna di alcuni giornali fascisti bene in vista. Fu dunque importante a questo proposito l’incontro con Giuseppe Bottai, che era stato ufficiale di artiglieria nello stesso reggimento di Evola durante la grande guerra e che allora dirigeva la rivista “Critica Fascista”; con lui “nacque l’idea di «muovere le acque», lanciando un programma rivoluzionario che investisse il piano della visione fascista della vita fino ad affrontare il problema della compatibilità fra fascismo e cristianesimo. Bottai trovò eccitante l’idea. Così io scrissi, per la sua rivista, articoli in tal senso”11. Il 1° settembre 1926 uscì il primo articolo che, dopo aver ripreso la distinzione tra potenza e violenza, cominciò a lanciare i suoi strali contro il cristianesimo. Negli articoli seguenti ci fu un ulteriore crescendo di invettive: il cristianesimo veniva considerato essere alle origini del processo di “lenta intossicazione” dell’Occidente e dell’ “abbrutimento meccanico economico di cui l’America cominciava a darci uno splendido esempio”12. Evola vedeva il cristianesimo “in atto nel profondo di tutte quelle forme contemporanee di degenerazione sociale, come reazioni alle quali il fascismo [era] sorto”13, e dichiarò esplicitamente la totale incompatibilità tra tradizione romana e tradizione cattolica, essendo il cattolicesimo niente di più che “un compromesso con la paganità”. La restaurazione di uno Stato come “spiritualità immanente”, uno Stato quale unica e vera religione, era quello che veniva invocato, quello che si doveva raggiungere; la Chiesa, al massimo, poteva essere strumentalizzata per raggiungere questo fine. Evola aveva intenzione di dare battaglia a chi voleva “normalizzare” il fascismo, a chi contribuiva al suo imborghesimento. I suoi articoli pubblicati su “Critica Fascista”, cosi come quello apparso nel novembre del 1927 su “Vita Nova” diretta da Leandro Arpinati, scatenarono una vivace polemica sulla stampa cattolica. Persino “L’Osservatore Romano”14 si scomodò per chiedere la confutazione e la sconfessione delle tesi evoliane e Bottai non tardò a far giungere la propria. In una nota di “Critica Fascista” del gennaio 1928, un precedente articolo di Evola veniva considerato “tutto un’ eresia in ordine a quei rapporti, non di forma ma di sostanza, Ibid., pp. 7-8. J. Evola, Fascismo antifilosofico e tradizione mediterranea, “Critica fascista”, 15 giugno 1927, p. 227. 13 J. Evola, Il fascismo quale volontà d’impero e il cristianesimo, “Critica fascista”, 15 dicembre 1927, p. 463. 14 Non firmato, Spropositi e aberrazioni, “L’Osservatore Romano”, 30 dicembre 1927. 11 12
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che ogni fascista degno di questo nome sente intercorrere tra cattolicesimo e fascismo”15. La cosiddetta reazione di parte guelfa (consistente in una serie di articoli antievoliani apparsi sulla stampa cattolica, ma non solo) da una parte mise in evidenza che, come c’erano stati un comunismo cattolico e un liberalismo e una democrazia cattolici, così poteva essere pienamente legittimato un fascismo cattolico; dall’altra parte, invece, fece notare come il richiamarsi a una tradizione “pagana” comportasse di fatto il ricorso a un mero intellettualismo, a un pasticcio di varie e diverse dottrine che rischiava di riprodurre niente altro che una serie di parate grottesche, tipo quelle rispolverate dalla Rivoluzione francese. Tutto questo affannoso resuscitare i valori pagani significava, inoltre, non tenere in nessun conto il profondo cattolicesimo del popolo italiano. Certamente, come ha scritto Richard Drake16, il vero problema che assillava gli ambienti cattolici era quello di conoscere l’atteggiamento di Mussolini nei confronti delle malsane idee evoliane. Dai Taccuini mussoliniani17 raccolti da Yvon de Begnac noi abbiamo appreso come, in realtà, il duce non fosse affatto irritato dalle opinioni di Evola. Forse, però, la riposta intenzione di Mussolini, come ipotizza ancora il Drake, fu da una parte quella di ammorbidire le correnti più radicali del movimento fascista, facendole trovare di fronte al muro di parte guelfa, e dall’altra quella di spaventare i cattolici più titubanti, strumentalizzando a tal fine proprio le correnti più estremistiche del fascismo, nella speranza così di raggiungere un accordo più vantaggioso per il Concordato allora in fieri. L’esistenza di un’estrema ala destra, continua il Drake, rappresentava infatti una minaccia mortale per la Chiesa, non solo per i suoi interessi materiali ma per la stessa esistenza di un’idea di cattolicesimo. Come abbiamo accennato sopra, Bottai, nel bel mezzo di queste polemiche, piantò in asso Evola, senza dargli modo di rispondere neppure agli attacchi che la stessa rivista aveva ospitato. Il barone nero decise allora di fare da sé e dette alle stampe, per la casa editrice Atanor, Imperialismo pagano18, che uscì nella primavera del 1928 (con un’appendice polemica sugli attacchi di parte guelfa). Nel libro, oltre alle rituali accuse al cristianesimo e al cattolicesimo, si ribadiva ancora una volta il fatto che il Non firmato, Cattolicesimo e fascismo, “Critica fascista”, 1 gennaio 1928, p. 2. R. Drake, Julius Evola, Radical Fascism, and the Lateran Accords, “The Catholic Historical Review”, LXXIV, 1988, n. 3. 17 Y. de Begnac, Taccuini mussoliniani, Bologna, Il Mulino, 1990. 18 J. Evola, Imperialismo pagano (1928), Padova, AR, 1978. 15 16
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fascismo avesse messo su un corpo ma non avesse ancora un’anima. Esso era sorto dal basso, da “forze brute”, e perciò per purificarsi avrebbe dovuto creare un élite in cui rivivesse la sapienza, perché il vero “Impero” era qualcosa di trascendente. Il fascismo si trovava dunque di fronte a un bivio: o accontentarsi di un impero materiale e quindi tollerare la Chiesa, alla quale andava delegato il potere spirituale, o scegliere la strada del “vero Impero” e quindi esautorarla. Evola indicò la seconda strada: il fascismo avrebbe dovuto spezzare la coalescenza con la Chiesa Cattolica perché i vantaggi politici sarebbero stati nulli rispetto al “subdolo accaparramento delle coscienze” che il cattolicesimo stava operando tramite l’istruzione pubblica. Ma l’esortazione affinché il fascismo si spiritualizzasse e mettesse finalmente in atto il dominio completo dello Stato sulla Chiesa, non impedì a Evola di introdurre il dito in un’altra piaga: egli, in tutti gli ambienti del regime, aveva rilevato un pomposo proclamare i valori di gerarchia ai quali, viceversa, faceva riscontro un contraddittorio permanere di elementi e di valori democratici e borghesi. Il vertice dello Stato quindi, secondo lui, avrebbe dovuto sbarazzarsi “di ogni residuo del sistema elettorale rappresentativo” e non avrebbe dovuto lasciare che la cosiddetta “popolarità” influisse in qualche modo sulla condotta dei capi19. La pubblicazione del libro non sortì alcun effetto. L’appello costituito da Imperialismo pagano valse, praticamente e politicamente, come non fatto. Di certo, Mussolini non lesse il libro: qualcuno deve avergliene dato semplicemente un cenno fuggevole e tendenzioso. Si preferì mettere a tacere la cosa, per cui, in regime di stampa controllata, le poche recensioni o ripercussioni apparvero soltanto in giornali o periodici di second’ordine. Poiché il libro più o meno fu venduto, si sarebbe però potuto attendere l’adesione diretta di alcuni ambienti fascisti indipendenti: ma anche di ciò fu il caso in assai scarsa misura.
Imperialismo ebbe maggiore fortuna in Germania, dove si suppose essere il prodotto di una importante corrente “ghibellina” del fascismo e non l’opera “di una specie di capitano senza truppe”20. Questa fama si consolidò con la traduzione in tedesco nel 1933. Il Concordato con la Chiesa Cattolica fu siglato alcuni mesi più tardi ma Evola, nonostante l’insuccesso, non volle desistere dal suo perseguire questa azione di correzione del fascismo dall’interno e così, nel febbraio 19 20
Ibid., pp. 124, 29. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 81.
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del 1930, dette vita alla rivista quindicinale “La Torre”. Nel primo numero, nell’articolo intitolato Carta d’identità, si affermava che la rivista non era sorta per fare dei “soffietti” al fascismo e all’on. Mussolini ma per difendere dei principi e dei valori che sarebbero stati gli stessi sotto qualsiasi regime, cioè a dire “Impero”, “gerarchia”, “dignità guerriera”, “eroismo”; inoltre, solo “nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi – recitava testualmente l’articolo –, noi possiamo considerarci fascisti”. In un altro editoriale dal titolo Cose a posto e parole chiare, si ribadì ulteriormente il concetto che il fascismo era, in un certo senso, “troppo poco” per chi si sentiva sostenitore di un imperialismo integrale. Non valeva più la distinzione tra fascismo e antifascismo: noi potremmo essere chiamati antifascisti, ribatteva Evola, solo se questo termine significasse “superfascista”. Egli avrebbe voluto quindi “un fascismo più radicale, più intrepido, un fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura, fatto di irriducibilità a qualsiasi compromesso”. Nei numeri che seguirono furono ripresi temi già trattati precedentemente su altre riviste, come ad esempio l’anticristianesimo o la difesa dei valori “tradizionali”, ma fu dato spazio anche ad altri tipi di polemica come quando, in contrapposizione con l’on. Bottai, si criticò il “pervertimento socialistico” delle corporazioni, in quanto si voleva attribuire a queste ultime un eccessivo significato, elevandole ad un valore diverso da quello di “semplice organizzazione sociale”. Si tornò a denunciare, soprattutto, la tendenza demagogica che qua e là affiorava tra le pieghe del regime: “Tanto poco quanto l’anima deve ridursi a strumento o «espressione» del corpo, un vero capo deve essere il servitore della nazione e del popolo”. Addirittura il n. 3, che ospitava un articolo di Evola dal titolo Le razze muoiono e che si scagliava contro la campagna demografica fu sequestrato. Evola in quell’articolo si domandava se si sarebbero dovuti valutare un uomo o una razza a seconda del grado di approssimazione che questi avevano “al fecondo coniglio, allo stallone o al montone” e concludeva rilevando che all’affermazione “il numero è potenza – si dovrebbe contrapporre: la qualità è potenza. (…). Le razze occidentali muoiono demograficamente, perché già da secoli sono entrate spiritualmente in agonia”21. Alcune polemiche poi, attizzate dalla bellicosa rubrica “L’arco e la clava”, con settori della stampa fascista e con riviste quali “L’Impero”, diretta da Mario Carli, e “Antieuropa”, diretta da Asvero Gravelli, sfociarono nella rissa personale, per cui, racconta Evola, “vi fu un periodo in cui dovevo uscire, per mia difesa, con una piccola guardia 21
J. Evola, La Torre, Milano, Il falco, 1977, pp. 48, 176, 239, 122-123.
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del corpo (costituita da altri fascisti, simpatizzanti)”22. Della rivista uscirono dieci numeri, finché il suo direttore, già diffidato dalla polizia a continuare la pubblicazione e trovandosi di fronte al diniego di stampa di tutte le tipografie romane, nonché a un montante clima di ostilità, decise di abbandonare il progetto. Dopo questa esperienza Evola fu sostanzialmente messo al bando da gran parte della stampa del tempo, per cui ebbe modo di ripensare all’insuccesso di operazioni come quelle di Imperialismo pagano e de “La Torre” e trovò il tempo di dare, finalmente, un assetto definitivo al proprio bagaglio teorico. Decisi allora di sviluppare ulteriormente e di esporre da solo, in un’opera sistematica, tutte le idee sulla tradizione, sulla storia della civiltà, sulla critica al mondo moderno che ne “La Torre” avrebbe dovuto essere trattata in una forma più accessibile e nelle varie applicazioni. Cosi ebbe origine la mia opera principale: Rivolta contro il mondo moderno23.
Partito da una radicale formazione nietzscheana che gli aveva fatto abbracciare un “superomismo” esasperato, sarebbe giunto, nella metà degli anni ’30, alla dimensione del cosiddetto “non umano”, cioè “al piano di una superiore impersonalità legata al possesso di una dignità trascendente e a una funzione dall’alto”24. In quegli anni così travagliati per l’intero vecchio Continente, che avevano visto sgretolarsi sotto i colpi dell’immane tragedia bellica gli imperi dell’Europa centrale e che avevano assistito a una serie infinita di sobillazioni e rivolte sulle quali si stendeva la lunga ombra della minaccia bolscevica, Evola, forse percependo la crisi mortale che attanagliava il principio di legittimità aristocratico e monarchico, approdò al fondamentale concetto di “Tradizione”. Il mondo moderno, lo spirito del quale gli sembrava essere predominante nell’epoca in cui stava vivendo, e il mondo tradizionale, che si poneva in netta antitesi al primo, gli apparvero come due “categorie aprioriche [sic!] della civiltà”. La storia, come avrebbe ribadito in un’opera successiva, era caratterizzata da un irrisolvibile dualismo che vedeva impegnate in un’eterna lotta “le forze del cosmo contro le forze del caos, alle prime corrispondendo tutto ciò che è forma, ordine, legge, tradizione in senso superiore, gerarchia spirituale, e alle seconde legandosi J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 101. Ibid., p. 102. Id., Rivolta contro il mondo moderno (1934), Roma, Mediterranee, 1984. 24 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 91-92. 22 23
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ogni influenza che disgreghi, sovverta, degradi, promuova il prevalere dell’inferiore sul superiore, della materia sullo spirito, della quantità sulla qualità”25. Condizionato dai testi sacri delle culture indoeuropee e da Esiodo, Evola credeva che l’umanità fosse avviata in un ineluttabile cammino verso la decadenza, seppur inserito nell’ambito di una forma ciclica di morte e rinascita: il mito dell’eterno ritorno. La “Tradizione” era dunque “una forza generale ordinatrice in funzione di principi aventi il crisma di una superiore legittimità”26, una tradizione con la T maiuscola, che andava al di là di quelle esistenti, si chiamassero esse cattolica, islamica o altro. Era una verità sacra; sacri, quindi, erano tutti gli aspetti della vita correlati con essa, la religione come la scienza, la sessualità come l’agricoltura, e sacra, a maggior ragione, era anche l’arte che serviva a ben amministrare la città: la politica. La sacralità della politica richiamava alla mente il concetto di “gerarchia”, ovvero, letteralmente, “la sovranità del sacro”: se esisteva una “Tradizione” come verità eterna e immutabile, erano necessari uomini che, data la loro superiorità naturale, potessero avvicinarsi ad essa, approssimarvisi magari tramite un’iniziazione che ne mutasse lo stato “ontologico” e li facesse partecipi dell’ “essere”, uomini che potessero custodire questa Tradizione, conservarla e tramandarla, e dunque creare una “gerarchia” nella società. In che forma politica poteva concretizzarsi il predominio di chi era destinato a comandare? E quale struttura sociale avrebbe permesso di ordinare per gradi la naturale disuguaglianza tra gli uomini? Non poteva che essere il sistema delle caste, a tal punto che Evola portò come esempio proprio l’antico sistema indo-ario, al vertice del quale stava il Rex o Pontifex, il “facitore di ponti”, tra naturale e sovrannaturale27. Allora, per capire a fondo l’idea politica di Julius Evola, è necessario calarsi in un mondo unto di sacralità, dove ogni momento dell’esistenza quotidiana acquisti un carattere “organico”, scevro da qualsiasi dissidio o critica radicale, un mondo in cui ogni infrazione contro la legge presenti il carattere del sacrilegio, “un atto che pregiudicava lo stesso destino spirituale del colpevole e di coloro con cui egli era socialmente legato”28. Per J. Evola, Gli uomini e le rovine (1953), Roma, Volpe, 1972, p. 187. Ibid., p. 19. 27 È curioso ricordare come Ugoberto Alfassio Grimaldi di Bellino, in margine ad una polemica sulla questione della razza che analizzeremo più avanti, affibbiasse ironicamente alla posizione di Evola l’etichetta di “fascismo indù”, mutuando un’espressione di marca goliardica. 28 J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 41. 25 26
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queste idee egli ammise apertamente il debito nei confronti del pensatore francese del XIX secolo Fustel de Coulanges, l’autore de La città antica29. Evola, pur credendo fermamente nel mito dell’eterno ritorno e nella tradizione, in Rivolta contro il mondo moderno non si esimeva però dal ricercare le cause della decadenza contemporanea, cercando di scoprire in cosa consistesse lo spirito della modernità e dove e perché esso nascesse: proprio l’individualismo, quale “negazione di ogni principio superiore all’in dividualità”30, come già aveva sostenuto anche René Guénon, era alla radice dei mali della nostra società. Ma dove e quando nel nostro passato questo aveva preso forma e consistenza? I due pensatori erano concordi nel collocare la sua origine in quella crisi che aveva attraversato varie culture tradizionali tra l’VIII e il VI secolo a.C. ed entrambi si trovavano d’accordo nel riconoscere la culla di questa perversione proprio nell’antica Grecia, con la nascita del pensiero filosofico e dell’indagine fisica. “A tale riguardo – scriveva Evola – non [avvenne] nessuna reazione tradizionale notevole; si [ebbe] invece un processo regolare di sviluppo, associato a quello di una critica laica e antitradizionale, che equivalse al diffondersi di un cancro nel corpo di quel che la Grecia aveva ancora di sano e di antisecolare”31. La sostituzione con la filosofia della sapienza, intesa come scienza della realtà metafisica, il prevalere del concetto di logos rispetto a quello di mithos, cioè la decisa affermazione del pensiero razionale, la genesi dello spirito critico rispetto d predominio della fede incondizionata, in pratica tutto ciò che Karl Popper avrebbe considerato come base della civilizzazione occidentale, era ritenuto deleterio e condannabile senza appello32. L’individualismo aveva modificato sostanzialmente, senza negarlo, persino l’aspetto religioso, lo stesso concetto di sacralità, staccandolo definitivamente dalla sua immanenza terrena. Proprio tra l’VIII e il VI secolo a.C. si era consumata la sconfitta militare del popolo d’Israele e la sua sottomissione agli assiro-babilonesi. A causa di questo evento storico, nell’ambito della società ebraica venne ad acquistare sempre più potere la casta dei sacerdoti: Javeh, il Dio dei giudei, non era più il primo condottiero alla testa degli eserciti vittoriosi ma, come aveva scritto Nietzsche, “uno strumento nelle mani di agitatori sacerdotali” che interpretavano “ogni N.D. Fustel de Coulanges, La città antica (1864), Firenze, Sansoni, 1972. R. Guénon, La crisi del mondo moderno (1927), Roma, Mediterranee, 1972, p. 83. 31 J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 319. 32 K. Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945), Roma, Armando, 1973, vol. I, pp. 248-263. 29
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buona ventura come premio, ogni calamità come castigo per una disubbidienza a Dio”33. Gli ebrei avevano pensato allora che il Signore tornasse ad assistere il loro popolo, ma non avvenne nulla del genere e la fede profetica si sarebbe sfaldata nel mito apocalittico-messianico. Evola individuò appunto nell’attesa di un regno che non era di questo mondo, una frattura della “sintesi armoniosa tra spiritualità e politicità, di regalità e sacerdotalità che il mondo antico conosceva”34, frattura che avrebbe caratterizzato il nascente cristianesimo, diretta filiazione della religione ebraica. Abbiamo visto come già in Imperialismo pagano il cristianesimo venisse visto alla radice del male che aveva corrotto l’Occidente. Era stato proprio il cristianesimo a introdurre per primo una weltanschauung ugualitaria, considerando tutti gli uomini come aventi la medesima dignità, quali figli dello stesso Dio; fu, infatti, nelle prime comunità cristiane che Evola individuò, seguendo Nietzsche, il germe della futura società democratica euro-americana. Nel mondo tradizionale la differenza tra gli uomini veniva assunta sul piano ontologico. La conoscenza della “verità”, delle due fondamentali “nature” dell’uomo, implicava l’esistenza di un doppio destino nell’ambito della vita terrena; l’aspirazione all’immortalità dell’anima, ovvero all’immortalità tout court, era un privilegio che non era concesso a tutti. Era la figura di Ercole che rappresentava l’ideale di Evola: l’eroe semidio che dopo una serie di prove simboliche raggiunge l’Olimpo delle divinità; Ercole incarnava quell’eroismo che andava “vissuto come atto sacrificale, come via che, secondo l’azione (come l’ascesi secondo la contemplazione) mira a condurre il centro dell’essere nella realtà metafisica”35, personificava quella “concezione guerriera” della vita, che doveva fungere da modello ad una vera “società di uomini”. Questi valori etico-politici, nella storia dell’Occidente si sarebbero collocati sempre in netta antitesi con la morale cristiana, in qualunque epoca essi avessero assunto nuova vitalità: stridente era stato il contrasto del primo cristianesimo con il carattere della “romanità originaria”, ma anche nel Medioevo, tra i confini dello stesso cattolicesimo, insanabile sarebbe diventato lo scontro tra la morale cristiana e l’ethos cavalleresco, rappresentato dall’epopea dei Templari, nel tentativo di accostamento che ne fu compiuto tramite il mistero del Sacro Graal. Dall’esperienza de “La Torre” fino alla realizzazione di quella storia e F. Nietzsche, L’anticristo (1888), Milano, Adelphi, 1977, p. 31. J. Evola, Imperialismo pagano, cit., p. 22. 35 J. Evola, La Torre, cit., p. 112. 33 34
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morfologia della civiltà, che è Rivolta contro il mondo moderno, Evola, oltre che dedicarsi alla sua principale opera, ebbe modo di riflettere ampiamente sul proprio ruolo all’interno della “rivoluzione fascista”. Le polemiche e gli insuccessi passati gli avevano fatto capire che per agire con un minimo di incidenza bisognava comunque conquistarsi “una qualche base all’interno della cittadella”36. Questa condizione necessaria divenne realtà grazie all’incontro con Giovanni Preziosi, il quale aveva notato “La Torre” e, sulla figura da gangsters e da profittatori del regime di coloro che ci avevano attaccati, era perfettamente in chiaro. Egli mi offrì di collaborare a “La vita italiana” e successivamente mi mise in contatto con Farinacci. Meraviglia delle meraviglie, io in lui trovai un “santo protettore”37.
Giovanni Preziosi, oltre ad essere un fascista ante-marcia, in quegli anni si era messo in luce per una profonda avversione nei confronti della massoneria, che risaliva alla sua formazione giovanile, e si era distinto per una campagna stampa, condotta proprio dalle pagine de “La vita italiana”, contro l’eccessiva tolleranza e deferenza che il regime mostrava con gli intellettuali antifascisti. Con la trasformazione della sua rivista a pubblicazione mensile di “Regime fascista”, quotidiano di Cremona, Roberto Farinacci, il direttore del giornale, come nota Renzo De Felice, “si assumeva esplicitamente la protezione di Preziosi”38. Fu dunque Preziosi ad introdurre Evola alla conoscenza di Farinacci, il “moralizzatore del fascismo e il vessillifero della lotta del fascismo autentico contro lo pseu dofascismo”39. Farinacci gli fece allora la proposta di far uscire sul proprio giornale, sotto la responsabilità dello stesso Evola, una pagina speciale intitolata “Diorama filosofico (problemi dello spirito e dell’etica fascista)”. Evola accettò e l’esperienza di “Diorama” si prolungò dal 1934 fino al 1943, valendosi dell’aiuto di numerosi collaboratori italiani e stranieri, fra i quali ricordiamo R. Guénon, G. De Giorgio, R. Pavese, P. Valery, O. Spann e altri, e toccando i più vari e diversi argomenti. Secondo Marco Tarchi, l’obiettivo ultimo di “Diorama” fu quello di “fornire in ogni campo della
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 102. Ibid., p. 103. 38 R. De Felice, Intellettuali di fronte al fascismo, Roma, Bonacci, 1975, p. 188. 39 R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 131-132. 36 37
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civiltà l’alternativa alla weltanschauung democratica”40. Si cercò di raccogliere una corrente attorno alla rivista ma, come racconta Evola, “la risonanza fu minima e continuamente incontrai delle difficoltà nel raccogliere un materiale sufficiente adatto”41. La collaborazione di Evola con Preziosi e Farinacci non venne mai meno sino al 25 aprile 1945 e sostanzialmente, nonostante le notevoli differenze, possiamo dire che entrambi furono accomunati nella lotta per tentare di evitare qualsiasi “normalizzazione” del fascismo, per cercare di combattere lo “spirito borghese” ovunque questo si annidasse. In questo modo, per esempio, si può spiegare la lotta comune intrapresa contro la massoneria o contro l’istituzione della Camera delle corporazioni, così come quella contro gli intellettuali antifascisti ma anche, e a maggior ragione, contro la corruzione dei vari ras e gerarchi fascisti. Dove, d’altro canto, se non tra le maglie della mastodontica struttura burocratica poteva riacquistare forza e potere la borghesia? Era il pesante centralismo burocratico, caratterizzato da estrema inefficienza e venalità, secondo Drake42, che per Evola stava causando i più seri danni al fascismo. La burocrazia, infatti, assommava i peggiori difetti dello spirito borghese e il fascismo era ben lungi dall’aver “sburocratizzato” l’Italia; anzi, la burocrazia si era rafforzata in alcune istituzioni rivoluzionarie. Il burocrate, che avrebbe dovuto percepire la sua funzione come quella di una “milizia”, che avrebbe dovuto esser “neutro” senza “cercare in nessun modo di rendersi indipendente, di assicurarsi un’autorità propriamente politica, di esercitare influenze sia di persone, sia di ceto, sia di combriccole”, in realtà non faceva altro che dimostrare le “virtù” più tipiche della borghesia: “il vantaggio personale diviene il suo interesse predominante, in funzione del quale egli cerca di trarre tutto il profitto possibile sia dalla carica che copre e dalla autorità di cui è investito”. E questo senza assumersi alcuna responsabilità, se non quella riguardante la propria ristretta competenza amministrativa. Per Evola dunque si aveva a che fare con una specie di “feudalesimo burocratico”, che stava scavando un fossato invalicabile tra lo Stato e le altre forze nazionali. La causa di tutto risiedeva nel fatto che la classe borghese era malata di “trasformismo” e “conformismo” e la rivoluzione fascista sembrava non averla neppure scalfita. Que M. Tarchi, Evola e il fenomeno storico del fascismo, in J. Evola, Diorama filosofico, Roma, Ed. Europa, 1974, p. xlvii. 41 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 104. 42 R. Drake, Julius Evola and the ideological origins of the radical right in contemporary Italy, in P. Merkl (a cura di), Political violence and terror, Berkley, UCLA Press, 1986. 40
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sto era il nocciolo della questione: il fascismo non aveva formulato una coerente dottrina dello Stato a cui attenersi senza compromessi, non aveva stabilito una serie di principi irrinunciabili che informassero radicalmente tutta la società. “La rivoluzione delle camicie nere – scriveva Evola – aveva vinto solo nella classe politica che sta al centro del nuovo Stato, (…) tutt’intorno sta la sostanza opaca e diatermica della burocrazia (…), a ostruire e separare”43. In un altro articolo sullo stesso problema, Neutralizzazione o dignificazione della burocrazia, pubblicato nell’ottobre 1941 su “La vita italiana”, Evola espresse il suo forte pessimismo sull’eventuale esito positivo di una mutazione antropologica provocata dal fascismo stesso nell’uomo italiano. Egli avrebbe anticipato un tema che, dopo la seconda guerra mondiale, sarebbe ricorso molto spesso nei suoi scritti dedicati all’argomento e cioè che non era stato il fascismo a rovinare gli italiani ma, piuttosto che, si poteva dire esattamente il contrario, dato che l’Italia non era stata in grado di “fornire una materia umana adatta e degna”. Nell’articolo in questione infatti pur auspicando un “ideale tradizionale della burocrazia, identica ad una specie di ordine lealistico”, ci si rendeva conto che la sua effettiva realizzazione restava condizionata da un grave problema, “da quello della sostanza umana, il che vale[va] a dire dalla misura in cui l’etica della rivoluzione [avrebbe destato] a vita un uomo effettivamente nuovo, incapace di compromessi e di transazioni rispetto a tutto quel che intorno a lui tradi[va] una diversa razza inte riore”44. Evola credeva davvero che, attraverso un lavoro di diverse generazioni su un determinato tipo di materiale umano informato ai principi della “Tradizione”, si potesse giungere a una modificazione razziale di tipo interiore. Egli partecipò attivamente alle polemiche sul razzismo che si accentuarono specialmente dopo la pubblicazione del Manifesto della razza nel 1938, manifesto che, dopo la guerra, egli definì un documento abborracciato che, con l’identificazione di razza e nazione, svuotava e democratizzava l’idea di razza. Un suo saggio dal titolo Razza e cultura era già apparso nel 1934 su “Rassegna italiana” e fu notato dallo stesso Mussolini, che comunicò il suo consenso alla redazione della rivista. Nel 1937 Evola pub-
43 Arthos (pseudonimo di J. Evola), Settori da battere: la burocrazia “non neutra”, “La vita italiana”, XXIX (1941), n. 335, pp. 135-137. 44 Arthos (pseudonimo di J. Evola), Neutralizzazione o dignificazione della burocrazia?, XXIX (1941), n. 343, p. 366.
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blicò il libro Il mito del sangue45, una rassegna delle principali teorie razziste dal romanticismo al nazismo, ma fu nel 1941, con l’uscita di Sintesi di dottrina della razza46, che ricevette una convocazione ufficiale da parte del Duce, il quale, nell’occasione, elogiò il libro “persino al di sopra del suo reale valore”, dicendo all’autore che “proprio di una dottrina del genere egli aveva bisogno”47. Come ha notato poi De Felice, sulla copia personale di Mussolini furono rinvenute numerose e significative sottolineature di suo pugno, che non facevano altro che confermare come il Duce intendesse razza e razzismo “in maniera del tutto diversa dai razzisti, in una maniera «creativa» e «spiritualistica», che nulla. aveva a che vedere con l’antropologia e la biologia”48. Evola, che Mussolini considerava il profeta di Spengler in Italia; sembrò dunque, a un certo momento, fornire al capo del fascismo un’adeguata teoria razziale, tanto è vero che, si parlò addirittura, per l’edizione tedesca, di intitolare il libro “Sintesi di dottrina fascista della razza”. Ma, come sappiamo, l’opposizione dei razzisti “ortodossi” fece fallire questo progetto, così come quello di dare vita ad una rivista dal titolo “Sangue e Spirito”. Fedele agli insegnamenti delle antiche tradizioni (quella ellenica di soma, psiche e nous, quella romana di mens, anima e corpus, quella indoaria di sthula, linga e karanacarira), Evola aveva proposto una tripartizione tra razza del corpo, razza dell’anima e razza dello spirito. Partendo dalla constatazione che, allo stato attuale delle cose, era estremamente difficile valutare in ogni popolo la componente precisa di una determinata razza biologica, dato il profondo rimescolamento etnico che si era verificato nel corso della storia, egli rifiutò qualsiasi approccio che fosse di tipo esclusivamente genetico. Bisognava perciò riferirsi a una realtà interiore che, a sua volta, era suddivisibile tra anima e spirito. In effetti, continuava il barone nero la razza dell’anima corrisponde alla forma del carattere, allo stile collettivo ed ereditario del comportamento di ciascuno di fronte al mondo esterno e ai propri simili. Si resta pertanto nel mondo “temporale”: storico, sensibile, sociale (…). La “razza dello spirito” è una cosa diversa, perché riguarda la forma non più dell’atteggiamento rispetto al mondo sensibile, storico e sociale, J. Evola, Il mito del sangue (1937), Padova, AR, 1978. J. Evola, Sintesi di dottrina della razza (1941), Padova, AR, 1977. 47 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 155. 48 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (1961), Torino, Einaudi, 1988, p. 256. 45 46
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ma dell’atteggiamento di fronte al mondo divino e sovrasensibile: il punto di riferimento non è più la vita, ma quel che sta di là dalla vita49.
Questo suo credere che un principio superiore potesse agire sulla “sostanza etnica”, questo suo rifiutare ogni fondamento biologico, lo fece avversare il razzismo tedesco e combatterne gli errori e le derivazioni più rozze, “tanto da tirarsi addosso, come scrive De Felice, gli attacchi e il sarcasmo dei vari Landra”, che lo accusarono di schierarsi contro la scienza per un “nebuloso” spiritualismo50. Così confessava Evola ne Il cammino del cinabro: “non occorre nemmeno accennare che né io, né i miei amici in Germania sapevamo degli eccessi nazisti contro gli ebrei e che, se ne avessimo saputo, in alcun modo avremmo potuto approvarli”51. Per Evola dunque i1 razzismo non esprimeva altro che un’istanza antiugualitaria e antirazionale che si opponeva all’illuminismo e al cosiddetto postulato formulante l’unità del genere umano ma, nello stesso tempo, egli respingeva qualsiasi eventuale implicazione di carattere relativista: la differenziazione della natura umana, infatti, per lui “non conduceva necessariamente ad un atomismo di gruppi umani chiusi ognuno in sé e al disconoscimento di ogni principio sopraelevato”52. Già in seguito alla pubblicazione di Sintesi di dottrina della razza, Ugoberto Alfassio Grimaldi di Bellino nel febbraio del 1942, dalle pagine di “Civiltà fascista”, mise in luce e criticò questa contraddizione di fondo insita nel razzismo evoliano. Egli mise in risalto come la cosiddetta “razza dello spirito” divenisse “una categoria trascendente, di forma apriorica [sic!], in sé universale e superetnica”, e finisse per negare lo stesso concetto classico di razza, giungendo, paradossalmente, “ad una singolare forma di antirazzismo”. Grimaldi infatti si chiedeva: “che valore assoluto ha una discriminazione di razze se gli ariani possono decadere e i semiti e i cinesi possono aver portato – e quindi portare nei futuro – valori ari”53. De Felice non pensava che la teoria spiritualistica della razza fosse accettabile,
49 J. Evola, Sul problema della razza dello spirito, “La vita italiana”, XXX (1942), n. 347, pp. 155-156. 50 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 392. 51 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 159. 52 Ibid., p. 152. 53 U.A. Grimaldi di Bellino, recensione a J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, “Civiltà fascista”, IX (1942), n. 4, p. 257.
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essa aveva però almeno il pregio di non disconoscere del tutto certi valori, di respingere le aberrazioni tedesche e alla tedesca e di cercar di mantenere il razzismo (che, indubbiamente, da Boulainvilliers a De Gobineau e Renan, da Herder e Kant a Nietzsche, da Fichte a Vacher de Lapouge ha avuto un suo, pur discutibile e torbido, significato culturale ed etico, oltre che politico) sul terreno di una problematica culturale degna di questo nome54.
Evola continuò la sua battaglia politica anche durante il periodo bellico, distinguendosi come uno dei fautori di una più stretta alleanza con la Germania, fino a che, con il rovesciamento di Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, il regime che aveva governato l’Italia per più d’un ventennio, sembrò disintegrarsi in un attimo. Quello che era accaduto il 25 luglio, con le sue inevitabili conseguenze, fu la conferma delle spietate critiche che Evola aveva rivolto al mastodontico apparato statale del fascismo e la riprova dell’inconsistenza della “sostanza umana” del popolo italiano. Evola si stupì della “mancanza di qualsiasi reazione dopo il tradimento” e dell’ “assoluta inerzia dei massimi esponenti del regime e della stessa milizia”55. Nell’agosto 1943 egli fu invitato in Germania per tenere dei colloqui sulla situazione italiana e là incontrò Giovanni Preziosi, che già da tempo stava preannunciando ai nazisti l’imminente voltafaccia badogliano. In quell’occasione Evola ribadì la propria opinione e cioè che la guerra doveva essere continuata sino in fondo, anche se questo avesse dovuto significare “un battersi su posizioni perdute, non essendovi altra alternativa dinanzi all’inaudita pretesa alleata dell’ inconditional surrender già dichiarata apertamente”. L’8 settembre sorprese, dunque, Evola e Preziosi in Germania. Entrambi furono trasferiti a Rastenburg, il quartier generale di Hitler nella Prussia orientale e là, insieme a Farinacci e ad altri esponenti del fascismo, il 14 settembre 1943 ricevettero Mussolini, che era stato appena liberato da Otto Skorzeny dalla prigionia di Campo Imperatore. Il mattino seguente il Duce fece proclamare per radio la costituzione della Repubblica di Salò. Per Evola ciò rappresentò una svolta negativa, perché non solo non andava coinvolta nel rivolgimento totale un’istituzione come la monarchia, a causa delle manchevolezze di una persona fisica come il Re, ma, non di meno, egli non poteva “non nutrire delle riserve circa l’aspetto soltanto politico, repubblicano. e «sociale» di esso”. Egli aderì, 54 55
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 392-393. J. Evola, Diario 1943-1944 (1975), Scandiano, S,E.A.R., 1989, p. 15.
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comunque, al lato militare, combattentistico e legionario del fascismo di Salò, stimando molto il fatto che centinaia di migliaia di italiani continuarono a mantenersi fedeli all’alleato e a continuare la guerra pur sapendo di combattere su posizioni perdute. Alcuni giorni dopo la proclamazione della Repubblica di Salò, Evola partì per Roma, occupata dai tedeschi, dove, insieme ad elementi di spicco del precedente regime, cercò di riorganizzare le basi per un futuro partito di “pura destra”, che sopravvivesse alla guerra e mantenesse una sostanziale continuità con i principi espressi dallo Stato fascista. “Si scelse la denominazione di «Movimento per la Rinascita d’Italia». Si formulò un programma che fu stampato e diffuso in un opuscoletto”56. Entrati, però, gli alleati nella capitale, Evola dovette attraversare le linee nemiche e fortunosamente raggiungere la retroguardia dell’esercito germanico in ritirata. Gli ultimi mesi di guerra lo videro vivere e lavorare per le SS a Vienna. Qui rimase gravemente ferito sotto un bombardamento e perse per sempre l’uso degli arti inferiori. L’ultima attività di Evola sul suolo italiano, prima dell’incidente viennese, si sarebbe ricollegata quindi al principale obiettivo politico della sua azione postbellica e cioè ricercare quegli uomini che erano riusciti a rimanere in piedi tra le rovine della guerra e del “mondo tradizionale”, per stabilire una nuova solidarietà al di là delle opposizioni precedenti e determinare, cosi, i “quadri potenziali di un ordine nuovo”. Egli avrebbe scritto per loro nel 1953 il “testo sacro” della destra radicale, Gli uomini e le rovine. In quel testo il barone nero vedeva nel liberalismo, nella democrazia e nel socialismo i panni attuali dei mortali nemici della Tradizione, e come aveva già scritto in un saggio del 1929, indicava nell’America e nella Russia i veri avamposti della modernità che ne issavano in alto i vessilli. L’Europa risultava inesorabilmente schiacciata tra queste due masse, ed il prevalere delle due potenze poteva ascriversi alla suprema importanza che ormai avevano assunto la “civilizzazione tecnica” e la “demonia dell’economia”. Gli unici valori che erano rimasti in campo riguardavano ormai solo il progresso ed il benessere materiale, e la smania produttivistica era arrivata a tal punto da sembrare un vero e proprio “morso della tarantola”. Di contro al prevalere dell’economico si metteva in luce la differente dignità della “sfera politica, caratterizzata da valori gerarchici eroici e ideali, antiedonistici e in una certa misura anche antieudemonistici che la stacca[va]no dall’ordine della esistenza naturalistica 56
Ibid., pp. 26, 41-42.
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e vegetativa; i veri fini politici [erano] fini in gran parte autonomi (non derivati), essi si lega[va]no a ideali e interessi diversi da quelli dell’esistenza pacifica, della pura economia, del benessere fisico; essi rimanda[va]no ad una dimensione superiore della vita a un ordine distinto di dignità57.
Nell’attacco alla tradizione europea due erano le strade che venivano seguite: da una parte vi era l’attacco operato da una società di tipo americano, la quale tendeva alla conquista in un modo più subdolo, insinuandosi nella mentalità della gente; si assisteva cioè alla somministrazione graduale di quello che veniva definito come un “totalitarismo dolce”. Il crescente diffondersi del consumismo, la costante standardizzazione dei gusti e delle opinioni-prodotto di un conformismo strisciante – ne fungevano da veicolo principale. Dall’altra vi era l’avvento dell’ “uomo collettivo e meccanizzato”, la frantumazione della vecchia società da parte del comunismo con un’azione violenta, attuata dall’esterno, con lo scopo di ricomporre una nuova sintesi armonica, ma che rimaneva comunque artificiosa. Nel tentativo di annientare la vera Europa, appariva forse l’americanismo come il veleno maggiormente temibile, perchè “agi[va] in modo più sottile e le trasformazioni avven[ivano] insensibilmente sul piano del costume e della visione generale della vita”, mentre viceversa all’attacco “nella forma diretta e nuda propria all’ideologia bolscevica e allo stalinismo, delle reazioni ancora si ridesta[va]no, certe linee di resistenza, seppure labili, po[tevano] essere mantenute”. Di fronte al pericolo rosso, ecco che per incanto si ridestavano forze che oramai sembravano definitivamente sopite, perchè per Evola, in definitiva, pur essendo la prospettiva di un mondo “americanomorfo” come la meno desiderabile in assoluto, se si era costretti, alla fine, ad una scelta di campo ben precisa, pare che non esistesse dubbio alcuno: di fronte al nostro radicalismo, in particolare, appare irrilevante l’antitesi fra “oriente” rosso ed “occidente” democratico, epperò tragicamente irrilevante ci appare anche un conflitto armato tra questi due blocchi. A guardar solo all’immediato, sussiste di certo la scelta del male minore perchè la vittoria militare dell’ “oriente” implicherebbe la distruzione fisica immediata degli ultimi esponenti della resistenza58.
Era dunque l’Unione Sovietica che personificava il volto del totalitari57 58
J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., pp. 128, 45, 32. J. Evola, Orientamenti (1950), Roma, Settimo Sigillo, 1984, pp. 29-31.
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smo moderno più spietato; cioè quello spauracchio sempre presente, il rischio quasi inevitabile a cui era sottoposto chi, in una società caratterizzata dal più sfrenato atomismo, tentasse di ricostituire politicamente una originaria unità organica. Stato organico contro stato totalitario questa era la distinzione che veniva costantemente sottolineata: il totalitarismo non rappresenta che l’immagine contraffatta dell’ideale organico. È un sistema in cui l’unità è imposta dall’esterno, non in base alla forza intrinseca di una idea comune e di una autorità naturalmente riconosciuta ma per mezzo di forme dirette di intervento e di controllo esercitate da un potere puramente, materialisticamente politico, affermatesi come l’estrema ragione del sistema.
Questo era l’errore del socialismo, come nello stesso tempo lo era stato per il nazionalismo e per il fascismo; nei riguardi di questi ultimi, però, l’atteggiamento di Evola, come abbiamo visto per quanto riguarda il fascismo, andava considerato anche da una angolazione per certi versi positiva. Il nazionalismo, infatti, se pure lo si fosse ritenuto indissolubilmente legato ai principi dell’89 o, comunque, pervaso da una storia patria letta in chiave antitradizionale, conservava però un certo pregio per il fatto di promuovere l’idea di “nazione”, rappresentante sempre un di più, rispetto alla corrispettiva e generica idea di “umanità” ed inoltre poteva “anche servire di base per una riascesa (sic!) e valere come una prima reazione contro la dissoluzione internazionalistica”. Il nazionalismo inoltre affermava “un principio di differenza”, che andava integrato con “una articolazione e una gerarchia all’interno di ogni singolo popolo”59. All’indomani della seconda guerra mondiale e della caduta del fascismo l’interrogativo del “che fare?” avrebbe assunto ulteriori tinture di pessimismo perché era venuto a mancare nella società un qualsiasi appiglio esterno al concetto di “sacralità”. Qual era allora l’azione politica che avrebbe dovuto essere messa in campo? In Italia mancavano riferimenti storici vicini a cui rifarsi e che, a loro volta, si rifacessero a dei principi tradizionali. Evola perciò avrebbe santificato il proprio impegno intellettuale nel tentativo di creare una “società di uomini”, la quale per vera “patria” avesse l’ “idea”; un “ordine” che divenisse la reale sostanza del nuovo stato, un’ élite portatrice di una nuova sovranità, il cui simbolo, pur rimanendo piuttosto vago, non doveva distogliere dalla silenziosa prepa-
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J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., pp. 67-68, 204.
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razione dell’ambiente spirituale. La “visione del mondo” avrebbe dovuto fungere da frontiera nell’anima dell’ “uomo nuovo”: ciò che noi chiamiamo “visione del mondo” non si basa sui libri; è una forma interna che può essere più precisa in una persona senza una particolare cultura che non in un’intellettuale e in uno scrittore. Si deve ascrivere tra i nefasti della “libera cultura” alla portata di tutti il fatto che il singolo sia lasciato aperto ad influssi di ogni genere anche quando è tale da non poter essere attivo di fronte ad essi da saper discriminare e giudicare secondo retto giudizio60.
A fondamento di questa weltanschauung ci doveva essere quell’ “ethos guerriero-aristocratico” che, come abbiamo visto, aveva pervaso tutta la sua opera. Certo è che, nella creazione dell’ “uomo nuovo”, nella ricerca di un’ élite, i riferimenti non potevano situarsi che nel lontano passato; questo lo si poteva dedurre dagli esempi che venivano portati, come ad esempio i secolari ordini religiosi o la stessa nobiltà; dobbiamo ricordare inoltre, anche la simpatia che Evola aveva esternato nei confronti dei cosidetti “fascismi minori” caratterizzati, secondo lui, da un maggior impeto ideale. In particolare si distingueva dagli altri la “guardia di ferro” rumena, il movimento capeggiato da Cornelio Z. Codreanu e Ion Mota, i cui sforzi erano stati appunto indirizzati alla costruzione dell’ “uomo nuovo”61. La speranze di Evola continuavano a sopravvivere, perchè, a dispetto di tutto, nell’anima occidentale rimaneva un fondo eroico di base che la modernità non era ancora riuscita ad estirpare. La posizione del nobile romano negli ultimi anni della sua vita, si sarebbe modificata ulteriormente; egli avrebbe manifestato un pessimismo ancora più profondo, arrivando al convincimento che nulla poteva essere fatto per cambiare la situazione che stava vivendo. Il problema “politico” si sarebbe trasformato così in un problema “esistenziale”. Egli avrebbe scritto il libro Cavalcare la Tigre proprio per quelli che volevano affrontare la convulsa contemporaneità senza cedere interiormente, perchè “ormai una sacralizzazione della vita esteriore e attiva” poteva avvenire “solamente in base ad un libero, autentico orientamento interiore verso la trascendenza, non già all’uno o all’altro precetto morale o religioso”62. Il principio che doveva adottare questo tipo umano doveva essere l’ “apolitia”, che ve J. Evola, Orientamenti, cit., p. 44. I.I. Mota, L’uomo nuovo (1936), Padova, AR, 1978. 62 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 200. 60 61
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niva descritta come la “distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi valori; (…) il non accettare di essere legati ad essa per un qualche vincolo spirituale o morale”63. L’“Apolitia”, dunque, avrebbe rappresentato l’approdo definitivo del lungo cammino intellettuale, la posizione che forse avrebbe rispecchiato in miglior modo la stessa vita dell’uomo Evola, per lo meno a partire dai primi anni del secondo dopoguerra. Egli non avrebbe mai cercato di scendere a compromessi con la modernità, e non solo idealmente; volle mantenere un certo distacco anche nella cosiddetta vita materiale, nei limiti ovviamente del possibile, e non è un mistero, per esempio, il fatto che si facesse vanto di non aver alcun titolo accademico, od in qualche modo legato all’ufficialità.
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J. Evola, Cavalcare la tigre (1961), Milano, Il Falco, 1981, p. 175.
Capitolo 2
La galassia ideologica del neofascismo
1. Alla ricerca di un fascismo più autentico: l’incontro con Julius Evola Nel frastagliato e scompaginato mondo neofascista dell’immediato dopoguerra che cercava in più modi di ricomporre le proprie fila, un mondo formato da gruppuscoli come l’ECA (esercito clandestino anticomunista), il FAI (fronte antibolscevico italiano), l’AIL (armata italiana di liberazione),i FAR (fasci di azione rivoluzionaria), ed una giungla di altre sigle, furono i FAR a dimostrarsi il gruppo più attivo nel tentativo di ricostituire un grande partito che si opponesse al montante pericolo comunista1. Dei Fasci di Azione Rivoluzionaria facevano parte Giorgio Almirante e Pino Romualdi che, insieme ad altre ex personalità minori del regime, avrebbero fondato a Roma, il 26 dicembre 1946, il Movimento Sociale Italiano. I FAR annoverano inoltre tra le proprie schiere anche il giovane Pino Rauti che, schieratosi sin dal principio alla sinistra del partito missino, nel 1954 avrebbe assunto la direzione di un movimento politico denominato “Ordine Nuovo”. Questo movimento fu l’unico che ricevette a posteriori l’imprimatur di Julius Evola, il solo che, a detta degli stessi affiliati, poteva vantarsi di essere rimasto coerentemente fedele all’ idea evoliana2. Abbiamo visto come Evola, dopo il conflitto, fosse assurto a vera guida e maestro di pensiero dei giovani neofascisti. La destra infatti si trovò a 1 A. del Boca, M. Giovana, I figli del sole. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Milano, Feltrinelli 1965, pp. 177-178. Sul ruolo dei FAR, al di là della mitizzazione fattane negli ambienti neofascisti, vedi G. Parlato, I fascisti senza Mussolini, cit., pp. 234-238. 2 A conclusione della seconda edizione accresciuta de Il cammino del cinabro, nel 1972, Evola scriveva: “quei giovani che nel 1948, al mio ritorno in Italia, erano stati per me una lieta sorpresa per il loro orientamento di destra, con l’andare degli anni in parte si sono sbandati. (…) L’unico gruppo che dottrinalmente ha tenuto fermo senza scendere in compromessi è quello che si è chiamato dell’ Ordine Nuovo” (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 212).
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fare i conti col fascismo ed egli riteneva che una grossa parte di responsabilità nel fallimento dell’esperienza del ventennio fosse da attribuire al popolo italiano, a quella “sostanza umana” priva di qualità della nostra gente. Proprio per questa ragione, egli era andato alla ricerca di quegli uomini che fossero riusciti a rimanere in piedi tra le rovine del mondo tradizionale: coloro che sono passati attraverso tutte le distruzioni dei tempi ultimi – della guerra e del dopoguerra – senza esserne spezzati, che, dopo aver riconosciuto come illusioni e menzogne ideologie e miti di ieri e di oggi, sono capaci di un superiore realismo e di un’azione pura; fra costoro dovrebbe stabilirsi una solidarietà essenziale, al di sopra delle frontiere e della opposizione dei precedenti fronti3.
Era tra questi uomini che andava isolata ed evidenziata “una precisa corrente di destra” ma “in termini diversi da un partito politico, piuttosto in quelli di quadri potenziali di un ordine nuovo”. Evola avrebbe scritto per loro, come già accennato, il testo sacro della Destra Radicale, Gli uomini e le rovine, e, prima ancora, aveva pubblicato il saggio Orientamenti, apparso sulla rivista “Imperium”, nel quale si affermava: a noi deve essere (…) proprio il coraggio del radicalismo, il no detto alla decadenza politica in tutte le sue forme, sia di sinistra, sia di una presunta destra. E soprattutto si deve essere consapevoli di ciò: che con la sovversione non si patteggia, che fare concessioni oggi significa condannarsi ad essere del tutto travolti domani. Intransigenza dell’idea, dunque, e prontezza nel farsi avanti con forze pure, quando il momento giusto sia giunto4.
L’invito del maestro fu quindi rivolto al radicalismo delle scelte, alla fermezza nell’atteggiamento interiore e, nell’attesa che un nuovo simbolo di sovranità facesse la sua comparsa, alla preparazione silenziosa dell’ambiente spirituale. “Ordine nuovo”, ha scritto Pierre Milza, “non può essere considerato come un semplice gruppuscolo di esaltati”, perché annoverava tra le pro J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 175. J. Evola, Orientamenti, cit., p. 3. Così avrebbe descritto questo movimento ne Gli uomini e le rovine: “Dunque, qualcosa come un Ordine, come una «società di uomini» aventi nelle loro mani il principio dell’«imperium» e concepenti – quasi come secondo il detto del Codice Sassone – nella fedeltà la base di ogni loro onore, e la sostanza di ogni vero e saldo organismo politico” (J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., p. 41). 3 4
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prie fila “una decina di migliaia di aderenti, di cui una buona parte [erano] militanti attivi”. Il suo scopo finale sarebbe stato quello dello scontro frontale “contro i comunisti e contro la democrazia”, stabilendo “legami stretti con l’esercito”5.
2. Pino Rauti e l’ “Ordine Nuovo” Pino Rauti, organizzatore e leader di “Ordine Nuovo”, nella sua analisi avrebbe ripreso tutti i topoi del pensiero evoliano e del tradizionalismo: la decadenza inarrestabile della nostra civiltà, la lebbra storica rappresentata dall’umanesimo e dal rinascimento, l’ossessione meccanicistica a discapito della concezione organica, l’invadenza del materialismo e dell’economicismo su tutto ciò che era spiritualità ed infine, la totale avversione per quella “sifilide dello spirito” che era la democrazia politica. I membri di questo movimento, secondo Rauti, ritenevano, in perfetta buona fede, di essere gli unici protagonisti di un vero “tradizionalismo d’assalto” mentre, inesorabilmente “la crisi si avvia[va] al suo punto apicale e l’età oscura si avvia[va] a celebrare comunque – in edizione russa o americana, i suoi fasti collettivistici”. L’unico modo che avrebbe permesso di assumere “un atteggiamento rivoluzionario”, era quello di preservare dentro sé stessi un genuino “orientamento tradizionalista”. I militanti avrebbero dovuto essere lapidari nelle loro sentenze, essi avrebbe dovuto dimostrarsi “radicali nel negare, come nell’affermare, sicuri come solo può esserlo chi possiede una sua Weltanschauung e questa creda vera”. Essi non avrebbero dovuto ammettere “colloqui, aperture culturali, polemiche e discussioni. La verità non si dimostra[va], al massimo si espone[va]. Ed [era] difficile convincere chi [aveva] torto; [era] meglio combatterlo”6. Si condannava qualsiasi forma di “rinunciatarismo” come “atteggiamento poco virile, (…) che (…) non si addice[va] ad uomini che lotta[va]no per un’idea rivoluzionaria, la quale [aveva] stretti rapporti anche sul piano dottrinario, con la tanto esecrata violenza”7. Gli affiliati ad “Ordine nuovo” non avrebbero dovuto af5 P. Milza, Europa estrema. Il radicalismo di destra dal 1945 ad oggi, Roma, Carocci, 2003, p. 101. 6 P. Rauti, Un gruppo di irriducibili, “Ordine Nuovo” (mensile), 1955 (dicembre), n. 9, p. 2. 7 P. Rauti, Sulla via della rinuncia, “Ordine Nuovo” (mensile), 1955 (ottobre), n. 7, p. 2.
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fatto dimostrarsi spaventati dalla prospettiva di una nuova guerra civile. Essi, non a caso, si consideravano “la mina ideale di tutto ciò che due secoli di illuminismo e democrazia [avevano] forgiato in sede di pensiero e di strutture costituzionali”8. Non si erano certo ripresentati sull’agone politico “per riformare il sistema, ma per distruggerlo e per sostituirlo” con il loro Stato Organico nel quale, “tutti i fattori della produzione” sarebbero stati “armonicamente disciplinati ai fini dell’interesse della nazione e per la più alta affermazione della sua volontà di potenza e di espansione”9. Pur non negando simpatie verso lo stato totalitario, l’ideale rimaneva comunque lo stato organico, ma gli ordinovisti sapevano che, per raggiungere questo obiettivo, andava creato un “uomo nuovo che concepis[se] e viv[esse] la sua vita sul piano di un’estrema tensione ideale”10. Rauti ed i suoi si consideravano in prima linea, sapevano di essere un’ardita “pattuglia legionaria”, un impavido manipolo di irriducibili che sarebbe servito da esempio: Questo è il nostro ultimo fine, il motivo essenziale del nostro odierno agire politico: (…) occorre che si enuclei a breve o lunga scadenza, una nuova schiera di uomini che dalla nostra dottrina e dalle nostre tesi politiche sostanzi interamente se stessa; si prepari, in una parola, ad essere classe dirigente di un movimento politico rivoluzionario (…), a dare a tutto il mondo che ci circonda la sensazione di essere diversi, di appartenere ad un nuovo ed inconfondibile tipo umano, quello che solo si crea facendo dei principi di una idea sostanza di se stessi11.
3. Clemente Graziani e la “guerra rivoluzionaria” In tutti gli interventi qui riproposti sono chiare le molte assonanze riscontrabili con il pensiero di Julius Evola, quello stesso pensiero che nell’ambito del mondo neofascista avrebbe funzionato da molla propulsiva per la produzione di altre, diverse e, in un certo qual modo, più radicali interpretazioni. 8 P. Rauti, Ancora controcorrente una pattuglia legionaria, “Ordine Nuovo” (settimanale), 1957, 9 giugno, n. 1, p. 1. 9 P. Rauti, Iniziativa legionaria, “Ordine Nuovo” (mensile), 1956 (febbraio), n. 2, p. 5. 10 P. Rauti, La democrazia ecco il nemico, supplemento al n. 9 di “Asso di bastoni”, Roma, 1952, p. 8. 11 Non firmato, Battaglia di regime, “Ordine Nuovo” (settimanale), 1957, 16 giugno, n. 2, p. 4.
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Nel 1956, intanto, si sarebbe consumato il distacco dell’intero gruppo ordinovista dal Movimento Sociale italiano: La strategia micheliniana di “opposizione nazionale”, sostanzialmente possibilista nei confronti del “sistema” e della DC [avrebbe] fin dall’inizio suscitato forti resistenze sia da parte dei “corporativisti”, rigorosi difensori del programma di socializzazione della R.S.I. sia da parte degli “spiritualisti” seguaci di Evola12.
Quando nel 1969 però, Rauti si sarebbe deciso a rientrare nel partito, coloro che non accettarono questa svolta, capeggiati da Clemente Graziani, avrebbero creato un nuovo gruppo sotto una denominazione simile, un nuovo movimento che sarebbe stato condannato per ricostituzione del partito fascista e costretto a sciogliersi dall’autorità statale13. Clemente Graziani, compagno di lotta di Rauti, era già stato arrestato insieme a lui e ad Evola, nel 1950, per presunta appartenenza “ad una associazione terroristica neofascista” denominata “Legione Nera”, ma negli anni successivi si era sempre più allontanato dalle posizioni assunte da Rauti. Ossessionato dalla paura del comunismo, il cui nuovo corso era “più pericoloso dello stalinismo che terrorizzava la borghesia”14, egli sarebbe arrivato ad affermare che, per avere ragione di questo, si potevano ottenere dei risultati “solo sul terreno di lotta che esso stesso s’[era] scelto: il terreno dell’azione rivoluzionaria”, che così veniva descritta: Per la conquista totale delle masse la dottrina della guerra rivoluzionaria prevede, oltre che il ricorso all’azione psicologica, il ricorso a forme di terrorismo spietato e indiscriminato. E ciò per esigenze analoghe a quelle connesse all’azione psicologica. Si tratta cioè di condizionare la folla non solo attraverso la propaganda ma anche agendo sul principale riflesso innato presente tanto negli animali tanto nella psiche di una grande massa: la paura, il terrore, l’istinto di conservazione(…). Occorre determinare tra le masse un senso
R. Chiarini, P. Corsini, Da Salo’ a piazza della loggia, Milano, Angeli 1983, p. 185. F. Ferraresi, La destra eversiva, in Id., La destra radicale, Milano, Feltrinelli 1984, p. 63. Ricordiamo che in “Ordine Nuovo” vi era già stata una scissione, capeggiata da Stefano Delle Chiaie, che aveva dato vita all’organizzazione “Avanguardia Nazionale Giovanile”, costituitasi il 25 aprile 1960, proprio in conseguenza del rifiuto di Rauti di trasformare ON in un movimento politico vero e proprio (N. Rao, La fiamma e la celtica, cit., pp. 93-99). 14 C. Graziani, Il “nuovo corso” del comunismo è più pericoloso dello stalinismo che terrorizzava la borghesia, “Ordine Nuovo” (settimanale), 1957, 16 luglio, n. 6, p. 1. 12
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di impotenza, un senso di acquiescenza assoluta in rapporto all’ineluttabile destino di vittoria della fazione rivoluzionaria15.
Graziani, dunque, non rifuggiva, teoricamente, dall’uso della violenza, anzi, era favorevole all’utilizzo più cinico e spregiudicato che si potesse fare di essa: “il terrorismo spietato e indiscriminato”. Il principio che i dirigenti della rivoluzione dovevano tener ben fermo, era quello che prevedeva l’eliminazione fisica di chiunque tradisse, contrastasse o semplicemente non fosse d’accordo con loro. Anche Graziani riteneva inoltre che gli ambienti privilegiati per la diffusione delle sue idee fossero l’esercito e le forze dell’ordine. Queste infatti sarebbero state esposte in prima linea in un’eventuale lotta contro il comunismo, per cui egli non era affatto spaventato da quello che da più parti veniva demonizzato come il rischio di un’involuzione autoritaria, anzi lo reputava necessario.
4. Pino Rauti: dalla “guerra sovversiva” al problema del consenso In quegli anni il pensiero di Rauti avrebbe preso una strada diversa da quella, in qualche modo, desumibile dallo scritto di Graziani; una strada probabilmente volta ad indirizzare il movimento verso un maggior intervento nella società civile, tramite “un’azione politica diretta a creare un costume, una mentalità, un carattere nuovi”16. Proprio in ragione del rientro di ON nel Msi, questa evoluzione si sarebbe manifestata chiaramente nella scelta di una nuova “tattica” e di una nuova “strategia” per gli anni ’70. Partendo dalla constatazione dell’ineluttabile affermazione dell’epoca delle masse, Rauti avrebbe affrontato di petto il problema del successo del comunismo e della forte presenza in Italia di partiti quali il Pci e il Psiup, cioè a dire, della “realtà di un paese sinistrizzato in strati sempre più larghi”, e del fatto incontrovertibile che, a sinistra, di fatto, esistessero “una massiccia organizzazione, un apparato burocratico sempre attivo, centri di condizionamento psicologici ben ramificati, articolazioni culturali innumerevoli”; che a sinistra si lavorasse “su tutti i piani ed a tutti i livelli, da quello sindacale, vecchio e nuovo stile, al campo editoriale, cinemato C. Graziani, La guerra rivoluzionaria, su “Quaderni di Ordine Nuovo” n. 1, Roma, allegato a “Ordine Nuovo” (mensile), 1963 (aprile), n. 2, pp. 30-31, 13-14. 16 Non firmato, Battaglia di regime, cit., p. 1. 15
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grafico, della radio e della TV, della stampa parallela, delle associazioni settoriali e di categoria”. In sostanza, tutto il ragionamento portava a considerare “il pericolo comunista in termini nuovi, (…) perché [era] con aspetti, con tecniche, con strumenti nuovi che esso si presenta[va] rispetto all’altro dopoguerra”. Strumenti e tecniche nuovi che potevano riassumersi sotto la dizione di “guerra sovversiva”17. Rauti si sarebbe domandato allora se il Pci, con questo cambiamento di “tattica”, avesse rinunciato o no, anche ai suoi fini di rovesciamento del sistema, ma la risposta, evidentemente, non poteva essere che negativa. Era dunque da qui che scaturiva la necessità, per la destra, di imitare la prassi comunista, o quanto meno, di sforzarsi di adottare “un nuovo linguaggio” più consono alla modernità, i cui incalzanti progressi tecnico-scientifici costringevano a rivedere tutti i programmi politici che, nel frattempo, erano rapidamente invecchiati. Scriveva Rauti a questo proposito: dobbiamo anche parlare di urbanesimo, di ecologia, di scienza e tecnologia, dei fenomeni connessi alla congestione industriale, e di quanto, in genere, si collega ai risvolti negativi della “crescita” sbagliata della collettività italiana in questo ultimo ventennio, e che forma tanta parte della capacità di proselitismo e di attivismo del comunismo18.
Da quando era finito il conflitto, continuava Rauti, nonostante tutte le avversità, si era salvaguardata l’interiorità dei militanti, ma che cosa si era fatto per le giovani generazioni mentre gli altri producevano film, libri, televisione ecc…? Dunque, ne conseguiva una sorta di re-interpretazione a destra della prassi togliattiana del dopoguerra: In altri termini dobbiamo sdoppiare, far marciare su binari intelligenti e paralleli la nostra azione politica ed organizzativa, e l’opera propriamente rivolta alla difesa del passato nei suoi istituti storicamente determinatisi19.
La scelta di questa “tattica” non provocava certo ripensamenti o dilemmi sulla giustezza o meno dell’agire in tal modo, o sulla reale conformità di esso al pensiero evoliano ed alla “Tradizione”, perché P. Rauti, Appunti per una tattica e una strategia degli anni ’70, “Ordine Nuovo”, nuova serie, 1970, marzo-aprile, n. 1, pp. 8-9. 18 P. Rauti, Frontismo nazionale e politica nazional-rivoluzionaria, “Ordine Nuovo”, nuova serie, 1971, dicembre, n. 4, p. 9. 19 P. Rauti, Appunti per una tattica e una strategia degli anni ’70, cit., p. 13. 17
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non c’è e non ci deve essere contrasto, a nostro avviso, tra un partito inteso come “strumento dell’idea” e che sia altresì un organo operativo e politico della massima flessibilità. (…) Il partito è uno strumento operativo e politico dell’idea, è il mezzo agile e anche – quando occorra – estremamente spregiudicato, dell’idea dalla quale è originato come vocazione iniziale, e che tende a “calare” nella realtà concreta della società nella quale agisce, e lotta20.
Bisognava essere “flessibili”, “agili” ed il problema cruciale di come saldare la “tattica” alla “strategia”, per il momento, veniva stemperato nel corso del tempo, veniva semplicemente posticipato senza determinare quando. Fra i meandri dei camuffamenti contingenti, nell’uso spregiudicato dei mezzi che si sarebbero resi necessari, durante la lunga marcia di avvicinamento, l’unica cosa davvero importante era non perdere di vista il reale scopo “essenziale, di fondo, (…) inalterato e inalterabile; (…) quello di giungere alla sostituzione di tutto l’attuale regime: costituzionale, politico e sociale”. Questa avrebbe dovuto essere, nei fatti, la vera “alternativa di sistema”, il “nuovo stato” che si proponeva di sanare la micidiale antinomia aperta dalla scienza e dalla prassi politica degli ultimi due secoli tra forze della produzione e del lavoro, tra interessi transeunti e interessi permanenti ed essenziali della collettività nazionale, tra egualitarismo indiscriminato – foriero di incompetenze suicide in un’epoca da “grandi masse”, dominata da un disperato bisogno di organizzazione, capacità decisionali pronte ed efficaci, funzionalità specializzate, e via dicendo – e le competenze qualificate e qualificanti, che sono tipiche delle minoranze dinamiche di una colletività. E, anche l’antinomia – che definiremmo esistenziale (…) – tra strutture tecnologicamente sempre più complesse (…), e lo spirito dell’uomo, i valori superiori, quelli della sua anima e delle sue vocazioni più alte21.
Secondo la consueta analisi tradizionalista ben poco, in realtà, avremmo potuto fare per risolvere questa grande crisi, se non attendere rassegnati la catastrofe finale, ma Rauti invece, facendo un atto di accettazione strumentale della “modernità”, affermava che questa crisi la potevamo davvero sconfiggere perché “il mondo occidentale [aveva] la scienza e la tecnologia per farlo”. Scienza e tecnologia ci potevano dunque aiutare, ma il sistema andava cambiato comunque, e per farlo cadere non è vero che 20 21
P. Rauti, Frontismo nazionale e politica nazional-rivoluzionaria, cit., p. 8. Ibid., p. 10.
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occorresse per forza utilizzare una spinta risolutiva dall’esterno, potevamo, bensì, mettere in atto una lenta opera di demolizione dal suo interno, sfruttando la rodata e ampiamente transitabile strada del consenso22. Nel variegato mondo della destra radicale degli anni ’70, questa posizione aveva rappresentato certamente un elemento di novità: È per primo – ha affermato Monica Zucchinali – che Rauti si è posto “il problema del potere, della sua legittimazione, e quello, conseguente, del raggiungimento del consenso”23. Anche agli inizi degli anni ’80, Rauti avrebbe insistito, ulteriormente, sulla necessità di adottare una guerra di logoramento e di lunga durata: “Quello che vogliamo dire è che dobbiamo prepararci ai tempi lunghi. Attrezzarci, anzitutto psicologicamente, ai tempi lunghi”24. Mai, però, nei suoi interventi sarebbe mancato il riferimento ad un’alternativa in prospettiva futura, alla rivoluzione, alla “Terza scelta”. Adesso che la proposta marxista è oramai tramontata, scriveva Rauti ci proviamo noi. Per via di consenso, certo, e lungo l’arco di quella gradualità che è resa indispensabile dalla natura e complessità dei problemi, in una società pluralistica e “spessa” com’è la nostra, in una società di tipo occidentale con tante e tante stratificazioni… per una rivoluzione nazionale e sociale25.
Come abbiamo visto, ne era stata fatta molta di strada dalle grazianiane prospettive di “guerra controrivoluzionaria”, o dalle cosiddette ipotesi golpiste tanto in voga negli anni ’60, come pure ci si era situati ben distanti da quella prassi terroristica che, come meglio vedremo tra poco, avrebbe tratto tanta della sua linfa dall’inesauribile insegnamento di Julius Evola. Sbaglieremmo comunque se pensassimo ad una imminente ed ormai definitiva accettazione della società liberal-democratica da parte di Rauti, perché era lui stesso che continuava a ripeterci come sul terreno dell’idea, della “Tradizione”, su ciò “che non è di oggi o di ieri, ma di sempre”, non sarebbe mai venuto meno; non sarebbe mai arretrato oltre il “nuovo Piave” perché “per uscire dalla crisi bisogna[va] uscire dal regime, bisogna[va] uscire dal sistema, bisogna[va] uscire – diciamolo alto e forte – proprio dalla democrazia”26.
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P. Rauti, Per chi suona la campana, “Civiltà”, 1973, n. 3, p. 10. M. Zucchinali, A destra in Italia oggi, Milano Sugarco, 1986, p. 73. P. Rauti, Ma non cambia mai niente?, “Linea”, 1980, 15-30 giugno, n. 30, p. 3. P. Rauti, La fase nuova dell’alternativa, “Linea”, 1979, 1-15 luglio, n. 9, p. 1. P. Rauti, Il nuovo Piave, “Linea”, 1980, 15-31 gennaio, n. 20, p. 1.
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5. Adriano Romualdi: una cultura di destra per l’Europa Teorico e militante di Ordine Nuovo è stato anche Adriano Romualdi, giovane e promettente intellettuale, già professore di storia contemporanea a Palermo; morto tragicamente nel 1973 a causa di un’incidente stradale, all’età di 33 anni: la sua morte, prossima a quella di Evola, ha scritto la Zucchinali, avrebbe segnato “in questo decennio un vuoto ideologico nell’evoluzione del pensiero della destra del rifiuto”27. Ed al barone romano, maestro della gioventù neofascista, e “punto di riferimento obbligato per quei giovani che tra il ’48 ed il ’68 si [erano] formati in quella specie di landa abbandonata che era allora la cultura di destra”28, pure Romualdi dovette tributare un grosso riconoscimento, e lo fece prima di tutto alla sua concezione di “idea” come unica e vera patria di un’élite spirituale al di là del sangue, della lingua o della stessa terra: in una società che non offre più nessun residuo di strutture organiche, non resta, a mio parere che il partito unico, come “ordine di credenti e di combattenti” e matrice di una nuova aristocrazia politica. Mi affretto a dire però che penso a un partito unico che sia meno “partito di massa” di quello che non fosse a suo tempo il P.N.F., e che somigli un pò più al partito nazista, al partito bolscevico, e magari alla compagnia di Gesù29.
Questa prospettiva non poteva, d’altronde, che portare a ragionare in termini più vasti dell’angusto spazio nazionale; come scrive Ferraresi, il problema dell’Europa stava al centro della sua riflessione, ed il giudizio sulla crisi del nazionalismo non si allontanava da quello nettamente negativo di Evola30. Il nazionalismo, dunque, poteva avere un senso allora, solo se veniva riproposto su scala europea; solo il controllo delle vaste risorse del continente poteva permettere una reale indipendenza dalle due grandi superpotenze. Hitler, in fondo, ci aveva provato, pur non riuscendo a rag M. Zucchinali, A destra in Italia oggi, cit., p. 84. Su Romualdi vedi anche M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 96-99, e N. Rao, La fiamma e la celtica, cit., pp. 113116. 28 A. Romualdi, Perché non esiste una cultura di destra (1965), e La “nuova cultura” di destra (1973), in G. Malgieri (a cura di), Una cultura per l’Europa, Roma, Settimo Sigillo 1986, pp. 75, 90. 29 A. Romualdi, Lo stato dell’ordine nuovo, “Ordine Nuovo”, nuova serie, 1970, dicembre, n. 3, p. 114. 30 F. Ferraresi, Da Evola a Freda - Le dottrine della destra radicale fino al 1977, in Id., La destra radicale, cit., p. 30. 27
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giungere il successo finale, e certamente, in senso molto più ampio, si poteva anche dire che “il fascismo fu la reazione istintiva dei popoli europei alla prospettiva di essere macinati in una polvere anonima dalle internazionali di Mosca, di Hollywood, di Wall street”. Il compito della destra, oramai rimasta “l’ultimo cantuccio d’Europa dove traluce[va] un raggio d’indipendenza”, era quello di lottare in tutti i modi per la liberazione del continente e la creazione di un nuovo ordine europeo, possibilmente (ancora), sotto il tallone tedesco31. Romualdi sentiva il legame molto forte di questo suo nazionalismo europeo con tutto ciò che in passato era stato racchiuso entro la definizione di “Rivoluzione Conservatrice”32, con il tentativo, messo in atto da quel movimento, di fornire una risposta “moderna” alla crisi dei valori tradizionali, nella speranza di provocare, così, un effettivo superamento di quest’ultima al di là “della semplice negazione reazionaria della mentalità illuministica”33. Questo particolare aspetto aveva denotato vari movimenti fascisti, venuti alla luce tra le due guerre, “conservatori di valori, ma rivoluzionari per il tipo della loro propaganda e la loro apertura alle masse”. Ecco che, nell’Europa caratterizzata da “profonde tradizioni spirituali e, ad un tempo, in alto grado di modernità”, come argine contro la civiltà occidentale che aveva causato lo sgretolamento delle strutture politicosociali organiche, si era così affermato il fascismo, “reazione di una civiltà moderna che rischiava di perire per eccesso di modernità” 34. Persino il suo aspetto totalitario andava giudicato positivamente, perché in realtà “fu in gran parte un fatto strumentale: fu la risposta moderna che una destra rivoluzionaria diede alla sinistra nell’epoca delle masse e della propaganda di massa”. Forse Romualdi provò dentro di sé il dubbio lacerante che poteva causare la non perfetta corrispondenza delle sue idee a quelle del maestro, il quale aveva bollato in modo negativo qualsiasi tentativo totalitario; di sicuro possiamo solo dire che egli sentì ancor di più il rischio “incapacitante” connesso ad un comportamento che si attenesse ad una fedeltà quasi totale alla dottrina: 31 A. Romualdi, La destra e la crisi del nazionalismo (1973), in G. Malgieri (a cura di), Una cultura per l’Europa, cit., pp. 33, 48. 32 Sul complesso e variegato fenomeno della “Rivoluzione Conservatrice” Romualdi aveva pronto un dattiloscritto che è stato pubblicato postumo: A. Romualdi, Correnti politiche ed ideologiche della destra tedesca dal 1918 al 1932, Roma, L’italiano 1981. 33 A. Romualdi, La “nuova cultura” di destra, cit., p. 84. 34 A. Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Roma, Settimo Sigillo, 1984, pp. 62, 105, 67.
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C’è il rischio che il tradizionalismo – per volersi collocare fuori da tutto il mondo moderno – sfoci in un atteggiamento non più metastorico, ma antistorico. Il limite del Tradizionalismo è il reazionarismo, la incapacità di comprendere che la società moderna non può essere tenuta insieme da formule religiose o legittimistiche, ma da un’ideologia politica conservatrice – rivoluzionaria capace di conquistare le masse. Rifiutando tutto il mondo moderno, il Tradizionalismo rischia di non intendere quelle idee di comunità organica, nazione e razza elaborate dal romanticismo e maturate con le grandi conquiste della linguistica, dell’archeologia, dell’antropologia che ci forniscono una nuova idea di “cultura” rigorosamente positiva, ma antidemocratica e antiegualitaria.
La ricerca di una nuova idea di “cultura” era stata forse tra le molle principali negli studi del giovane pensatore forlivese che, tuttavia, subì, quasi come se fosse un attacco alla propria persona, la forte inferiorità culturale della destra nei confronti delle altre forze politiche, inferiorità dovuta alla vetustà degli slogan, dei simboli e di tutto l’armamentario dottrinale, che a volte sembrava sfiorare il ridicolo ed il patetico. Romualdi si rendeva effettivamente conto che “una nuova cultura di destra esiste[va] più come aspirazione, fermento, che con vere opere e veri autori. Per trovare qualche titolo fondamentale per la destra negli ultimi vent’anni, bisogna[va] rifarsi a Gli uomini e le rovine (1953) e a Cavalcare la tigre (1961)”. Cioè a dire, al solito, intramontabile Julius Evola35. Soprattutto veniva percepita l’arretratezza nei confronti dell’egemonia ideologica della sinistra, salda nella propria “concezione unitaria della vita”36, che di fronte a qualsiasi argomento non si trovava mai impreparata, e riusciva, anzi, a diffondere il suo punto di vista, ad inoculare velatamente la propria mentalità. Egemonia ideologica che aveva saputo utilizzare nuove tattiche e nuovi mezzi di propaganda: Un nemico formidabile, una rivoluzione mondiale che ha a Mosca e Pechino i suoi quartieri generali, ma che è di casa ormai in tutti gli angoli di Europa, che forma, determina, indirizza la mentalità della stampa, della radio, della televisione e, con essa, la pubblica opinione. È la rivoluzione dell’eguaglianza, il mito del livellamento delle classi e delle razze, il sogno del perfetto, felice e definitivo imbastardimento di tutte le tradizioni e di tutti i valori in un universale beatitudine per pecore abbrutite dalla promiscuità e dal benessere37. A. Romualdi, La “nuova cultura” di destra, cit., pp. 84, 92-93. A. Romualdi, La destra e la crisi del nazionalismo, cit., p. 64. 37 A. Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, cit., pp. 133-134. 35 36
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Per controbattere questa offensiva culturale, Romualdi si sforzava anche di fornire alcuni orientamenti teorici, compresi quelli bibliografici; una specie di Visto da destra ante litteram, ma in versione ridotta, che servisse da incoraggiamento per quei singoli che si apprestavano a scrivere e ad agire38. Abbiamo quindi, anche da parte del politico romagnolo, delle indicazioni per così dire “metapolitiche” indirizzate ad operare per un cambiamento della mentalità comune vigente; ma non dobbiamo farci delle illusioni, come non ce le siamo fatte per Rauti, sul fatto che il suo lavoro politico fosse incanalato verso un’accettazione definitiva di questo sistema, perché, ed era Romualdi stesso che ci avvertiva, vi era un’antitesi di fondo “tra la destra che nega[va] la democrazia, e la sinistra in cui la democrazia si invera[va] nella società dei consumi e nella pornografia di massa”39. Per non tacere poi il fatto che, e ci veniva ricordato con estremo realismo, per la conquista effettiva del potere poteva essere ritenuto necessario l’utilizzo di altri mezzi, ben diversi dalla sola ricerca di un ampio consenso sociale: Non dimentichiamoci che il fascismo, per poter realizzare la sua politica di unione sociale, dovette prima bastonare gli agitatori sindacali e distruggerne le organizzazioni. Anche il nazionalsocialismo, nonostante avesse un “socialismo” nel nome, andò al potere assorbendo gradualmente la destra e il centro destra: socialdemocrazia e comunismo rimasero intatti fino al ’33. Fu necessario dar fuoco ai sindacati e imprigionare i sindacalisti. Sono fatalità alle quali, in un’era di demagogia marxista, è impossibile sfuggire. Sarebbe una grossa ingenuità credere di poter concorrere alla demagogia comunista in nome della “socializzazione” o di Filippo Corridoni40.
6. Franco Freda: la disintegrazione del sistema Evola è stato sottoposto ad altre letture che, per certi versi, possono essere considerate più estremistiche di quelle che abbiamo passato in rassegna fino ad ora. P. Baillet ci ricorda quanto grande fosse stata l’influenza 38 Era questo il caso dei due saggi ripubblicati unitariamente a cura di G. Malgieri, Una cultura per l’Europa, cit., nella seconda parte del medesimo, intitolata “Idee per una cultura di destra”. 39 A. Romualdi, La “nuova cultura” di destra, cit., p. 85. 40 A. Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, cit., p. 142.
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di libri come Gli uomini e le rovine per “la nascita, dopo il maggio ’68 italiano, di una nuova destra radicale e coerente”, che dimostrasse di essere rivoluzionaria proprio battendosi per la Tradizione. In questo senso, sempre secondo Baillet, il tentativo più significativo, in quegli anni, fu quello di Giorgio Freda, fondatore nel 1963 delle Edizioni di AR, ed autore de La disintegrazione del sistema, un testo destinato a diventare una sorta di libro cult negli ambienti dell’estrema destra41. Solo due anni prima, come abbiamo visto, era stato dato alle stampe anche l’evoliano Cavalcare la tigre, nel quale veniva definito il concetto di “apolitia”, che, secondo Ferraresi, era suscettibile di almeno due letture: una prima, esclusivamente centrata sulla dimensione interiore dell’individuo, conduce[va] alla totale astensione da ogni forma di agire politico; la seconda interpreta[va] l’apolitia come rifiuto di inserirsi nel sistema politico attuale, e quindi di aderire alle componenti che l’ [avevano] espresso (l’antitradizione come spirito del male evocato dalla sovversione borghese) e addita[va] l’impegno politico – esasperato sotto forma di “militia”, “via eroica”, “guerra santa” – come strumento più valido e autentico di realizzazione spirituale (la teorizzazione del distacco [era] qui bollata come alibi per i vili)42.
Freda non ebbe dubbi e scelse decisamente la seconda strada, rimproverando anzi, a chi accusava il maestro di “rinunciatarismo”, di aver intrapreso una lettura fuorviante della sua opera. La “tigre” andava “cavalcata” per impedire che si rivoltasse contro il cavaliere, ma, soprattutto, perché alla fine, si riuscisse ad aver ragione di lei. Il militante doveva evitare di essere travolto e nello stesso tempo doveva favorire l’espansione degli “«spiriti del male» (l’antitradizione) evocati dal sistema della sovversione moderna (borghese)”. Pochi uomini “differenziati” sarebbero sopravvissuti al processo di distruzione e dissoluzione culminante in una crisi catastrofica: Questo è il comportamento che si impone ai pochissimi che guardano ancora là dove si realizza, il loro essere vero e normale – il mondo della tradizione – pur essendo costretti (avendo voluto?) a vivere nell’odierna situazione ambientale: nel mondo contemporaneo, degeneratosi e disintegrato (la tigre),
41 P. Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta, Padova, Edizioni di AR, 1978, pp. 23, 72. 42 F. Ferraresi, Da Evola a Freda, cit., p. 38.
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ma, proprio in virtù di questi caratteri, capace di svolgere fino alle sue estreme e totali conseguenze il processo di disgregazione43.
Era a questi uomini che Freda rivolgeva l’invito a “serrare i ranghi per dar vita ad un’organizzazione politica elastica”. Ne La disintegrazione del sistema, dopo aver svolto un’analisi della società contemporanea, ricalcante le più viete definizioni evoliane, Freda esponeva la propria concezione dello stato, di chiara impronta platonica e situantesi, comunque, nell’alveo della Tradizione; la concezione, cioè, di uno stato immutabile, che “«è» eternamente ed eternamente si ripropone come vero”, il cui fine non era il benessere materiale dei cittadini, bensì la loro “felicità”. Felicità come eudaimonia, cioè “armonia dei vari componenti dello stato”. Uno “stato organico”, insomma, nel quale, secondo un ritornello classico, “libertà (…) significa disciplina interiore e rispetto del proprio piano qualitativamente gerarchico”. Uno stato che non poteva non avere, alla propria base, un fondamento di sacralità, poiché se uno stato, se un regime politico non viene legittimato dal fatto di possedere una validità spirituale, dal proporsi finalità spirituali, esso non rappresenterà nulla di organico e di centrale: non sarà che inerte agglomerato materialistico e sociale, risultante dall’irrigidimento proprio di tutti gli organismi senza forza vitale.
Era a questo punto del discorso che si inseriva l’interpretazione dell’ “apolitia”: in un sistema borghese che “brucia e digerisce” i contestatori, non si poteva più accettare la posizione di chi decideva di rimanere distaccato a si accontentava di un mito divenuto, soltanto, una mera astrazione cerebrale. Il mito, l’idea andavano invece realizzati in questo mondo, concretamente, adesso; quindi, la prima condizione che permetteva di porre gli elementi di fondazione del vero stato, è la eversione di tutto ciò che oggi esiste come sistema politico. Occorre, infatti, propiziare e accelerare i tempi di questa distruzione, esasperare l’opera di rottura del presente equilibrio e dell’attuale fase di assestamento politico.
Non esisteva più nessuna terapia per curare questo marcio e malato mondo borghese, “nemmeno una operazione chirurgica ri[usciva] ormai efficace; (…) occorre[va] accelerare l’emorragia e sotterrare il cadavere”. F.G. Freda, Prefazione a Cavalcare la tigre, in P. Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta, cit., pp. 105-106.
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Una volta che fosse stata fatta tabula rasa, sarebbe sorto allora, il problema dell’organizzazione effettiva del nuovo stato, della regolamentazione dei rapporti socio-economici tra i cittadini, e Freda prospettava ai suoi militanti una soluzione di tipo comunistico, sostenendo essere questa, in “organica coerenza” con la realtà del vero stato gerarchico da lui vagheggiato. Prima di ogni altra cosa, si sarebbe provveduto all’eliminazione della proprietà privata, che sarebbe divenuta parte integrante del patrimonio pubblico, ad esclusione, ovviamente, dei beni di consumo individuali. Le industrie, poi, sarebbero state dirette da dei “comitati di gestione” formati da tutti i lavoratori che, a loro volta, avrebbero nominato periodicamente un “commissario d’azienda”; strutture perfettamente analoghe sarebbero state adottate per l’agricoltura e per il commercio, e tutte avrebbero fatto capo ad un “presidium politico di stato” che avrebbe eletto tra le sue fila un “reggente” con la funzione di coordinatore dei vari “commissari” preposti alle diverse e molteplici attività dello stato (industria, educazione, giustizia, estero, esercito ecc…). Tutta la costruzione aveva un senso, scriveva Freda, perché doveva “essere isterilito l’«ambiente» da cui il borghese trae[va] vita: ecco il motivo di un ordinamento economico comunistico!”. A questo punto il quadro veniva delineandosi nitidamente anche nei suoi risvolti più oscuri ed ambigui. Se l’obiettivo preminente era la distruzione di questa società, ecco che, sul campo, poteva prefigurarsi una obiettiva unità di intenti operativi con le frange “antisistema” dell’estrema sinistra, perennemente in bilico su quel ciglio franoso che le separava dall’abisso della clandestinità. Con estrema freddezza Freda lanciava quindi un appello all’unione degli sforzi contro il nemico comune: “Noi (…) vogliamo rivolgerci a coloro che rifiutano radicalmente il sistema, situandosi oltre la sinistra di questo, sicuri che anche con loro potrà essere realizzata una leale unità di azione nella lotta contro la società borghese”44. 44 F.G. Freda, La disintegrazione del sistema (1969), Padova, Edizioni di AR, 1980, pp. 24, 47-48, 53-54, 58, 60, 81, 85. Ha scritto Ferraresi a questo proposito: “È la linea che Freda proponeva nel 1969, e che comporta, sul piano internazionale, solidarietà nei confronti di tutti i movimenti di liberazione antimperialista, dai «montoneros» all’IRA, dai «feddayin» ai pellerossa, mentre nell’ambito nazionale, i suoi interlocutori più ovvi intorno al 1977 sono gli Autonomi. Ne prendono atto i «Fogli d’ordine del MPON»” (F. Ferraresi, La destra eversiva, cit., p. 77). Freda, il 21 dicembre 1990 avrebbe fondato a Milano, il movimento politico Fronte Nazionale, che si sarebbe dichiarato schiettamente razzista, per una lotta senza tregua contro l’immigrazione extraeuropea. Per non smentire il suo “tatticismo”, Freda avrebbe indirizzato il neonato movimento anche nel variopinto schieramento pro Saddam Hussein, assurto a nuovo campione del naziona-
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Alla costruzione teorica di Freda è stato affibbiato il nome di “nazimaoi smo”, ed egli stesso non ha mai negato la sua simpatia per l’opera politica di Mao Zedong, “per il significato autentico che la politica cinese [aveva assunto], di contro ai sistemi nati dopo le nozze di Yalta”. Nel maoismo egli vedeva l’uso strumentale e spregiudicato che veniva fatto del marxismo, quasi fosse solo una zattera, utilizzata per attraversare un fiume e poi abbandonata. Del maoismo egli soprattutto lodava una visione del mondo quasi “spartana”; un senso della vita sobrio, duro, militare; uno stile “ascetico” di esistenza; un ritmo organico di fedeltà che vincola al capo tutta la comunità nazionale e favorisce quella tensione solidaristica la quale, a sua volta, riflette nel lavoro di un popolo intero i caratteri di volontaria disciplina, di milizia libera sproletarizzata45.
In conclusione possiamo dire che gli approdi a cui giunse Freda possono sembrare ben distanti dalle posizioni politiche che aveva assunto Julius Evola; certo, come ci dice il Baillet, egli non ricevette mai l’approvazione del barone nero, che anzi impiegò parole di condanna a riguardo della cosiddetta “infatuazione maoista”, ma, continua Baillet non è qui l’essenziale. Ciò che conta è la fedeltà allo spirito e non alla lettera. Su questo piano, Freda, cercando di enunciare, per primo, la pratica della teoria, dopo che Evola aveva così ben definito la teoria della pratica, gli sarà stato più fedele che non certe “vestali” consacrate alla difesa quasi rabbinica di un’opera non di meno estranea ad ogni dogmatismo e ad ogni ideologia46.
7. L’anarchismo di destra Nell’ambito di questo breve ed incompleto panorama ideologico della destra neofascista, dal dopoguerra agli anni ’80, non può essere dimentilismo. Così recitava un volantino del Fronte Nazionale, distribuito il 24 gennaio 1991, a proposito del leader iracheno: “Egli assume ed espone le qualità benefiche dell’antiamericanismo, dell’antisionismo, dell’unita’nazionale araba, dell’antimondialismo: del l’antimaterialismo moderno. Quando il governatore dell’Iraq invoca il Divino della sua particolare religione, non importa decidere se lo ispiri la sincerità di chi abbia rinnegato il materialismo moderno, o l’astuzia profana. (…) Per il bene della nazione europea e della nazione araba, in un ordine nuovo mondiale che risani i popoli dal capitalismo mondialista, noi nazionalisti europei auguriamo la vittoria dell’Iraq”. 45 F.G. Freda, Due lettere controcorrente, Padova, Edizioni di AR, 1972. 46 P. Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta, cit., p. 75.
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cato il grave problema che è rappresentato dalla prassi terroristica, sviluppatasi a partire dal 1968, e che negli anni ’80 si sarebbe propagata in modo ancor più frammentario ed anarchico, a volte, quasi per singole schegge impazzite. Freda stesso ha scritto, a proposito del concetto di “apolitia”: “questa definizione potrebbe essere – se si vuole – l’esaltazione dell’anarchia: di un tipo particolare – a livello elevato – di anarchia!”47. Ed è proprio sotto la definizione di “anarchismo di destra” che può esser riassunto quell’atteggiamento che ha prevalso all’interno dei gruppuscoli più radicalizzati, nei quali, la risposta al problema politico, è stata tradotta sul piano strettamente personale, acquisendo connotati prevalentemente esistenziali. Franco Ferraresi ricollega molta parte dello spontaneismo armato, sorto dopo il 1977, ad una interpretazione estrema di questa “anarchia”; ha scritto infatti il sociologo cremonese: L’insegnamento decisivo di Evola, per la situazione contemporanea, è invece l’anarchismo di destra, teorizzato in Cavalcare la tigre: ognuno lotta per se stesso, per qualificarsi esistenzialmente – e fra uomini qualificati si trovano le gerarchie e i motivi dell’azione (invece di scimmiottare il nazifascismo senza avere capi degni del nome). Questo si collega anche alla scelta strategica di “spingere gli elementi di disgregazione del sistema fino alle loro estreme conseguenze” (NDR: tratto da Prospettive dell’azione rivoluzionaria, 1977, documento sequestrato a E. Bonazzi, p. 12), perché ancora una volta, giusta la lezione dell’ultimo Evola, nulla di questo sistema merita di essere salvato48.
Freda in appendice alla ripubblicazione della sua opera nel 1980, era sembrato accantonare momentaneamente questo tipo di lotta; scriveva infatti: Ho l’impressione che l’annientamento di questo sistema rimanga un obiettivo irrealizzabile attraverso la violenza terroristica. Una strategia di annientamento dell’avversario non si può impostare sul terrorismo. Può essere, quest’ultimo, considerato solo entro un quadro tattico, e quando il processo che mira alla dissoluzione delle forze avversarie sta per concludersi vittoriosamente49.
Tuttavia, solo a titolo di informazione, in questa rassegna non possono F.G. Freda, Prefazione a Cavalcare la tigre, p. 113. F. Ferraresi, La destra eversiva, cit., pp. 76-77. 49 F.G. Freda, La disintegrazione del sistema, cit., pp. 102-103. 47 48
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essere dimenticati personaggi, difficilmente inquadrabili, come P. Concutelli, V. Fioravanti o la F. Mambro, in qualche modo, anch’essi figli spuri di Evola e di questo disperato “anarchismo di destra”. Dino Cofrancesco ci ha descritto come in politica la violenza possa venire ricollegata tanto ad uno stato della mente qual è il fanatismo, quanto e soprattutto a quello “sradicamento” culturale, sociale e politico che porta alla convinzione che per ottenere dei risultati concreti si possano utilizzare solo mezzi violenti. La sua analisi prende di mira, particolarmente, il militante di destra, il cui “sradicamento” viene considerato maggiore rispetto a quello di chi si situa all’estremo opposto. Militante di destra che, ha scritto ancora Cofrancesco fa riferimento ad un soggetto che non è più, lo Stato-potenza, l’imperium; una società, quella organica, fondata sulle gerarchie, da tempo ormai tramontata; a valori divenuti irrimediabilmente obsoleti. Nel presente egli non ha responsabilità verso alcuno. Come il protagonista de I Proscritti, sa che la patria non è più nello spazio geografico di un tempo, non è rappresentata né dai partiti, né dalle cricche dominanti dell’economia e della finanza, ma solo dalla sua inflessibile determinazione, dalla sua sete di gesti esemplari.
Gesti esemplari che la cronaca giudiziaria di quegli anni ci ha fornito a sazietà. Una violenza che Cofrancesco ha definito “cieca”, perché le speranze di un ritorno a regimi totalitari erano, per la verità, molto labili. In un simile contesto, continua il docente genovese, i valori possono venire difesi solo lanciando sassi nella palude, propinando alla società di massa torbida e inebetita scariche elettriche a getto continuo, quasi a dimostrare – soprattutto alle future generazioni – che non tutto è quiete di morte, che il consumismo non ha narcotizzato tutti i sensi. Le stragi ferroviarie servono assai bene allo scopo: esse non colpiscono colpevoli e innocenti – come pensava il terrorista dell’800, protagonista di drammatici conflitti interiori – ma spazzano via individui facenti parte di una indistinguibile “massa damnationis” di un formicaio. Intanto, però, si è testimoniata la presenza di “Ubermenschen”, di individui superiori, che col formicaio non vogliono avere alcun commercio umano50.
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D. Cofrancesco, Le destre radicali davanti al fascismo, cit., pp. 60-61.
Capitolo 3
Dalla destra radicale alla nuova destra
1. I nipotini di Julius Evola Il 13 maggio 1978 venne pubblicata sul “Secolo d’Italia” un’ intervista rilasciata da Alain de Benoist a Maurizio Cabona1. Fu questo un vero e proprio casus belli che scatenò una serrata polemica sulla stampa italiana di destra, facendo indirizzare la luce dei riflettori verso la Nouvelle Droite francese, divenuta improvvisamente la protagonista di alcune delle più disparate analisi politologiche. Era infatti dal gennaio del 1969 che aveva avuto inizio un’intensa attività intellettuale nell’ambito dell’estrema destra francese, con la fondazione del GRECE (Groupment de recerche et d’études pour la civilisation européenne) da parte di alcuni militanti. Intorno a riviste come “Nouvelle École” prima ed “Élements” poi, si sarebbe coagulato un movimento politico-culturale che i mezzi d’informazione francese avrebbero denominato appunto Nouvelle Droite. L’esponente di maggior spicco era Alain de Benoist. Egli si era reso protagonista di una vivace polemica nei confronti della vecchia destra, che aveva accusato principalmente di scarsa sensibilità nei confronti dei tempi che stavano cambiando e di mancanza di attenzione verso le nuove discipline scientifiche emergenti come l’etologia, la genetica, la sociologia ecc. Egli, inoltre, aveva messo in evidenza come la destra non possedesse più né una “tattica” né una “strategia” che non fossero il moderatismo più amorfo o la sempre presente tentazione golpista del colpo di mano2.
1 M. Cabona, Il nuovo filosofo venuto da altrove, ne “Il secolo d’Italia”, 13 maggio 1978. 2 Per Marco Tarchi, “l’esperienza del GRECE ha rappresentato l’unico grande momento innovativo del radicalismo di destra dagli anni Quaranta in poi” (M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 148). Su De Benoist vedi, L. Papini, Radici del pensiero della Nuova Destra. La riflessione politica di A. de Benoist, Pisa, Giardini, 1995, F. Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della nouvelle droite,
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L’elemento di maggior novità, che aveva suscitato l’attenzione dei politologi, era stata la rilettura che de Benoist aveva operato nei confronti di Antonio Gramsci, la cui lezione, per la prima volta, veniva assunta come concreto esempio da imitare dalla sponda politica opposta. L’attenzione verso Gramsci aveva fatto balzare in primo piano la questione della centralità del “potere culturale”, la constatazione dell’improbabile ed alquanto ingenua pretesa di affermare una presunta “neutralità” del sapere. Era nota la distinzione che Gramsci aveva fatto tra “società politica” e “società civile” e di come egli ritenesse necessaria, quale premessa alla conquista del potere politico, l’espugnazione di quella “robusta catena di fortezze e casamatte”3 che era la società civile, fortezze e casamatte quali, ad esempio, erano i giornali, le università, le case editrici ecc. De Benoist, assimilato questo punto, dal suo versante aveva semplicemente constatato come da più d’un ventennio la sinistra avesse praticamente posseduto il monopolio della cultura in Francia e allo stesso tempo, aveva preso atto della completa assenza di originali e nuove sintesi dottrinali all’interno della propria area politica, nonché del totale disinteresse che veniva esternato nei confronti della stampa, dell’istruzione, della cultura in genere. Da tutto questo era scaturita dunque la necessità di un’azione “metapolitica”, ed era proprio questa la parola che racchiudeva l’essenza, lo scopo che era sotteso nella stessa definizione di Nouvelle Droite, cioè a dire, come avrebbe ribadito in seguito lo stesso de Benoist, una sorta di complesso intellettuale e culturale, che si esprime attraverso il canale di un certo numero di clubs, di associazioni, di società di pensiero, di laboratori di idee, di riviste accademiche e culturali, (…) quindi essenzialmente ed unicamente un movimento metapolitico, che non prende alcuna posizione nel campo della politica immediata e che si attiene ad un lavoro teorico in profondità, al di là dell’attualità puramente contingente4.
Nel decennio che era appena trascorso era forse accaduto qualcosa di nuovo in Italia sul versante della cultura di destra? Esisteva un’organizzazione che potesse dirsi simile al GRECE? Si poteva parlare anche da noi della presenza di una Nuova Destra? Gli unici eventi che in quegli anni Torino, Bollati Boringhieri, 2002, e P.A. Taguieff, Sulla nuova destra. Itinerario di un intellettuale atipico (1994), Firenze, Vallecchi, 2004. 3 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi 1977, p. 866. 4 A. de Benoist, La Nuova Destra ed i suoi compiti, “Diorama Letterario”, 1981,n. 37, pp. 2-3.
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erano stati ritenuti particolarmente significativi furono la scomparsa di Julius Evola e quella, più prematura, di Adriano Romualdi5. Questi avvenimenti non poterono non creare una profonda voragine, non poterono non lasciare una vasta sensazione di vuoto e desolazione in chi, da quel versante, si accingeva ad intraprendere una battaglia politica. Avrebbe scritto Marco Tarchi, a questo proposito, alcuni anni più tardi: con poche e lodevoli eccezioni, il panorama culturale della destra italiana – in tutte le sfumature delle sue possibili tinte – tornerà, scomparsi Evola e Adriano Romualdi, ad assomigliare ad un deserto. Sarà questa l’eredità che affacciandosi dal mondo delle università a contestazioni ormai dimenticate, i giovani nati negli anni ’50 si troveranno dinanzi6.
Se, però, si fossero messe a fuoco correttamente le lenti su quello che veniva definito “il pianeta giovanile fascio”, ci saremmo potuti rendere conto che qualcosa effettivamente era cambiato e stava rapidamente evolvendo. Ciò era tanto vero che, mettendo da parte la normale prassi demonizzatrice utilizzata nei confronti di qualsiasi fenomeno che spuntasse dall’orizzonte neofascista, avevano cominciato ad accorgersene anche dall’altra parte della barricata, come dimostrava un articolo del marzo 1977, apparso sulla rivista “Gong” a firma di Gianni Emilio Simonetti: Nella pletora delle riviste underground, contro e sotto culturali, fra quelle viola, rosso vivo, rosso appena e rosso rosa, ci sono quelle nere dei nipotini di Julius Evola. Di queste senz’altro la più importante è “La voce della fogna”7.
A queste parole seguiva l’accurata analisi dei contenuti della rivista; l’articolo, infine, si concludeva con i primi abbozzi di un’interpretazione del fenomeno. Ma nel maggio del 1978 l’unico dato che si poteva riscontrare era la presenza di uno sparuto drappello di “Grecisti”, che era andato coagulandosi all’interno della corrente di opposizione del Msi “Linea futura”, capeggiata da Pino Rauti. Dei giovani rautiani si sapeva che avevano dato vita, nel giugno del 1977, ad un raduno giovanile chiamato “Campo Hobbit” in onore degli eroi tolkeniani. Il campo si inseriva, in un certo Romualdi scomparve tragicamente nel 1973 a causa di un incidente stradale, Evola morirà l’anno seguente. 6 M. Tarchi, Prefazione a, A de Benoist., Visto da destra (1977), Napoli, Akropolis, 1981, p. 10. 7 G. E. Simonetti, Si può fare di ogni suono un fascio?, “Gong”, 1977, n. 3. Ristampato in, A più mani, Hobbit/Hobbit, Roma, Lede, 1982, p. 63. 5
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qual modo, nella falsa riga tracciata dai raduni, ben più vasti per partecipazione e risonanza, della sinistra giovanile; l’esempio casalingo più vicino nel tempo era stato il festival tenutosi al Parco Lambro poco prima, per non tacere poi degli oceanici happening musicali tipo Woodstock o isola di Wight che tanto erano in voga tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Da questi pochi elementi non si poteva certo dedurre molto, nè avanzare ardite ipotesi sull’effettiva ed operante presenza di una “Nuova Destra” come soggetto autonomo e ben definito. Ma la realtà era un’altra: una fetta del mondo giovanile missino stava disancorando la propria navicella dai pesanti ormeggi del partito, con l’intenzione di salpare verso nuovi orizzonti o, quanto meno, per navigare in direzione di acque meno stagnanti. Tra coloro che, in seguito, si sarebbero interessati del soggetto “Nuova Destra italiana” (ND) studiandolo da diverse angolazioni, non si può dire che si sia trovato un accordo, seppure minimo, su una precisa data di nascita da assegnare a questo movimento politico. Pur essendo un’operazione abbastanza difficile, nell’andare a ricercare la precisa genesi di un movimento che sovente ha incrociato la propria strada con quella del neofascismo istituzionale, si possono, in egual modo, isolare alcuni fatti o circostanze ben precisi, che sono stati la causa di svolte fondamentali nella marcia di allontanamento che questo gruppo di giovani ha effettuato nei confronti dell’universo della destra radicale. È inoltre estremamente arduo scindere i fattori di evidente novità da altri che, seppur rivestiti di un manto più dignitoso, vanno in ogni caso a far parte del vecchio armamentario politico. Passando in rassegna alcune delle ipotesi più accreditate fornite fino ad oggi da vari osservatori, analizzeremo, parallelamente a queste, lo svilupparsi del cammino di questo movimento, mettendo in evidenza gli episodi a nostro avviso più significativi nella sua evoluzione. La nostra tesi è che, comunque, se si vuol ricercare un’origine certa per la ND, si deve per forza di cose gettare uno sguardo nella vicina Francia, perchè è solo nel momento in cui i giovani della ND vengono a conoscenza, vengono a contatto con la già ben avviata esperienza della Nouvelle droite francese che il germe della critica, scaturito dal confronto, comincia a dare i primi frutti ed a smuovere una situazione politica che ormai sembrava essere sclerotizzata per sempre. Se l’influenza esercitata dai transalpini sia stata unicamente di “metodo” oppure anche di “idee”, sarebbe stata una questione che avrebbe rivestito particolare importanza soltanto in seguito e come discussione inter-
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na ad un movimento che in definitiva già si riconosceva come tale, a prescindere dall’esistenza del cosiddetto “cordone ombelicale” con il Msi. Ai fini del nostro specifico discorso, però, possiamo con sicurezza affermare che senza l’incontro con de Benoist e compagni forse non avrebbe avuto inizio quel ripensamento generale sulla prassi politica della destra radicale italiana nel secondo dopoguerra. Sarà fra il 1973 e il 1974 che si verificheranno i primi pellegrinaggi in terra di Francia, i primi sporadici contatti con gli uomini del GRECE, per cui prima di questa data, ci sembra non corretto cercare di individuare alcune cause determinanti in eventi che, seppur rilevanti per la politica italiana, non lo sono stati altrettanto nella recente storia della ND. Di questo avviso, però, non è Giovanni Tassani. Egli ha sostenuto infatti che il filo conduttore delle vicende della ND vada raggomitolato sino a quello “spartiacque” generazionale che è rappresentato dal 1968. Le due date che racchiudono un decennio, 1968-1977, che ha significato il massimo di separatezza e marginalizzazione dei giovani italiani di destra, segnano altresì due tappe contraddittorie, di una crescita di coscienza del cambiamento culturale della ND, come per il resto dei giovani italiani: (…) per la ND è ormai chiaro che il ’68, oggetto di una rubrica satirica (“Come eravamo?”) su “La voce della fogna”, fu non già un punto alto nell’offensiva di un avversario, ma anzitutto una occasione mancata8.
Se ripercorriamo però gli umori che attraversarono gli ambienti di destra in occasione della contestazione, scopriamo che questi, grosso modo, si erano orientati verso due atteggiamenti di fondo: la parte maggioritaria esternò sempre un deciso rifiuto nei riguardi dei fermenti giovanili e si adoperò in favore della costituzione di un blocco d’ordine da contrapporre ai crescenti conati ribellistici degli extra-parlamentari, arrivando, in molti casi, a spalleggiare direttamente ed anche fisicamente, nelle piazze, l’azione della polizia; celebre fu, a questo proposito, l’assalto e la riconquista condotti contro la facoltà di architettura, occupata dagli studenti rossi, a Roma. L’altra parte, invece, esigua nel numero dei suoi appartenenti, pescati soprattutto nell’area giovanile, subì per così dire, una “contaminazione” tramite l’innesto con la sinistra nello scontro generazionale e cominciò così a manifestare apertamente l’esigenza di un profondo mutamento9. 8 G. Tassani, Vista da sinistra, ricognizioni sulla Nuova Destra, Firenze, Arnaud, 1986, pp. 50-51. 9 Il 16 marzo 1968 a Roma, secondo Piero Ignazi, “non solo si consuma l’equivoco
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Leggiamo, nella rievocazione personale di un militante, come alcuni giovani vissero quei momenti drammatici: L’autunno in Italia arrivò presto, in molti scegliemmo di essere dalla parte della gioventù. Per la prima volta nel dopoguerra la storia sembrava offrirci, l’occasione di essere protagonisti, non esistevano più torri di avorio, la vecchia Europa, quella borghese, grassoccia e vigliacca, poteva essere travolta. Così credemmo, e fummo nelle piazze e nelle facoltà occupate. Compagno, camerata: parole che non avevano più senso. Un nostro militante fu ferito in piazza dalla polizia, i giovani della sinistra lo protessero quando cadde. Ci sembravano così vere le pagine di Gilles di Drieu; anche noi rivivevamo il momento esaltante di Place de la Concorde, quando destra e sinistra si unirono in un fremito di rabbia rivoluzionaria10.
Eppure, nonostante il travaglio interiore che scosse un’esigua parte della militanza neofascista, così come lo possiamo percepire nell’emotività di queste parole, e il carattere traumatico di questo avvenimento che, secondo Tarchi, obbligando i giovani missini a rispondere sullo stesso terreno dei coetanei di sinistra, li costrinse ad un ripensamento generale11, non concordiamo sul fatto che si possa ritenere il ’68 uno “spartiacque” significativo per la nascita di una ND. Non solo ci furono futuri protagonisti che, come lo stesso Marco Tarchi, si schierarono a favore del blocco d’ordine – egli all’epoca dei fatti aveva appena quindici anni e mezzo e iniziò una vera e propria militanza politica soltanto l’anno dopo – oppure altri ancora che erano completamente assorbiti da problemi di esistenza
dell’unità generazionale al di là delle etichette di partito, ma si innestano anche dinamiche disgreganti all’interno dell’Msi”. Quel giorno infatti sarebbe scoppiata una violenta rissa tra i rappresentanti del movimento studentesco improvvisamente schierati su posizioni, a volte, inconciliabili: “dai militanti della Giovane Italia e della Nuova Caravella (il gruppo universitario romano aderente al FUAN) che guidano l’occupazione della facoltà di legge, al gruppo paramilitare dei volontari nazionali, fatti affluire a Roma dal partito per sgomberare l’università dalle «canaglie rosse», per finire con quella frangia di simpatizzanti del FUAN, schierati apertamente con il Movimento Studentesco alla pari del Gruppo Lotta di Popolo, guidato dall’ex leader di Avanguardia Nazionale, Stefano delle Chiaie” (P. Ignazi, Il Polo escluso - profilo del Movimento Sociale Italiano, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 131-132). Vedi anche N. Rao, La fiamma e la celtica, cit., pp. 121-133. 10 Firmato: Gigi (presumibilmente Luigi de Anna), Come eravamo?, “La voce della fogna”, n. 19, ottobre 1978, p. 7. 11 M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, cit., p. 109.
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quotidiana spicciola12, ma ci fu anche chi, addirittura, aveva ben altre cose a cui pensare, come scrive Stenio Solinas, senza addurre alibi di sorta: D’altra parte, che cosa si voleva da me? Fino a che non entrai all’università, la mia lettura quotidiana era il “Corriere dello sport” e il “Tempo”, considerato un giornale “nero” mentre era solo un giornale liberal-democristiano. Non solo non mi ero accorto che in Italia c’era stato e c’era ancora il ’68: in quell’anno ero troppo occupato a vincere il torneo interno di calcio con la mia prima B perchè potessi venire avvertito che l’immaginazione voleva andare al potere. E il calcio mercato lo trovavo più affascinante dell’occupazione di Valle Giulia13.
2. Una scintilla d’oltralpe Per riscontrare la presenza di fatti od eventi significativi, che potessero rappresentare in qualche modo il segno di un cambiamento in atto all’interno delle acque morte della destra, avremmo dovuto perciò aspettare ancora alcuni anni. Nella primavera del 1974, con la sconfitta nel referendum sul divorzio, venne sancita la prima battuta d’arresto elettorale di quella che Piero Ignazi ha chiamato “la fase alta del Movimento Sociale” e che già aveva mostrato i primi segni di una incrinatura sin dall’anno precedente14. In sostanza si stava attuando il fallimento di quella politica che era stata ispirata dall’ex filosofo marxista Armando Plebe, adesso schierato su posizioni reazionarie: la mancata egemonizzazione sul mondo della destra radicale e il non controllo delle sue dirompenti attività appesantiscono drammaticamente la zavorra che il Msi si trascina nel tentativo di accreditarsi come Destra Nazionale15.
Insistere nella politica della Destra Nazionale avrebbe significato rivitalizzare il volto più conservatore del partito, mentre nella società si preannunciava un travolgente successo elettorale della sinistra. Alcuni giovani militanti, raccolti attorno alla corrente rautiana, percepirono questa situa12 Testimonianze tratte da, AA.VV., C’eravamo tanto a(r)mati, Vibo Valentia, Sette colori 1984, passim. 13 S. Solinas, Qualcosa che mai proverete, in, AA.VV., C’eravamo tanto a(r)mati cit., p. 204. 14 P. Ignazi, Il Polo escluso, cit., p. 167. 15 Ibid., p. 171.
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zione in tutta la sua gravità, e si resero conto che sarebbe stato perfettamente inutile controbattere l’imminente avanzata dei rossi con il vetusto armamentario della destra istituzionale. L’operato del GRECE fece dunque da concreto esempio sul piano dell’azione politica diretta e fornì gli stimoli giusti per iniziare quello sforzo di approfondimento culturale al l’interno del mondo di destra che in realtà poteva essere altrettanto ricco di idee e suggestioni. Fu infatti nell’estate del ’74, scrive Raisi, che “alcuni militanti del Msi fiorentino, tra cui lo stesso Tarchi, conobbero a Parigi alcuni esponenti della ND francese”16. Ma chi erano costoro? Da chi era formato il nucleo che avrebbe costituito la nascente ND? In pratica si trattava di un gruppo di giovani della generazione degli anni ’50 che aveva cercato di “tener duro oltre la consueta soglia anagrafica di disgregazione della militanza, dell’impegno a destra17. Questi giovani avevano alle spalle tipi di esperienze molto diverse, sviluppatesi anche fuori dello stretto ambito del partito: vi erano evoliani, cattolici, pagani, nietzscheiani ed altri. Con alcuni di loro (presumibilmente Tarchi, Cabona, Del Ninno, Malgeri), racconta Solinas, la sua “conoscenza di penna risaliva (…) al 1972: Scrivevamo tutti e cinque su una rivista che si chiamava «L’italiano»”18. Tutti E. Raisi, Storia ed idee della Nuova Destra italiana, Roma. Settimo Sigillo, 1990, p. 34. Fondamentale, dunque, era stato l’incontro con de Benoist e il GRECE avvenuto, come racconta Tarchi, nella completa indifferenza di leaders storici come Almirante, Rauti e Romualdi. Tanto sarebbe stato vero questo che, la proposizione delle tesi francesi su giornali come “Candido” e “Linea”, si sarebbe potuta attuare, in seguito, solo per merito delle scelte personali dei redattori e, come scrive Tarchi, “non di rado osteggiate dai vertici rispettivi, (…) dei due periodici”. (M. Tarchi, Recensione al libro di G. Tassani, Vista da sinistra, cit., “Diorama Letterario”, 1986, n. 98, p. 4). A questo proposito è interessante la testimonianza di Stenio Solinas, a quel tempo redattore capo di “Linea”: “Fu proprio il Msi a rompere per primo gli indugi. Fu proprio dagli ambienti missini che appresi come sia io che gli altri lavorassimo al soldo del partito socialista per rubare voti, giovani e intelligenze; fu questo poderoso trust di cervelli che partorì l’espulsione di una delle sue menti migliori dal partito; l’allontanamento giornalistico di chi aveva cercato di trasformare un settimanale vecchio e illeggibile in un qualcosa di moderno; fu in quest’ottica che mi sentii replicare dal direttore del foglio (“Linea”, per la cronaca) di cui, ancora una volta, ero redattore capo e che avevo riempito di contenuti in stile Nuova Destra, che, poichè la bottiglia (leggi = il giornale) era sua, voleva metterci lui il liquido che più gradiva (e infatti alla nuova bevanda il foglio non sopravvisse)” (S. Solinas, Qualcosa che mai proverete, cit., p. 220). 17 M. Tarchi, Dalla politica al “politico”; il problema di una nuova antropologia, in, AA.VV., Al di là della destra e della sinistra (atti del convegno “Costanti ed evoluzioni di un patrimonio culturale”), Roma, Lede, 1982, p. 25. 18 S. Solinas, Qualcosa che mai proverete, cit., p. 217. 16
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quanti, comunque, potevano racchiudere la propria esperienza nell’ambito della più ampia visione tradizionalista che tramite il magistero di Evola, era andata a rinfoltire lo scarno bagaglio ideologico della destra radicale italiana.
3. Julius Evola ed il “mito incapacitante” Il tradizionalismo, per prima cosa, aveva espletato un compito importante, quello di fungere da “balia asciutta” a molti dei futuri protagonisti della ND, sia nutrendoli del proprio latte ideologico, che preservandoli intatti dalle insidie esterne nel lungo periodo dello svezzamento: Il tradizionalismo integrale sopravvisse, pur in mezzo ad infinite difficoltà, alla caduta storica del regime fascista; e sopravvisse tanto brillantemente da costituire una delle anime più radicate della destra dell’ultimo dopoguerra; quella che ha fatto da sostrato (sic!) al travaglio delle generazioni più giovani nel periodo della contestazione, della crisi globale, dei valori, dell’esplosione delle contraddizioni del sistema occidentale19.
In pratica, dopo la seconda guerra mondiale la funzione di Evola era divenuta in modo preminente quella di una “griglia interpretativa rassicu rante”20, attraverso la quale filtrare il duro impatto con il mondo circostante. Ma Evola, usando sempre le parole di Tarchi, fu anche il “crocevia” da cui si erano dipartite strade differenti che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, avevano portato a destinazioni opposte. Molte di queste interpretazioni si sarebbero trasformate in altrettante letture scolastiche del tradizionalismo. Così ha riassunto Tarchi il sorgere del “mito incapacitante”: il problema nasce dal fatto che questo schema interpretativo (necessario e utile) si portò dietro tutta la zavorra delle “equazioni personali”. Cioè dei punti di vista individuali dei singoli esponenti di questo filone. Il che ha condotto molti ad acquisire, della visione tradizionale, i punti di riferimento più schematici, bizzarri e folkloristici. Risultato: il sorgere di un mito incapaci-
19 M. Tarchi, Introduzione a J. Evola, La Torre, Milano, Il falco, 1977, p. 10. Sull’importanza del pensiero di Evola per i giovani rautiani vedi, M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, cit., pp. 93, 114. 20 M. Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, “Diorama Letterario”, 1984, n. 76, p. 6.
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tante, collegato alle attese di una “fine del ciclo” ineluttabile e al rifuggire da ogni opzione politica per privilegiare solo la formazione personale21.
Evola, dividendo il mondo nelle due categorie metafisiche di “spirito moderno” e “spirito tradizionale”, aveva in pratica creato due realtà incomunicabili tra loro, contribuendo così ad infondere nei suoi adepti un profondo odio nei confronti della “modernità”. Il “mito incapacitante” trovava nutrimento in quell’incolmabile iato tra l’essere e il dover essere, che faceva rifuggire il militante da qualsiasi tentativo di intervento politico o, peggio ancora, in un caso ancora più estremo, che faceva nascere in lui la tentazione per la scorciatoia della violenza. Per la ND l’atteggiamento da mantenere verso l’epoca della secolarizzazione rappresentò, dunque, una netta divaricazione teorica non solo nei confronti di qualsiasi forma di tradizionalismo integrale, ma anche nei riguardi di gran parte della destra radicale. La scelta di “agire nel mondo” scavalcando il “mito incapacitante” comportò così una piena accettazione della “modernità”, che per altro veniva apertamente vissuta in modo “tragico”. Avrebbe scritto in seguito Giuseppe Giaccio: Il rifiuto della modernità in quanto “peccato” e della storia in quanto “aberrazione” sono ulteriori aspetti dell’anti-modernismo coi quali la ND non ha niente a che vedere. “Accettazione tragica” – lo abbiamo detto e lo diremo ancora innumerevoli volte – è la formula che forse rende meglio l’approccio neodestro alla modernità e che esprime una volontà di calarsi nelle pieghe, negli interstizi del moderno, per trarre da esso inedite alchimie22.
Pur mantenendo intatto nei cuori il richiamo ad una Weltanschauung tradizionale, la decisione di aprirsi “tragicamente” ma anche definitivamente al mondo, sanciva in ogni modo irrevocabilmente il distacco dalla vecchia destra. Questo atteggiamento da mantenere nei confronti della modernità, il ripudio del “mito incapacitante” insito nel tradizionalismo, sembrava essere il minimo comun denominatore di molti giovani della ND ma, soprattutto, qualunque fosse il motivo ispiratore che li aveva sedotti all’impegno politico, tutti quanti erano accomunati da una medesima esigenza, “quella di rompere gli steccati della politica partitica, di ri M. Tarchi, Ipotesi e strategia di una Nuova Destra, in, A più mani, Proviamola nuova (atti del seminario, “Ipotesi e strategie di una Nuova Destra”), Roma, Lede, 1980, pp. 110-111. 22 G. Giaccio, Destra, sinistra e apocalisse, “Diorama Letterario”, 1989, n. 123, p. 7. 21
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mettere in discussione la logica e le funzioni degli schieramenti, di aprire gli orizzonti della destra ad una riflessione di ampio respiro”23. Tutti quanti, insomma, sentivano come fortemente restrittiva la politica che veniva espressa nelle sezioni e nei comizi di partito. Affiorava impellente la necessità di sperimentare nuovi approcci metodologici, l’urgenza di compiere nuove elaborazioni teoriche per mettersi al passo coi tempi. Fu così che fra il 1973, anno in cui si verificarono i primi contatti con il GRECE, ed il dicembre 1974, data in cui uscì il primo numero de “La voce della fogna”, queste riflessioni iniziarono ad esprimersi a voce alta. E se ancora non si cominciava a parlare di una Nuova Destra nei termini in cui è stata poi declinata, si era, però, ben consapevoli del fatto che qualcosa di nuovo e non ancora chiaramente definito, di lì a poco si sarebbe dovuto concretizzare, perchè, affermava Marco Tarchi nell’ottobre del 1974, “chi non vive nella realtà, e preferisce rifugiarsi nella fideistica contemplazione delle proprie semplici speranze, si sa, disperato muore…”24. Nello stesso articolo, prendendo come spunto la vitalità del GRECE e l’autorevolezza di una rivista come “Nouvelle École” che, strettamente legata ai problemi del proprio tempo, poteva permettersi una tiratura in costante ascesa, Tarchi calcava la mano sui cronici ritardi della cultura italiana di destra in merito, specialmente, alla mancanza di valide riflessioni riguardo ai mutamenti sociali ed ambientali; egli esortava a non passare sotto silenzio le conclusioni cui erano giunte le nuove scienze e a “preferire al sacro odor di polvere dei salotti da discussione accademica, la freschezza di un dibattito che sta sconfinando dal mondo intellettuale, nel mondo degli uomini comuni”. Ed ecco che, facendo quasi un dispetto a quella “rispettabilissima corte di nomi consacrati, disposti a disquisire dall’alto del loro seggio”25, nel dicembre del 1974 finalmente venne alla luce, dopo un travagliato parto nell’afoso luglio parigino, il primo numero de “La voce della fogna”, rivista satirica fiorentina (costruita sul modello della francese “Alternative”) che ebbe subito una diffusione “sotterranea” abbastanza discreta negli ambienti giovanili dell’Msi. Il giornale, recitava il primo editoriale, “è speranza che da queste nuove catacombe salga una voce nuova che parla (sic!) di verità che infrange (sic!). i vecchi dogmi”26. E da questa “fogna” M. Tarchi, Il futuro? È in fondo a destra, “Linea”, 1979, n. 13, p. 20. M. Tarchi, Alla ricerca del nostro tempo, “L’Alternativa”, 1974, nn. 6-7, p. 2. 25 Ibid. 26 Non firmato, Oggi le catacombe si chiamano fogne, “La voce della fogna”, 1974, n. 1, p. 3. 23 24
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dove, ironizzando sul noto slogan antifascista, i giovani di destra erano stati ricacciati, risaliva, prepotente, verso la luce una gran voglia di cambiare: Cambiare uno stile: piagnone, arruffato, improvvisato, alla sperindio. Perdiana, ma è possibile mai che sian solo patrimonio degli “altri” lo spirito di iniziativa, la mentalità da formica, la cocciutaggine, la rivolta?27.
Lo sforzo principale chiaramente era quello di svincolarsi dal sistema di comunicazioni classico degli ambienti missini; di adottare un nuovo linguaggio giovane e spregiudicato, che in un certo senso “prendesse le distanze dal destrese sezionale senza ricalcare i fonemi dell’avversario”28. Un linguaggio che procurasse l’effetto di una ginocchiata al basso ventre. Le sferzate satiriche erano distribuite un po’ a tutti. Si andava dal caustico sarcasmo che fuoriusciva dalla cornice del ritratto dell’uomo d’ordine, descritto come un fallocefalo imbottito di luoghi comuni sulla superiorità del mondo “libero” su quello comunista, sulla legge e sull’ordine (prevalentememte democratico, talvolta con sfumature golliste, e tal’altra fino al golpismo e al colonnellismo, che tuttavia sono rigurgiti passionali ed estremi, da rigettare di norma dopo matura riflessione)29,
alla sottile ironia espressa nei riguardi dei “musetti adoranti di varie migliaia di aderenti a Comunione e Liberazione, setta di bambini bene, credenti a cui scappa detto «cazzo»! (morsicatura delle labbra?)”30, o su istituzioni come l’ONU dove un banco (…) non si rifiuta a nessuno. E infatti ci sono tutti o quasi: dagli ugandesi di Amin ai beduini del Mali, delle Maldive. Ed il loro voto è pari, data la nota rilevanza politica di tali stati, a quello delle nazioni occidentali (del resto noi italiani è meglio che si stia zitti…)31,
per finire alla irriverente canzonatura del tradizionalista, immobilizzato Non firmato, Salvare il salvabile, “La voce della fogna”, 1976, n. 8, p. 9. Non firmato (presumibilmente M. Tarchi), Progetto, itinerario, prospettive, in, A più mani, Hobbit/Hobbit, cit., p. 21. 29 Non firmato, Contributo (modesto) alla storia della “centralità democratica”, “La voce della fogna”, 1975, n. 2, p. 8. 30 Non firmato, Il mattino dei maghi, “La voce della fogna”, 1975, n. 4, p. 8. 31 Non firmato, Decolonizzare che passione, “La voce della fogna”, 1975, n. 6, p. 5. 27 28
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nella sua azione politica dall’attesa della “fine del ciclo” e perciò intento a “martirizzarsi” nella contemplazione del “carezzante Kaliyuga”: Perbacco, un ragna-rokkr non passa mica come un autobus, una volta ogni ora e tanti minuti! Insomma: unica soluzione, l’immobilizzazione. Lasciate che scivoli via anche questa stramaledetta “quarta età” (questione al massimo di 3 o 4 mila anni, ve l’assicuro…) e tutto sarà risolto. Di cinema, fumetti, mass media; musica; istruzione e amenità del genere strafottetevene32.
Fin dall’inizio, dunque, “all’unico foglio che fa da destra, della satira la sua unica arma”33, non potevano che piovere contro tramite le varie pubblicazioni di destra, gli strali dell’ estabilishment intellettuale del partito. Marco Tarchi, responsabile del foglio fiorentino così prendeva le sue difese in una lettera scritta al direttore della rivista “L’alternativa”: Parlare il linguaggio dei giovani, pur mantenendo una nostra incrollabile visione del mondo? Scandalo ed orrore; Cercare di trarre fuori dalle “mode” correnti quei rari spunti che consentirebbero di modificare le interpretazioni usuali? Eresie. Logicamente non tutti la pensano allo stesso modo. E le esigenze dei puristi amanti della torre di avorio, e quelle di chi sente preponderante il bisogno di stabilire un tramite con la nuova generazione, cozzano irrimediabilmente. (…) Perchè è agli altri e non a noi, che dobbiamo parlare questo nuovo linguaggio propagandistico. Sono gli altri a doverci vedere sotto una veste inaudita, a doversi sbalordire, a dover dubitare34.
4. Verso un “gramscismo di destra” Ma qual era questa “veste inaudita” di cui si parlava? Era solamente quella intessuta dalle sconnesse folate di ridanciana novità de “La voce della fogna” o veramente l’intenzione era quella di far indossare un nuovo abito ad un modo di far politica ormai logorato? A dire il vero, già nell’ottobre del 1974, nell’articolo de “L’Alternativa” che abbiamo esaminato in precedenza, si affacciava l’ipotesi di un nuovo approccio metodologico: Uno sforzo che sappia creare una “Nuova Scuola”, una serie di circoli intellettuali che, partendo dalla realtà, vadano via via espandendo, senza bisogno
Non firmato, Del più e del meno, “La voce della fogna”, 1978, n. 18, p. 7. M. Tarchi, La satira di destra, “L’Alternativa”, nuova serie, 1976, n. 1, p. 43. 34 Ibid. 32 33
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di etichettatura, forti solo delle verità scientifiche e culturali, l’influenza delle moderne teorie, operando così, all’inverso, quel fenomeno di influenza occulta nel quale si sono dimostrati maestri i marxisti negli anni ’50 e ’60.
Tarchi, indiscutibilmente, era rimasto colpito dall’esempio francese ove la destra che pensa, pur in una situazione ben meno favorevole della nostra, ha saputo pazientemente costruire un’infrastruttura di uomini di cultura che, riuniti intorno a “Nouvelle École” e ai “Gruppi di ricerca e di studio per una civiltà europea” (GRECE), hanno saputo creder tanto nel loro compito da arrivare a costituire un potente gruppo di pressione intellettuale35.
In questo campo, però, l’attenzione che veniva rivolta ai transalpini non era frutto del caso o di una semplice infatuazione esterofila, bensì poteva vantare da parte italiana un solido retroterra concettuale e “metapolitico” proprio in quelle due figure che nel recente passato erano emerse sul desolante panorama culturale della destra. “Metapolica” non era, dunque, una parola nuova e sconosciuta, Evola e Romualdi, dalle cui riflessioni tanti giovani militanti avevano attinto a piene mani, ne erano stati gli antesignani nell’uso ed i più acuti teorizzatori: sin dai tempi della esperienza de la “Torre” e di “Diorama filosofico’”, Evola cercò di indicare una via di intervento culturale che, escludendo (sic!) dal vuoto intellettualismo, sapesse tradursi in una scelta di campo globale, metapolitica, estesa in ogni dominio dell’attività umana: dalla religione alla filosofia dall’arte alla politica, dalla scienza alla sessualità, dalla letteratura alla tecnica… 36
E se il barone nero emanava così tanto fascino gran parte del merito era da attribuire proprio ad Adriano Romualdi ed al libro che a lui aveva dedicato e che incise tanto profondamente nell’immaginario giovanile37. M. Tarchi, Alla ricerca del nostro tempo, cit., p. 2. In un’intervista rilasciata alla rivista “Up and Down”, nel 1988, Tarchi, ad una domanda nella quale si chiedeva di chiarire, per l’ennesima volta, i rapporti intercorsi tra la ND e l’esperienza francese, rispondeva ribadendo ulteriormente come l’influenza del GRECE fosse concepita all’inizio nei termini di un puro “discorso di metodo”, e ribadendo, altresì, come una vera e propria influenza sul patrimonio ideologico arrivasse solo in un secondo momento (Identità e progetto politico, Intervista a M. Tarchi, “Diorama Letterario”, 1988, n. 118, p. 3). 36 M. Tarchi, 11 futuro? È in fondo a destra, cit., p. 20. 37 A. Romualdi, Julius Evola, l’uomo e l’opera, Roma, Volpe, 1979. Scrive Marco Tarchi a questo proposito: “Da quando, ragazzini di sedici anni appena compiuti, una copia 35
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Ma Romualdi non si arrestò al semplice ruolo di mediatore di lusso; egli divenne un concreto esempio da imitare per il suo fecondo impegno intellettuale e perchè, pur consapevole del “mito incapacitante” implicito in certe letture scolastiche del tradizionalismo, spaziava nei suoi interessi dalle origini indoeuropee a Platone a Nietzsche alla Konservative Revolution sino alla catarsi bellica per tracciare poi pagine (incompiute) sulla struttura di un movimento rivoluzionario che hanno avvinto per anni un’intera generazione di non conformisti38.
Nonostante la presenza tutelare di questi nobili padri, non possiamo affermare che la scelta del cosiddetto “gramscismo di destra” fosse a quel tempo già cosciente e diffusa, ammesso, ma non concesso, che si possa considerare il “gramscismo” come una scelta di completa ritrazione dalle forme di politica istituzionale a vantaggio di un’azione dispiegata prevalentemente nella società civile. Particolarmente vicino a questi giovani era infatti l’esempio fornito da Pino Rauti, il cui approccio, definito come “politico culturale”, era comunque strettamente subordinato al classico strumento del partito. Ed a riprova del fatto che non si poteva ancora percepire una grande dissonanza nei loro propositi dal “metodo” rautiano, in un articolo, pubblicato quello stesso ottobre del 1974 per la rivista “L’italiano”, Marco Tarchi non faceva altro che confermare la validità di un altro tipo di rapporto tra politica e cultura ben più realistico. Egli, in sostanza, tesseva le lodi proprio dell’ alter ego di Gramsci, cioè a dire, Lenin: strumento, indispensabile all’espandersi progressivo di una azione rivoluzionaria tesa alla conquista del potere, e, al di là dell’affermazione di nuovi criteri di organizzazione dello stato, non può chiamarsi, oggi che partito. (…) Eppure, è forse proprio di un “leninismo” di destra che abbiamo sentito la mancanza. Di un’analisi lucida, cioè, dei compiti rispettivi affidati a partito, organi paralleli, gruppi fiancheggiatori, pubblica opinione favorevole39.
Le varie articolazioni “metodologiche” avrebbero seguito, di qui in prestata ci immerse d’un colpo nel ciclone Evola cambiando, lo si voglia o no considerare positivamente, il nostro impatto con la realtà che ci circonda, sino alla ricomparsa nel ’71 (stagione di certezze e illusioni) di un testo che già amavamo e che ci riproponeva uno degli ingegni più lucidi e affascinanti di una destra che rompeva coi compromessi e i torcicolli pur nella vivida coscienza delle proprie radici” (M. Tarchi, recensione a, A. Romualdi, L’uomo e l’opera, cit., “Diorama letterario”, 1980, n. 26, pp. 7-8). 38 M. Tarchi, recensione a, A. Romualdi, cit., p. 8 39 M. Tarchi, Il problema del partito, “L’italiano”, 1974, n. 5, p. 661.
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avanti, un processo costante di chiarificazione segnato da alcune tappe più o meno significative. Nel 1975 il vistoso successo elettorale del Pci, che venne considerato come frutto del continuo inserimento dell’intellighenzia di sinistra in circoli, case editrici, università, giornali ecc., determinò un’ulteriore spinta ad approfondire il discorso dello sviluppo di una cultura politica (quella trascurata cultura di destra dove persino gli avversari potevano pescare a piene mani), come elemento essenziale e imprescindibile per qualsiasi agire. Si auspicò, quindi, un maggior sforzo in questa direzione, pur nella consapevolezza di dover proseguire in quel solido rapporto che ancora permetteva di mantenere un legame con la casa madre e di non dimenticare le esigenze di ordine “tattico” che erano state all’origine di tutto: c’è a destra un solo partito; bisogna costruirgli attorno una realtà culturale e politica tale da richiamare gente, da farla attivamente intervenire. (…) Qui non si vuole la cultura al potere, si vuole la cultura, e basta. (…) La destra è una miniera da saccheggiare, possibile che ci debbano pensare gli altri al nostro posto? (…) Occorre modernizzarsi, infiltrarsi, gli avversari non ci hanno proprio insegnato niente?40
Nel 1976 un nuovo episodio avrebbe conribuito a rinvigorire questo tentativo di far filtrare nell’universo neofascista una diversa sensibilizzazione culturale: nella speranza che si operasse una netta divaricazione dalla destra istituzionale nella scelta di temi ed idee, nasceva “Diorama Letterario”, supplemento culturale di recensioni bibliografiche de “La voce della fogna” e simbolo concreto di questo rinnovato sforzo. Finalmente, dai semi dispersi un po’ dovunque negli anni precedenti, da quei semi gelosamente custoditi e nutriti con cura, spuntavano i primi germogli: nel luglio del 1977 assunse un particolare significato l’invito che fu rivolto a Stenio Solinas e Maurizio Cabona affinchè partecipassero ad una “Universitè d’été” tenuta dal GRECE. Come ci racconta Solinas, Cabona e lui furono i primi a vedere all’opera direttamente i cugini francesi. L’incontro assunse subito un particolare rilievo; trasmise l’impulso giusto ad andare fino in fondo in quel processo di “decantazione” che già da tempo impegnava i giovani più intraprendenti: fu una settimana dalla quale tornammo che ci sembrava di aver toccato il cielo con un dito. Finalmente avevamo conosciuto l’organizzazione, i cervelli, 40
S. Solinas, Una battaglia diversa, “L’italiano”, 1975, n. 8, p. 382.
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le capacità di analisi che avevamo cercato. Sembravamo due amanti che avessero incontrato l’anima gemella. La realtà superava la fantasia: conquista della società civile, predominio del “politico” sulla politica politicante, distacco dai partiti, nuove sintesi tra destra e sinistra, struttura capillare. E poi la ricchezza delle loro riviste: “Nouvelle École”, “Elements”… non c’era dubbio: l’asse Italia-Francia andava fatto41.
Alla fine di quello stesso anno, si poteva dunque dire che la scelta del l’opzione “metapolitica” fosse definitivamente compiuta: l’analisi in profondità dei vari fenomeni sociali e la ricerca di una vera legittimità politica che, per mezzo del consenso, avrebbe dovuto formarsi nella società civile, ne erano i cardini principali. Scriveva a questo riguardo Marco Tarchi: de Benoist analizza Gramsci e ne rovescia lo schema: la destra – egli dice – deve conquistare in prospettiva non i circoli politici ma la società civile: quella in cui si affermano le condizioni per un duraturo successo di una idea universale, di una visione del mondo. Per giungere allo scopo, essa deve costituire centri di resistenza culturale, vere e proprie basi di un contropotere culturale – e perciò stesso – politico – da opporre al totalitarismo dei manipolatori della pubblica opinione42.
5. Uscire dal “tunnel del fascismo” Il nuovo approccio “metodologico” aveva comportato anche un profondo mutamento teorico. I giovani della ND si erano infatti resi conto del profondo rimescolamento sociologico che era avvenuto nell’Italia del secondo dopoguerra, di come erano mutati i canali di socializzazione dei giovani, dalla famiglia alla scuola, di come si era dilatata l’area del tempo libero, di come andava evolvendosi il modo di far politica, con l’abbassamento stesso di quella soglia di età che delimitava l’ingresso al vero e proprio impegno attivo. Il partito, al contrario, non riceveva più stimoli dall’esterno, perchè era legato indissolubilmente al passato: la sua immagine si rispecchiava acriticamente con quella del “fascismo” ed il clima che vi si viveva era quello di un eterno dopoguerra destinato a non concludersi mai: aleggiava, insomma, la cosidetta “sindrome della sconfitta”. L’u nica attenuante che si era disposti a concedere era che, secondo Tarchi, ai 41 42
S. Solinas, Qualcosa che mai proverete, cit., p. 218. M. Tarchi, A confronto con il mondo moderno, “Dissenso”, 1977, n. 3, p. 3.
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neofascisti si era riproposta dopo il conflitto “quella stessa opzione obbligata” che si era presentata 25 anni prima a Mussolini: giunti, cioè, sull’agone politico quando i giochi erano ormai già stati fatti, coloro che avevano condiviso l’esperienza della Repubblica di Salò, non poterono che situarsi là dove ancora rimaneva uno spazio disponibile, e nel clima di montante dissidio fra gli ex alleati bellici di primi venti annunciatori della guerra fredda, di risentimenti per l’epurazione e la prima ondata di lottizzazioni politiche, questo luogo di accoglienza non (poteva) essere che la destra43.
E la destra nel corso di tutti quegli anni era divenuta niente più che un recipiente dove ribolliva il minestrone delle più disparate verdure ideologiche: un microcosmo che cercava in tutti i modi “di darsi un’unità intorno ad una filosofia politica”, ma che invece era fatto, nelle ironiche parole de “La voce della fogna”, di furori terzomondisti riverniciati Islam e di lamenti perchè lo zio Jimmy non ce l’ha fatta; di populismo d’accatto e pretese di meccanismi sociali selettivi per trovare il posto; di pena di morte e spirito da desperado44.
La strada maestra che venne tracciata da quel tipo di destra fu quella del piccolo “cabotaggio elettoralistico”, intervallato da ricorrenti pruriti golpistici. In ogni caso, comunque, lo sguardo rimaneva sempre fisso al l’indietro, rivolto a quel “fascismo” che rappresentava il vero modello cui avrebbe dovuto rifarsi qualsiasi forma di neoautoritarismo. Ma i giovani “neodestri” volevano finirla con questo “torcicollo” ideologico, sentivano impellente la necessità di uscire dal “tunnel del fascismo”. Avrebbe scritto Marco Tarchi: La mia tesi è questa che la nascita e la legittimità di una nuova destra trae M. Tarchi, Recensione a P. Ignazi, cit., pp. 7-8. Il fatto di essere diventati i propagatori italiani delle idee della Nouvelle Droite fece si che i media gli affibbiassero proprio quello stesso nome ed essi lo adottarono con spavalderia accettandone, sia quel tanto di implicito che era racchiuso nel fattore “novità”, sia il richiamo alla matrice originaria di destra, facendone, persino un uso spregiudicato: “ho pensato invece che, tanto più i commentatori si ostinavano a qualificarci «Nuova Destra», tanto maggiore scalpore avrebbero sollevato le nostre idee ed iniziative, che col clichè della destra ben poco avevano a che fare” (Liberarsi della “destra”, Intervista a M. Tarchi, “Diorama Letterario”, 1988, n. 118, p. 6). 44 Non firmato, Comproviamoci, “La voce della fogna”, 1980, n. 23, p. 7. 43
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origine dalla progressiva constatazione della falsità di una identità simbolica basata sul rapporto psicologico-mitico, assai prima che politico, con il fascismo e le esperienze nazional-rivoluzionarie ad esso affini45.
Il tutto era cominciato quindi da un’attenta rivisitazione del bagaglio ideologico dell’area di provenienza, soprattutto in quei settori che avevano vissuto ai margini del regime, da una profonda revisione critica di quelle che Sternhell chiama “le eredità classiche della destra non conformista”, una rilettura che muove[va] i passi proprio dalla convinzione che il patrimonio intellettuale della terza via si estende[sse] ben oltre i confini dell’esperienza fascista46.
Eppure il superamento teorico del ventennio e la ricerca di nuovi modelli aveva caratterizzato anche l’attività della parte più impegnata della destra radicale, da cui interamente proveniva l’esperimento ND. Contrariamente a questa ultima, però, essa era andata fossilizzandosi in un’unica critica rivolta al regime: quella di non esser riuscito a mobilitare anche spiritualmente le masse, infondendo loro un duraturo spirito di sacrificio e dedizione. Di questo aspetto, invece, avevano lasciato testimonianza i cosiddetti “fascismi minori” e, per certi versi, anche lo stesso nazismo, per cui entrambi assursero subito a nuovi paradigmi teorici del radicalismo. La ND, viceversa, sentiva come facente parte integrante delle proprie radici la mediazione di due temi centrali nel dibattito storiografico sul fascismo: la grande politica – capacità di progettualità mitica – e il consenso quale capacità di impregnare un vasto aggregato umano dei fondamenti di una visione del mondo. La chance perduta dal fascismo nel farsi, da ideologia contestatrice, pratica autoritaria, è quella della nazionalizzazione delle masse, della costruzione di un asse popolo-nazione47.
Il vero fine di questa operazione di “revisione” storica voleva essere quello di potersi finalmente sbarazzare di qualsiasi “fantasma del passato”, quello di potersi liberare di ogni probabile ipoteca nostalgica che in qualche modo condizionasse la speranza che dal cristallizzato involucro della crisalide autoritaria uscisse finalmente una creatura nuova. Questa M. Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit., p. 5. M. Tarchi, L’ipnosi del pregiudizio, “Diorama letterario”, 1989, n. 125, p. 9. 47 M. Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit., p. 7. 45 46
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ultima avrebbe dovuto crescere nella consapevolezza del definitivo rifiuto della violenza come “normale” metodo politico e la ND teneva vivamente a specificare che mai si era “bamboleggiata coi progetti di distruzione del sistema”, come invece continuavano a fare alcune frange della destra radicale48. Il terrorismo, che veniva praticato da gruppuscoli fanatizzati o da singoli alla ricerca di prove da superare per conseguire affermazioni di carattere esistenziale, veniva ritenuto una forma di violenza particolarmente odiosa. D’altronde si sapeva fin troppo bene che c’erano stati periodi della storia in cui l’esercizio della violenza era divenuto la normale prassi vigente e coloro che non avevano saputo adeguarsi non avevano potuto far altro che soccombere. Anche per questo motivo la ND, pur rifiutando quel tipo di violenza che veniva esercitata da elementi completamente avulsi dal contesto sociale in cui vivevano, era, però, ben lungi dal ricadere sul modello di un assoluto irenismo, avrebbe infatti scritto Tarchi nel 1980: conta infatti soprattutto il modo con cui il protagonista dell’atto violento si presenta alla pubblica opinione; è il vecchio aforisma maoista del “pesce che nuota nella sua acqua”: quando la collettività è preventivamente mal disposta nei confronti dell’atto violento, esso risulta incompreso e ingiustificato, e il suo protagonista si trova conseguentemente isolato49.
E poiché da questo ragionamento, molto realistico, si evinceva, che quel che “contava” era soprattutto il “modo” in cui il protagonista dell’atto violento si presentava alla pubblica opinione, come già si era domandato Tassani, un dubbio rimaneva in sospeso: che cosa sarebbe potuto accadere il giorno in cui il pesce avesse dovuto tornare a nuotare nella propria acqua?50
6. Il fascino dell’ambiguo ’77 Come già aveva fatto Tassani, anche Marco Revelli ha sottolineato l’importanza di un anno che è stato lungamente mitizzato dalla sinistra e ha fatto coincidere la nascita della ND con l’organizzazione del primo “Cam Non firmato, Carta da visita, in “Diorama letterario”, 1984, n. 76, p. 2. Intervento di Marco Tarchi nel dibattito riportato in, A più mani, Proviamola nuova, cit., p. 192. 50 G. Tassani, Vista da sinistra, cit., pp. 62-64. 48 49
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po Hobbit”, tenutosi proprio nel giugno del 1977 e “assunto esplicitamente dai suoi stessi protagonisti – con un evidente enfatizzazione del suo significato e della sua portata – come il punto d’inizio della propria «rivoluzione copernicana»”. Per Revelli questa era infatti la prima volta in cui l’estrema destra italiana si era resa conto di poter inserire la propria inedita presenza all’interno delle dinamiche sociali e soprattutto nel mondo giovanile, andando oltre quella “sindrome della sconfitta” che per lungo tempo l’aveva relegata nel “ghetto delle nostalgie”51. Revelli aveva colto a pieno l’importanza che aveva rivestito l’organizzazione del primo “Campo Hobbit” per i suoi protagonisti. Esso aveva avuto il merito di inserire, nella pratica di un ambiente umano, il tema e l’evento specifico della “festa”, la quale andava intesa come un’interruzione temporanea della vita ordinaria, come un intervallo “ludico” in cui veniva sospeso il lineare trascorrere del tempo, una concezione questa introdotta dalla moderna cultura occidentale, che secondo Franco Cardini non aveva “saputo proporre di meglio se non una sua più esatta computazione a fini socioeconomici produttivistici (l’invenzione dell’orologio)”52. Tale festa, seguendo le parole di Bozzi Sentieri, aveva rappresentato inoltre un tentativo di ri-sacralizzare l’esistenza, “per ritrovare un senso qualitativo della condizione umana (…); un’indicazione spiritualmente vitale per la ricostruzione dell’uomo e della comunità”. In questo quadro, nella scelta del nome, si inseriva il richiamo al fantastico mondo di Tolkien, popolato di elfi e draghi e sentito, proprio per questo, così lontano dalla moderna civiltà materialistica. Nello stesso frangente, però, la festa era “momento d’instabilità, di ritorno al caos (…), tempo di dissacrazione civile”53. Ed in pratica il primo “Campo Hobbit” era diventato il palcoscenico di un nuovo microcosmo giovanile, la palestra di un nuovo linguaggio che già vantava una pluriennale circolazione “sotterranea”. In seguito Marco M. Revelli, La Nuova Destra, in F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, cit., pp. 119-120. Sull’importanza dei Campi Hobbit nell’esperienza del neofascismo vedi anche L. Lanna, F. Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Firenze, Vallecchi, 2003, pp. 219-224, ma soprattutto M. Tarchi, La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra, cit., pp. 9-70. 52 F. Cardini, Alle radici di una concezione del mondo dell’avvenire, la comunità che si ritrova: il mito, il rito, la liturgia, il gioco, la festa, in AA.VV., Al di là della destra e della sinistra, cit., p. 157. 53 M. Bozzi Sentieri, Recensione a F. Cardini, I giorni del sacro, il libro delle feste, Milano, Editoriale nuova, 1983, “Diorama letterario”, 1983, n. 64, p. 4. 51
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Tarchi avrebbe detto che la funzione dei “Campi Hobbit” (al primo ne seguiranno altri due) era stata quella di rivelare “all’esterno un nuovo stile, una nuova realtà umana54. Ma, a dispetto dell’oggettiva rilevanza di questi avvenimenti, io credo che Revelli rimanga soggiogato dal fascino dell’ambiguo ’77, ovvero dalla possibilità teorica di poter tracciare in quello stesso anno un significativo parallelo fra i fermenti giovanilistici delle due estreme. Sappiamo come una frangia della destra radicale vagheggiasse una coincidenza di azione “tattica” con l’autonomia operaia, al fine di rovesciare con la forza questo sistema. Sappiamo anche come qualcuno fosse rimasto particolarmente attratto dall’esuberante “spontaneismo” della sinistra55, ma riteniamo, tuttavia, che sia stato il 1974 l’anno che ha segnato una svolta veramente decisiva. D’altronde, non sono certo stati gli stessi protagonisti del progetto ND a gettare legna sulla brace del mito ’77. Umberto Croppi, ricordando uno degli eventi più significativi di quell’anno, avrebbe infatti scritto: Qualcuno mi perdonerà, o forse no, se getto ora la maschera di un bluff, la cacciata di Lama. Un paio dei nostri c’erano davvero, poco conosciuti, e non furono certo loro a determinare l’episodio: ne incoraggiarono, tuttalpiù, un tantino l’esito, erano lì per “caso” e il “caso” volle che una TV locale li filmasse in primo piano tra gli altri. Ci fu poi chi si incaricò di montare il “caso” nei termini in cui è passato, si fa per dire, alla storia56.
Per concludere l’esame sull’ipotesi di Revelli e di rimando su quella di Tassani, dobbiamo comunque tener presente (ma è tutt’altra cosa dal ricercare l’origine certa di un determinato fenomeno politico) l’influenza che l’esperienza complessiva dei cosiddetti “anni di piombo” ebbe su gran parte della gioventù della Nuova Destra, ovvero l’influenza su quello che venne indicato come “il lento forgiarsi di un nuovo tipo umano diverso dal reduce non meno che dall’esacerbato conservatore”57. Un “nuovo tipo umano” che, nei loro intendimenti, doveva essere caratterizzato dalla ricerca di uno stile di vita “comunitario”, per certi versi molto simile a quello che era già apparso all’indomani del primo conflitto mondiale e che 54 M. Tarchi, Dalla politica al “Politico”: il problema di una nuova antropologia, cit., p. 26. 55 Cfr. nel capitolo precedente il paragrafo dedicato a Franco Freda. 56 U. Croppi, Dedicato a Martina, in AA.VV., C’eravamo tanto a(r)mati, cit., p. 71. 57 M. Tarchi, Recensione a R. Chiarini, P. Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia, Milano, Angeli, 1983, “Diorama Letterario”, 1983, n. 65, p. 6.
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aveva avuto scaturigine “nella sanguinosa fusione del crogiolo bellico”58. Non possiamo infatti dimenticare, a questo proposito, come uno degli aspetti che aveva attirato di più l’attenzione nei riguardi dei giovani contestatori di sinistra, fosse stata quell’ “aspirazione pur confusa ad un mondo fatto di sentimenti istintivi e non di ipocrisie; di comunità spontanee e non di strutture imposte – partiti, sindacati, enti di stato”, proprio come aveva rilevato lo stesso Tarchi in una sua analisi svolta proprio in pieno periodo di scontro frontale fra gli opposti estremismi59.
7. Verso una completa autonomia Nel 1978 il drappello dei giovani di destra che prese parte ad una nuova “Universitè d’été” fu notevolmente rinfoltito. Sulle ali di questi rinnovati entusiasmi si consolidò il progetto della rivista “Elementi”. Paolo Ceola, nel suo libro La ND e la guerra contemporanea, ha accennato proprio a questo tipo di interpretazione affermando che “la prima espressione compiuta della ND italiana è la rivista «Elementi», che nasce nel 1978”60. Il concepimento della rivista, che ricalcava l’omonima rivista francese, avvenne all’indomani del fallimento del secondo “Campo Hobbit”, svoltosi nel segno di un’avvenuta riconciliazione fra le correnti missine e soprannominato ironicamente “Campo Gollum” a causa dei negativi esiti finali: “Campo Gollum. Perchè no? Lasciati in anticamera i manicheismi, l’ammissione che le «forze del male», le ombre di Mordor, per i tolkeniani affezionati, erano (anche) fra noi, non avrebbe potuto che giovarci”61. E aveva sicuramente giovato il prendere coscienza della presenza di queste “ombre di Mordor” tra chi, in cuor suo, meditava ben altri sviluppi. Il campo, nonostante le avversità, aveva dato l’avvio ad un processo di chiarificazione interna e di depurazione da quegli elementi che, a dispetto di qualsiasi cambiamento, erano ancora visceralmente legati al passato, se non, addirittura, fatalmente attratti dalla perfida sirena della violenza. Tutto ciò contribuì alla formazione di quelle aggregazioni che si sarebbero poi solidificate proprio intorno alla redazione di “Elementi”. Ceola sviluppa nel suo libro soprattutto l’aspetto “polemologico” del 60 61 58 59
M. Tarchi, Tra festa e rivoluzione, “Diorama Letterario”, 1985, n. 83, p. 31. M. Tarchi, Destra, giovani e contestazione, “L’Italiano”, 1976, n. 10, p. 645. P. Ceola, La Nuova Destra e la guerra contemporanea, Milano, Angeli, 1987, p. 20. Non firmato (presumibilmente M. Tarchi), Progetto, itinerario, prospettive, cit., p. 25.
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pensiero della Nuova Destra e non si affanna, perciò, a ricercarne le eventuali origini. Egli si limita a mettere in risalto quella che può considerarsi come una tappa importante del cammino verso la completa autonomia dal Msi, ma non certamente la linea di partenza o quella di approdo di un processo che era ancora in piena fase di elaborazione. Se prendiamo in considerazione, per esempio, il dibattito suscitato dall’indicazione metodologica del GRECE, ci accorgiamo che essa, per quanto sostanzialmente accettata, andava messa a fuoco sulla situazione italiana, dove la mole ingombrante di un partito, intento a crogiolarsi nella propria immagine demodè, rappresentava per alcuni un costante impiccio sulla strada del rinnovamento. Non tutti, infatti, pensavano che questo ultimo dovesse essere in tutti i modi emarginato o che la scelta di agire nel “paese reale” ne implicasse per forza, il completo abbandono. Nel 1979 Carlo Nizzani, per esempio, scriveva che “il discorso del cosiddetto «gramscismo di destra», [andava] tenuto (…) strettamente collegato al discorso più strettamente politico per evitare squilibri che a lungo andare [potessero] risultare nocivi”62. E l’anno dopo lo stesso Maurizio Cabona avrebbe auspicato la nascita di radio libere non manifestamente collegate al Msi, per poter in tal modo “svolgere un’azione sfumata, di persuasione sublimale (…) su ascoltatori «indifesi», convinti di essere sintonizzati su una stazione commerciale, e assai più numerosi di quelli di una radio di partito”63. Sicuramente la presenza di questi legami consunti, di questi contrappesi frenanti non faceva altro che gettare ombre sul problema degli intricati rapporti da mantenere col Msi, come sull’eventuale individuazione di una data che sancisse il verificarsi di un definitivo distacco della ND da questo ultimo. A questo proposito Monica Zucchinali sorvolando sull’ipotesi di Ceola e su quelle precedenti ha sottolineato, invece, l’importanza che ebbe lo svolgersi del terzo “Campo Hobbit”, nel quale ha intravisto il germogliare di uno “spirito di nuova destra”, e, per altre ragioni, del primo convegno di studi dei giovani rautiani, tenutosi in una località della Val D’Aosta, ed i cui atti, pubblicati nel volume Proviamola nuova (atti del seminario ipotesi e strategia di una ND) hanno contribuito “ad accreditare l’immagine di una destra colta”. Ma è soltanto con il secondo convegno di
62 C. Nizzani, Protesta metapolitica nei giovani, nel rilancio del MSI-DN, “Linea”, 1979, n. 11, p. 3. 63 M. Cabona, Nuova cultura e mass-media, in A più mani, Proviamola nuova, cit., p. 105.
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studi che, secondo l’autrice, “è possibile parlare della nascita effettiva del fenomeno ND”64. L’allieva di Giorgio Galli, infatti, non pensa che si possa parlare di “Nuo va Destra” finché le sue varie manifestazioni furono effettuate sotto l’ala protettiva del partito, finché essa poteva essere considerata “un’appendice, autonoma fin che si vuole, della componente di minoranza del Msi”65. Ecco che allora dobbiamo attendere fino all’espulsione dal partito di Marco Tarchi, membro della direzione nazionale, avvenuta nel gennaio 1981, per poter parlare, finalmente, di un’effettiva separazione66. Se dunque, anche secondo lo stesso Tarchi, mentre fino al 1979-80 la ND aveva puntato al rinnovamento radicale dell’area d’origine e solo dopo questa data, quindi, il movimento avrebbe puntato a cercare altri interlocutori67, l’analisi della Zucchinali non sembra essere corretta per due ordini di considerazioni. La 64 M. Zucchinali, A destra in Italia oggi cit., p. 179. II terzo “Campo Hobbit” si tenne tra il 16 e il 20 luglio a Castel Camponeschi, un paese abbandonato dai suoi abitanti in provincia dell’Aquila. Grande fu lo sforzo dei giovani rautiani per riportarlo, anche se temporaneamente, in vita: “il primo impatto degli osservatori è quello di avere a che fare con un vero e proprio complesso di strutture architettoniche, dove le vie, le case, i punti di riferimento hanno tutti un significato allusivo: «corso Brasillach», «vicolo cieco dei camerati che sbagliano», «Palazzo del drago», ridotto soltanto a smercio di crepes al cioccolato ecc. Tutte le case sono dipinte con «murales» antinucleari o mitologici, nel tentativo di ridare vita anche se per 5 giorni – ad un luogo disabitato da anni” (Ibid., p. 175). Il convegno valdostano si svolse invece nel gennaio del 1980 e gli atti sono stati pubblicati nel volume A più mani, Proviamola nuova, cit., mentre quello di Cison di val Marino (TV) si tenne tra il 12 e il 14 marzo 1981 e gli atti sono stati raccolti nel volume, AA.VV., Al di là della destra e della sinistra, cit. 65 M. Zucchinali, A destra in Italia oggi cit., p. 177. 66 Marco Tarchi fu espulso dal Msi a causa di una pagina di sbeffeggiante ed irriverente satira sul gruppo dirigente del partito, apparsa nel n. 25 dell’autunno 1980 de “La voce della fogna”. Sotto l’intestazione Peggio del “Male” si dava notizia del “colpaccio” messo a segno dal giornale fiorentino, che era riuscito a sottrarre al “Male” “un falso numero del «Secolo d’Italia» già impaginato, per beccare d’infilata tanti patrioti ignari depistati dal malizioso giornalaio”. Seguiva la riproduzione di questo “falso numero” che sotto il titolo, Annullato il XII Congresso nazionale del Msi-DN. La segreteria scopre le truffe e gli imbrogli dei “Badogliani” Servello, Tremaglia e Pisano e della loro sporca banda. L’on. Almirante si dimette dall’incarico, comprendeva una serie di false dichiarazioni rilasciate dai maggiori esponenti Missini. Ma in realtà, come ha sottolineato lo stesso Tarchi, la rottura definitiva con il partito avvenne sulla questione della pena di morte, dove la posizione favorevole del Msi fece apparire il partito ai giovani della ND come una “forza reazionaria, sostenitrice strenua della maniera forte in tema di ordine pubblico” (M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia cit., p. 138). 67 M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia cit., pp. 141-142.
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prima, di carattere personale, riguarda la vicenda politica della stessa autrice, che per quanto si sforzi di apparire come un’osservatrice esterna, in realtà, come dimostrano i suoi articoli su “Diorama Letterario” e la sua partecipazione ai “Campi”, ha vissuto questo progetto in prima persona, ma, essendosi accostata, per ragioni anagrafiche, qualche anno in ritardo rispetto al nucleo originario è portata, forse, a svalutare l’esperienza che era maturata prima dell’inizio del suo impegno attivo. La seconda è di carattere più strettamente teorico. Se consideriamo, infatti, il processo di distacco che è avvenuto nei confronti del Msi a livello metodologico, riguardante, in pratica, il modo di concepire la prassi politica, ci accorgiamo che questo si era verificato ben prima della data che la Zucchinali ha scelto come segna confine. Se poi il problema fosse quello di individuare una discriminante ben precisa al livello della produzione teorica di idee e suggestioni, non faremmo altro che constatare come molte delle elaborazioni della ND siano state riciclate dal Msi e dalle sue organizzazioni giovanili, che le hanno utilizzate senza neppure che venissero menzionate le stesse fonti. In tal modo possiamo immaginarci la confusione che può sorgere in un osservatore esterno che cerchi di avvicinarsi a questi fenomeni. Gettando infine lo sguardo sulle singole vicende politiche dei protagonisti, possiamo constatare come, non in tutti i componenti, si fosse compiuta una separazione così netta quale, per esempio, avvenne per Marco Tarchi ed altri. Ciò è vero, soprattutto, se consideriamo questo aspetto al livello delle singole coscienze personali; il problema di lasciare una “porta aperta per la fuga” o di non abbattere quel traballante ponte di collegamento con le energie più vitali del partito, era un punctum dolens che allora veniva vivacemente dibattuto all’interno della ND. Era stato lo stesso Tarchi a constatare come per molti militanti della ND la lacerazione del cordone ombelicale con il neofascismo meno involuto fosse ancora incompleta e come l’aver voluto mantenere un canale di scambio con la vecchia destra, transitabile in ambedue i sensi, fosse stato un grave errore politico. Tuttavia, egli serbava sempre un filo di speranza per un possibile ricongiungimento con le energie più vitali del partito: “Spetta dunque forse alla ND il compito di tentare di accelerare questa presa di coscienza lasciando aperta una via di evoluzione dal pianeta delle nostalgie e degli anacronismi agli spiriti più consapevoli della catastrofe che sta per abbattersi sul neofascismo”68.
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M. Tarchi, Recensione a E. Raisi, “Diorama Letterario”, 1990, n. 140, p. 13.
Capitolo 4
Il pensiero politico della nuova destra italiana*
Nicola Rao ha definito la ND, “probabilmente il più interessante tentativo culturale di superare il neofascismo e di dar vita a un nuovo itinerario ideologico all’interno del mondo missino”1. Secondo Stenio Solinas poi, essa aveva puntato a porsi come soggetto di elaborazione metapolitica, a staccare un ambiente dal culto infecondo del passato e a costringerlo a misurarsi con la modernità e i suoi problemi. Un progetto insomma che voleva uscire dall’angusta visuale della politica tradizionale, concepita e esaurita nel numero di seggi conquistati, nella visibilità o meno degli esponenti chiamati a rappresentarla2.
Quali sono state dunque le idee politiche che hanno caratterizzato questo movimento dalle sue origini, ai primi anni ’90, quando sempre più si sarebbe fatta chiara l’insofferenza dei suoi protagonisti per lo stesso termine “nuova destra”, in principio accettato obtorto collo?3 Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, due si potevano considerare i capisaldi teorici da cui si sarebbe sviluppata la dottrina politica della ND. Da una parte, Julius Evola aveva rappresentato il solido ancoraggio ad una “visione del mondo” le cui origini si perdevano nei secoli. E questo al di là di quel “mito incapacitante” insito nella sua lettura, al di là degli esiti * Alcune parti di questo capitolo sono già apparse nell’articolo, La Nuova Destra italiana e le sue tesi politiche, “Biblioteca della Libertà”, 1992, n. 118. N. Rao, La fiamma e la celtica, cit., p. 253. S. Solinas, Per farla finita con la destra, Milano, Ponte alle Grazie, 1997, p. 28. 3 Come avrebbe ricordato in seguito Danilo Zolo la questione terminologica era “seria e delicata se è vero che Tarchi, pur sostenendo tesi apparentate a quelle di de Benoist, oggi rifiuta categoricamente una sua collocazione a destra ed esprime dubbi circa lo stesso appellativo di «Nuova Destra»” (D. Zolo, prefazione a, P.A. Taguieff, Sulla nuova destra, cit., pp. 5-6). 1 2
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estremi cui potevano condurre alcune sue interpretazioni. Il suo concreto esempio, aveva contribuito al forgiarsi di un determinato stato d’animo, all’acquisizione di un coerente atteggiamento interiore da mantenere, senza cedevolezze, nei confronti della modernità trionfante. Si poteva dire che il “Barone Nero” facesse parte del dna dei “nuovodestri”. Dall’altra, Alain de Benoist, pur condividendo pienamente questo tipo di weltanschauung, aveva rappresentato invece l’intelligenza creativa che prendeva di petto la realtà e vi si gettava dentro a capofitto per ingaggiare con essa un combattimento ad armi pari: la modernità non era un fatto unico e incontrovertibile, non vi si arrivava seguendo le linee di un tracciato stabilito una volta per tutte; diverse erano le strade che potevano essere esplorate. De Benoist insomma incarnava la novità, ovvero, il rinnovarsi della tradizione.
1. “Il nemico principale”: il liberalismo Da entrambi la ND poteva vantare d’aver ricevuto una medesima eredità: la critica feroce nei confronti del liberalismo, il quale, attribuendo all’economia una funzione primaria in questa società, aveva svilito la politica di ogni suo significato più nobile e caratterizzante. La ND respingeva così la concezione “mercantilistica” dell’esistenza, rifiutava di concepire il proprio futuro come se fosse destinato ad approdare inevitabilmente al credo liberista. Questa società aveva ridotto i più disparati bisogni dell’uomo, i suoi stessi valori spirituali al rango di una mera questione d’interessi materiali, ed era qui che stava la sua maggiore responsabilità: la progressiva trasformazione che la politica sta subendo nel clima culturale del liberalismo e che la ha ormai portata a ridurre al lumicino una delle sue funzioni fondamentali, quella di formazione ed assegnazione di valori nei quali il pubblico possa identificarsi, acquisendo coscienza delle qualità e delle specificità del suo habitat, delle sue radici, della sua storia come nazione e come popolo, per dare via libera agli effetti perversi dell’altra funzione, quella di allocazione delle risorse, che sta trasformandosi in una dittatura dell’interesse su ogni altra componente della vita sociale4.
E la dittatura dell’interesse non poteva non creare un artificioso e progressivo aumento dei bisogni più fittizi, favorendo l’estendersi e il dilatarsi di una nuova mentalità consumistica. In una situazione del genere risulta4
M. Tarchi, Democrazia senza feticci, “Diorama Letterario, 1990, n. 137, p. 1.
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va essenziale la funzione del mercato, quale unico, vero artefice e giudice della eguaglianza e della disuguaglianza fra gli uomini: solo nel momento in cui facevamo la fila di fronte alla cassa di un supermarket potevamo ammettere l’esistenza di un criterio che stabilisse una pari dignità tra i diversi cittadini. Di fronte ad essa, infatti, potevamo considerarci senza distinzioni, dei consumatori di beni materiali. Per il resto, d’altronde, era lo stesso mercato a determinare quelle abissali differenze socio-economiche che contraddistinguevano le moderne società capitalistiche: Quanto al “successo” vantato dal neocapitalismo liberale, esso è tale sotto il punto di vista dell’aumento della produttività e dei consumi, ma non può nascondere i lati oscuri dei suoi effetti politici. Sotto l’esplosione dei consumi, l’Occidente cela un malessere sociale profondo, di cui emergono lentamente alla superficie i sintomi: crisi degli alloggi in costante aggravamento, silenziosa “deportazione” delle popolazioni dai centri urbani ridotti a centrali di produzione di affari e servizi, demolizione degli equilibri ecologici, sgretolamento dei nuclei familiari, crescita delle fasce di più estrema povertà tipiche delle “società dei due terzi”, rissosità degli egoismi di gruppo e di categoria, abbandono a se stessi dei soggetti economicamente non produttivi, in primo luogo gli anziani5.
Ma per la ND c’era un’altra verità, ancora più inquietante: coloro che in realtà erano i più svantaggiati economicamente, in fondo, mostravano di gradire questa dittatura del benessere che non faceva altro che sfruttare la naturale apatia delle masse, le cui potenziali vette di critica o di protesta venivano continuamente ottuse dalle frequenti iniezioni di attese consumistiche nella società. Tutto questo sembrava potersi ripetere indeterminatamente per la presenza di un ciclo psicologico che attivava “nei dominati una preventiva richiesta di beni materiali e immateriali – corrispondenti all’offerta programmata, in modo da garantire credibilità alla commedia del consenso”6. M. Tarchi, Ad ovest poco di nuovo, “Diorama Letterario”, 1989, n. 130, p. 16. Per la ND andavano condannate “le artificiose estrapolazioni” che avevano dato vita a “ingiuste diseguaglianze socio economiche” e l’unica possibilità di farlo, era quella di imporre una guida politica all’economia “non negatrice della libertà imprenditoriale ma severa equilibratrice delle istanze dei singoli con quelle della collettività – le uniche in grado di garantire una autentica giustizia sociale” (M. Tarchi, Dialogo sull’Europa, “Diorama Letterario”, 1990, n. 133, p. 7). Il metodo pratico per attuare questa eventuale svolta era quello di rispolverare le cosiddette “politiche di piano” per le quali rivestiva particolare importanza la nozione di “Bene comune”. 6 M. Tarchi, La colonizzazione sottile, “Trasgressioni”, 1987,n. 3, p. 61. 5
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Il risultato evidente di questo stato di cose era che nessuno alzava più la voce per manifestare il proprio dissenso, che nessuno aveva più la forza per reagire a questa opprimente situazione. Se qualche isolato poi, per non si sa quale ventura, fosse riuscito a farsi ascoltare, la società liberaldemocratica che, in via teorica, avrebbe dovuto tutelare le minoranze, ma “solo a condizioni che, e sino a che restano tali”, nei fatti si sarebbe dimostrata regime di tutt’altra pasta. Non solo, la maggior parte degli stati vantava “un fiorire di disposizioni costituzionali e di norme penali contro la propagazione di opinioni razziste, xenofobe, fasciste, anarchiche, antinazionali, eversive”, ma, come corollario delle leggi oramai codificate, si prevedevano “comportamenti non scritti di sistematica esclusione dai ruoli di responsabilità”, per coloro che non si schieravano apertamente in favore dell’ideologia dominante: non si fa carriera nella pubblica amministrazione, nell’università, nel giornalismo e in molti altri settori se si esagera nel far sfoggio di dissenso (pur muovendosi sul piano di un’assoluta legalità). Dichiarato o tacito, il Berufverbot è sempre vigilante. La limitazione di “mobilità sociale” di un individuo o di un gruppo si dirà, non è la galera. Certo: la discriminazione è la versione aggiornata, corretta e più soffice della repressione: la più efficace, perchè non crea scalpore nè proteste di massa, non attiva campagne di sostegno e rimane circoscritta ai diretti interessati, condannati a godersi la marginalità nel silenzio. Da un punto di vista di forma, di questo autoritarismo morbido non resta traccia: ma la sostanza non cambia7.
Il sistema, dunque, agiva su due fronti: da una parte puntava a creare un’emarginazione di fatto dal punto di vista delle carriere nei vari campi professionali, dall’altra, invece, si aveva l’uso spregiudicato dei mass-media. Questi ultimi, nel momento in cui venivano accesi, fungevano da tamtam divulgatore della filosofia liberal-democratica, diventando i reali artefici di un condizionamento costante che arrivava sino al limite della persuasione occulta. Quando, invece, avrebbero dovuto trasmettere, in teoria, i messaggi di gruppi “antisistema”, venivano semplicemente spenti. In questo modo si toglieva a questi ultimi ogni remota possibilità di avere la pur che minima cassa di risonanza. Era questa la cosiddetta “congiura del silenzio”, che non si manifestava unicamente quando veniva tagliato il filo del microfono al dissidente di turno; miglior sorte, infatti, non sarebbe 7 M. Tarchi, Lo scandalo dell’occidente, “Diorama Letterario”, 1989, n. 123 febbraio, pp. 4-5.
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capitata neppure a quei fatti che venivano raccolti sotto la denominazione di “mali del nostro tempo” (effetti della droga, criminalità, persecuzioni di popoli ed etnie, disastri ambientali) e che non potevano in nessun modo essere taciuti: Questi elementi di turbamento e di riflessione che, travalicano il livello meramente individuale vengono manipolati dai mezzi di comunicazione di massa con la tecnica della riduzione graduale e dall’approccio selettivo; una volta richiamati all’attenzione, anche in forme eclatanti, vengono sottoposti ad analisi e “dissezioni” pubbliche alla rassicurante presenza di esperti e addetti ai lavori, il cui compito primo è quello di contribuire, consapevolmente o meno, a rimuoverne la percezione immediata ed “impressionante” dall’immaginario collettivo8.
In questa società, con l’ausilio delle più sofisticate tecniche, si era venuta a creare una specie di “colonizzazione sottile” che era riuscita a privare ogni critica di qualsiasi legittimità. Il potere suggestivo di questo modello faceva “temere l’avvento, (…), di una nuova forma, «dolce», di totalitarismo – di un sistema, cioè, capace di inibire praticamente qualsiasi alter nativa”9. E questo era un problema che non riguardava unicamente il destino politico di alcune e ben determinate nazioni: la “colonizzazione sottile”, l’imposizione del tipo di modernizzazione assunto dalle società liberaldemocratiche stava ormai assumendo una dimensione planetaria, e lo stato che ne issava in alto i vessilli, il “gendarme” che fungeva da garante e che ne assicurava la graduale e non sempre indolore estensione in ogni angolo del globo erano proprio gli Stati Uniti d’America10. La ND ritornava così a cavalcare un cavallo di battaglia che era stato di Julius Evola sin dal 1929 quando, con l’uscita su “Nuova antologia” del saggio Americanismo e bolscevismo si era schierato apertamente dalla parte di coloro che auspicavano una rinascita politico-culturale dell’Europa soggiogata dalla minaccia russa e dagli interessi statunitensi. Era questo un fronte che in seguito avrebbe annoverato tra le sue fila anche la figura di Adriano Romualdi, impegnato lui pure, attivamente, nella lotta per con M. Tarchi, La società deserta, “Trasgressioni”, 1988, n. 8, p. 61. M. Tarchi, Occidente, decadenza di un mito, prefazione a A. de Benoist, Oltre l’Occidente, Firenze, La Roccia di Erec, 1986, p. 5. 10 R. de Herte (pseudonimo di Alain de Benoist), L’America è Cartagine, “Diorama Letterario”, 1991, n. 147, p. 2. 8 9
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trastare l’ordine internazionale scaturito dagli accordi di Yalta. Ma sia Evola che Romualdi stesso, a dire il vero, dovendo scegliere tra i due mali, non avevano mostrato tentennamenti: ciò che li spaventava maggiormente era un’eventuale successo del comunismo; temevano, infatti, che l’avvento di tale regime avrebbe comportato una sicura eliminazione fisica mentre, viceversa, il modello americano avrebbe permesso ai dissidenti, perlomeno, di sopravvivere e vivacchiare all’interno di quegli angusti spazi che gli sarebbero stati riservati. Questa querelle riguardante il grado di pericolosità dei due grandi avversari del fascismo era stata riattizzata agli inizi degli anni ’80 da un vivace pamphlet di Alain de Benoist che aveva individuato nella società liberal-democratica il vero “nemico principale” da combattere11. E la ND italiana non voleva affatto sottrarsi al fascino del teorico francese, anzi, sembrava seguirne fedelmente le orme: Eccoci alla pietra dello scandalo, all’indicibile pronunciato: la decadenza – oggi incarnata nel virus dell’omologazione americana – è ancora peggiore della dittatura in stile sovietico. La seconda, infatti, uccide individualmente, senza peraltro mai riuscire ad espellere dal territorio controllato gli anticorpi del dissenso (eventualmente coagulabili in situazioni e fasi straordinarie); la prima “annienta le nostre possibilità di sopravvivenza in quanto popolo”12.
Questo, dunque, il pericolo che più si paventava: l’utopismo totalitario insito nel progetto di “villaggio globale”, in quel “mondialismo” (one worldism) che, nel tentativo di attuare una completa unificazione culturale del pianeta, nel segno deteriore della coca cola e dei fast-foods, rischiava di distruggere la peculiare specificità di ogni popolo. Per la ND il vero razzismo era quello imposto dal liberalismo egualitario nel suo quotidiano sforzo di livellamento verso il basso di qualsiasi espressione o picco culturale, nella sua incredibile capacità digestiva ed assimilativa di ogni diversità. Ma la colpa principale che, a livello politico, si imputava alla società liberale, con la sua abnorme dilatazione della funzione economica, era quella di deviare l’attenzione e l’interessamento della gente nei confronti del buon andamento dello stato. Come un virus contagioso, infatti, si era infiltrata in ogni anfratto della convivenza civile una crescente “sindrome A. de Benoist, Il nemico principale (1982), Firenze, La roccia di Erec, 1983. M. Tarchi, Recensione al libro di A. de Benoist, Il nemico principale, cit., “Diorama Letterario”, 1983, n. 5, p. 3.
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da disaffezione” che si evidenziava soprattutto in quei cittadini che, ormai, avevano perso ogni senso di ciò che era “pubblico”; cittadini che si consideravano sganciati da ogni appartenenza ad una collettività che trascendesse in qualche modo l’individuo, cittadini che erano tesi unicamente ad ottenere il proprio tornaconto personale. Da qui derivava uno scenario caratterizzato dalla “frammentazione e segmentazione ipertrofica del tessuto sociale”, dall’esplodere degli egoismi sociali, e quindi la necessità vera e propria di uscire dal liberalismo, che non era affatto un metodo asettico e neutrale per governare questo tipo di modernità compiuta. La modernità, infatti, non si era realizzata in questa forma una volta per tutte, non era situata al vertice di un cammino inesorabile; se sgombravamo finalmente il campo da qualsiasi mistificazione ideologica forse avremmo trovato il bandolo della matassa: Una volta spogliato delle nozioni di “metodo” perfettamente condivisibili (libertà d’espressione, tolleranza per l’altro-da-sè, consenso, controllo), il liberalismo non si riduce affatto a un guscio vuoto: è e rimane un’ideologia dura, i cui cardini sono un’antropologia negativa, l’individualismo, la subordinazione del politico all’economico, il rifiuto delle identità collettive, il materialismo razionalistico, la svalutazione delle solidarietà e dell’autorità, e via dicendo. E sono proprio questi tratti – si badi bene – che hanno determinato la crisi delle democrazie contemporanee, la disaffezione generalizzata dei cittadini, la degradazione della convivenza che si fa palpabile nelle metropoli, la perdita del senso dell’azione collettiva e lo scadimento etico della vita pubblica13.
2. Per una democrazia organica e libertaria Il nocciolo duro del liberalismo era, senza alcun dubbio, l’individualismo, che veniva visto come una sorta di ideologia e prassi dell’egoismo; l’individualismo, assurto, ormai da tempo, a vero nemico di tutte le destre. Ma mentre Evola lo riteneva consustanziale alla stessa modernità, tanto da respingere entrambi in quanto entità inscindibili, la ND mostrava di mantenersi vicina all’opinione di de Benoist; egli aveva svelato, appunto, il carattere tutto “ideologico” dell’individualismo, vero e proprio substrato del liberalismo. Tolto questo, sarebbero rimaste soltanto nozioni di metodo perfettamente condivisibili che, in definitiva, non erano altro che le 13 M. Tarchi, Gli Ayatollah del liberalismo e la crisi della democrazia, “Mondo Operaio”, 1989, n. 8, p. 119.
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varie “tecniche” con cui la democrazia si era attuata storicamente. Una svolta decisiva in questo senso, nella separazione teorica dei concetti di democrazia e liberalismo, si era avuta con la pubblicazione nel 1985 di Democrazia il Problema, che vedeva de Benoist impegnato nel riproporre come modello la società organica dell’antica Grecia, l’unica alla quale si potesse riconnettere il significato etimologico originario dello stesso termine democrazia14. Non possiamo negare che nell’ambito della destra, anche per quanto riguarda il passato, si era spesso effettuata una distinzione tra democrazia “organica” ed “inorganica”, mettendo in evidenza il carattere del tutto negativo della seconda rispetto alla prima ma, nonostante questa differenziazione, era proprio lo stesso termine democrazia, in quanto tale, che aveva suscitato avversione, dubbi, perplessità. Sempre nel 1980, per esempio, Marco Tarchi, pur effettuando un’aperta professione di pluralismo, teneva però a precisare che non era questa “un cedimento al principio democratico (almeno nel senso etimologico del termine): nessuno di noi ha una visione così quantitativa dei rapporti sociali da credere che i più debbano per forza comandare”15. E due anni dopo era Mario Bozzi Sentieri a ribadire il concetto “che la democrazia non è l’ id quo maius cogitari nequit della storia, non è l’apice della civiltà oltre il quale c’è l’abisso, il passo indietro. La democrazia è una possibilità di governo, non l’unica ne l’ultima”16. Il 1985 avrebbe quindi segnato un’evidente virata nella rotta intrapresa dalla ND. Tanto era vero questo che sarebbe stato proprio Bozzi Sentieri, adesso, ad incitare “alla costruzione di una nuova forma di democrazia sostanziale”17, ed, addirittura, si sarebbe arrivati ad accusare il liberalismo di allontanarsi dal vero archetipo democratico, del quale, per contrasto, venivano finalmente accettate tutte le cosiddette regole tecniche: “In primo luogo quella della legittimazione politica basata sul consenso e del controllo popolare sugli atti del governo”, e questo, come si vede, valeva a prescindere dalla diatriba organico-inorganico, che pure avrebbe continuato a rivestire un ruolo essenziale nel pensiero nuovodestro. Per concludere, era chiaro che una volta che si fosse dimostrata questa netta separa A. de Benoist, Democrazia, il problema, Firenze, Arnaud, 1985. M. Tarchi, Intervento al dibattito, in A più mani, Proviamola nuova, cit., p. 198. 16 M. Bozzi Sentieri, recensione al libro di M. Veneziani, Vilfredo Pareto, borghesia, èlites, fascismo, Roma, Volpe, 1981, “Diorama Letterario”, 1982, n. 44, p. 12. 17 M. Bozzi Sentieri, Democrazia vo’ cercando, “Diorama Letterario”, 1986, n. 89, p. 2. 14 15
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zione tra democrazia e liberalismo, si sarebbe dovuto trovare, in qualche modo, un surrogato di quest’ultimo, “ciò di cui il nostro tempo [aveva] urgente bisogno”, vale a dire, “di ideologie della pluralità vissuta, da opporre all’individualismo”18. La negazione dell’individualismo comportava tutta una serie di ulteriori implicazioni, ed in modo particolare, non poteva far accettare l’idea di fondo che una “natura umana” fosse presente in ogni uomo a prescindere dalla sua appartenenza ad un determinato popolo, razza o cultura. Scriveva Giuseppe Giaccio a questo proposito, commentando il filosofo francese Jacques Maritain: Egli dà per acquisito che vi sia una natura umana uguale in ogni uomo, il che non è affatto pacifico, essendo possibile sostenere che la natura umana è la cultura, e che perciò sono configurabili ed ugualmente ammissibili, tanti fini quante sono le culture che gli uomini si danno19.
In tal modo era evidente che, negando ciò, conseguentemente, si negava anche qualsiasi forma di egualitarismo, a vantaggio invece di una rivalutazione del concetto di ineguaglianza che non andava fatta valere nella sua accezione meramente naturalistica e biologica ma bensì, doveva essere declinata nel senso di “specificità”: Specificità è, per noi, applicazione dinamica e positiva, culturale, della nozione naturale di differenza: ne è un potenziamento e una (necessaria) precisazione. (…) L’accento che su di essa poniamo traduce la nostra convinzione che il senso riposto all’interno di ogni cultura popolare possa essere liberato solo garantendone l’espressione spontanea, nel contesto “differenziato” di ciascuna società nazionale20.
Di fronte alle utopie egualitarie, foriere, secondo la ND, di spaventosi totalitarismi, il valore principale non poteva più risiedere nell’individuo considerato come una monade scissa da ogni contesto sociale, etnico, geografico. L’imperativo era quello della riscoperta delle proprie radici, del senso di appartenenza ad una collettività, bisognava aspirare a potersi finalmente rispecchiare in un’identità che fosse sentita come comune; e 18 M. Tarchi, Quando S. Just fa il portaborse, “Diorama Letterario”, 1988, n. 115, p. 9, e Id., La società deserta, cit., p. 70. 19 G. Giaccio, Gli equivoci del giusnaturalismo, “Diorama Letterario”, 1989, n. 127, p. 23. 20 M. Tarchi, Occidente, decadenza di un mito, cit., p. 7.
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quale miglior referente, per la nostra tradizione, vi poteva essere se non quello di nazione? L’asse popolo-nazione era, dunque, un referente centrale, importante ma non l’unico. Innanzitutto la ND, che per la propria storia personale si era sviluppata come comunità volontaria, aveva un particolare occhio di riguardo nei confronti di quelle microaggregazioni solidali che nascevano nella società civile, per tutti quei gruppi umani dove, al proprio interno, era esaltata la “persona”, come elemento centrale. Vi era poi da considerare l’altro versante, quello delle macroaggregazioni, ed era proprio di fronte alla portata della sfida internazionale che si rifiutava di accondiscendere all’unica soluzione dell’egoismo nazionale. Se il nazionalismo allora, adattandosi a questa dimensione, doveva acquistare un senso rinnovato, ebbene questo doveva diventare un nazionalismo di liberazione basato sul riconoscimento della pari dignità degli altri popoli. Liberazione ovviamente, dalla tirannide russo-americana, il cui condominio mondiale, pur destinato a svilirsi progressivamente dalla parte dell’impero sovietico, continuava però, ad essere mantenuto artificiosamente in vita dagli USA, quale giustificazione della propria potenza. Questa liberazione non avrebbe potuto certo effettuarsi completamente con la sola forza di singoli popoli; per quanto importante fosse questa lotta ai fini di una vera autodeterminazione, bisognava allargare il proprio sguardo per sentirsi partecipi di qualcosa di più grande. E più grande significava Europa. L’Europa però non doveva essere sbalzata da est ad ovest e viceversa come un pallone da calcio in balia di due contendenti, doveva assumere una posizione autonoma e neutrale, mantenendo una certa equidistanza nelle proprie scelte politiche; doveva, inoltre, dotarsi, a garanzia di queste prerogative, di una sua difesa. Le alleanze, quindi, andavano cercate altrove, oltre i tradizionali schieramenti, là dove potevano esservi comuni interessi per la libertà e l’autodeterminazione, là dove esistevano forze non ancora piegate al modello liberal-democratico. Il partner che si andava profilando all’orizzonte non poteva quindi essere che il “terzo mondo”. Come avrebbe efficacemente riassunto de Benoist c’era “l’urgenza di un nuovo terzomondismo fondato non sul rifiuto della cultura europea, ma sul riconoscimento della personalità e della legittimità di tutte le culture”21. Garantire lo sviluppo di un modello alternativo, opponendo un’efficace resistenza allo strapotere delle multinazionali, in grado di fare e disfare governi a loro piacimento, implicava, per prima cosa “la creazione di 21 A. de Benoist, Oltre l’occidente. Europa-Terzo mondo: la nuova alleanza (1984), Firenze, La roccia di Erec, 1986, p. 45.
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grandi spazi economici autocentrici” che avrebbero permesso di farla finita con un sistema che si era basato sullo sfruttamento intensivo di materie prime e mano d’opera nei paesi meno sviluppati, per non tacere poi su quegli enormi sprechi che erano insiti in un’economia incentrata prevalentemente sull’esportazione. Ma ancora più fondamentale, in questa ottica, diventava il modo in cui avrebbero dovuto essere intessuti i rapporti con i paesi terzi, si doveva cercare, cioè, di mantenersi distanti da ogni tentazione eurocentrica, “e da qualsiasi concezione gerarchica dei rapporti fra nazioni e continenti, sul tipo di quelli vigenti all’epoca della «guerra del sangue contro l’oro»”22. Ogni sforzo invece, doveva essere indirizzato per aiutare a fare uscire dallo stato di penuria le nazioni meno “sviluppate”, mettendo loro a disposizione il ricco patrimonio scientifico e tecnologico accumulato dall’Europa. Tale operazione andava però compiuta con una certa attenzione perchè, nella logica della ND, sarebbe stata un’assurdità il solo pensare che il terzo mondo giungesse ad adottare, come unico modello da ricalcare, lo stesso “Occidente”, finendo, così, per ricadere in quell’errore che veniva imputato all’Americanismo. Caso mai, avrebbe avuto senso proporre l’esempio opposto; scriveva infatti Mario Sanesi: Un fugace accenno ad un sociologo indiano di nome Ahis Nandy, il quale si è chiesto se il modello occidentale sia l’unico al quale possono ispirarsi i paesi del terzo mondo, o se essi non debbano invece elaborarne uno originale, fondato sulla loro condizione reale ed ispirata al concetto di “frugalità”. Può essere questo il suggerimento che anche il ricco occidente dovrà seguire?23.
Non era da poco questo cambio di mentalità in un ambiente dove aveva prosperato per decenni il “pregiudizio occidentalista”. Che il referente principale fosse la Nazione intesa come “comunità di destino”, oppure una di quelle microaggregazioni volontarie che prosperavano nella società civile o, ancora, l’Europa stessa, a prescindere dalle sue eventuali alleanze, secondo la ND, per opporsi ai fautori del “mondialismo”, era importante che l’uomo si dotasse “quantomeno di un sostituto funzionale della coppia sangue-suolo”. In una realtà contrassegnata da un generalizzato “sradicamento individualistico”, risultava fondamentale che l’uomo ritrovasse 22 M. Sanesi, recensione a M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni ’30, Torino, Boringhieri, 1989, “Diorama Letterario”, 1989, n. 132, p. 28. 23 M. Sanesi, Una bussola impazzita, “Diorama Letterario”, 1980, n. 136, p. 6.
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quegli stimoli giusti che erano “occorsi a popoli di antica cultura e di grandi progetti di destino per compiere il proprio percorso nella storia”24. Ma riscoprire le proprie radici, cercare di trovare un “sostituto funzionale” della coppia “sangue-suolo”, significava riproporre l’idea organicista come strumento essenziale per superare la crisi della società moderna; società nella quale veniva individuata la linea di frattura principale tra le diverse famiglie politiche proprio nelle coppia concettuale individualismo – organicismo. La peculiarità del pensiero organicista della ND si doveva ancora al diretto influsso di Alain de Benoist. Il francese, infatti, alla metà degli anni ’70, aveva operato una rilettura del sociologo tedesco Ferdinand Tönnies giungendo, per suo tramite, ad una piena rivalutazione del concetto di “Comunità” in contrapposizione a quello di “società”. Fondamentale in Italia era stata l’apparizione sul primo numero di “Elementi” nell’autunno del 1978, di un saggio di de Benoist proprio su questo tema. Per Carlo Nizzani fu quello un evento talmente significativo che, improvvisamente, il vocabolario della ND era sembrato “arricchirsi di un nuovo termine: la comunità”25. Questa non avrebbe dovuto più essere concepita come chiusa e regressiva ma bensì, in modo opposto, come fosse una “globalità aperta”. Aperta, cioè, verso il nuovo, dinamicamente in tensione verso il futuro, una comunità che scaturisse al vertice di un processo di aggregazione di volontà che liberamente si associavano, coscienti e consapevoli di essere partecipi di un “destino comune”. La ND stessa doveva essere il nucleo fondante e propagatore di questo progetto d’azione, la cui vera differenza, dal vecchio modo di intendere l’organicismo, stava proprio nell’accettazione della complessità e in particolar modo nell’ “individuazione dei soggetti chiamati ad incarnarla”. Il vero limite del tradizionalismo era stato infatti, per contrasto, proprio il non riuscire a “tradurre in complessità politica la complessità sociale cui si ispirava”26. Il progetto della ND, identificabile sotto il nome di “comunità organica libertaria”, voleva riallacciare la forte spinta solidaristica che si riteneva innata nell’uomo, a tutta la “tematica dei diritti civili, liberata dall’impaccio di mitologie giusnaturalistiche e di egoismi individualisti”27.
M. Tarchi, Rischio planetario, “Diorama Letterario”, 1989, n. 126, p. 5. C. Nizzani, Organicismo, Comunità, Stato, “Diorama Letterario”, 1986, n. 93, p. 11. 26 Ibid., pp. 11-12. 27 C. Nizzani, recensione a Gruppo di AR, Totalità sociale e comunità organica, Padova, AR, 1982, “Diorama Letterario”, 1984, n. 73, p. 6. 24 25
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3. Superare Hegel e Gentile, verso “nuove sintesi” In pratica, per realizzare concretamente questa specie di ossimoro politico, si puntava ad una possibile “composizione continua dei conflitti attraverso sintesi successive ispirate ai valori condivisi”. Era questo, però, niente di più del classico metodo dialettico, un procedimento, cioè, che si sviluppava per la continua contrapposizione di antitesi superate di volta in volta da sintesi successive, e che non era molto diverso da quello che andava affermando, contemporaneamente, la Nouvelle Droite. La ND ovviamente vi aveva scorto dei rischi totalitari, racchiusi in un approccio che tanto assomigliava al pensiero sintetico di Gentile, ed a quello di Hegel, considerato il “male oscuro dell’organicismo moderno”28. La comunità, tenendo fede a queste indicazioni, non doveva risolversi in una “sintesi sacrale”; le categorie di “amico” e “nemico” dovevano trovare il proprio superamento, sì, in una dialettica ma “una dialettica che non si lascia[va] confondere con quella hegeliana, che trova[va] la conciliazione di due concetti contrari in un terzo che lo oltrepassa[va] e lo cont[eneva] allo stesso tempo, ma che [era] invece tale da lasciare intatta la determinazione positiva e costante di due sfere specifiche e autonome”29. Così scrivendo, però, non si andava oltre una semplice dichiarazione di buoni propositi; rimanevano, infatti, sia nella teoria che nella pratica, molti punti oscuri o nebulosi da chiarire. Un altro tentativo di sbarazzarsi della inquietante presenza di Hegel, sembrava essere stato quello compiuto da Carlo Nizzani, che volendo spostare il discorso dall’astratto mondo della logica alla pulsante realtà quotidiana, aveva identificato l’ “incongruenza del metodo dialettico hegeliano”, nel “confondere le opposizioni logiche che possono mediarsi fra loro, con le opposizioni reali che sono invece inconciliabili”30. Eccoci dunque al nocciolo della questione: la ND operava una netta distinzione tra una dialettica che si svolgeva per “opposizioni logiche” ed un’altra, invece, che prevedeva il superamento di “opposizioni reali”. La prima veniva decisamente rifiutata, in quanto, pur prevedendo la presenza di antitesi teoricamente conciliabili in sintesi successive, era ritenuta in28 C. Nizzani, recensione a O. Spann, Il vero Stato, Padova, AR, 1984, “Diorama Letterario, 1985, n. 82, p. 14. 29 N. Zanon, “Tirannia” del politico, in AA.VV., Le forme del politico, Firenze, La roccia di Erec, 1984, p. 30. 30 C. Nizzani, recensione a O. Spann, cit., p. 14.
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trinsecamente totalitaria: essendo, infatti, un procedimento dialettico completamente separato e distante dalla pulsante vita quotidiana, ogni tentativo di imporlo nella pratica, magari con una soluzione alla Gentile, che avrebbe dovuto calarsi dall’alto come un deus ex machina, avrebbe dato vita, sicuramente ad altrettante forzature autoritarie. L’altra, invece, veniva accettata perchè tramite essa avremmo cercato, in tutti i modi di superare quelle “opposizioni reali” che erano presenti nella società civile e che risultavano insuperabili se continuavamo a rimanere, come in precedenza, su di un piano di logica astratta. Ma in che modo riuscirvi, allora? Non dobbiamo, a questo punto, dimenticare che la ND aveva già effettuato la propria “rivoluzione copernicana”, nel momento in cui, come campo privilegiato della sua azione, aveva scelto la società civile a discapito dello stato, percepito come un’entità distante anni luce, sulla quale potevano esercitarsi soltanto i più utopistici e bizzarri disegnatori di modelli politici fatti a tavolino. L’unico modo, dunque, che avrebbe permesso di superare antitesi apparentemente inconciliabili, era quello di dispiegare nel “paese reale” una vasta e profonda azione “metapolitica” che concorresse a porre le basi di un nuovo “sentire comune” dal quale, poi, sarebbero risalite forti spinte destinate a sfociare nella costituzione di una nuova comunità quale sintesi di riscoperti valori organici. I due approcci, sia quello della ND, che quello costruito sul cosiddetto asse Hegel-Gentile erano però sostanzialmente identici, soprattutto perchè, entrambi, avrebbero potuto determinare, nella pratica, la fine di ogni dialettica e, dunque, la concreta soppressione di qualsiasi dissenso. Nel modello gentiliano, per esempio, l’individualismo e lo spirito critico avrebbero dovuto continuare a vivere ed ad operare, positivamente, nell’attuazione di quella “rivoluzione quotidiana” che avrebbe permesso al progresso di non interrompersi mai, ma la verità che aveva sancito la storia era stata un’altra, quella che aveva determinato l’annientamento e l’inglobamento dell’individuo da parte dello stato (e non viceversa come voleva Gentile)31. Per quanto riguarda poi il progetto della ND, veniva esplicitamente negata “ragione e legittimità a qualsiasi visione esasperatamente conflittualistica dell’ordine sociale, fondata su presupposti di irriducibili aspirazioni dei soggetti che la compon[eva]no”32. Se dunque individualismo e liberalismo rivestivano i caratteri di “inimicizia assoluta”, quale avrebbe dovuto essere la sorte dei loro sostenitori nella società prefigurata da questo movimento? G. Gentile, Genesi e struttura della società, Firenze, Sansoni, 1946, pp. 110, 114, 121. M. Tarchi, Identità e progetto, “Diorama Letterario”, 1986, n. 93, p. 8.
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Certo si poteva pensare, come faceva S. Paltrinieri, che le spinte individualistiche e antisociali fossero solo il frutto della società borghese, e quindi destinate a scomparire con l’avvento di un altro sistema che rendesse “la solidarietà e la cooperazione fatti quotidiani abitudinari”33. In entrambi i casi questi interrogativi chiamavano in primo ordine la questione della “forma politica” e la concezione antropologica che la sottendeva. La ND però si rifiutava di indicare, categoricamente, in quale, “forma politica” avrebbe dovuto incarnarsi il suo progetto di comunità. Distinguendosi dalla destra radicale non solo considerava congenitamente errata una soluzione politica che informasse dall’alto la variegata composizione della società civile ma, addirittura affermava che, anche se la “dinamica delle aggregazioni volontarie” per la formazione di un nuovo assetto comunitario, fosse partita effettivamente dal “basso”, non avrebbe dovuto assolutamente sfociare in una “forma-stato” intesa in senso classico. Questo, infatti, sarebbe stato un ripiego intrinsecamente totalitario, incapace com’era, ormai, tale “forma” di mediare e risolvere i conflitti. Così scriveva Nicola Zanon recensendo de Benoist: Ora penso che nessuno di noi, una volta constatata la fine delle equivalenze stato-politica abbia intenzione di versare lacrime su questa realtà e mettersi a teorizzare sul “vero stato”, questa struttura perfetta capace di portare ordine nell’anarchia contemporanea. Sarebbe una strada evidentemente piena di trappole totalitarie e autoritarie, in aperto contrasto con alcune idee forza, alcuni punti fermi della elaborazione della ND34.
Il problema dello stato era comunque collegato strettamente al ruolo che in esso avrebbe dovuto svolgere la funzione della sovranità, che secondo la ND avrebbe dovuto essere trasformata, nebulosamente, da “attributo indivisibile dell’istituzione suprema a totalità composta”35. Questa ipotesi si conciliava benissimo con la rivalutazione che era stata fatta del concetto di comunità quale principale soggetto del politico. Nella sfera che veniva a formarsi tra l’individuo e più vasti aggregati umani, quali ad esempio, la nazione, si doveva tentare di creare “un sistema di interrelazioni fra comunità plurali e volontarie”36. 33 S. Paltrinieri, recensione a A. Gehlen, Prospettive antropologiche, Bologna, Il Mulino 1987, in “Diorama Letterario”, 1988, n. 118, p. 27. 34 N. Zanon, “Tirannia” del politico, cit., p. 27. 35 M. Tarchi, I limiti della modernità, “Diorama Letterario”, 1985, n. 82, p. 2. 36 M. Tarchi, Comunità: utopia o destino?, cit., p. 113.
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Da quando la ND era andata riscoprendo la multi valenza semantica del termine comunità, sia sotto il diretto influsso di de Benoist, che per l’esperienza concreta e reale di vita che si era espressa nei tre “Campi Hobbit”, essa aveva preferito il significato più circoscritto di “micro-comunità”. L’attenzione era stata orientata verso quei lebenswelt (mondi vitali) che ovunque erano fioriti nella società civile, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in molti casi sulle “ceneri dell’utopismo ideologico dei movimenti collettivi che li avevano preceduti”37. Questa particolare attenzione era stata certamente il frutto della fondamentale svolta “metapolitica”, e la decisione di indirizzare la propria azione politica oltre la normale soglia istituzionale non poteva non mettere in luce la nuova funzione ed il nuovo ruolo propulsivo che andavano assumendo questi “gruppi umani solidali” nel più ampio panorama nazionale. Era il partito dunque ad essere messo sotto accusa, il partito come strumento classico che da oltre due secoli deteneva il monopolio della rappresentanza politica e che non era più in grado di filtrare quelle esigenze, quei nuovi bisogni post-materiali che salivano impellenti dalla società civile e che avevano necessità di nuovi poli di aggregazione. Per la ND si stava formando un nuovo spazio politico nel quale si andavano profilando convergenze ed antagonismi inusuali. Qualsiasi schema classificatorio legato al passato ed a memorie storiche che si volevano dimenticare, veniva dichiarato definitivamente decaduto. Lo sguardo nuovodestro si disponeva “trasversalmente” al panorama politico italiano, e la speranza era che la pesca dei suoi adepti avvenisse un po’ dappertutto. Fin dagli esordi infatti la ND aveva manifestato la predilezione per una cultura degli et-et che doveva svilupparsi per integrazioni successive, in contrapposizione a quella degli aut-aut, che privilegiava invece le esclusioni nette e pregiudiziali. Oramai le classiche categorie destra-sinistra venivano considerate logore ed inservibili; i loro confini non reggevano più, ed erano spesso solcati da “campi di attraversamento reciproco”. Destra e sinistra erano, insomma, “contenitori sfondati” che non riuscivano più a dare una esatta catalogazione ai movimenti emergenti. Questo non voleva certo dire che stessero, ineluttabilmente, scomparendo; anche loro si stavano trasformando nell’evoluzione del contesto stesso che li aveva visti nascere. La ND era dunque alla ricerca di un confronto costruttivo con forze che avessero la medesima sensibilità su temi di interesse reciproco. Da questo punto di vista si riteneva possibile, in qualche modo, una convergenza con 37
C. Nizzani, La politica dei verdi, “Trasgressioni”, 1987, n. 4, p. 91.
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“Comunione e Liberazione”, impegnata, essa stessa, “nella ricostruzione dell’uomo come entità spirituale”, o con alcune frange dei verdi, che tenacemente combattevano per la “riconciliazione fra l’individuo e il suo habitat”38. Non si potevano poi dimenticare i vari segnali di distensione, lanciati a suo tempo, alla sinistra postmarxista che da alcuni anni, era andata rivisitando il bagaglio culturale della destra alla ricerca di idee originali da riesumare e riciclare per combattere quella “crisi di senso” che attanagliava la società consumistica. Le edizioni Guanda ed Adelphi rivalutando scrittori come Cèline, Jünger ed altri, avevano tracciato le linee di un percorso da seguire ed imitare. Certamente la medesima sensibilità riguardo a certe tematiche, quella stessa generica vocazione comunitaria, non potevano essere sufficienti per garantire l’unione di forze politiche che avevano matrici culturali, a volte opposte ed obiettivi che potevano anche essere discordanti. C’era, allora, forse qualche altro scopo che si proponeva la ND, oltre a quello di acquistare credibilità come nuovo soggetto politico in contrapposizione allo stagnante mondo della destra? Senza dubbio, possiamo rispondere affermativamente; al di là dei rischi, sopra indicati, Marco Tarchi credeva che, il fatto stesso di lavorare insieme per creare nuovi antagonismi e nuovi schieramenti trasversali, avrebbe contribuito a delegittimare questo sistema nelle sue fondamenta: Ognuno dei nuovi soggetti politici suscitati dal “disagio della modernità” ha di fronte a sè due strade: quella che conduce a farne un polo di rappresentanza più dinamico e mobile di quelli espressi dal sottosistema dei partiti, capace di porsi in concorrenza con essi e di approfondirne la delegittimazione in nome di una riconquista del diritto/dovere alla partecipazione politica popolare e l’altra che lo può rinchiudere nei limiti utilitaristici del gruppo di pressione39.
4. La ricerca della terza via Ma le ambizioni della ND erano maggiori di quelle di una semplice aspirazione a legittimarsi come nuova forza politica, o a sostenere un ruolo attivo nella lotta per la delegittimazione del sistema dei partiti. Era infatti vero che, quest’ultimo obiettivo, poteva essere raggiunto anche se i nuovi movimenti avessero lavorato ognuno per proprio conto, in vista del P. Grassi, La fine del dopoguerra, “Diorama Letterario”, 1988, n. 113, p. 16 M. Tarchi, La colonizzazione sottile, cit.,p. 67.
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la realizzazione del proprio fine costitutivo. Ma ben diversamente avrebbero inciso quegli stessi sforzi nel momento in cui fossero stati inseriti nell’ambito di un progetto comune per una proposta alternativa. La ND, infatti, aveva la pretesa di considersi un laboratorio di idee aperto a tutti i contributi teorici, e voleva fungere da elemento catalizzatore di un variegato mondo umano in pieno fermento. Essa ambiva ad essere il “reagente chimico” che avrebbe cambiato il segno degli altri elementi ed avrebbe portato alla materializzazione del proprio progetto organico: Stretta fra il radicalismo ciellino e le tentazioni verdi per certo “pensiero debole”, la voce della nuova destra si è posta, più che come mediazione, come proposta di sintesi superamento di questi due atteggiamenti, come testimonianza del forte disagio di chi vive sulla propria pelle la crisi di senso della società consumistica, ma nel contempo anche come stimolo dell’azione ricostruttiva, ad uno sforzo paziente e tenace di reincantamento del mondo che sveli l’assurdità dell’azzeramento dei valori proposto e (prodotto) dalla secolarizzazione40.
In questo suo ruolo di laboratorio di idee, in fondo, la ND si sentiva, in qualche modo, erede e continuatrice di quella corrente culturale definita come Konservative Revolution (KR), che nei primi decenni del ’900 in Germania aveva tentato nel suo “realismo eroico”, di creare un “ponte di collegamento” fra la tradizione e la modernità. Ponte che però era rimasto incompiuto ed era stato travolto dalla frana dell’insuccesso storico. Analogo compito si erano prefissi i giovani neodestri ma, “questa volta di fronte al compiersi della modernità, ed all’aprirsi di un’era postmoderna dominata dal quesito sul rapporto fra l’uomo e la tecnica”41. Che queste tesi fossero allora di bruciante attualità, lo si poteva dedurre dal fatto che quello stato di crescente disaffezione che si andava riscontrando nelle società liberal-democratiche era molto simile a quello che, a suo tempo, aveva scosso la Germania di Weimar. In essa erano sorti dal nulla partitini e lobbies di ogni genere, che si erano contraddistinti per un esasperato settarismo politico. E quest’ultimo aspetto, come sappiamo, rappresentava, per la ND, il vero limite del pluralismo. La sua essenza, esasperatamente conflittuale, era destinata, ineluttabilmente ad aprire la strada a suggestioni autoritarie. Le similitudini e le analogie non finivano certo qui. Come a P. Grassi, La fine del dopoguerra, cit., p. 16. Intervista a M. Tarchi, Liberarsi della “destra”, “Diorama Letterario”, 1988, n. 118, p. 105. 40 41
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quel tempo, dopo gli sconvolgimenti portati dalla prima guerra mondiale, vi era stata un’irruzione sulla scena politica di nuovi soggetti come i contadini, i combattenti, gli studenti, così allora sembravano assumere la medesima funzione i nuovi movimenti scaturiti, grosso modo, dopo il fatidico 1968. Si era dunque di fronte ad un terzo dopoguerra? E come i nazisti erano riusciti a prendere il sopravvento sull’ingarbugliata situzione weimariana, così la ND sperava di estendere la propria egemonia sulla società e di dirigere questi “gruppi umani” verso lo sbocco di una soluzione simile a quella Hitleriana ma che, nello stesso tempo, fosse emendata dal rischio di involuzioni totalitarie. In sostanza, come l’opera di Hitler era riuscita ad avvicinare ed a far partecipare la gente tedesca al mito della “nazione comunità” così, nella società odierna, si ripresentava “l’esigenza di ricostruire quei nessi comunitari, quelle sintesi di valori, quei raccordi di senso dell’azione collettiva lungo l’asse popolo-nazione”42. Il fascino che avevano esercitato le elaborazioni teoriche degli intellettuali della KR, o quello che emanava direttamente da concrete esperienze, pur conclusesi negativamente, come il fascismo e il nazismo, ma anche da tutte le altre esperienze che potevano racchiudersi entro il generico termine di “fascismi minori”, poteva ricollegarsi al fascino stesso che scaturiva dall’idea di cercare e scoprire una terza via percorribile tra il liberalismo e il collettivismo. In molte di quelle esperienze erano confluite ed avevano trovato momenti di coagulo tanto idee che appartenevano alla destra, quanto altre che, invece facevano parte del patrimonio ideologico della sinistra; ma più che idee, forse, era meglio definirle “eresie” di entrambe le parti, che purtroppo avevano finito per impantanarsi “nella formula semplificatrice nazionalismo-autoritarismo”43. Il tentativo di riprendere quei sentieri che erano stati abbandonati dalla KR, significava proporsi come il nuovo protagonista più accreditato nella ricerca di questo mitico passaggio a nord-ovest della politica: Il processo di ricomposizione di Destra e Sinistra nello sforzo di costruzione di una “Terza via” postmaterialistica doveva riprendere e trovare nuove forme. La Nuova Destra non è che una di queste, l’itinerario a prima vista sorprendente dei suoi confronti/incroci non è che una conferma della sua obbligata vocazione sintetica – che la pone in continuità con la sua area di prove42 M. Tarchi, recensione a W.S. Allen, Come si diventa nazisti, Torino, Einaudi 1968, “Diorama Letterario”, 1987, n. 103, p. 15. 43 M. Tarchi, recensione a P. Ceola, La ND e la guerra contemporanea, Milano, Angeli 1987, “Diorama Letterario”, 1988, n. 11, p. 6.
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nienza in quanto a motivi ispiratori, ma la obbliga ad una drastica rottura con quella stessa area per scelte tematiche, metodo, linguaggio, “pro getto”44.
Abbiamo già avuto modo di constatare quale fosse la predilezione della ND per il pensiero “sintetico”: il rifiuto categorico di ogni “pensiero duale” e dalle contrapposizioni insuperabili, l’adozione del metodo dialettico, lo sforzo profuso nel recupero dei valori disseminati per ogni orizzonte culturale non potevano che rinsaldare questa sua vocazione. Addirittura qualcuno avrebbe cominciato a proporre di sostituire il “termine nuova destra” con il sinonimo di “nuove sintesi”45. Era chiaro, a questo punto, che l’aspirazione a raggiungere un tertium non datur, il desiderio di codificare una società futura in cui potessero coesistere termini opposti come organicismo e libertà, non poteva avere alla base una delle due concezioni antropologiche dell’uomo che, sostanzialmente erano state a fondamento di qualsiasi visione filosofico-politica di tipo classico, cioè a dire, da una parte quella pessimistica dell’homo homini lupus di Thomas Hobbes e dall’altra quella ottimistica di Jean Jacques Rousseau racchiusa nel mito del “buon selvaggio”. Nella prima concezione, si riconoscevano infatti le ragioni della cruda determinazione della destra radicale ad imporre, sul gregge, il dominio di uomini superiori, nonchè quella specie di disincantato realismo che animava il pensiero liberale nel cercare, perlomeno, di salvaguardare le singole libertà personali. Nella seconda invece, si identificavano i sogni irenico-utopistici della sinistra. La ND affermava di essere distante da entrambe queste posizioni, ma mentre la visione rousseauviana non aveva mai fatto parte delle proprie radici culturali, così non si poteva dire per quella Hobbesiana. Sappiamo, di come l’evoluzione e l’emancipazione dei nuovodestri dall’ambiente di provenienza fosse stato vissuto proprio nei termini di una “mutazione antropologica”, e non solo per il carattere di omogeneità di un gruppo che era stato formato da giovani tra i 20 e i 30 anni, ma soprattutto perchè si volevano cambiare i caratteri, i cosiddetti connotati del “tipo umano” cui si faceva riferimento. Abbiamo già sottolineato come non attraeva più l’immagine dell’uomo “tradizionalista” diviso tra la totale devozione ad un mondo spirituale interiore e il rifiuto categorico Ibid. Carta da visita: cos’è la ND, a cura del circolo Ernst Jünger di Padova, “Diorama Letterario”, 1989, n. 124, p. 4 e M. Tarchi, Falsa idendità e nuove sintesi, cit. 44 45
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della realtà circostante che lo condannava all’inazione ed al “mito incapacitante”. L’ “uomo nuovo” andava costruito “attraverso un rapporto dialettico col mondo”46, non dovevano più esservi scissioni tra il pubblico e il privato, bisognava porsi “sul terreno della rottura tra essere e dover-essere; quello su cui ha prosperato, in bilico tra demagogia e moralismo, la destra viscerale e nostalgica cui apponiamo un deciso rifiuto”47. Ma al deciso rifiuto della classica e pessimistica visione antropologica della destra non si era giunti solo sulle ali della cosidetta “svolta generazionale”, ancora una volta, era risultata fondamentale la mediazione di Alain de Benoist, che era riuscito a far riscoprire ai giovani italiani, un autore ben presto divenuto centrale nei loro riferimenti: Arnold Gehlen. E proprio nella sua “antropologia aperta”, la ND pensava di individuare una possibile soluzione alla dicotomia creata dalle opzioni precedenti. Per il sociologo tedesco, molto vicino in questo alle teorie dell’etologo Konrad Lorenz, l’uomo doveva considerarsi come un animale eminentemente “culturale”, che cioè aveva fatto della “cultura” la propria “natura” più specifica. L’uomo era un essere “aperto al mondo”, sottoposto a tutti gli stimoli dell’ambiente ma non specializzato in una “funzione” particolare come gli altri esseri viventi. E proprio la sua mancanza di specializzazione faceva sì che, tramite la propria azione, diversificata, egli si potesse adattare a qualsiasi condizione esterna, creandosi, di volta in volta, un nuovo mondo “culturale” e quindi non stabilito una volta per tutte. Per qualsiasi definizione concernente una supposta “essenza” dell’uomo non ci si poteva ancorare a formule astratte, bisognava, per prima cosa, partire dal “posto” specifico che questo occupava nel mondo. In questo quadro, estremamente importante per Gehlen era, dunque, la funzione della “socialità”, che veniva individuata quale una caratteristica rilevabile anche a livello biologico: era evidente, infatti, la necessità che si prospettava di avere una valida difesa societaria per individui che avevano bisogno di essere protetti durante il lungo periodo di apprendimento dei capisaldi culturali della propria comunità. Partendo da questo punto di vista la ND poteva dedurre la naturale predisposizione dell’uomo alla convivenza ed alla solidarietà, e il suo insopprimibile desiderio di un “ordine civile” arroccato intorno a determinati valori: 46 M. Tarchi, Dalla politica al “politico”: il problema di una nuova antropologia, in AA.VV., Al di là della destra e della sinistra, (Atti del convegno “Costanti ed evoluzioni di un patrimonio culturale”), Roma, LEDE 1982, p. 25. 47 M. Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit., p. 4.
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Un progetto mitico di rifondazione dei valori implica un’antropologia aperta conscia del peso che nell’uomo assumono le pulsioni ma anche della capacità che all’essere umano è data di selezionarle, comprimerle o assecondarle secondo una scala di priorità che egli stesso si è dato. Arnold Gehlen, Konrad Lorenz, Carl Schmitt sono solo alcuni tra i nomi di quanti a questa visione “sintetica” si sono ispirati: e il loro linguaggio è quello della ricerca delle convivenze possibili, della proposta di un senso ordinatore delle cose, del rifiuto di ogni determinismo. (…) Proposte di ricerca delle basi di comportamento di un uomo fatto per vivere con gli altri uomini, in aggregati organici (naturali e culturali) distinti e solo a tratti parzialmente coincidenti. Non l’individualismo del democratismo rousseauniano nè l’autoritarismo del leviatano, possono esserci pietre di paragone: ma l’ideale, difficile e affascinante, di un mondo fondato sulla pluralità organica delle specificità48.
La scelta di questa antropologia, per quanto affascinante e ricca di sviluppi potesse essere, pareva eludere, però, la domanda chiave che veniva suscitata dal problema “politico”: sono o non sono gli uomini capaci di autogovernarsi? Le risposte che forniva la ND non potevano certo considerarsi chiare e definitive e non facevano altro che suscitare una serie di ulteriori domande: che cosa sarebbe successo nel momento in cui si fosse realizzato il progetto di una società che avesse eliminato le (pulsioni antisociali) una volta per tutte, rendendo la “solidarietà” un “fatto abitudinario”? Questo non ben definito “bene comune”, intorno al quale avrebbero dovuto articolarsi le diverse “pulsioni”, veniva riconosciuto spontaneamente da tutti i cittadini, così naturaliter oppure presupponeva l’esistenza di particolari individui che fossero in grado di individuarlo o di guidarvi il resto dei consociati? C’era o non c’era, insomma, bisogno di un’élite che governasse e detenesse il “monopolio della forza fisica”? Qualora si fosse data una risposta precisa a questi interrogativi non saremmo che potuti ricadere in una delle due classiche ipotesi precedenti.
5. Le contraddizioni della Nuova Destra Del fenomeno ND sono state date interpretazioni completamente antitetiche già negli anni ’80. Ricordiamo qui, per esempio, quella di Marco Revelli e quelle di Giorgio Galli e Monica Zucchinali. Per il primo ben poco di “nuovo” potevamo scoprire nella teoria della ND, perché altro non 48
Ibid., p. 8.
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avevamo di fronte che un’operazione di “mimesi linguistica e programmatica” che aveva portato a sbarazzarsi “rapidamente dei residui gergali del vecchio lessico politico (il gergo del ghetto)”, per abbracciare nuovi temi e nuove problematiche ma “in una sostanziale continuità di fondo con i principi ispiratori della tradizionale famiglia ideologica”49. Per Galli e Zucchinali invece, questo movimento, proprio per quei potenziali tratti libertari che Revelli non credeva essere sinceri, ma solo strumentali, pareva dirigersi verso un approdo classificato sotto la definizione di “modernismo riformista” e caratterizzato, quindi, da una sostanziale accettazione di questa società e delle sue regole del gioco fondamentali50. Viene spontaneo chiedersi quali possano essere le cause che hanno provocato interpretazioni tanto divergenti. Ma se noi mettiamo a fuoco le principali tematiche trattate dalla ND, ci renderemo conto di come molte di esse rappresentino veri e propri “ossimori politici”, concetti antitetici che vengono magicamente accoppiati, ma che una volta che siano illuminati più da vicino, una volta che venga dissolto quel velo di mistero che sembra circondarli, mostrano chiaramente la loro contraddizione di fondo, la loro irrealizzabilità concreta. È logico, quindi, che la ND, avendo lasciato frequentemente sul proprio cammino segni discordanti, tracce confuse che indicano direzioni divergenti, alla fine abbia potuto ingenerare nei suoi osservatori impressioni tanto diverse. Cerchiamo ora di vedere nel dettaglio alcune di queste aporie. Innanzitutto, per la ND, con un incessante lavoro metapolitico da svolgere nella società civile, si sarebbero dovute ricercare le eventuali affinità con altre forze politiche, al di là delle vecchie categorie di destra e sinistra, al fine di instaurare una cultura degli et-et con l’ausilio della quale, finalmente, poter riuscire ad eliminare il conflitto dal rapporto tra gli uomini, ovvero riuscire a privarlo del carattere di “irriducibilità”. Ma come si potevano superare queste insormontabili categorie politiche se la ND aveva già proclamato il suo aut-aut quintessenziale nei confronti del liberalismo, nemico irriducibile? Vi era poi il problema delle forme del politico. Da una parte, facendosi paladini dell’istanza libertaria, si condannava la classica concezione dello stato in quanto intrinsecamente autoritaria, ponendo l’accento sul ruolo che avrebbero dovuto rivestire le microcomunità volontarie, i movimenti, M. Revelli, La nuova destra, cit., p. 136. M. Zucchinali, A destra in Italia oggi, cit., pp. 249-250. Per l’interpretazione di Galli, vedi La destra in Italia, Milano, Gamma libri, 1983. 49 50
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i cosiddetti nuovi soggetti del politico e prospettando quindi, per certi versi, una situazione tendente verso l’anarchia. Dall’altra, di fronte ad una società liberale che, estremamente frammentata e sottoposta a spinte egoistiche e centrifughe di ogni genere, tendeva inesorabilmente verso la disgregazione, ecco che la ND rispolverava la nozione di “bene comune” e negava che la traduzione politica del proprio progetto fosse un problema che non la riguardasse in nessun modo. Anzi, ci ricordava Tarchi, era proprio il contrario, questa “traduzione” non l’avremmo più chiamata “stato”, ma sempre la politica avrebbe continuato a presupporre “uno spazio pubblico di espressione (…). La fine della Polis classica non [aveva] estinto questa esigenza; [aveva] solo stimolato la trasformazione di questo luogo di incarnazione della cosa pubblica”51. Francamente ci riesce difficile capire in che misura questo nuovo luogo di incarnazione della cosa pubblica avrebbe dovuto differenziarsi ed allontanarsi dalla classica concezione dello stato. Parliamo ora del cosiddetto “organicismo libertario”. Per prima cosa ci veniva detto che il fatto di voler tendere verso una società organica, che fosse nello stesso tempo anche libertaria, non era un’aspirazione contraddittoria, perché la vera libertà non era quella che derivava dal giusnaturalismo, un diritto appartenente a tutti gli uomini a prescindere dalle distinzioni sociali e geografiche, bensì quella che si acquistava nel momento in cui si veniva a far parte di una comunità, di un popolo. La cittadinanza diveniva, quindi, con questi presupposti, il requisito fondamentale per il possesso dei diritti personali. Ma poi, in un secondo momento, si cercava di mettere la sordina a queste affermazioni e si faceva presente che “del popolo come entità determinata organica e coeva, si [andava] perdendo ormai persino la memoria”52 – si ammetteva che sventolare il principio “un cittadino un voto” in contrapposizione a quello “un uomo un voto” non poteva che creare delle vere e proprie discriminazioni all’interno di uno stesso stato. Che cosa sarebbe potuto accadere a tutti coloro che volenti o nolenti vivevano ai margini di questa distinzione giuridica o erano in qualche modo esclusi dalla comunità egemone?53. In altra maniera si M. Tarchi, Pensare al plurale, “Trasgressioni”, 1986, n. 2, p. 11. M. Tarchi, Una risposta alla crisi?, postfazione ad A. de Benoist, Democrazia il problema, cit., p. 102. 53 A domandarselo era proprio uno dei protagonisti della ND, che scriveva a questo proposito: “dovremmo infatti dedurre che l’apolide, l’internato, il perseguitato, non rientrando in nessuna tipologia giuridica, cioè non essendo parte integrante di una comunità, non godono di diritti, in quanto i diritti derivano solo da «fonti conformi» alla 51 52
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poteva anche dire che questa libertà, intesa in senso giusnaturalistico, la ND la trasferisse dai singoli individui ai popoli nel segno del rispetto delle “specificità”. Ogni comunità per garantire la propria libertà avrebbe dovuto caratterizzarsi nella ricerca del proprio “bene comune”. Ma Tarchi, che dichiarava di non essere ancorato a presupposti relativistici (a differenza della Nouvelle Droite) e di non rinunciare affatto “a criteri di valore di portata universale”, non ci spiegava che cosa avrebbe impedito alla mia comunità, una volta che avesse individuato nella distruzione o nell’inglobamento delle comunità vicine il “fine” a cui tendere per la realizzazione del suo “bene comune”, di metterlo seriamente in pratica. Certo molti esponenti della ND si professavano cattolici e avevano preso le distanze dal nominalismo debenoistiano; ma il pensare ad una repubblica cristiana universale non sarebbe stato un tentativo di imporre dei valori estranei al di sopra delle culture autoctone dei popoli? Un’operazione che avrebbe potuto portare, alla lunga, all’annullamento delle loro specificità? Anche se possiamo escludere un dominio temporale e spirituale della chiesa di stampo medioevale, dilatato su tutto il globo, quei valori di fratellanza universale, di uguaglianza, libertà e pari dignità tra i popoli non erano forse i tanto deprecati valori di origine cristiana esportati nel mondo dalla rivoluzione francese? Ma la rivoluzione francese non era, ritenuta dalla ND la catastrofe storica dei tempi moderni? E se veramente si accettavano quei valori, perché non trasferirli dai popoli agli individui? Di risposte a queste domande negli scritti di Tarchi e compagni non troviamo traccia. Legato complessivamente al progetto politico della ND, come abbiamo visto, c’era il problema di capire in che modo si potesse risolvere quel problema antropologico che stava a monte. Soprattutto una volta che si riteneva insufficiente la risposta che questo movimento ci aveva fornito scegliendo la strada della soluzione gehleniana. Diciamo insufficiente perché questa antropologia non dava una risposta al fondamentale quesito posto dal politico: sono o non sono gli uomini in grado di autogovernarsi? Se noi analizzavamo, infatti, i testi nuovodestri non avremmo fatto altro che trovare riferimenti che ci rimandavano ora ad una antropologia di tipo hobbesiano, ora all’altra di tipo rousseauviano. Da una parte vi era una visione dell’uomo fortemente negativa, che non derivava alla ND solamente dalle proprie radici dottrinarie, ma, soprattutto, dall’inserimento di questa visione in una società che non faceva che storia della comunità, e perciò sono alla mercè del paese che li ospita” (G. Giaccio, Gli equivoci del giusnaturalismo, “Diorama letterario”, 1989, n. 127, p. 28).
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accentuare le pulsioni aggressive ed egoistiche dei suoi consociati. L’uomo era ritenuto uno schiavo del consumismo, un essere incapace di discernere quale fosse il suo vero bene, un essere che non si rendeva conto neppure di assurgere a vittima dell’oppressione più spaventosa che si fosse mai riscontrata nella storia umana. Un essere che, inevitabilmente, avrebbe avuto bisogno di altri uomini che lo sapessero guidare per condurlo fuori da questo inferno (“climatizzato”!) e che gli indicassero la via giusta ed il suo vero destino. Dall’altra, invece, si guardava con speranza al futuro, a quando “l’instaurazione di un’altra organizzazione sociale” avrebbe reso “la solidarietà e la cooperazione fatti quotidiani ed abitudinari” e, allora, la visione pessimistica, improvvisamente, sarebbe sembrata dissolversi e lo “scatenamento delle pulsioni antisociali”, finalmente, sarebbe stato “destinato a scomparire”54. Avremmo così avuto l’avvento di una nuova comunità organica in cui tutti gli uomini volendo il bene per sè stessi avrebbero voluto quello della collettività. Ma questa non era forse una visione antropologica ottimistica? Vi era infine l’utopia per una “terza via” che conservasse ciò che era ancora vivo della “tradizione” e facesse rivivere quei rapporti organici che avevano caratterizzato le civiltà arcaiche e che purtroppo l’individualismo corruttore, nel corso della storia, aveva minato dal proprio interno. Una terza via che, però, accettasse la modernità, che facesse proprio tutto quello che il progresso tecno-scientifico aveva prodotto sino ad allora e che, ad un tempo, rifiutasse ciò che poteva esserne considerata l’essenza, cioè a dire proprio l’individualismo. Questa posizione poteva essere considerata in netto contrasto con quello che era stato l’insegnamento di Julius Evola. Il barone nero, infatti, si era reso ben conto di quell’incolmabile fossato che divideva la “Tradizione” dal “mondo moderno” e di come l’individualismo rappresentasse il substrato ineliminabile di quest’ultimo. Per questa ragione egli, coerentemente, aveva deciso di rifiutarlo in toto, di rifiutare il “miraggio della civilizzazione tecnica, la fascinazione esercitata da certi innegabili progressi materiali”. Egli sapeva anche che il cercare di reintrodurre una società olista nell’epoca della modernità trionfante, della secolarizzazione selvaggia avrebbe potuto portare solo alla costituzione di altrettanti regimi tota-
54 S. Paltrinieri, recensione ad A. Gehlen, Prospettive antropologiche, Bologna, Il Mulino, 1987, “Diorama letterario”, 1988, n. 118, p. 27.
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litari. E il totalitarismo non era che l’“immagine contraffatta dell’ideale organico”55. Anche la ND con l’avvento del totalitarismo temeva l’annichilimento dell’individuo e della persona umana, ma come si poteva allora eliminare l’individualismo e, nello stesso tempo, lasciar sopravvivere lo spirito critico, il rispetto della dignità personale, la salvaguardia della libertà del singolo? Non erano forse queste cose l’essenza stessa dell’individualismo? A questo punto ci si può ben rendere conto di come fosse stato facile per Revelli e Galli pescare a piene mani in questo mare di contraddizioni, ognuno avvalorando la propria tesi diametralmente opposta all’altra. Ingenerosa comunque sembra l’opinione di Marco Revelli che, partendo subito da una posizione di netto pregiudizio, considerava lo sforzo di rinnovamento nuovodestro niente altro che un bluff. Alla base di questi cambiamenti ci sarebbe stata insomma la malafede, l’inganno, e la scelta di nuovi temi e problematiche non sarebbe stata affatto genuina ma solo ed unicamente strumentale. In sostanza non c’era differenza tra la ND e certi nostalgici adoratori del colpo di stato e dei regimi autoritari, così come non ce n’era stata nei confronti di quelle frange più estreme della DR che proponevano di accelerare il processo di disgregazione di questo sistema, magari aiutandolo a cadere con una spallata finale e non certo metaforica. Credo però che si possa riscontrare una sorta di manifesta “doppiezza” nella ND solo se pensiamo ai suoi esordi quando risentiva fortemente dell’influsso di un padrino politico come Pino Rauti. Di fronte ad una interpretazione così pessimistica, che dire allora di questo movimento quando, in seguito, sarebbe andato affermando che l’unica legittimazione politica era quella basata sul consenso e sul controllo popolare degli atti del governo, quando, per questa stessa ragione, avrebbe criticato persino il modello di democrazia proposto da de Benoist perché non garantiva sufficienti strumenti di controllo e prevedeva l’uso di un “plebiscitarismo referendario” facilmente manipolabile dai mass media? Che dire di una ND invocante un diverso terzomondismo che implicasse una pari dignità tra i popoli e che fosse lontano da qualsiasi concezione gerarchica dei rapporti tra nazioni e continenti nell’intento di contrastare il predominio delle multinazionali? Che cosa pensare di fronte all’esternazione di questi ed altri temi libertari? Dovevamo considerarli esclusivamente in chiave strumentale? Giorgio Galli, da un diverso punto di osservazione, ha giudicato invece 55
J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., pp. 24, 68.
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irreversibile e definitiva l’accettazione, da parte della ND, di questa società e delle sue regole del gioco fondamentali. Egli, anzi, ha posto l’accento proprio su quei temi libertari ora ricordati e vi ha visto, addirittura, una probabile via di evoluzione veramente innovativa qualora il movimento avesse scelto non d’ “avvicinarsi realmente all’illuminismo riformista (in crisi) ma di superarlo”. A differenza di Revelli, ciò che Galli sembra del tutto trascurare è la scelta strategica di fondo della ND, vale a dire quella di rifiutare l’individualismo, base ed essenza stessa del libertarismo, e di elevare il liberalismo a proprio “nemico principale”. Questo aspetto, d’altronde, non era affatto secondario, perché così facendo la ND non poteva che gettarsi nel campo degli irriducibili nemici della “società aperta” e dei malinconici sostenitori della “società chiusa”, cioè coloro che aspiravano ad un mondo organico senza conflitti, che rimpiangevano un passato paradiso terrestre mai esistito e che avrebbero voluto ricreare nel futuro, con forzature tali che sarebbero state destinate, inevitabilmente, a rovesciarsi in soluzioni autoritarie o, peggio, totalitarie. A riprova di questo fatto, vorrei ricordare come l’interpretazione che fornivano Galli e Zucchinali, in primis, non venisse assolutamente accettata dalla stessa ND che respingeva decisamente l’appellativo di “modernismo riformista”. E lo respingeva, innanzitutto, perché non credeva che il processo di modernizzazione fosse un dato ormai irreversibile. L’accettazione della modernità non era, dunque, definitiva ma sarebbe stata sempre vissuta in modo “tragico”. Inoltre, scriveva Tarchi, se la parola «riformismo esprime una pratica che esclude radicali modifiche del quadro politico, di riformismo nella ND non c’è traccia”56.
56 M. Tarchi, recensione a M. Zucchinali, A destra in Italia- oggi, cit., “Diorama letterario”, 1986, n. 92, p. 5.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 Presso Tipografia Monteserra snc, Vicopisano (PI) Per conto di Pisa University Press