25 luglio 1943 9788858132777, 8858132777

Alle 2,30 del mattino del 25 luglio, dopo dieci ore di discussione, la maggioranza dei gerarchi del Gran Consiglio vota

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Table of contents :
Prologo. Rashōmon a Palazzo Venezia
Capitolo primo. Fatti in cronaca
Capitolo secondo. Il verbale che non c’è
Perché non c’è il verbale
Anche il duce prese appunti
Mussolini fu il primo
Spunta un verbale
Il resoconto Federzoni
Capitolo terzo. Il regime del duce
Ambiguità di una sfida
Dal partito armato al regime totalitario
Le esequie del regime parlamentare
L’organo supremo del regime
Stato monarchico a regime totalitario
Duce del fascismo, capo del governo, maresciallo dell’impero
Comandante supremo
Capitolo quarto. Ai tuoi ordini, duce
Origine di una fede
Fedele in umiltà
Un «italiano nuovo»
Più fede, più fiducia, più fascismo
I nostri grandi Capi
Viva la guerra totalitaria
Il codice della razza italiana
Capitolo quinto. I tirannicidi del 25 luglio
Grandi l’assente
Appello al re
Un «piano temerario»
Popolazione inerte
Il re tace
L’amico fedele
La demolizione della monarchia
«Siamo ai tuoi ordini»
Il regime è l’Italia
Lode al fondatore dell’impero
La ragione dello Stato totalitario
Un grande momento storico
«Tutti annaspiamo»
Capitolo sesto. Prova di Gran Consiglio
Scorza e la mistica del duce
Il rifiuto di Grandi
Bottai il revisionista
Ragioni di una crisi
Tutti con Mussolini
Il «passo»
Preludio al Gran Consiglio
Capitolo settimo. Gioco grosso
Versioni in contrasto
Apocrifi d’autore
Ordine del giorno Grandi: bozza prima
Grandi entra in gioco
Le versioni di Grandi
La versione di Bottai
Grandi dal duce
Quel che Scorza disse. O non disse
Ordine del giorno Grandi: seconda stesura
Ordine del giorno Grandi-Bottai: definitivo
Capitolo ottavo. L’incognita del Gran Consiglio
Alla conta dei voti
Per «liberare» Mussolini
Massimo riguardo per il duce
Il piano di Scorza
Pensieri della vigilia
A Palazzo Venezia, ore 17
Un duce irresponsabile
Le fratture del regime totalitario
Non contro il duce né contro il partito
Epilogo. Eutanasia del duce
Ringraziamenti
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25 luglio 1943
 9788858132777, 8858132777

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i Robinson / Letture Emilio Gentile

25 luglio 1943

Editori Laterza

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© 2018, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: aprile 2018 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858132777

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Indice

Prologo. Rashōmon a Palazzo Venezia Capitolo primo. Fatti in cronaca Capitolo secondo. Il verbale che non c’è Perché non c’è il verbale Anche il duce prese appunti Mussolini fu il primo Spunta un verbale Il resoconto Federzoni

Capitolo terzo. Il regime del duce Ambiguità di una sfida Dal partito armato al regime totalitario Le esequie del regime parlamentare L’organo supremo del regime Stato monarchico a regime totalitario Duce del fascismo, capo del governo, maresciallo dell’impero Comandante supremo

Capitolo quarto. Ai tuoi ordini, duce Origine di una fede Fedele in umiltà Un «italiano nuovo» Più fede, più fiducia, più fascismo I nostri grandi Capi Viva la guerra totalitaria Il codice della razza italiana

Capitolo quinto. I tirannicidi del 25 luglio Grandi l’assente Appello al re

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Un «piano temerario» Popolazione inerte Il re tace L’amico fedele La demolizione della monarchia «Siamo ai tuoi ordini» Il regime è l’Italia Lode al fondatore dell’impero La ragione dello Stato totalitario Un grande momento storico «Tutti annaspiamo»

Capitolo sesto. Prova di Gran Consiglio Scorza e la mistica del duce Il rifiuto di Grandi Bottai il revisionista Ragioni di una crisi Tutti con Mussolini Il «passo» Preludio al Gran Consiglio

Capitolo settimo. Gioco grosso Versioni in contrasto Apocrifi d’autore Ordine del giorno Grandi: bozza prima Grandi entra in gioco Le versioni di Grandi La versione di Bottai Grandi dal duce Quel che Scorza disse. O non disse Ordine del giorno Grandi: seconda stesura Ordine del giorno Grandi-Bottai: definitivo

Capitolo ottavo. L’incognita del Gran Consiglio Alla conta dei voti Per «liberare» Mussolini Massimo riguardo per il duce Il piano di Scorza Pensieri della vigilia A Palazzo Venezia, ore 17

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Un duce irresponsabile Le fratture del regime totalitario Non contro il duce né contro il partito

Epilogo. Eutanasia del duce Ringraziamenti

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Prologo. Rashōmon a Palazzo Venezia

Alle ore 17 del 24 luglio 1943, si riunì a Palazzo Venezia, nella sala del Pappagallo, il Gran Consiglio, organo supremo del regime fascista. La seduta durò dieci ore. Alle 2,30 del 25 luglio, la maggioranza dei gerarchi votò un ordine del giorno presentato da Dino Grandi che esprimeva la sfiducia nei confronti del duce. Era la prima volta che ciò accadeva. E fu anche l’ultima. Alle 17,30 dello stesso giorno, all’uscita dall’udienza con il re, Mussolini venne arrestato dai carabinieri. Fu la fine del regime fascista. Le ventiquattro ore, dall’inizio della seduta del Gran Consiglio all’arresto di Mussolini, comprendono il complesso dei fatti passati alla storia sotto la denominazione «25 luglio». Il fatto dominante di quelle ventiquattro ore furono le dieci ore di seduta del Gran Consiglio. Anche se l’arresto di Mussolini e la formazione di un governo militare presieduto dal generale Pietro Badoglio erano stati predisposti in un piano di colpo di Stato elaborato dai militari senza alcuna connessione con l’azione dei gerarchi che votarono l’ordine del giorno Grandi, gli stessi artefici del colpo di Stato riconobbero che il colpo di grazia al regime fascista era stato dato non da loro ma dal Gran Consiglio. Lo riconobbe per primo lo stesso maresciallo Badoglio, parlando agli ufficiali il 18 ottobre 1943: «il fascismo non è stato rovesciato da noi: da Sua Maestà o da 7

me. Il fascismo è caduto non per forza esterna, ma per la sua crisi interna: non poteva resistere più. Lo hanno abbattuto gli stessi componenti del Gran consiglio. I membri del Gran consiglio votarono, la sera del 24 luglio, a maggioranza contro Mussolini. E ne segnarono la fine. Finalmente!»1. La tesi di un suicidio del regime fascista compiuta dal suo organo supremo è stata suffragata, sia pure indirettamente, dai principali protagonisti dell’azione contro Mussolini nella notte del Gran Consiglio, Grandi e Federzoni, i quali hanno sostenuto che la caduta di Mussolini e la fine del regime fascista era stato lo scopo della loro iniziativa. La nostra azione, ha raccontato Grandi, mirava ad «abbattere Mussolini e la dittatura», pertanto l’approvazione del suo ordine del giorno «significava di fatto la deposizione del dittatore, la condanna della dittatura e del sistema totalitario e, per conseguenza fatale, il crollo del regime»2. Egualmente si è espresso nelle sue memorie l’altro maggior sostenitore dell’iniziativa di Grandi, Luigi Federzoni, sull’obiettivo che si proponeva di raggiungere in Gran Consiglio votando l’ordine del giorno Grandi: «noi promotori della manifestazione ci rendevamo esatto conto delle gravi ripercussioni che sarebbero potuto derivare dal nostro atto […] noi eravamo andati là precisamente per ottenere quel risultato: l’eliminazione di Mussolini»3. Può darsi che la caduta di Mussolini e l’abbattimento del regime totalitario, preludio alla rottura dell’alleanza con la Germania e alla pace separata con gli Alleati, fossero gli obiettivi che effettivamente si posero Grandi e Federzoni, anche se non lo palesarono apertamente agli altri gerarchi da loro persuasi a votare per l’ordine del giorno Grandi. Al contrario, dalle testimonianze di altri gerarchi, come Bottai, Bastianini, Cianetti, De Stefani, risulta che essi non volevano affatto la destituzione del duce né la sua uscita di 8

scena, anche se si unirono a Grandi e a Federzoni nel criticare il regime totalitario e la concentrazione eccessiva del potere nella persona del duce. Era loro intenzione sollecitare Mussolini a restituire al re il supremo comando militare, a ridare efficienza di funzioni al Gran Consiglio, al Consiglio dei ministri, al Parlamento, e a tutti gli altri organi e istituzioni del regime e dello Stato, che l’accentramento ducesco aveva esautorato. Non era invece nei loro propositi menomare il prestigio del duce né abbattere il regime: erano convinti che occorresse liberare Mussolini dal gravame del comando militare per renderlo più abile nell’esercizio del potere politico, e salvare nello stesso tempo il fascismo, liberandolo dalla bardatura del regime totalitario che lo aveva deformato e guastato. Di questo orientamento era Alberto De Stefani, che votò l’ordine del giorno Grandi nella convinzione che così «il Gran Consiglio si apprestava, per salvare il Duce e il regime, a chiedere che il Re riprendesse i poteri militari e le istituzioni riavessero il loro funzionamento costituzionale»4. Ma un orientamento non dissimile ebbe Giuseppe Bottai, che pure fu un deciso sostenitore dell’iniziativa di Grandi, partecipando alla revisione del suo ordine del giorno e alla stesura definitiva del testo presentato e votato in Gran Consiglio. Bottai non pensava che l’eventuale deposizione di Mussolini dovesse comportare la fine del fascismo. Egli negò, come scrisse il 23 agosto 1943 nel suo diario, riflettendo con se stesso sui fatti del 25 luglio, che l’arresto di Mussolini e la fine del regime fossero l’inevitabile conseguenza dell’ordine del giorno Grandi: furono invece la conseguenza imprevista dell’intervento dei militari, avvallato dal re: È conseguenza d’un moto indipendente dal nostro, di ormai accertate origini militari, avverso al nostro. Noi ci muovevamo nel Fascismo, tutt’al più dal Fascismo; né rifiutavamo, a tal fine, pia illusione, un Mussolini smussolinizzato, un Mussolini, appunto, riportato nella costituzione fascista. I militari muovevano

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contro il Fascismo. Badoglio non è che il deus ex machina messo dalla Corona tra il nostro moto e il moto militare. Avrebbe dovuto comporlo in una risultante; ma forze negative e distruttive gli hanno preso la mano5.

Tornando di nuovo a riflettere sul 25 luglio due anni dopo, Bottai ripeteva che l’orientamento prevalso in Gran Consiglio durante le dieci ore di discussione non mirava a provocare la destituzione del duce e la fine del regime, ma a tentare di salvare il fascismo sotto una veste nuova, con un Mussolini rinnovato: Tentativo estremo, non di salvare il Fascismo come era, ma di salvarlo riportandolo, con rimedi drastici, alla sua genuina essenza e costituzione. Questa fu la nota dominante delle discussioni, in cui alcuni membri del Gran Consiglio, Farinacci, De Vecchi, De Bono, Bastianini, Bottai, erano occasionalmente mescolati a altri: gli «oratori». Si trattava d’un’iniziativa più che ufficiosa: ufficiale, non segreta, presa di sua spontanea volontà dal Segretario del Partito, che ne teneva al corrente il Duce. Il nome di questi ricorse di continuo, com’è naturale. Da tutti fu apertamente deprecato, che il Capo si fosse avviluppato in responsabilità militari, fino a fare di queste la pietra d’inciampo del moto rivoluzionario, cui sarebbe stato non facile, ma non impossibile, profittare della crisi militare per aprire una crisi politica feconda di sviluppi. Il Maresciallo dell’Impero soffocava l’iniziativa del Capo politico; e, per converso, il Re, privato delle sue prerogative e responsabilità militari, veniva ad assumere, suo malgrado, una veste di arbitro politico. Bisognava, primo atto, prontamente ristabilire l’equilibrio delle funzioni. L’idea di «spogliare» il Duce del suo alto comando e di «investirne» di nuovo il Re nacque da quei dibattiti. Non sotterfugio, non subdola mina, non sotterraneo intrigo, ma esplicita istanza, di cui il Segretario del Partito si rese, di certo, interprete a Palazzo Venezia. Dove, del resto, nel «passo» del 16 luglio (data da controllare), fu da De Bono, da Farinacci, da Giuriati e da me proclamato in modo non equivoco. S’andò più in là nei confronti di Mussolini? Si previde il suo sbancamento completo? No, ma taluni discorsi potettero farlo sospettare: quelli, soprattutto, di Farinacci. Parlo d’un morto; ed è per me questione di coscienza pesare ogni mia parola scritta. Farinacci credeva, o faceva credere, di avere altre carte in tasca: la carta germanica. Egli teneva il linguaggio di un uomo predestinato, in caso di crisi totale, alla successione. Fu allora ch’io presi posizione; e dichiarai che, secondo me, o il Fascismo si salvava con Mussolini, o non si salvava6.

I contrasti stridenti fra le narrazioni di Grandi e Federzoni da una parte e quelle di De Stefani e Bottai dall’altra, su quel che essi ritenevano fosse l’obiettivo 10

dell’ultima seduta del Gran Consiglio, sono solo un esempio – ma che riguarda la questione principale nella storia del 25 luglio – della contrastante varietà di versioni su quel che accadde a Palazzo Venezia nelle dieci ore fra il 24 e il 25 luglio. Poiché dell’ultima seduta del Gran Consiglio non fu redatto un verbale ufficiale, non si sa che cosa effettivamente dissero il duce e i gerarchi durante quelle dieci ore. È facile obiettare che neppure il più fedele dei verbali può contenere un resoconto oggettivo di quanto è stato detto in una riunione: tuttavia, disporre di un simile documento, che abbia avuto l’approvazione di tutti i presenti, sarebbe come possedere una bussola che aiuta ad orientarsi nella selva delle versioni, le più contrastanti e contraddittorie, lasciate dai protagonisti sull’ultima seduta del Gran Consiglio. Nei mesi successivi alla fine del regime fascista, sulla stampa italiana e straniera, furono pubblicati racconti verosimili e inverosimili su quel che era accaduto nella sala del Pappagallo, dove si riuniva solitamente il Gran Consiglio, a Palazzo Venezia. I racconti verosimili attingevano probabilmente a testimonianze e rivelazioni di qualche partecipante all’ultima seduta o di qualche suo confidente. Si favoleggiò di scontri violentissimi, di gerarchi armati, di insulti, aggressioni, sparatorie. Forse per smentire tante narrazioni sensazionali e scandalistiche, alcuni membri del Gran Consiglio ritennero opportuno pubblicare fin dal 1944 la loro versione di come si erano svolti i fatti: non tanto, forse, per amore di verità quanto per amor di se stessi, volendo sottrarsi all’accusa di aver rovinato l’Italia o di aver tradito Mussolini e il regime, per sostenere, al contrario, che il loro unico scopo era stato salvare la nazione dalla catastrofe. Cominciò Mussolini, nel luglio 1944, a pubblicare la 11

propria versione dell’ultima seduta del Gran Consiglio; proseguì Grandi nel febbraio 1945, e poi, di anno in anno, per quattro decenni ancora, altri gerarchi pubblicarono in interviste, articoli, memorie e libri, la loro versione di quel che fu detto, come fu detto e perché fu detto in Gran Consiglio. Tutti però esponevano apologie del proprio operato. In un certo senso, la storia dell’ultima seduta è soprattutto la storia di come questa è stata raccontata dai partecipanti. La discordanza fra tanti resoconti, e spesso la discordanza fra le versioni date dalla stessa persona in tempi diversi, ha generato notevoli difficoltà nell’accertamento dei fatti e nell’interpretazione del significato storico del 25 luglio come evento decisivo nella storia dell’Italia contemporanea. Tutti i racconti dei partecipanti dell’ultima seduta del Gran Consiglio hanno una caratteristica comune, sulla quale è opportuno richiamare l’attenzione. Tutti sono stati scritti qualche mese dopo, talvolta qualche anno dopo, talvolta molti anni dopo, il 25 luglio. Pertanto, la loro versione dei fatti accaduti in quelle dieci ore decisive è stata evidentemente condizionata e orientata da due eventi – l’arresto di Mussolini e la rapida fine del regime fascista – che non erano stati previsti dai partecipanti all’ultima seduta. L’arresto di Mussolini colse di sorpresa tutti gli attori dell’ultimo atto del Gran Consiglio, che appresero la notizia da qualche confidenza personale o dall’annunzio che ne diede la radio alle 22,45 del 25 luglio. Quel che accadde dopo le 17,20 del 25 luglio ha decisamente condizionato e influenzato il racconto di quel che era accaduto nelle ventiquattro ore precedenti, e soprattutto durante le dieci ore di riunione del Gran Consiglio. Mentre i membri del Gran Consiglio dibattevano sulla relazione esposta dal duce e sugli ordini 12

del giorno presentati, nessuno dei presenti sapeva, o forse qualcuno soltanto intuiva, che altrove i militari, con l’avallo del re, avevano già intessuto la trama di un colpo di Stato per esautorare Mussolini, porre fine al regime fascista e costituire un governo di dittatura militare per cercare una pace separata. Sono stati pubblicati molti libri sul 25 luglio nel corso di oltre sette decenni: memorie, rievocazioni e racconti pubblicistici, narrazioni storiche, ai quali vanno aggiunti una miriade di articoli e interviste di molti degli attori della lunga notte del Gran Consiglio. Il primo libro col titolo 25 luglio uscì nel settembre 1944; il più recente è stato pubblicato nel 2013. Nella prefazione al primo libro, il giornalista Vitantonio Napolitano aveva previsto che al «pari di tutte le giornate cruciali e decisive, anche questa del 25 luglio è destinata a far scorrere molto inchiostro. A mano a mano che la data si allontanerà nel tempo e perderà il suo informe carattere episodico, a mano a mano che gli archivi si sgraveranno dei segreti e gli uomini di ricordi, scritti su scritti, memorie su memorie, rievocazioni su rievocazioni si accatasteranno sull’argomento»7. Così è avvenuto. La vicenda dell’ultima seduta del Gran Consiglio, osservava già nel 1972 lo storico Nino Valeri, è «oramai nota fino alla sazietà, anche se tutti i particolari riferiti in varie riprese dai presenti, o dai confidenti di essi non collimano ancora»8. Eppure non sono solo i particolari che non collimano nelle testimonianze dei presenti e dei loro confidenti: non collimano, talvolta, intere parti dei loro racconti, o addirittura divergono in modo sostanziale, proprio sulle questioni cruciali dibattute nelle dieci ore di riunione a Palazzo Venezia. Non collimano, per esempio, le citazioni testuali dei discorsi che fecero i due principali antagonisti della seduta: Mussolini e Grandi. Così come non collimano le descrizioni degli atteggiamenti e dei 13

comportamenti che ebbero i membri del Gran Consiglio. Fra le molte cose che sono state scritte su quel che fu detto nell’ultima seduta del Gran Consiglio daremo qui solo un esempio, che riguarda però la questione più importante per conoscere quel che avvenne in quelle dieci ore di discussione. Basterà questo esempio a mostrare quali siano le difficoltà che incontra lo storico per poter giungere ad accertare come si sono effettivamente svolti i fatti. L’esempio scelto riguarda due frasi di particolare gravità, che Mussolini avrebbe pronunciato durante la discussione e a conclusione della seduta, secondo quanto ha raccontato lui stesso in un articolo sull’ultima seduta del Gran Consiglio pubblicato sul «Corriere della Sera» il 1° luglio 1944. Mussolini affermava di aver detto nel suo terzo e ultimo intervento, durante la discussione: «Signori attenzione! L’ordine del giorno Grandi può mettere in gioco l’esistenza del regime». Poi, alla fine della riunione, dopo l’esito della votazione, Mussolini affermava di aver detto: «Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!»9. Queste due frasi sono molto importanti dal punto di vista storico, e specialmente la prima, perché sarebbero la prova che il duce aveva compreso lucidamente la gravità dell’ordine del giorno Grandi, era consapevole che la sua approvazione avrebbe messo in gioco l’esistenza del regime, e aveva pertanto ammonito i membri del Gran Consiglio a valutare la gravità della loro decisione. A questa osservazione segue necessariamente un’altra, altrettanto importante: se Mussolini aveva compreso subito che l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi metteva in gioco l’esistenza del regime, perché – come è testimoniato da tutti i partecipanti alla seduta – non fece nulla per prevenire o impedire di metterlo in votazione, visto che mai una seduta del Gran Consiglio si era conclusa 14

con una votazione, che non era neppure prevista né imposta dalla legge del 1928 con la quale il Gran Consiglio, da organo supremo del partito fascista, era stato trasformato in organo supremo del regime? Data la gravità delle questioni connesse alle due frasi mussoliniane, è necessario accertare se esse furono effettivamente pronunciate. Così come sarà necessario, nel corso di questa indagine sul 25 luglio, mettere a confronto le testimonianze contrastanti dei vari attori dell’ultima seduta, per cercare di avvicinarci il più possibile alla realtà storica dei fatti realmente accaduti. E fra i fatti accaduti vanno annoverate le motivazioni, le intenzioni, i propositi, gli obiettivi, dai quali ciascuno di loro fu mosso. Occorre accertare se fin dall’inizio ogni membro del Gran Consiglio, a cominciare dal duce, sapeva bene quel che faceva e perché lo faceva, oppure se procedeva senza un orientamento certo, senza un fine preciso, cercando di definire l’uno e l’altro secondo lo svolgimento della situazione, che in quelle dieci ore sembrò fino alla fine ondeggiare fra posizioni diverse, che lasciavano intravvedere esiti differenti, persino opposti, ma tutt’altro che già predeterminati e inevitabili nel procedere verso l’esito finale. L’esito dell’ultima notte del Gran Consiglio, a seconda delle scelte compiute da coloro che vi presero parte, avrebbe potuto essere diverso da come era stato previsto, immaginato, desiderato, temuto o sperato. Attenendoci per ora all’esempio scelto – se Mussolini pronunciò o non pronunciò il suo fatale ammonimento –, il compito è tutt’altro che agevole, perché lo storico deve sbrogliare l’ingarbugliata matassa di testimonianze e racconti contrastanti e contraddittori sull’ultima seduta del Gran Consiglio pubblicati dai vari partecipanti, alcuni dei quali, in tempi differenti, hanno dato versioni differenti di quel che dissero e udirono. E non si sfugge all’impressione 15

di stare leggendo versioni condite con considerevoli dosi di sapienza postuma e retroattiva, palesi esagerazioni autoincensanti, mistificazioni adornate di nobili sentimenti e alti ideali, fino a vere e proprie bugie. Da tutto ciò emana persino un qual sentore di cialtroneria, come ha osservato durante una conversazione una giovane storica di molto talento, nel preparare uno speciale televisivo sull’ultimo atto del Gran Consiglio. Prendiamo il caso Grandi, che fu l’attore principale della seduta, più importante dello stesso Mussolini per come riuscì a conseguire il successo finale. Il suo primo racconto sulla notte del Gran Consiglio fu pubblicato il 26 febbraio 1945 dalla rivista americana «Life»10. Grandi scrisse che Mussolini, «arrogante, sicuro di sé stesso, assolutamente fiducioso nella sua forza di poter dominare l’assemblea come sempre», terminò la sua relazione iniziale dichiarando: «Io chiuderò la discussione e indicherò un ordine del giorno sulle misure che dovranno essere prese». Questa, aggiungeva Grandi, «era la consuetudine. Il Gran Consiglio si apriva sempre con una esposizione di Mussolini, poi vi era la discussione, indi l’ordine del giorno. Non vi era mai il voto». Le cose quel giorno, invece, andarono diversamente. Quando prese la parola per illustrare il suo ordine del giorno, raccontava Grandi, non esitò ad accusare Mussolini, che lo ascoltava «seduto sul suo trono, cupo e minaccioso», di aver imposto una dittatura che era la vera causa del disastro italiano, e di aver tradito il popolo italiano quando aveva cominciato a «germanizzare l’Italia» trascinandola nelle braccia di Hitler, per costringerla alla fine a una guerra contraria agli interessi, ai sentimenti e all’onore degli italiani. Raccontava ancora Grandi che Mussolini, dopo averlo ascoltato silenzioso per quasi un’ora, alla fine perse la calma e cominciò a interromperlo, per smentire quel che 16

Grandi diceva: «Mussolini urlava con tutta la sua voce: – Non è vero, non è vero. Quest’uomo vi inganna, mente!». E alla fine divenne minaccioso: «Questa notte vi ho lasciato dire il vostro pensiero – disse – avrei potuto interrompervi e farvi arrestare. E continuò con una espressione di dolore e di rimprovero: – Pare che vi sia qualcuno qui dentro che amerebbe sbarazzarsi di me». La discussione, proseguiva Grandi, «crebbe in violenza. Galbiati, comandante della milizia, minacciò di far entrare suoi fascisti armati. Tringali, Presidente del Tribunale speciale, gridava dall’altra parte del tavolo: – Voi dovrete pagare con la vostra testa questo tradimento». «Non vi era un solo uomo nella sala», aggiungeva Grandi, «che non sapesse che la decisione adesso era per lui questione di vita o di morte». Poi improvvisamente, alle tre di notte, Mussolini decise di mettere ai voti la mozione di Grandi. Appreso il risultato della votazione, «Mussolini si raddrizzò sul suo trono e ci guardò a uno a uno in giro. Poi si alzò pesantemente. Mentre raggiungeva l’angolo della tavola per uscire, la bocca di Scorza si aprì per il rituale: ‘Saluto al Duce’ ma le parole non uscirono». Nessun accenno fece allora Grandi alle frasi mussoliniane sulla crisi del regime, che il suo ordine del giorno avrebbe provocato. Molto diversa è invece la versione che lo stesso Grandi ha dato nel suo libro sul 25 luglio, pubblicato nel 1983 ma scritto a Lisbona – secondo quanto egli ha affermato – fra il 1944 e il 1945, e quindi contemporaneamente all’articolo per «Life»11. Nel libro appare descritto in modo molto diverso il contegno tenuto da Mussolini durante il discorso di Grandi: «Avevo parlato per un’ora e mezzo. Salvo una breve interruzione all’inizio, Mussolini mi aveva ascoltato fissandomi silenzioso e senza batter ciglio». Inoltre, nella nuova versione, Grandi non parla dell’avvertimento minaccioso che Mussolini avrebbe pronunciato, alludendo 17

alla possibilità di far arrestare chi stava pensando di sbarazzarsi di lui; non parla neppure di un aumento del grado di violenza nella discussione. E ancora: dalla citazione dell’intervento di Galbiati viene eliminata la minaccia di far entrare i militi fascisti, così come dalle parole attribuite al presidente del Tribunale speciale è scomparsa l’allusione al pericolo di morte, sostituita da un generico avvertimento: «L’ordine del giorno Grandi fissa sin d’ora delle responsabilità ben gravi. Lo ricordino i membri del Gran Consiglio»12. Infine, sostanzialmente diversa è la nuova descrizione che Grandi fa della conclusione della seduta, dopo la votazione. Viene infatti aggiunto un elemento assai rilevante: dopo l’esito della votazione Mussolini appare «sorpreso, ma nulla dice il suo viso cupo e impassibile. […] Guarda fissamente l’assemblea. […] Poi dopo una pausa: ‘Voi avete provocato la crisi del regime’. Questo egli dice, ma non vi crede ancora tuttavia. Si alza. Scorza accenna a fare il saluto al Duce. Mussolini lo trattiene con un gesto: ‘La seduta è tolta’. Attraversa lentamente la sala seguito da Scorza e da altri»13. Insomma, nella nuova versione del suo racconto sul 25 luglio, Grandi aggiunge la frase conclusiva che Mussolini aveva affermato di aver detto nel suo racconto dell’ultima seduta. La stessa frase mussoliniana la troviamo nel libro sulla notte del Gran Consiglio scritto dall’ultimo segretario del partito fascista, Carlo Scorza, e pubblicato nel 1968. Scorza racconta che il duce terminò la sua prima relazione con parole molto diverse da quelle citate da Grandi: «‘Penso che il Gran Consiglio debba porsi il problema: Guerra o pace? Resistenza o capitolazione? Io credo che, così impostata la discussione, potrà uscire da questo Gran Consiglio la parola che la Nazione in questo momento attende’»14. Scorza racconta che il duce prese la parola nuovamente nel corso della discussione, e concluse dicendo: «Signori, attenzione! 18

L’ordine del giorno Grandi può porre in gioco l’esistenza del Regime»15. Infine, racconta Scorza, Mussolini, dopo aver appreso il risultato della votazione, disse con «voce uguale, naturalissima», tanto da sembrare «non l’annunciazione di un fatto imprevisto e gravissimo, ma un fatto già a lungo tempo meditato e scontato: ‘Signori, con questo ordine del giorno voi avere aperto la crisi del Regime’»16. Tuttavia, al pari di Grandi, Scorza ha dato due differenti versioni sulle parole pronunciate dal duce durante e alla fine della seduta. In una «intervista-processo» pubblicata dalla «Domenica del Corriere» il 12 marzo 1968, cioè prima della pubblicazione del suo libro, che fu stampato nel mese di ottobre, al giornalista che gli aveva chiesto – citando la frase mussoliniana: «L’ordine del giorno Grandi può porre in gioco l’esistenza del regime» – «Mussolini disse o non disse tali parole? E in caso affermativo, a che punto?», Scorza rispose: «I termini usati dal duce non furono così perentori. Ad esempio non dichiarò che l’ordine del giorno Grandi ‘può mettere in gioco l’esistenza del regime’, bensì che ‘può avere imprevedibili conseguenze’. Si tratta comunque del suo terzo ed ultimo intervento compiuto verso mezzanotte e mezzo, in seguito alla presentazione, fattagli da Grandi, di un esemplare del suo ordine del giorno recante venti firme di adesione»17. Il fatto che, in una delle loro versioni, sia Grandi che Scorza abbiano attribuito a Mussolini le due frasi cruciali sulla crisi del regime, che lo stesso duce affermava di aver detto, non è tuttavia sufficiente a dimostrare che esse siano state effettivamente pronunciate. Sembra strano, infatti, che data la gravità di tali frasi per tutta la vicenda del 25 luglio, né l’una né l’altra siano citate nei racconti degli altri partecipanti all’ultima seduta. Non sono citate da Tullio Cianetti nelle memorie scritte 19

mentre era in carcere al processo di Verona, imputato di tradimento per aver votato l’ordine del giorno Grandi, anche se già la mattina del 25 luglio aveva scritto una lettera al duce per ritirare il suo voto. Ciò gli evitò la condanna a morte inflitta dal Tribunale speciale di Verona agli altri imputati, sostituita da trenta anni di carcere. Dopo la lettura dei risultati della votazione, racconta Cianetti, «Mussolini, con atteggiamento impassibile e stanco, disse queste semplici parole di chiusura: ‘Visto questo risultato, ritengo inutile porre in votazione gli altri o.d.g. La seduta è tolta’. Raccolse le sue carte e si avviò tranquillamente verso l’abituale stanza di lavoro». Inoltre, non solo Cianetti non cita la frase mussoliniana sulla crisi del regime provocata dalla votazione, ma addirittura aggiunge una nota al suo racconto, per commentare il libro di Mussolini Storia di un anno, che conteneva «molte cose esatte, ma anche molte false o manipolate ad arte»: «A pag. 79 del volume, Mussolini afferma di aver detto: ‘Signori, attenzione! L’o.d.g. Grandi può mettere in gioco l’esistenza del Regime’. Escludo nella maniera più formale che Mussolini abbia pronunciato queste parole. A pag. 82 si afferma che, a votazione avvenuta, Mussolini si alzò e disse: ‘Voi avete provocato la crisi del Regime’. È falso! Mussolini pronunciò soltanto le parole che ho più sopra riportato»18. Non troviamo le due frasi mussoliniane neppure nei resoconti degli altri membri del Gran Consiglio che hanno pubblicato una propria versione di quel che fu detto e come fu detto nell’ultima seduta, fra i quali Acerbo, Alfieri, Bastianini, Bottai, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Galbiati e Polverelli. Secondo la testimonianza di quest’ultimo, Mussolini avrebbe accennato solo alla sua personale posizione di fronte all’atteggiamento che avrebbe avuto il re: 20

Mussolini dichiarò che, dato il difficile momento, l’ordine del giorno Grandi, per un complesso di ragioni, era di estrema gravità. «Esso [l’ordine del giorno Grandi] pone il dilemma: il Re accetta, o non accetta. Se accetta io debbo quindi lasciare il Comando Supremo delle Forze Armate, sorge allora una questione personale. Che se l’ordine del giorno vuol andare oltre il problema militare, allora bisogna dire chiaramente dove si vuole arrivare e che cosa si vuole». Su questo punto non seguirono chiarimenti. Mussolini mise in votazione l’ordine del giorno Grandi19.

Leggendo le testimonianze dei partecipanti all’ultima seduta del Gran Consiglio, si ha l’impressione di assistere, in quella notte, a un adattamento italiano del film Rashōmon del regista giapponese Akira Kurosawa. Nel film, un boscaiolo, un monaco e un passante trovano riparo durante un temporale sotto la «porta nelle mura difensive» (il significato del titolo del film) presso la città di Kyoto. Per passare il tempo, iniziano a parlare del processo fatto a un brigante, accusato di aver assassinato un samurai dopo averne stuprato la moglie. Questo era il fatto certo. Ma durante il processo, il brigante, la moglie del samurai ucciso e lo stesso samurai, evocato dal regno dei morti, avevano dato versioni totalmente diverse di quanto era accaduto. Ad esse, il boscaiolo, testimone oculare, aggiunge la sua versione, che smentisce tutte le altre: ma negli altri due ascoltatori rimane il sospetto che neppure questa sia veritiera. Il fatto della morte del samurai è certo, ma come e perché è accaduto è rimasto avvolto nell’incertezza. Come in Rashōmon, nella storia delle ventiquattro ore dalle 17,15 del 24 luglio alle 2,30 del giorno successivo c’è un fatto certo, la seduta del Gran Consiglio, ma cosa veramente accadde in quelle dieci ore, prima della votazione finale, è tuttora avvolto nell’incertezza di testimonianze contraddittorie. Per tornare all’esempio che abbiamo scelto, ci sono dunque fondati motivi per ritenere che le due frasi mussoliniane non furono pronunciate in Gran Consiglio, ma furono inventate e aggiunte dal duce nel suo resoconto 21

di un anno dopo, e sei mesi dopo la conclusione del processo di Verona e la fucilazione di Ciano, De Bono, Gottardi, Pareschi e Marinelli. Mussolini conosceva gli atti del processo, dei quali conservava copia fotografica, quando raccontò la sua versione dell’ultima seduta del Gran Consiglio: è evidente che le sue due frasi fornivano una sorta di legittimazione postuma e retroattiva alla sentenza pronunciata dal Tribunale speciale. Eppure, durante il dibattimento, nessuno dei gerarchi che avevano votato contro l’ordine del giorno Grandi, e che al processo testimoniarono contro gli imputati – cioè Biggini, Buffarini Guidi, Farinacci, Frattari, Scorza e Suardo –, menzionò le frasi mussoliniane per dimostrare che gli imputati erano consapevoli, dopo l’ammonimento del duce, che il loro voto avrebbe messo in gioco l’esistenza del regime. Gli storici che hanno ricostruito la vicenda hanno potuto basarsi finora soltanto sui racconti e sulle testimonianze dei protagonisti, le uniche fonti alle quali hanno attinto per ricostruire le dieci ore in cui il duce e i massimi gerarchi del regime fascista discussero per l’ultima volta. Ed esclusivamente su di esse si sono fondate finora le interpretazioni del comportamento dei singoli attori e il significato della seduta nella vicenda conclusiva della crisi del regime fascista. È però evidente che tutti questi resoconti, come pure quelli pubblicati negli anni successivi da ex membri del Gran Consiglio, furono redatti, direttamente o indirettamente, per confermare o per smentire la versione che ne aveva dato Mussolini, concentrata sulle sue due frasi cruciali riguardo alla inevitabile crisi del regime come conseguenza dell’approvazione dell’ordine del giorno Grandi. Gli storici che hanno finora raccontato la fine del regime fascista hanno dato per certo che Mussolini pronunciò quelle frasi cruciali, e le hanno usate come prova per 22

dimostrare che il duce aveva compreso che l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi avrebbe provocato la fine del regime20. Le ha citate come effettivamente pronunciate anche Renzo De Felice, mentre ha giudicato «poco attendibile» la smentita che ne aveva dato Cianetti. Secondo il biografo di Mussolini, prova indubitabile della veridicità delle frasi mussoliniane era che «le parole in questione appaiono anche nella ricostruzione della seduta del Gran Consiglio fatta da Grandi»21. Sorprende però che uno storico scrupoloso come De Felice abbia accreditato, senza avanzare alcun dubbio, la veridicità delle frasi mussoliniane sulla base delle citazioni di Scorza e di Grandi nei loro libri, trascurando il fatto che sia Grandi sia Scorza in un’altra versione del loro racconto le avevano ignorate. Nuove smentite alla veridicità delle frasi mussoliniane emergono da alcuni documenti inediti sull’ultima seduta del Gran Consiglio, provenienti dalle carte di Luigi Federzoni, recentemente venuti alla luce, acquisiti dalla Direzione Generale Archivi e ora depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato. Fra questi documenti vi sono otto pagine di appunti scritti a matita da Federzoni, molto concisi, che riportano in forma di verbale il contenuto di quasi tutti gli interventi. Un altro documento è costituito da 22 fogli manoscritti, ma con diverse inserzioni e integrazioni, che hanno l’aspetto di un vero e proprio verbale dell’ultima seduta, scritto però con grafie differenti. Molto probabilmente questo secondo documento è il verbale che, secondo varie testimonianze che vedremo in seguito, sarebbe stato compilato in casa Federzoni, da alcuni dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi, la mattina o nel pomeriggio del 25 luglio, e comunque prima della notizia dell’arresto di Mussolini. Alla fine della nostra indagine, si vedrà quale sia la straordinaria importanza dei nuovi documenti per verificare 23

la validità storica di quanto è stato finora scritto sul Gran Consiglio, sia dal punto di vista dei fatti del 25 luglio sia dal punto di vista della loro interpretazione. Qui ci limitiamo a osservare soltanto che in nessuno di essi sono citate le due cruciali frasi mussoliniane sulla crisi del regime. Non solo: in nessuno dei nuovi documenti è rintracciabile alcun cenno all’eventualità di un’uscita di scena del duce né si prospetta la possibilità o il pericolo di una fine del regime fascista. I nuovi documenti hanno consentito di riesaminare criticamente i racconti e le testimonianze disponibili, e di mettere nuovamente a confronto le varie versioni dei protagonisti portando alla luce quanto in esse può essere considerato veritiero e quanto risulta invece essere frutto di invenzione, falsificazione, mistificazione. Dai nuovi documenti risulta infatti provato che le versioni sulla notte del Gran Consiglio, date da Grandi, da Federzoni e da altri gerarchi nei loro resoconti, sono state più volte rielaborate e modificate con evidente abuso del senno del poi. Inoltre, i nuovi documenti non solo smentiscono gran parte delle versioni date dai principali attori dell’ultima seduta del Gran Consiglio, ma gettano nuova luce su quel che effettivamente accadde, specialmente per quanto riguarda il contegno di Mussolini. L’esempio delle frasi mussoliniane, proprio per la loro speciale rilevanza, è solo un esempio dei dubbi – talvolta fortissimi dubbi – sulla veridicità delle molte testimonianze su quel che accadde nelle ventiquattro ore passate alla storia sotto la denominazione «25 luglio». Inoltre, alla luce dei nuovi documenti, tornano a porsi all’attenzione dello storico le questioni centrali di quell’evento. Citiamo le principali, che sono oggetto della nostra indagine. Chi furono i gerarchi che presero l’iniziativa di sollecitare e ottenere dal duce la convocazione del Gran Consiglio? I 24

diciannove gerarchi che votarono la sfiducia a Mussolini si proponevano tutti lo stesso obiettivo? Tale obiettivo era quello che effettivamente accadde nel pomeriggio del 25 luglio? Avevano previsto i diciannove che le conseguenze dell’ordine del giorno Grandi sarebbero state la destituzione del duce e la fine del regime fascista? Volevano essi effettivamente estromettere Mussolini, restituire i poteri militari e politici al re e porre fine al regime fascista, perché ritenevano che solo in questo modo era possibile salvare la patria dalla catastrofe totale, come hanno scritto nelle loro memorie? Oppure furono invece dei traditori, come sostenne Mussolini, perché complottarono contro il loro duce in combutta con il re e i militari per trattare la resa con gli anglo-americani? E ancora: se il duce considerava l’ordine del giorno Grandi, da lui conosciuto prima della riunione, un atto «inammissibile e vile», come sembra che lo avesse definito lui stesso, perché accettò che venisse discusso in Gran Consiglio, e chiese su di esso la votazione, anche se non era obbligato a fare né l’una né l’altra cosa, dal momento che solo al capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio, spettava di fissare l’ordine del giorno delle sedute? E se il duce era invece sicuro che la riunione del 24 luglio si sarebbe conclusa come tutte le precedenti riunioni con l’approvazione della sua volontà, perché durante tutta la seduta, fino alla votazione, non propose un proprio ordine del giorno o non rinviò la seduta, come era in suo potere di fare e come altre volte in passato era accaduto? Forse era rassegnato a perdere? O addirittura, come è stato sostenuto da alcuni partecipanti all’ultima seduta del Gran Consiglio, fu Mussolini stesso a desiderare, se non proprio addirittura a volere, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, perché, sentendosi ormai sopraffatto dalla disfatta militare e dal groviglio di una situazione tragica che non 25

sapeva come risolvere, voleva uscire di scena? Con la nostra indagine, intendiamo fornire al lettore nuovi elementi di fatto e di interpretazione, per conoscere meglio gli atteggiamenti e i comportamenti dei protagonisti della notte del Gran Consiglio, e per comprendere storicamente se quanto è accaduto fra il pomeriggio del 24 e il pomeriggio del 25 luglio 1943 fu una temeraria impresa di patrioti, come sostenne Grandi, una subdola congiura di traditori, come sostenne Mussolini, o un suicidio, consapevole o involontario, di un regime, come sostenne Badoglio. Oppure fu, come cercheremo di dimostrare alla fine della nostra indagine, l’eutanasia di un duce, che aveva perso il suo carisma. 1 Cit. in R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, Milano

1964, p. 1056. 2 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, pp. 225-227. 3 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, p. 200. 4 A. De Stefani, Gran Consiglio ultima seduta. 24-25 luglio 1943, Le Lettere, Firenze 2013, p. 78. Si tratta di un libro scritto da De Stefani fra il 1943 e il 1944, e rimasto inedito per quasi settant’anni. 5 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 431. 6 G. Bottai, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1988, p. 441. 7 V. Napolitano, 25 luglio, Vega, Roma 1944, p. 7. 8 N. Valeri, Tradizione liberale e fascismo, Le Monnier, Firenze 1972, p. 188. 9 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, pp. 349, 351. 10 Dino Grandi Explains, in «Life», 26 febbraio 1945. 11 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 255-256. 12 Ivi, p. 266. 13 Ivi, p. 268. 14 C. Scorza, La notte del Gran Consiglio, Palazzi, Milano 1968, p. 37. 15 Ivi, p. 124.

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16 Ivi, p. 149. 17 D. Susmel, Seconda puntata dell’intervista-processo a Carlo Scorza sui fatti

del 25 luglio 1943. La carta segreta: la pace con la Russia, in «Domenica del Corriere», 12 marzo 1968. 18 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, p. 420. 19 G. Polverelli, La notte del Gran Consiglio negli appunti dell’unica persona autorizzata a stenografare, in «Il Tempo» (settimanale), 15 novembre 1952. 20 Cfr. F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, vol. I, Einaudi, Torino 1963, p. 607; Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, cit., p. 917; G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943: crollo di un regime, Mursia, Milano 1982; R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in guerra 1940-1943, 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, p. 1355. 21 De Felice, Mussolini l’alleato, cit., p. 1355.

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Capitolo primo. Fatti in cronaca

Gli avvenimenti passati alla storia con la denominazione di una data, il 25 luglio, ebbero inizio sabato 24 luglio, alle ore 17 e si conclusero alle 17,30 del giorno successivo. I principali fatti certamente accaduti in quelle ventiquattro ore sono: la seduta del Gran Consiglio, dalle 17 del 24 alle 2,30 del 25 luglio; la giornata di lavoro del duce domenica 25 fino alle 17; il colloquio del capo del governo con il re a Villa Savoia dalle 17 alle 17,20; l’arresto di Mussolini da parte dei carabinieri alle 17,30 subito dopo la conclusione del colloquio. Nella cronaca di quelle ventiquattro ore, si consumò l’agonia e la fine del regime fascista, dopo venti anni, durante i quali Mussolini e il partito fascista avevano dominato con metodo totalitario il popolo italiano, la società e lo Stato monarchico. Il momento decisivo in quelle ventiquattro ore, prima dell’arresto di Mussolini, fu la seduta del Gran Consiglio. Appartiene alle ironie della storia il fatto che la fine del regime fascista sia stata provocata dallo stesso organo, inventato da Mussolini, che fin dalla prima seduta ufficiale, il 12 gennaio 1923, aveva iniziato a gettare le fondamenta di un regime a partito unico, costruito nei successivi venti anni. Nato come organo supremo del partito fascista, il Gran 28

Consiglio era diventato dal 1928 l’organo supremo del regime e, come tale, il principale organo costituzionale dello Stato monarchico. Nel corso del ventennio, il Gran Consiglio aveva tenuto 186 riunioni; l’ultima, prima del 24 luglio, era avvenuta il 7 dicembre 1939, per confermare la decisione della «non belligeranza» presa dal duce dopo l’inizio della guerra in Europa con l’aggressione della Germania alla Polonia il 1° settembre. Alla seduta del 24 luglio, oltre al duce, erano presenti 28 gerarchi, membri a vario titolo. Due, il maresciallo d’Italia Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, erano membri a tempo illimitato in quanto quadrumviri della «marcia su Roma»; gli altri due quadrumviri, Michele Bianchi e Italo Balbo, erano deceduti. Vi erano poi i membri del Gran Consiglio «a cagione delle loro funzioni»: Giacomo Suardo, presidente del Senato; Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; Giacomo Acerbo, ministro delle Finanze; Alfredo De Marsico, ministro di Grazia e Giustizia; Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione nazionale; Carlo Pareschi, ministro dell’Agricoltura e foreste; Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni; Gaetano Polverelli, ministro della Cultura popolare; Luigi Federzoni, presidente dell’Accademia d’Italia; Carlo Scorza, segretario del partito nazionale fascista (PNF) e, in quanto tale, segretario del Gran Consiglio; Enzo Galbiati, capo di Stato maggiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; Antonino Tringali Casanuova, presidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; Giovanni Balella, presidente della Confederazione fascista degli industriali; Ettore Frattari, presidente della Confederazione fascista degli agricoltori; Luciano Gottardi, presidente della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria; Annio Bignardi, presidente della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura. 29

Erano membri nominati direttamente dal duce per un triennio, scelti fra «coloro che abbiano bene meritato della Nazione e della causa della Rivoluzione Fascista»: Alberto De Stefani, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli, Dino Edoardo Alfieri, Galeazzo Ciano, Guido Buffarini Guidi. Infine erano presenti, perché chiamati «a partecipare ai lavori del Gran Consiglio, per determinati argomenti, persone particolarmente competenti nelle questioni sottoposte al suo esame», Giuseppe Bastianini, sottosegretario al ministero degli Affari esteri; Umberto Albini, sottosegretario al ministero dell’Interno. De Bono, De Vecchi, Marinelli, Rossoni e Federzoni erano membri del Gran Consiglio fin dalla prima seduta ufficiale. Acerbo, Alfieri, Bastianini, Bottai, Buffarini Guidi, Cianetti, Ciano, De Marsico, De Stefani, Farinacci, Grandi, Suardo e Tringali Casanuova erano stati membri per diversi periodi, fra il 1923 e il 1943. Albini, Balella, Biggini, Bignardi, Frattari, Galbiati, Gottardi, Pareschi, Polverelli e Scorza partecipavano per la prima volta. La nuova seduta del Gran Consiglio, dopo oltre tre anni e mezzo, avveniva a due settimane di distanza dallo sbarco delle forze armate anglo-americane in Sicilia il 10 luglio. L’invasione del territorio nazionale era l’inesorabile conseguenza della serie di disfatte subite dalle forze armate italiane e tedesche in Africa settentrionale e nel Mediterraneo, iniziata con l’avanzata inglese ad El Alamein il 23 ottobre 1942 e proseguita fino alla resa di Pantelleria l’11 giugno 1943. Il 21 luglio erano cadute Caltanissetta ed Enna; il giorno successivo la Quinta armata americana occupava Palermo, mentre l’Ottava armata britannica aveva occupato Augusta e Catania, ed entrambe le armate procedevano verso Messina. La gravità della situazione e la prospettiva di una totale 30

catastrofe dell’Italia avevano indotto il segretario del partito e alcuni gerarchi a recarsi in udienza dal duce a Palazzo Venezia nel pomeriggio del 16 luglio, per chiedere la convocazione del Gran Consiglio, dove poter decidere i provvedimenti necessari per difendere la penisola ed evitare una completa disfatta. Il duce, sia pur controvoglia, accolse la richiesta e promise che avrebbe convocato il supremo organo del regime entro quindici giorni. La mattina del 17 luglio, aerei inglesi e americani sorvolarono Roma gettando manifestini firmati dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt e dal primo ministro della Gran Bretagna Churchill, nei quali dichiaravano che l’unica speranza di salvezza per l’Italia era «in una capitolazione che non sarebbe disonorevole, data la potenza soverchiante delle forze militari delle Nazioni Unite», e incitavano gli italiani a decidere se dovevano continuare «a morire per Mussolini e per Hitler, o vivere per l’Italia e per la civiltà». La mattina del 19 luglio, Mussolini incontrò Hitler a Feltre per discutere sulla gravità della situazione militare italiana, per chiedere aiuto in armi e materie prime in modo da resistere all’invasione, e soprattutto per cercare di convincere il Führer a porre fine alla guerra con la Russia e concentrare le forze dell’Asse nel Mediterraneo. Appresa la notizia del bombardamento su Roma, il duce manifestò subito l’intenzione di rientrare quanto prima nella capitale, anticipando la conclusione della riunione, dove, come al solito, aveva dovuto ascoltare lunghi monologhi di Hitler, aspramente critico della condotta militare italiana, ma senza riuscire ad affrontare con lui la questione di una eventuale uscita dell’Italia dalla guerra perché non era in condizione di resistere all’invasione nemica. Il duce tornò a Roma la sera del 19, con un aereo pilotato da lui stesso. Avvicinandosi alla capitale, la vide 31

«avvolta in una grande nuvola nera. Era il fumo che saliva dalle centinaia di vagoni della stazione del Littorio in fiamme. L’officina dell’aero​porto distrutta. Il campo rovinato dai crateri delle bombe era inatterrabile. Volando su Roma, dal Littorio a Centocelle, si ebbe la sensazione netta che l’attacco era massiccio e i danni ingenti». Mentre rientrava in auto a Villa Torlonia, incontrò per le strade «una moltitudine di uomini, donne, bambini, in auto, in bicicletta, a piedi, con ogni sorta di ‘impedimenta’ domestiche [che] si dirigeva verso la periferia e la campagna. Una moltitudine; meglio una fiumana»22. Nel pomeriggio del 19 luglio, alle 15, il re si era recato a visitare le località colpite. Annotava nel suo diario il generale Paolo Puntoni, l’aiutante di campo del re: «Dappertutto è rovina e disordine. Non c’è alcuno che diriga le operazioni di soccorso. La popolazione è muta, ostile. Passiamo attraverso lacrime e un gelido silenzio. […] Poco dopo la visita di Sua Maestà, giunge a San Lorenzo il Santo Padre. È mancato un nulla che i due Sovrani si incontrassero»23. L’accoglienza al pontefice fu però molto diversa, con la folla che lo avvolse commossa, invocando fra le lacrime «Pace! Pace!». Maturò in quei giorni in Vittorio Emanuele il proposito di estromettere Mussolini dal potere. La mattina del 22 il capo del governo, ricevuto in udienza al Quirinale, lo informò sui colloqui di Feltre24. Quello stesso giorno le truppe americane occupavano Palermo. Il 23 luglio, leggendo la relazione settimanale del capo della polizia, il duce apprendeva che la «rapida, dilagante avanzata nemica in Sicilia e la presa di Palermo ormai a conoscenza dei più è causa delle più vive apprensioni ed acuisce le critiche della popolazione verso il Governo, giudicato responsabile di aver impegnato il Paese in una guerra così vasta e cruenta, senza la necessaria 32

preparazione»: Tutti sono convinti che non è attualmente in gioco soltanto il possesso della Sicilia, ma la sorte dell’intero Paese. Il rancore contro la Germania, accusata di averci trascinato nel conflitto, aumenta sempre e diventa in taluni casi un vero odio. L’intensificarsi dei bombardamenti, condotti implacabilmente contro i nostri maggiori centri, accentua la depressione. Quello recente su Roma ha fatto cadere un’altra illusione ed ha dato modo alla popolazione della Capitale di constare [sic] e di recriminare l’inefficienza della difesa antiaerea, l’assenza della nostra caccia, l’insufficienza dei necessari idonei ricoveri e la disorganizzazione dei servizi di soccorso. […] Per tutto questo insieme di fattori, lo spirito pubblico è in preda ad un grave smarrimento, che tende a dilagare e ad accrescersi, perché nessuno si fa più scrupolo di nascondere il proprio pensiero. In molti casi si può parlare di vero e proprio abbandono della fede, forse mai sinceramente sentita. Le difficoltà dei compiti odierni sono aggravate dalla deficienza di mezzi a disposizione sui quali, per una ragione o per l’altra, tutti pretendono di comandare, e dal nervosismo di molti dirigenti che complica spesso anche le poche cose che ancora sarebbero semplici. Vi sono però tuttora italiani che vorrebbero combattere duramente per l’onore e la Patria, ma all’imperativo di «resistere» molti si domandano «con quali mezzi?», «con quali capi?». Sulla Nazione, che pensa ormai di essere senza armi efficienti, senza una vera difesa e senza una organizzazione militare e interna funzionante con fermezza e decisione, fanno sempre minor presa il richiamo ai valori morali e storici. I giornali sono letti e la propaganda ascoltata solo per poter trovare alimento alla critica. Il laconico comunicato sull’incontro tra il DUCE e il FUHRER è giudicato con molta perplessità. La situazione alimentare del Paese si è aggravata in conseguenza degli attacchi aerei del nemico sulle nostre vie di comunicazione25.

Dopo il ritorno da Feltre, il duce aveva deciso di convocare il supremo organo del regime. Il 21 luglio il segretario del partito comunicò ai membri del Gran Consiglio: «Il Duce ha convocato il Gran Consiglio per il 24 (sabato) alle ore 17. Divisa Fascista, pantaloni corti grigioverdi». L’annuncio di una prossima convocazione del Gran Consiglio, dopo l’incontro di Scorza e altri gerarchi col duce, aveva raggiunto Grandi a Bologna. Il presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni pensava da tempo a una iniziativa per convincere il re a riassumere tutti i poteri 33

che gli assegnava l’articolo 5 dello Statuto del Regno: Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onore alle finanze o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.

A tale scopo Grandi aveva deciso di presentare in Gran Consiglio un ordine del giorno da lui scritto. Il 20 luglio rientrò a Roma e nei giorni successivi mostrò l’ordine del giorno ai membri del Gran Consiglio che erano nella capitale: prima di tutti, lo fece leggere al segretario del partito, che a sua volta lo rese noto al duce. Nel pomeriggio del 22 luglio, alle 17,30, Grandi fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia. L’udienza, prevista per quindici minuti, durò dalle 17,30 alle 18,45. Nei due giorni successivi, fino al primo pomeriggio del 24 luglio, Grandi continuò a raccogliere adesioni al suo ordine del giorno, che intanto era stato rivisto con la collaborazione di Bottai, prima della versione definitiva. Alla fine, diedero la loro adesione: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Cianetti, Ciano, Del Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Marinelli, Pareschi e Rossoni. Prima di recarsi a Palazzo Venezia alle 17, Grandi fece pervenire al ministro della Real Casa Pietro Acquarone una lettera per il re con il testo dell’ordine del giorno che avrebbe presentato in Gran Consiglio, con la condizione che la lettera venisse consegnata al sovrano solo dopo le 17, quando la riunione dell’organo supremo del regime era già iniziata. Alle 17 del 24 luglio, a Roma c’era una temperatura di oltre 32 gradi. La giornata era afosa. Piazza Venezia era vuota. Le poche persone che sostavano nella piazza erano 34

poliziotti in borghese. La capitale appariva deserta. La popolazione romana – facevano sapere gli informatori della polizia – viveva nell’incubo di nuovi bombardamenti, era esasperata per la carenza di generi alimentari, la mancanza di acqua, la disorganizzazione e inefficienza dei soccorsi; non credeva alle notizie e alla propaganda dei giornali e della radio, era sempre più palesemente avversa alla guerra, e arrabbiata contro il governo, il regime, il duce: il pubblico ne ha abbastanza di questi teorici del vivere pericolosamente, predicatori di ogni rinuncia che poi si guardano bene di rischiare mai un centimetro quadrato della propria pelle e se ne restano istallati nelle loro più o meno sontuose dimore ove dispongono di tutte le desiderabili larghezze e comodità. In definitiva la massa non ha più alcuna fiducia nei Capi che, a suo avviso, hanno dimostrato, alla prova, di non essere all’altezza dei compiti che si erano assunti e nessun discorso, per quanto bello ed abile, può oggi cambiate questa convinzione26.

Protestavano soprattutto le donne nei quartieri distrutti dai bombardamenti: Attaccano il Fascismo se non direttamente certo con giri e rigiri di frasi. Si capisce dove vogliono colpire. Dicono: Abbiamo sofferto la fame, ma non soffriremo a lungo i bombardamenti. Chi potrà resistere in queste condizioni dei mesi, sino, mettiamo, a tutto l’inverno? Ma sono matti? Siamo morti di fame, non abbiamo più niente; adesso vogliono farci morire di bombe? Perché non vengono a resistere nelle nostre stesse condizioni i troppi milionari e i pezzi grossi? È il vecchio riaffiorare d’un vecchio stato d’animo di spirito sovversivo, dato che a San Lorenzo l’antipatria ebbe un tempo la sua roccaforte. Nelle file tanti non si contengono più nei limiti della prudenza: è [sic] non hanno paura di parlare anche apertamente e aspramente contro il Regime che, secondo le loro critiche, fa mancare al popolo, in quanto alla resistenza contro il nemico, tutta l’assistenza e tutti i sostegni di cui si ha bisogno nelle varie contingenze.

Qualche informatore, animato da fanatismo fascista o da ottimismo patriottico, faceva però sapere il 24 luglio che la «vasta ondata di spavento, di pessimismo e di indignazione per le deficienze rivelate dall’organizzazione in vari campi comincia a sgonfiarsi, tende decisamente a scemare. Si abbozza già un principio di calma generale, se pure di calma 35

dolorosa», perché, «osservano taluni, in fondo il nostro popolo è profondamente generoso e patriota, non fa danno quando si sfoga con le sue diatribe e le sue imprecazioni, non fa danno perché dal tumulto delle sue penose impressioni non perde mai di vista l’Italia da salvare ad ogni costo». Ma la maggior parte delle note informative del 24 luglio esprimeva un quadro completamente diverso: a differenza di quanto dicono i nostri giornali, il morale della cittadinanza è completamente giù. Tutti riconoscono che il nemico è talmente forte che nulla lo potrà ormai fermare dalla sua irruenta marcia nell’attacco del Continente Europa. Tutti credono di poter parlare male del DUCE; ed intanto chi lo accusa di tradimento, chi di incoscienza ecc.; mentre si è perduta completamente la fiducia circa le sue capacità sin qui dimostrate. Si dice inoltre che il DUCE non può farsi vedere in pubblico perché la gente lo lincerebbe. Insomma a Lui ed al suo Governo si danno le responsabilità di come si trova oggi il nostro Paese in questo conflitto dal quale nessuno più crede d’uscirne diversamente se non con la sconfitta. Tutto il giorno si sente dappertutto parlare male del DUCE e di tutto quanto Egli sta facendo in questa guerra.

La popolazione era ormai convinta che «la guerra sia irrimediabilmente perduta; e pertanto le cose vanno in maggior parte per inerzia, mentre coloro che dovrebbero condurle, attendono di giorno in giorno la grande catastrofe», tanto che era persino inutile segnalare le persone che diffondevano il disfattismo, «poiché se così si dovesse fare si dovrebbe segnalare tutta la Capitale. La gente ormai parla liberamente e conta che al massimo fra un paio di mesi la nostra Penisola sarà invasa dal nemico; mentre la voce che si sente insistente è quella con la quale si dice: ‘PERCHÉ NON SALVARE IL SALVABILE?’». Era questo lo stato d’animo della popolazione quando iniziarono le ventiquattro ore del 25 luglio. I gerarchi giunsero a Palazzo Venezia poco prima delle 17. Le loro auto non furono parcheggiate come di consueto in piazza Venezia, ma nel cortile interno del palazzo. 36

Inconsueta fu la mancata esposizione rituale del gagliardetto del partito fascista sul balcone dal quale il duce aveva parlato per anni agli italiani; inconsueto il silenzio della stampa sulla riunione, mentre in passato le sedute del Gran Consiglio erano state sempre annunciate con grande risalto sulle prime pagine. Inconsueta era l’ora della convocazione, perché fin dalla sua istituzione nel gennaio 1923, l’ora di inizio delle sedute del Gran Consiglio era fissata sempre alle 22. Insolita, infine, l’assenza dei Moschettieri del Duce, la sua guardia d’onore, all’interno del cortile e del palazzo. Così aveva voluto il duce. Nella sala del Pappagallo, dove solitamente si riuniva il Gran Consiglio, erano collocati tavoli disposti a ferro di cavallo. Il duce sedeva al centro, in posizione leggermente elevata. Alle 17,15 Mussolini uscì dal suo ufficio per recarsi nella sala della riunione. Il suo ingresso fu annunziato col «Saluto al Duce!», pronunciato dal segretario del partito fascista: «A noi!», risposero i gerarchi in piedi ai loro posti. Poi, dopo il duce, tutti si sedettero. Al tavolo centrale erano, alla destra del duce, De Bono e De Vecchi; alla sinistra, Scorza e Suardo. Seguivano, nei tavoli a destra, Grandi, Acerbo, Pareschi, Polverelli, Galbiati, Ciano, Farinacci, Albini, Rossoni, Frattari e Gottardi; a sinistra De Marsico, Biggini, Federzoni, Cianetti, Bastianini, Tringali Casanuova, Bottai, De Stefani, Alfieri, Buffarini Guidi, Marinelli, Balella e Bignardi. La seduta fu aperta dal duce con una relazione sulla situazione militare. Dopo la sua esposizione, Mussolini dichiarò aperta la discussione. Parlarono per primi De Bono, De Vecchi, Farinacci e Bottai. Fu poi la volta di Grandi, che lesse il suo ordine del giorno: Il Gran Consiglio del Fascismo, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti d’ogni arma

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che, fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e d’indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate. Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Patria; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.

Al discorso di Grandi per illustrare i motivi del suo ordine del giorno, seguirono gli interventi di Ciano e Farinacci, che lesse un suo ordine del giorno: Il Gran Consiglio del fascismo, udita la situazione interna ed internazionale e la condotta politico-militare della guerra sui fronti dell’Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto alle eroiche Forze Armate italiane e a quelle alleate, unite nello sforzo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle altre genti, alle masse lavoratrici dell’industria e dell’agricoltura che potenziano col lavoro la Patria in armi, alle camicie nere ed ai fascisti di tutta l’Italia che si serrano nei ranghi con immutata fedeltà al regime; afferma il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere fino all’estremo il sacro suolo della Patria, rimanendo fermi nell’osservanza delle alleanze concluse; dichiara che a tale scopo è necessario e urgente il ripristino integrale di tutte le funzioni statali, attribuendo al re, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, al Partito, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dal nostro statuto e dalla nostra legislazione; invita il Capo del Governo a chiedere alla Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la nazione, perché voglia assumere l’effettivo comando di tutte le Forze Armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il popolo italiano combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la

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dignità d’Italia.

Parlò di nuovo Mussolini, poi Federzoni. Una proposta di rinvio della riunione al giorno successivo sollevò l’immediata protesta di Grandi, che si oppose e ottenne dal duce la prosecuzione. Verso le 23 la seduta fu sospesa. Alla ripresa, il duce diede la parola a Bastianini, al quale seguirono Bignardi, Acerbo, Galbiati, Tringali Casanuova e Biggini. Parlò di nuovo Mussolini, poi Scorza, che presentò un suo ordine del giorno come segretario del PNF: Il Gran Consiglio del fascismo, convocato mentre il nemico, imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze, calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dall’aria minaccia la penisola, afferma solennemente la vitale e incontrovertibile necessità della resistenza ad ogni costo. Certo che tutti gli istituti ed i cittadini, nella piena e consapevole responsabilità dell’ora, sapranno compiere il loro dovere sino all’estremo sacrificio, chiama a raccolta tutte le forze spirituali e materiali della nazione per la difesa dell’unità, dell’indipendenza e della libertà della Patria. Il Gran Consiglio del fascismo, in piedi: saluta le città straziate dalla furia nemica e le loro popolazioni che in Roma, madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà, trovano l’espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina; rivolge il pensiero con fiera commozione alla memoria dei caduti e alle loro famiglie che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento; saluta nella Maestà del re e della dinastia sabauda il simbolo e la forza della continuità della nazione e l’espressione della virtù di tutte le Forze Armate, che, insieme con i valorosi soldati germanici, difendono la Patria in terra, in mare, in cielo; si unisce reverente al cordoglio del pontefice per la distruzione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto della religione e dell’arte. Il Gran Consiglio del fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi. Proclama pertanto la urgente necessità di attuare quelle riforme ed innovazioni nel Governo, nel Comando supremo, nella vita interna del paese, le quali, nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime, possano rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano.

Dopo il segretario del partito, ci fu un nuovo intervento di De Bono, poi riprese la parola Mussolini, seguito da De Stefani, Farinacci, Frattari, Alfieri, Suardo, Polverelli, 39

Ciano, De Marsico, Cianetti, Bottai, Acerbo e Grandi. Seguì un nuovo intervento di Scorza. Poco dopo le 2 il duce decise di mettere in votazione l’ordine del giorno Grandi, il primo che era stato presentato. All’appello nominale, richiesto da Grandi, risposero «sì»: De Bono, De Vecchi, Grandi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Cianetti, Federzoni, Balella, Gottardi, Bignardi, De Stefani, Bottai, Rossoni, Marinelli, Alfieri, Ciano, Bastianini, Albini; risposero «no»: Scorza, Biggini, Polverelli, Tringali Casanuova, Frattari, Buffarini Guidi e Galbiati. Farinacci dichiarò di votare per il suo ordine del giorno, mentre Suardo si astenne. Alle 2,30 il duce dichiarò sciolta la seduta. Mentre la maggior parte dei gerarchi lasciò subito Palazzo Venezia, il duce si trattenne nel suo ufficio con Scorza, Buffarini Guidi, Biggini, Galbiati, Polverelli, Tringali Casanuova e Frattari. Verso le 4, accompagnato da Scorza, Mussolini rientrò a Villa Torlonia. Intanto, subito dopo essere uscito da Palazzo Venezia, Grandi si recò a Montecitorio, al suo ufficio di presidente della Camera, dove trovò un messaggio del ministro della Real Casa che lo assicurava di aver consegnato al re la sua lettera, ma desiderava vederlo al termine della seduta. Grandi incontrò Acquarone alle 4 in casa dell’amico Mario Zamboni, membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e lo mise subito al corrente, perché lo riferisse al re, di quanto era accaduto in Gran Consiglio, e gli consegnò un foglio contenente il suo ordine del giorno con le firme di tutti coloro che lo avevano votato. Scorza rientrò alle 4 nella sede del partito, a Palazzo Wedekind in piazza Colonna, dove incontrò i vicesegretari. Alle 8,45 si incontrò con Cianetti, che gli disse che avrebbe scritto una lettera al duce per ritirare il suo voto. Poi, alle 9, fu convocato dal duce a Palazzo Venezia. Fu convocato una 40

seconda volta alle 10,30. Verso le 9 del 25 luglio, domenica, il duce era di nuovo a Palazzo Venezia, come una normale giornata di lavoro per i consueti rapporti quotidiani. Per tutta la mattinata fece cercare telefonicamente Grandi, che non si fece trovare. Incaricò il suo segretario Nicolò De Cesare di chiedere un’udienza al re per il pomeriggio, anticipando l’udienza prevista, come di consueto, il lunedì: venne poco dopo la conferma che l’udienza era fissata per le 17. Nel corso della mattinata, il duce ricevette Albini, poi Galbiati, e infine Bastianini, che accompagnava l’ambasciatore del Giappone; ricevette poi Buffarini Guidi e Polverelli. Alle 14 il duce si recò con Galbiati in auto a visitare la zona bombardata del quartiere San Lorenzo. Alla 15,30 rientrò a Villa Torlonia. Poi, alle 16,50, con De Cesare, lasciò Villa Torlonia per recarsi a Villa Savoia in udienza dal re. Il colloquiò iniziò alle 17. Il re gli comunicò che lo aveva destituito dall’incarico di capo del governo, e al suo posto aveva nominato il generale Pietro Badoglio. Il colloquio terminò alle 17,20. All’uscita dalla villa, l’ex capo del governo fu fermato dai carabinieri, che lo obbligarono a salire su un’autoambulanza. Con una precipitosa corsa, Mussolini fu condotto e alloggiato presso la caserma dei carabinieri in via Legnano. L’arresto di Mussolini era stato deciso già da alcuni giorni, secondo un piano di colpo di Stato preparato dal ministro della Real Casa insieme con il generale Vittorio Ambrosio, che dal 1° febbraio era capo di Stato maggiore generale, con il generale Giuseppe Castellano, e con Carmine Senise, che era stato direttore generale della pubblica sicurezza dal 1940 fino al 14 aprile 1943. Il piano tecnico del colpo di Stato comprendeva, con l’arresto di Mussolini, il blocco immediato delle centrali telefoniche della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Interno, 41

lo scioglimento del partito, l’incorporamento della Milizia nell’esercito regio, la militarizzazione del corpo delle guardie di pubblica sicurezza, e l’eventuale militarizzazione del personale ferroviario e postelegrafonico. I militari avevano pensato di estromettere Mussolini dal governo fin dalla fine del 1942, abbozzando vari piani d’azione, compreso la sua uccisione, per porre fine al regime. Ma la loro iniziativa era però vincolata all’assenso del re, che era stato per molto tempo esitante. Anche se alla destituzione di Mussolini il re stava pensando da qualche mese prima del 24 luglio, fu soltanto dopo aver appreso l’esito della votazione finale del supremo organo del regime che Vittorio Emanuele decise la destituzione di Mussolini e l’instaurazione di una dittatura militare, con il generale Badoglio come capo del governo. L’arresto di Mussolini era stato previsto per lunedì 26 luglio, giornata consueta di udienza dal re del capo del governo. La richiesta di anticiparla a domenica pomeriggio fece rapidamente anticipare anche il piano per il colpo di Stato. Al generale Angelo Cerica, nominato comandante generale dei carabinieri solo tre giorni prima, era stato assegnato il compito di organizzare contemporaneamente il fermo di Mussolini all’uscita dall’udienza col re, e l’occupazione della sede dell’EIAR, delle centrali radio, delle poste, dei centralini telefonici e dei ministeri dell’Interno e della Guerra. Nulla sapendo del colpo di Stato in corso, i membri del Gran Consiglio attesero nel pomeriggio l’esito del colloquio fra il re e il duce. Alcuni si resero conto che qualcosa era successo quando dopo le 17 si accorsero che i telefoni dei loro uffici erano stati isolati e nulla più si sapeva del duce dopo la sua udienza dal re. Alle 22,45, la radio interruppe i programmi per trasmettere un comunicato: 42

Attenzione! Attenzione! Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, Sua Eccellenza il cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

Furono quindi letti un proclama del re, che annunciava agli italiani di aver assunto da quel momento il comando di tutte le forze armate e ordinava a tutti di riprendere il posto di dovere e di combattimento, avvertendo che non sarebbe stata tollerata nessuna deviazione e nessuna recriminazione, per concludere con l’affermazione che il re si sentiva unito agli italiani dalla «incrollabile fede nell’immortalità della Patria». Seguì la lettura di un proclama del generale Badoglio, il quale dichiarava: Per ordine di S.M. il Re e Imperatore assumo il governo militare del paese con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file intorno a S.M. il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio a tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento o tenti di turbare l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito. Viva l’Italia, Viva il Re.

All’una di notte del 26 luglio, un generale consegnò a Mussolini una lettera del generale Badoglio: Il sottoscritto, Capo del Governo, tiene a far sapere a V.E. che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la Vostra Persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dar ordini per il Vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare.

Mussolini dettò e firmò subito la risposta: 1. – Desidero ringraziare il maresciallo d’Italia Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. 2. – Unica residenza di cui posso disporre è la Rocca delle Caminate, dove sono disposto a trasferirmi in qualsiasi momento. 3. – Desidero assicurare il maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro in comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione.

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4. – Sono contento della decisione presa di continuare la guerra cogli alleati, così come l’onore e gli interessi della Patria in questo momento esigono, e faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia!

Con la lettera di Mussolini, si chiude la cronaca delle ventiquattro ore che sono passate alla storia sotto la denominazione del «25 luglio». 22 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La

Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, p. 342. 23 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, pp. 140-141. 24 Ivi, p. 142. 25 Archivio Centrale dello Stato (da ora ACS), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati, Divisione Polizia Politica (1928-1944), b. 239, fasc. Roma. 26 Ibid. (per questa e le successive citazioni).

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Capitolo secondo. Il verbale che non c’è

Non è facile trasformare la cronaca delle ventiquattro ore del 25 luglio in una storia che racconti come sono andati veramente i fatti: con quali propositi, per quali motivi, per quali scopi agirono gli attori dell’ultima notte del Gran Consiglio; cosa dissero, come si atteggiarono, come si comportarono durante le dieci ore di riunione. Molti di essi hanno pubblicato una propria versione di quel che dissero loro e di quel che dissero gli altri. Le parti concordanti non sono poche; ma le parti discordanti, talvolta fortemente discordanti, riguardano le questioni più importanti e il contegno dei principali protagonisti della notte del Gran Consiglio, e, in generale, le loro azioni nei giorni che precedettero la seduta e nelle ultime ventiquattro ore di esistenza del regime fascista. Perché non c’è il verbale La principale difficoltà nel cercare di ricostruire storicamente come sono andate veramente le cose dipende dalla mancanza di un verbale ufficiale della seduta, redatto e approvato da tutti i presenti. Dino Alfieri, che fu membro del Gran Consiglio dal luglio 1925 al dicembre 1929, poi dal giugno 1936 all’ottobre 1939, e infine dal maggio 1942 al 25 luglio, ha scritto nel 1948: La seduta ebbe luogo nella penultima sala precedente a quella del

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«Mappamondo», dove il Duce lavorava. La sala, prospiciente a Piazza Venezia, aveva un aspetto austero e solenne che la tappezzeria di velluto blu scuro ed i quadri d’autore rendevano più grave. Una serie di ampi tavoli accostati fra di loro erano allineati a rettangolo, attorno erano disposte le sedie di foggia antica. Di solito, al centro era situato un piccolo tavolo per lo stenografo incaricato di stendere il verbale della seduta. Ma questa volta, si disse per ragioni di segretezza, non vi era stenografo; così come non prestavano servizio i Moschettieri del Duce normalmente dislocati lungo i corridori ed ai lati di ogni porta o passaggio, allo stesso modo, per non attirare l’attenzione del pubblico, le automobili, anziché sostare – come di consueto – davanti all’entrata principale di Palazzo Venezia, erano state fatte entrare nel cortile-giardino del palazzo attraverso il portone di via degli Astalli, quella da cui passavano il Duce, i più alti gerarchi ed i personaggi stranieri che si recavano in udienza da lui27.

La richiesta di uno stenografo per verbalizzare la seduta era stata fatta qualche giorno prima da Grandi a Scorza, ma gli fu risposto che il duce non voleva. Quando il 10 aprile 1966 la rivista «Epoca» pubblicò alcuni documenti riguardanti la seduta del Gran Consiglio, fra i quali l’ordine del giorno Grandi con le firme dei gerarchi che lo avevano votato, Grandi fu intervistato per garantirne l’autenticità, come egli fece. Poi, alla domanda del giornalista se esisteva un verbale della riunione, rispose: Prima della riunione fui io a domandare esplicitamente al segretario del partito che fosse ammesso uno stenografo alla riunione. Mussolini si oppose. Al termine della riunione durata 11 ore, dalle 17 del giorno 24 alle 4 del giorno 25, domandai di nuovo al segretario del partito che fosse redatto un comunicato. Dopo aver interpellato Mussolini, egli mi rispose che il comunicato sarebbe stato fatto dopo l’incontro che il Capo del Governo avrebbe avuto col Re 28.

Sulla presenza abituale di uno stenografo durante le riunioni del Gran Consiglio ci sono testimonianze contrastanti. Luigi Federzoni, che fu membro del Gran Consiglio ininterrottamente dal marzo 1923 al 25 luglio, affermò nelle sue memorie pubblicate nel 1967 che «dei dibattiti di quel consesso, non resta alcuna documentazione ufficiale»: Processi verbali non ne furono mai redatti. Nei primissimi tempi assistevano alle sedute due segretari stenografi, del cui lavoro non si conobbero mai i risultati; e Mussolini, per evitare che nel mondo trapelassero le discordie e le

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beghe del Regime, non tardò a dispensare quei funzionari dalle loro prestazioni. Quanto ai brevi resoconti pubblicati di volta in volta dalla Stefani, essi diedero costantemente, oltre il testo delle deliberazioni, soltanto i nomi di coloro che avevano partecipato alle discussioni; e non di rado con intenzionali dimenticanze. Insomma, Mussolini aveva creato il «supremo organo della Rivoluzione», ma non voleva che fosse e nemmeno che apparisse libero di esprimere opinioni in contrasto con la volontà del dittatore29.

Giacomo Acerbo, che fu membro del Gran Consiglio dalla prima riunione del 1923 fino al giugno 1924, poi di nuovo dal dicembre del 1929 al gennaio 1935, e infine dall’ottobre 1935 al 25 luglio, ha affermato che le sedute del Gran Consiglio «non sono mai state stenografate né mai si è usato stenderne una relazione o processo verbale di una certa ampiezza; veniva unicamente compilato un nudo comunicato per la stampa sugli argomenti trattati e le decisioni prese»30. Lo stesso ha affermato Tullio Cianetti, che fu membro del Gran Consiglio dal gennaio 1934 all’agosto 1939 e di nuovo dall’aprile al luglio 1943: «Non è facile ricostruire tutte le fasi dell’ultima seduta del Gran Consiglio. Per tradizione non si facevano verbali ed era rigorosamente proibito prendere appunti. (Di questa proibizione però non tenne alcun conto il Ministro Biggini che sedeva alla mia destra e che per dieci ore annotò regolarmente quanto dissero i Membri del Gran Consiglio)»31. Nulla si sa delle note prese da Biggini, e nulla lui ne scrisse nel suo diario, dove, alla data del 30 luglio 1943, annotava: «Continuo ad avere davanti agli occhi e alla mente, nei più minuti particolari, i visi e gli atteggiamenti, i gesti e le parole dei componenti del Gran Consiglio: mi sono presenti tutte le fasi di questa lunga e storica seduta»32. Tuttavia, nella sua testimonianza al processo di Verona, Biggini, ministro dell’Educazione nazionale nella Repubblica sociale, non fu in grado di precisare la successione degli interventi. E non risulta che abbia redatto 47

un resoconto della seduta. Un decennio più tardi, Gaetano Polverelli, membro del Gran Consiglio dal maggio 1943, rievocando l’ultima seduta scrisse: «Per la seduta del 24 luglio, Mussolini non volle stenografi. Fui solo io a prendere appunti su un taccuino, che conservai»33. In verità, Biggini e Polverelli non furono i soli a prendere appunti durante l’ultima seduta del Gran Consiglio. Lo fecero anche Bottai, Galbiati, Federzoni e De Marsico, che nei loro libri di memorie diedero la loro versione su quanto era stato detto nella notte del Gran Consiglio, con citazioni più o meno ampie degli interventi dei vari oratori, a cominciare da quello del duce34. Anche il duce prese appunti Il 1° luglio 1944 fu pubblicato sul «Corriere della Sera» un articolo di Mussolini che raccontava in terza persona la riunione del Gran Consiglio, iniziando col citare parti della sua esposizione, dopo aver premesso che i punti essenziali «furono raccolti da uno degli astanti», ma senza precisare di chi si trattasse. Si può presumere che fosse Scorza, il quale, in quanto segretario del partito fascista, era di diritto il segretario del Gran Consiglio35. Infatti, nel libro La notte del Gran Consiglio, pubblicato nel 1968, Scorza racconta che il duce, prima di recarsi nella sala dove era riunito il Gran Consiglio, gli disse: «Sono le cinque. Andiamo. Come vi ho detto stamani: attenzione a tutti, ma soprattutto molta calma. Prenderete gli appunti sulle varie relazioni; poi li completeremo domattina insieme». E sorridendo aggiunse: «Ho ancora una memoria di ferro»36. Dopo la seduta, Scorza racconta di aver accompagnato il duce a Villa Torlonia dove gli consegnò gli appunti che aveva preso durante la seduta. 48

Il duce stesso aveva preso appunti, se la mattina del 25 luglio, a Palazzo Venezia, disse a Scorza, secondo quanto questi riferisce nel suo libro: «Eccovi i vostri appunti sulla seduta. Coincidono quasi in tutto con i miei. Vi do anche questi: completate il tutto, con ciò che riguarda anche gli altri membri»37. E Scorza continua affermando di aver provveduto nel corso della tarda mattinata del 25 luglio: Ripresi il mio lavoro sulla seduta del Gran Consiglio preoccupandomi soprattutto di fissare i vari interventi del Duce. Gli appunti che egli mi aveva fornito coincidevano coi miei e li completavano. Erano fissati in certi mezzi fogli protocollo tagliati per il lungo, con una grafia da non dirsi. Nel pomeriggio speravo di presentargli un riassunto quasi completo38.

Che fine abbiano fatti gli appunti di Scorza e del duce, nulla si sa, almeno finora. Nel libro sulla «notte del Gran Consiglio», e nel successivo libro di memorie pubblicato nel 1983 Mussolini tradito, Scorza non ha dato alcun ragguaglio sulla provenienza del materiale documentario citato nei suoi libri e sulla sorte degli appunti del duce e suoi. Il magistrato Vincenzo Cersosimo, giudice istruttore del Tribunale straordinario speciale che processò per tradimento i firmatari dell’ordine del giorno Grandi, nel suo libro sul processo di Verona, scritto nel 1949 ma pubblicato nel 1961, ha raccontato che all’inizio la sua attività istruttoria si preoccupò di recuperare la documentazione sull’ultima seduta del Gran Consiglio: Mia prima cura fu di ricercare affannosamente gli atti, gli appunti, i documenti, il verbale della famosa seduta del Gran Consiglio onde poter illuminare il Tribunale su circostanze di fatto e di diritto sì da metterlo in grado di poter, con sicura coscienza, affermare od escludere la responsabilità dei giudicabili: non riuscii a trovare niente. Volli avere un colloquio con Scorza, allora detenuto nelle carceri di Padova: mi dichiarò che tutti i documenti e note della seduta erano stati portati via personalmente da Mussolini a Villa Torlonia. Nessuno era in grado di dirmi dove erano andati a finire. Mi rivolsi a Buffarini, e questi mi assicurò che tutte le carte erano state distrutte nel pomeriggio del 25 luglio quando si cominciarono a nutrire serie preoccupazioni per il mancato ritorno di Mussolini dall’udienza reale39.

Tuttavia, pur «essendo stati distrutti gli atti inerenti alla 49

seduta», Cersosimo cercò di ricostruire «in tutte le loro fasi gli eventi che hanno determinato la convocazione del Gran Consiglio, il modo come si è svolta la seduta, la votazione dell’ordine del giorno Grandi». E lo fece avvalendosi delle deposizioni che nel corso del processo avevano rilasciato sia gli imputati Ciano, Marinelli, Cianetti, Pareschi, Gottardi e De Bono; sia i testimoni Buffarini Guidi, Galbiati, Biggini, Frattari, Scorza, Suardo e Farinacci. Cersosimo si avvalse anche dei memoriali che, dopo la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e la costituzione della Repubblica sociale, Alfieri e Bastianini avevano inviato al duce, e quello che Bignardi aveva fatto pervenire al segretario del partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini, per discolparsi dall’accusa di tradimento. Le deposizioni degli imputati e dei testimoni, come pure i memoriali degli altri tre ex membri del Gran Consiglio, contenevano un racconto sommario su come si era svolta l’ultima seduta, anche se ogni racconto era svolto per giustificare il personale contegno da loro avuto in Gran Consiglio e il motivo del loro voto. Il proposito della giustificazione era ovviamente più marcato nei racconti degli imputati, i quali cercarono tutti di dimostrare che il loro voto a favore dell’ordine del giorno Grandi non mirava a estromettere il duce del potere e a provocare il crollo del regime, ma che tutti votarono convinti che Mussolini stesso, in fondo, lo approvasse, perché durante l’intera seduta non manifestò mai la sua opposizione né si mostrò risoluto a contrastarlo, persuadendo gli incerti e gli indecisi a non votarlo. Il fatto che avesse deciso di porre in votazione per primo l’ordine del giorno Grandi, invece che quello del segretario del partito, era la prova, per gli imputati di Verona, che il duce non lo considerava affatto un grave pericolo per il regime.

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Mussolini fu il primo Dopo la fine del regime fascista, uscirono sulla stampa italiana e straniera racconti più o meno attendibili sull’ultima seduta del Gran Consiglio, compilati raccogliendo voci e testimonianze le più disparate, con rivelazioni o presunte rivelazioni dei protagonisti, con verosimili e inverosimili descrizioni di momenti drammatici e persino di scontri violenti durante la seduta. Bottai annotava nel suo diario il 9 luglio 1944: Circola, in più edizioni, un libello tratto da una corrispondenza della «Neue Zürcher Zeitung» dell’agosto scorso, sulla «drammatica» seduta del G. C. E che dramma! Due svenimenti di Pareschi, telefonate misteriose di Balella, bigliettini di Federzoni che avverte essere in preparazione l’arresto e l’uccisione dei 19, frasi misteriose di Mussolini a Ciano e a Grandi, alterchi, zuffe, imprecazioni, etc. etc. Un vero dramma da arena, che, evidentemente a me, testimone oculare, era del tutto sfuggito. L’«Italia nuova», invece, pubblica altro documento, che m’ha tutta l’aria di essere stato tratto dal verbale, che fu messo insieme in casa Federzoni, nel pomeriggio del 25: assai più rispondente al vero e serio40.

Si distinse allora, per dignità informativa e attendibilità, il libro 25 luglio del giornalista Vitantonio Napolitano, scritto nel giugno 1944. Napolitano ricostruiva l’agonia e la fine del regime sulla base dei documenti allora disponibili e su testimonianze e confidenze di persone informate dei fatti, forse qualcuno degli stessi attori dell’ultima notte del Gran Consiglio41. Nelle considerazioni conclusive, giunto «al punto più scabroso del racconto», Napolitano assennatamente osservava che era difficile «fare il bilancio delle cose accertate, delle probabili e delle intuibili per spiegare i moventi e le finalità del voto del gran consiglio»: Il fosco processo di Verona ha gettato qualche sprazzo di luce sulla posizione dei vari personaggi del dramma; ma, a prescindere dalla veridicità o meno delle risultanze, dall’assenza dei principali promotori, dalla sinistra atmosfera che incombe sull’istruttoria, il dibattito e la sentenza, v’è da rilevare che molti sono, a tutt’oggi, i punti che rimangono in ombra o addirittura avvolti nel mistero. V’è ancora da tener presente che, nel nostro caso, le persone che si trovano ad agire son molte, gli stati d’animo conseguentemente diversi, l’ambiente per necessità

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di cose, incline più alla diffidenza che alla sincerità. Parecchi gl’interrogativi del 25 luglio. I firmatati dell’ordine del giorno volevano rovesciare Mussolini? Nell’affermativa, con chi si proponevano di sostituirlo? Agirono autonomamente o d’accordo con ambienti estranei al gran consiglio? Avevano in animo di scrivere la parola fine in calce alla ventennale attività del regime oppure di proseguirla, magari con altri metodi? Volevano continuare la guerra o farla cessare? È probabile che parecchie di queste domande siano destinate a rimanere, se non definitivamente, almeno per parecchio tempo, senza un’esauriente risposta42.

L’articolo di Mussolini pubblicato il 1° luglio 1944 sul «Corriere della Sera» e poi raccolto nell’opuscolo Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, pubblicato nell’agosto successivo, fu il primo resoconto sulla seduta del Gran Consiglio pubblicato da uno dei protagonisti43. Pochi giorni dopo, il 19 luglio, Bottai, che era allora nascosto in un convento a Roma, fu sorpreso nel leggere sul giornale del partito democratico italiano «Italia Nuova» una serie di articoli che riferivano quanto era stato detto nell’ultima seduta del Gran Consiglio: «Con sorpresa e apprensione, ho constatato ch’essi son tratti dal mio quaderno dell’epoca, che pure era depositato in luogo sicuro. Nel passaggio da casa mia a cotesto ricettacolo, il quaderno sostò alla redazione di ‘C[ritica] F[ascista]’: ed è qui che certamente se n’è fatta una copia»44. E il 25 luglio Bottai annotava: «Italia Nuova», dopo essersi avvalsa dei miei quaderni, conclude le sue puntate sulla «verità dell’ultima seduta del G.C.», svalutando l’azione dei 19 a «mera cronaca». Definisce «tumultuosa» un’adunata che non lo fu: parla di «scatti di nervi, strilli, contumelie», che nessuno udì; e nega ogni proposito radicale dei 19 «padreterni-lustrascarpe», che volevano unicamente salvare il fascismo. Tutto ciò per giungere alla conclusione essere l’o.d.g. «inefficace»; e efficace essere stato soltanto l’intervento del Re. Questo, e solo questo, conclude è l’atto storico del 24-25 luglio45.

Del resoconto pubblicato da «Italia Nuova» si avvalse Paolo Monelli nel libro Roma 1943, pubblicato nel febbraio 194546. Per la seduta del Gran Consiglio, Monelli utilizzò anche il racconto di Mussolini, che pure considerava «il meno esatto», e altri «particolari avuti dalla bocca di 52

partecipanti alla seduta, alcuni dei quali incontrai nel carcere di Regina Coeli. Un vero e proprio verbale non pare che esista; si sa ad ogni modo che la memoria dei testimoni e degli stessi protagonisti è spesso confusa e infida»47. Ma l’atteggiamento sarcastico impedì al giornalista di fare un serio tentativo di ricostruzione della seduta, come aveva cercato di fare Napolitano. Le narrazioni più inverosimili e scandalistiche sull’ultima notte del Gran Consiglio, pubblicate fra il 1943 e il 1946, indussero alcuni protagonisti a intervenire per smentire, confutare, rettificare. Inoltre, quasi tutti questi interventi, come pure quelli pubblicati negli anni successivi da ex membri del Gran Consiglio, furono svolti, direttamente o indirettamente, per smentire il resoconto dell’ultima seduta pubblicato da Mussolini, per rigettare l’accusa di tradimento lanciata dal capo della Repubblica sociale, e per rivendicare alla votazione del Gran Consiglio il merito di aver spinto il re a prendere l’iniziativa di deporre il duce e porre fine al regime fascista. Dopo la fine della guerra, una versione concisa dell’ultima seduta del Gran Consiglio fu data da Grandi quando era a Lisbona in un colloquio con un giornalista de «Il Popolo», organo ufficiale della Democrazia cristiana, pubblicato il 13 gennaio 194648. Ma appena cinque giorni dopo, sullo stesso quotidiano, venne pubblicata una intervista a Suardo che «non confermava una sola parola delle dichiarazioni dell’ex-presidente della camera dei fasci»49. Alcuni mesi dopo uscì la versione di Federzoni, inserita in una serie di articoli pubblicati fra il 28 maggio e il 26 luglio 1946 su «L’Indipendente», fra il 1° giugno e l’11 luglio dello stesso anno su «La Nuova Stampa», e sul settimanale «Quadrante» il 19 ottobre 1946. Gli articoli erano l’anticipazione di un libro intitolato Memorie di un condannato a morte, che tuttavia rimase allora inedito50. 53

Seguirono negli anni successivi, in articoli di giornale o in libri di memorie, altre versioni di protagonisti dell’ultima seduta del Gran Consiglio. Un primo resoconto sommario dei principali interventi fu pubblicato nel 1948 da Alfieri nel libro già citato. L’anno successivo Bottai pubblicò le note del suo diario del 24 e 25 luglio, con ampie citazioni dei principali interventi, a cominciare da quello iniziale di Mussolini, ma con alcune significative aggiunte all’esposizione fatta da questi nella Storia di un anno51. Il libro di Bottai fu lo spunto per un’inchiesta fra i «superstiti del Gran Consiglio», pubblicata dal 13 al 24 ottobre 1949 sul periodico «L’Elefante». Ciascuno degli intervistati diede la propria versione di quanto aveva detto e di quanto era accaduto nell’ultima seduta. Nessuno degli intervistati fece cenno all’esistenza di un verbale, neppure Bottai, che pure aveva accennato nel suo diario a un verbale redatto in casa Federzoni il pomeriggio del 25 luglio. Nel 1958 iniziò a uscire a puntate sul settimanale «Oggi» una ricostruzione delle vicende del 25 luglio, fatta sulla base delle testimonianze di alcuni ex gerarchi. Nella puntata dedicata alla seduta del Gran Consiglio, pubblicata il 4 settembre 1959, il giornalista avvertiva: Non esiste un verbale della storica seduta del Gran Consiglio che segnò la caduta di Mussolini e l’autodistruzione del regime fascista. Può sembrare strano, ma non si tenevano verbali durante le riunioni di quello che, in teoria, era il supremo organo costituzionale dello Stato. […] Alcuni membri del Gran Consiglio di quando in quando prendevano appunti: soprattutto Bottai si ritrovò alla fine con un taccuino pieno di note. In base agli appunti e ai ricordi personali dei non molti superstiti abbiamo ricostruito, per la prima volta, cronologicamente, le fasi della storica seduta. Svelando particolari inediti e scartando le inesattezze, divulgate in passato, diremo, ciò che accadde, nella sala del Gran Consiglio, dalle 17 di sabato 24 luglio 1943 alle tre del mattino successivo52.

Spunta un verbale 54

Nel 1959, per la prima volta fece la sua apparizione pubblica l’accenno a un verbale redatto in casa Federzoni il 25 luglio, lo stesso al quale aveva accennato Bottai nel suo diario, senza però confermarlo nel suo libro di memorie del 1949. Sul settimanale «Oggi», al termine di una serie di articoli sulla caduta del regime fascista, in gran parte basati su interviste a Grandi, nell’articolo pubblicato il 4 giugno 1959 Grandi disse, sfogliando le pagine del suo diario sull’ultima seduta del Gran Consiglio: La cronaca della notte del Gran Consiglio è stata fatta molte volte con maggiore o minore esattezza. Ma quello che avvenne sostanzialmente è noto. Sarà raccontato anche questo, un giorno: esiste un verbale accurato e particolareggiato redatto la mattina dopo la riunione da Luigi Federzoni e da alcuni di noi. Federzoni è depositario di questo verbale e mi auguro che egli non tardi a pubblicarlo53.

Un nuovo accenno all’esistenza di un verbale redatto a più mani lo si legge nella minuta di una lettera di Grandi a Giovanni Artieri, scritta a «Milano, mercoledì», senza data ma probabilmente del 1959, nella quale Grandi scriveva: La mia segretaria a Bologna sta ricopiando il capitolo del mio libro scritto in Portogallo nel 1944 sulla notte del Gran Consiglio che ti farò avere lunedì o martedì. Vi è da aggiungere solo i miei due interventi principali (che tu sai) salvo altri secondari che troverai nel capitolo. Ti manderò dell’altro materiale. Circa il verbale in possesso di Federzoni, esso venne compilato il giorno 25 a casa Federzoni, da Federzoni, Grandi, Bottai, Bastianini, Bignardi e De Marsico, nonché dal sottoscritto che si recò 2 volte in casa Federzoni per questo54.

Nel 1968, rievocando «la notte del Gran Consiglio», Artieri scriveva: Alla seduta del Gran Consiglio non assistettero stenografi e segretari. Mussolini non ne volle. Né venne redatto un verbale, letto e approvato dai presenti. La sera del 25, in casa Federzoni si riunirono Bottai, Bastianini, Bignardi e Francesco Malgeri per stendere, sulla base dei freschissimi ricordi dei testimoni un obiettivo resoconto del dibattito di poche ore prima. Questo documento, in rarissime copie, non è stato mai pubblicato. Noi l’abbiamo letto. Sensibili differenze, sulle quali ci soffermeremo altra volta, si notano tra i racconti diffusi in questi ventiquattro anni e la versione autentica55.

La stesura di un verbale a più mani in casa Federzoni 55

nella giornata del 25 luglio appare confermata, come si è già detto, dal diario di Bottai, che alla data dell’8 agosto 1943 annotava: «Da due settimane (fu domenica 25 alle otto di sera che rientrai da casa Federzoni, ove avevamo su note ‘verbalizzato’ la seduta della notte), vivo in questa volontaria clausura»56. E di nuovo vi accennò, come si è visto, nel diario del 9 luglio 1944. Tuttavia, nel 1949, Bottai nel suo libro di memorie non accennò all’esistenza di un verbale redatto in casa Federzoni. Di tale verbale non parlava neppure Mario Zamboni nel suo diario del 1943, pubblicato a puntate sulla rivista «Oggi» nell’estate 1963. Alla data del 25 luglio, Zamboni si limitò a scrivere: «Alle 16,30 Grandi ed io usciamo insieme da Montecitorio: egli si reca da Federzoni prima e da Paolucci dopo. Non ne so più nulla fino all’indomani»57. Invece, ripubblicando nel 1990 il suo diario, alla data del 25 luglio 1943, Zamboni affermava che poco dopo le 16, nell’ufficio di Grandi a Montecitorio, era stato presente a un incontro fra Grandi, Ciano, Muti: Quando Ciano e i suoi amici se ne sono andati Grandi mi domanda di accompagnarlo a casa di Federzoni, in via Principessa Clotilde, dove dovrebbero trovarsi anche Bottai e Malgeri, per ricostruire insieme sul filo dei ricordi ancora a caldo, nel modo più fedele tutta la discussione avvenuta in Gran Consiglio. Subito ci mettiamo al lavoro. Francesco Malgeri e io scriviamo sotto dettatura. Resoconti verbali di quella seduta, ce ne saranno probabilmente diversi. Quasi ogni componente del Gran Consiglio ha fatto il suo racconto; i più precisi, a mio avviso, sono quelli dettati da Federzoni, Grandi e Bottai, nonché quello perfetto, esemplare per precisione e stile e colore, di Alfredo De Marsico58.

Il riferimento ai resoconti di Federzoni, Grandi e De Marsico è una evidente aggiunta fatta da Zamboni al suo diario nell’edizione del 1990, visto che i libri citati furono pubblicati fra il 1967 e il 1983. Quanto a Grandi, nel suo diario del 1943, alla data del 25 luglio, nulla annotava a proposito della dettatura alla sua segretaria dei due interventi in Gran Consiglio, mentre 56

parlava della stesura di una lettera con due progetti di decreto legge da far pervenire ad Acquarone affinché li inoltrasse al re; subito dopo, alle ore 9, Grandi scriveva: «Zamboni mi viene a comunicare da parte D’Aquarone che ha dato tutto al Re»59. Poi, alle ore 16, scriveva: «Viene Albini», ma Grandi non faceva cenno alla presenza di Zamboni, Ciano e Muti, mentre alle ore 18 annotava: «Viene Muti, Rotigliano. Mi telefonano Bottai, Pareschi etc.». Grandi, insomma, non fa alcun accenno al fatto di essersi recato in casa Federzoni per consegnare il testo dei suoi interventi e collaborare a redigere il verbale della seduta60. Inoltre, in una lettera inviata il 7 marzo 1963 allo storico Gianfranco Bianchi, che gli aveva chiesto notizie e precisazioni mentre stava scrivendo un libro sul 25 luglio, Grandi affermò che la mattina del 25 luglio, dopo aver incontrato Acquarone, in casa di Zamboni, per riferirgli sull’esito della seduta del Gran Consiglio, era rientrato a Palazzo Montecitorio: Non lasciai per tutta la giornata del 25 un solo minuto Palazzo Montecitorio salvo una rapidissima visita al mio fraterno amico Paolucci nella sua casa di Via Nomentana […]. Alle ore 9,30 tornò presso di me alla Camera il Marchese Mario Zamboni e vi rimase ininterrottamente per tutta la giornata, e pressoché sempre nei giorni seguenti. […] Alle ore 14 entrò nel mio ufficio Galeazzo Ciano (l’ultima volta che lo vidi) accompagnato da Ettore Muti e Filippo Anfuso. Ciano mi disse che era venuto per avvertirmi di mettermi in salvo perché gli squadristi romani avevano ricevuto ordine di invadere le case dei 19 membri del Gran Consiglio i quali avevano votato il mio Ordine del Giorno e di ucciderci, come castigo e punizione dei traditori. Non mi mossi tuttavia da Palazzo Montecitorio61.

Neppure in questa occasione, Grandi diceva di essersi recato da Federzoni per collaborare alla stesura di un verbale sull’ultima seduta del Gran Consiglio. Non ne parlava neppure nell’intervista rilasciata a «Epoca» nel 1966, sui documenti inediti del 25 luglio, dove nella conclusione, 57

affermava: Epoca desiderava assicurarsi sull’autenticità di questi documenti. Vi ho risposto che sono autentici. Mi avete portato altresì a rievocare in parte e sommariamente alcuni degli aspetti noti e ignorati del 25 luglio. Ma non è un racconto che possa esaurirsi in una conversazione. La ricostruzione di questa che fu tra le vicende più drammatiche della nostra storia recente è stata fatta sovente, seppure con particolari spesso inesatti. Dovrà un giorno essere rifatta con scrupolo di verità62.

Nel dattiloscritto dell’intervista a «Epoca» vi sono varie e ampie correzioni, modifiche, precisazioni e aggiunte autografe di Grandi, mentre la sua dichiarazione conclusiva rimane senza modifiche nella versione redatta dal giornalista63. Il presunto verbale redatto in casa Federzoni il 25 luglio rispunta nel 1965. Lo evocò Silvio Bertoldi in un libro su Mussolini, dove citava varie testimonianze dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi, fra i quali Federzoni. Sulla seduta del Gran Consiglio, Bertoldi commentava: Ormai, della fine del fascismo e di quel dibattito che lo concluse, si sa praticamente tutto. Le trame, la stesura degli ordini del giorno, la raccolta delle firme, gli schieramenti di opinione, le crisi di coscienza, le accuse, lo svolgimento della seduta, gli allarmi, perfino le paure e il timore della vendetta del capo, che paralizzò taluno: cose note, dibattute fin nei particolari più insignificanti, tratte da una parte o dall’altra a seconda dell’interpretazione politica che si è voluto conferirvi. Se qualcosa fosse rimasto di non svelato, si sappia che Federzoni, tornato a casa quella notte, stese subito, a mente fresca, una lunga cronaca della riunione e dei vari interventi, e nei giorni successivi si fece aiutare da molti partecipanti a portarvi nuovi contributi, per stare il più possibile vicini al vero: sicché redasse un autentico verbale della seduta, l’unica cosa finora che mancasse. E un giorno, mi ha detto Federzoni, quel verbale sarà pubblicato nel corpo del libro sulla storia d’Italia dall’Unità alla caduta del fascismo, che il vecchio uomo politico avrà presto completato64.

La certezza del giornalista che la conoscenza di quel che accadde nella notte del Gran Consiglio era ormai definitiva fin nei particolari più insignificanti, era un’opinione personale alquanto avventata, espressa senza fare una verifica critica dei vari racconti di alcuni dei protagonisti, ai quali la fortuna aveva concesso di poter rielaborare nel corso degli anni le loro versioni sulla seduta del Gran 58

Consiglio, avvalendosi delle nuove conoscenze, venute più tardi alla luce, sui fatti accaduti prima, durante e dopo le ventiquattro ore del 25 luglio. Di questa fortunata occasione, si sono avvalsi soprattutto Grandi e altri firmatari del suo ordine del giorno nel redigere i loro resoconti durante gli anni Sessanta fino agli anni Ottanta. Il resoconto Federzoni Di un verbale dell’ultima seduta del Gran Consiglio, redatto a casa sua nella giornata del 25 luglio, Federzoni non ha mai parlato negli articoli pubblicati nel 1946 e neppure nel libro di memorie pubblicato nel febbraio 1967, un mese dopo la sua morte avvenuta il 24 gennaio. Nella nota che precedeva un ampio resoconto della seduta, redatto in forma di verbale e pubblicato come appendice, Federzoni scriveva: Durante l’ultima seduta del Gran Consiglio, per antica abitudine di giornalista, ebbi cura di prender nota particolareggiata di ciascun intervento. Nei giorni immediatamente seguenti la riunione, completai questo resoconto con l’animo di chi sente di adempiere un preciso dovere. Oggi, a ventiquattro anni di distanza, quando già le nuove generazioni guardano a quegli avvenimenti con pacato interesse, credo opportuno pubblicare queste note, ritenendo che la mia testimonianza possa essere utile a coloro che, domani, saranno in grado di scrivere la storia di quegli anni angosciosi65.

Il resoconto di Federzoni era stato anticipato da «Il Messaggero» a partire dal 25 febbraio 1967. Dandone l’annuncio in un articolo non firmato, il giornale precisava: Questo resoconto, in forma di verbale, il Federzoni lo redasse nella quiete del suo studio, dopo le fortunose vicende del 25 luglio, dopo le peregrinazioni e la condanna a morte inflittagli dal tribunale speciale di Verona. Lo redasse a mente calma, quando le passioni che avevano agitato l’animo suo erano pacate e solo il pensiero delle sorti della Nazione lo animava. Il documento è restato fino ad oggi ignorato da tutti. L’autore non lo mostrò mai a nessuno degli antichi amici, degli antichi compagni di avventura e di sventura, nonostante le loro insistenze. E più ancora, resistette alle offerte di editori e di agenzie giornalistiche italiane e straniere, che gli proponevano eccezionali condizioni. Questo assoluto riserbo era l’unica possibile difesa contro le eventuali pressioni per indurlo a modificare

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quanto aveva scritto66.

Il giornale romano pubblicò il 5 e il 6 marzo, a guisa di commento sulla seduta del Gran Consiglio, il capitolo del libro di Federzoni intitolato Favole e verità del Gran Consiglio, che rievocava, con alcune imprecisioni e qualche invenzione, gli eventi che avevano portato alla riunione del Gran Consiglio e il suo svolgimento67. Nei giorni successivi, «Il Messaggero» raccolse le testimonianze di «quegli uomini che, sfuggiti al plotone di esecuzione o alla tormenta della guerra e del dopoguerra, sono ancora viventi testimoni di quella tragica svolta della storia». Iniziando con Dino Grandi, furono pubblicate le testimonianze di Acerbo, Albini, Balella, Cianetti, De Marsico, Frattari, Galbiati e Scorza. Grandi non disse nulla sul resoconto e sul commento di Federzoni alla seduta del Gran Consiglio68. Invece la maggior parte dei testimoni che avevano firmato l’ordine del giorno Grandi confermò l’attendibilità del resoconto di Federzoni, con qualche precisazione o dichiarazione discorde. De Marsico affermò che l’«austerità morale dello Scrittore garantisce la veridicità del documento»69 – Federzoni gli aveva fatto leggere «una decina di anni fa una prima stesura» del suo libro –, ma non disse di aver partecipato in casa Federzoni alla stesura di un verbale, come aveva affermato Grandi nella lettera ad Artieri. Un altro firmatario dell’ordine del giorno Grandi, Balella, dichiarava che la cronaca della seduta del 25 luglio era «la più esatta fra quelle che sono state scritte finora»70: ma neppure lui asseriva di aver collaborato alla stesura della cronaca. Come non lo diceva Albini, anche lui citato da Grandi, mentre affermava che la ricostruzione di Federzoni «con la riproduzione dei discorsi pronunciati da quasi tutti i componenti dell’Assemblea, dà, a mio parere, un contributo determinante e forse definitivo per la 60

conoscenza e l’interpretazione del fatto storico»71. Acerbo, dopo aver definito «opportuna ed anche tempestiva» la pubblicazione del resoconto di Federzoni, rilevò «la mancata citazione nella ricostruzione di Federzoni e nelle dichiarazioni dei vari oratori di uno dei punti centrali di quella drammatica seduta»: Alludo ai risultati dell’incontro di Feltre. […] Comprensibile pertanto è stata la mia meraviglia nel constatare come di questo emergente episodio della discussione non si trovi traccia alcuna nel resoconto del Gran Consiglio ora pubblicato ne Il Messaggero, all’infuori di un accenno molto indeterminato da parte di Alfieri, mentre io ne avevo già fatto ampia menzione su un quotidiano romano il 25-28 luglio 1958, che fu letto e giudicato veritiero sia da Federzoni che da Bastianini e dallo stesso Alfieri, col quale ultimo ebbi a Milano una conversazione sullo specifico argomento72.

De Stefani non fece alcun commento sul resoconto di Federzoni73. Bignardi invece dichiarò: Sulla veridicità e obiettività del resoconto posso testimoniare non soltanto per aver partecipato ad essa, ma per essere stato uno dei verbalizzanti. Il verbale completo fu, poi, ricostruito in casa Federzoni nei primi giorni dell’agosto del ’43, nel corso di parecchie sedute alle quali partecipava anche Francesco Malgeri. Il materiale raccolto e ordinato venne poi passato, per la parte che li riguardava, a ciascuno di coloro che erano intervenuti nella discussione, e che fu possibile reperire, sì da poter avere la conferma del testo74.

Tuttavia, Bignardi taceva sul fatto che nell’ottobre 1943 aveva inviato al segretario del partito fascista repubblicano Pavolini un memoriale, nel quale dichiarava che, dopo aver appreso la notizia dell’arresto di Mussolini, aveva avuto una violenta reazione nei confronti dei promotori dell’ordine del giorno Grandi, per essere stati «imprevidenti, se pur non colpevoli» delle sue conseguenze75. Per quanto comprensibile, il suo silenzio era quanto meno ingenuo, dal momento che il suo memoriale era stato pubblicato integralmente pochi anni prima nel libro di Cersosimo sul processo di Verona76. Diede la sua testimonianza al giornale romano anche il generale Galbiati in una lettera al direttore, in cui dichiarava 61

di apprezzare il resoconto di Federzoni pur lamentando che il suo intervento era stato «sunteggiato al massimo tanto da rendere il mio pensiero niente affatto chiaro»: Il resoconto, in forma verbale, dell’ultima seduta del Gran Consiglio, redatto da Luigi Federzoni […] è – a mio parere – assai valido ai fini di una accurata, onesta ricerca storica di quel lontano drammatico avvenimento. […] Come è risaputo, in Gran Consiglio non c’erano stenografi e nessun oratore ebbe ad affliggerci con la lettura di un lunghissimo discorso: cosicché avere finalmente i testi integrali dei discorsi pronunciati dai maggiori firmatari dell’ordine del giorno Grandi è senz’altro un fatto assai importante77.

Riserve e rampogne sia sul verbale sia sul commento di Federzoni alla seduta del Gran Consiglio, raccontata nel suo libro, espressero invece altri oppositori dell’ordine del giorno Grandi. Frattari segnalava inesattezze o fatti taciuti, formulando riserve «sui resoconti di una parte dei discorsi riportati nel senso che a taluni membri sono state attribuite dichiarazioni che non sono state dette e ad altri, invece, si è minimizzato eccessivamente»78. Altrettanto severo fu Carlo Scorza, che annunciò la prossima pubblicazione del suo libro sulla notte del Gran Consiglio79. Dopo aver premesso che «noi vecchi fascisti (allora ancora giovani) provenienti dall’interventismo e dalla guerra consideravamo Luigi Federzoni come uno dei padri coscritti del sentimento e dell’azione attiva del patriottismo» e che «persino dopo il suo atteggiamento nell’ultima seduta del Gran Consiglio, il giudizio non era cambiato», Scorza proseguiva, riferendosi al commento di Federzoni sull’ultima seduta: Questo commento è deludente perché lo fa scendere al rango di tutti gli altri che con più o meno faziosità, si sono occupati dell’argomento. Né Grandi, né Bottai, né Galeazzo Ciano nel suo diario, si sono mai abbandonati a tali eccessi passionali. Per non parlare del tono generale ispirato ad un’acredine non corrispondente al documento che dovrebbe costituire un serio contributo alla storia, mi limito a rilevare alcune inesattezze e contraddizioni.

Scorza contestò la veridicità di varie affermazioni di Federzoni, proponendo una propria versione sullo 62

svolgimento dell’ultima seduta del Gran Consiglio, sul contegno dei partecipanti e specialmente di Mussolini. Già tre anni prima, annunciando in una intervista a «Il Tempo» del 25 luglio 1964 la prossima uscita del suo libro, Scorza aveva detto che molte testimonianze e ricostruzioni pubblicate fino ad allora erano «pura fantasia»80. Il libro di Scorza, pubblicato nel 1968, conteneva il resoconto più ampio e più dettagliato della seduta, con citazioni testuali di tutti gli interventi per tutte le dieci ore, intrecciati con i commenti dello stesso Scorza sugli atteggiamenti, i comportamenti e le dichiarazioni dei vari oratori, spesso smentendo quanto alcuni di essi avevano riferito nei loro resoconti pubblicati. Le smentite riguardavano soprattutto i resoconti che Grandi aveva dato in più occasioni del suo comportamento e dei suoi interventi81. Nel 1968 furono pubblicate anche le memorie di Acerbo, con un ampio paragrafo sull’ultima seduta del Gran Consiglio, aperto con l’osservazione che le narrazioni «compilate da qualcuno dei partecipanti, non sono molto esatte (almeno quelle che ho letto io), o sono incomplete. S’intende, poi, che le deposizioni dei cinque imputati che furono trascinati avanti al cupo pseudo-tribunale del popolo a Verona, e anche i memoriali difensivi che qualcuno dei contumaci inviò a Mussolini dopo l’8 settembre non possono costituire documenti probanti»: Più ancora imprecise sono le ricostruzioni tentate da estranei, anche se in parte attinte a fonti dirette, le quali inoltre sono chiaramente viziate dall’assoggettamento agli scopi polemici dei vari autori. E sia le une che le altre non han saputo ritrarre il peculiare ambiente psicologico da cui venne agitata quell’adunanza alla quale non fu estraneo nessuno degli elementi dell’eterno dramma umano. Mi ci proverò io82.

Nel 1983, furono pubblicati altri libri di memorie dai protagonisti del 25 luglio: Grandi, De Marsico, Cianetti e 63

ancora Scorza. Infine, nel 2013, è stato pubblicato un quaderno inedito di Alberto De Stefani sull’ultima seduta del Gran Consiglio83. Tranne il nuovo libro di Scorza, gli altri libri, secondo quanto dichiaravano gli autori, erano stati scritti fra il 1943 e il 1944. Nel suo libro sul 25 luglio, che egli asseriva di aver pubblicato così come lo aveva scritto a Lisbona fra il 1943 e il 1944, Grandi pubblicava i testi dei suoi due principali interventi, ma non faceva riferimento agli altri ex gerarchi che avrebbero partecipato alla stesura del verbale in casa Federzoni né lo faceva De Marsico. Oltre a dare una propria versione dell’ultima notte del Gran Consiglio, De Marsico pubblicò in riproduzione fotografica gli appunti che aveva preso durante la seduta. Fra ventidue contrastanti e contraddittori racconti di come accaddero le cose, si ha difficoltà a stabilire quale sia il più prossimo alla verità effettuale. Di volta in volta, gli storici hanno attribuito maggiore veridicità all’una o all’altra versione, più spesso hanno cercato di ricostruire una storia attendibile mettendo insieme le parti concordanti delle diverse versioni. Nonostante ciò, come abbiamo visto nel caso delle due frasi mussoliniane sulla crisi del regime, vi sono questioni cruciali che neppure l’artificio combinatorio è riuscito a risolvere. Anche nell’assenza di un verbale ufficiale, c’è tuttavia un fatto certo, il fatto dominante nella genesi e nello svolgimento dell’ultima seduta del Gran Consiglio, come attestano tutte le testimonianze, cioè il giudizio sul regime fascista. Pertanto, per comprendere, al di là della cronaca dei fatti certi, il significato storico del 25 luglio – cioè le sue origini, il suo svolgimento e il suo esito, le motivazioni, i propositi, gli atteggiamenti, i comportamenti e le scelte dei protagonisti –, è necessario aver presente quel che era il regime fascista che fu messo sotto processo durante l’ultima 64

seduta del Gran Consiglio, principalmente dai firmatari dell’ordine del giorno Grandi; ma, per altri motivi e con altri scopi, anche da coloro che ad esso si opposero. Il processo al regime divenne inevitabilmente, anche se non lo fu esplicitamente, un processo al duce, perché il regime del partito unico, costruito dal fascismo entro le strutture del regno d’Italia, aveva trasformato la monarchia a regime parlamentare in una monarchia a regime totalitario. E il regime totalitario in un regime del duce. Le ventiquattro ore del 25 luglio furono dominate da una sfida della maggioranza del Gran Consiglio al regime del duce. 27 D. Alfieri, Due dittatori di fronte, Rizzoli, Milano 1948, p. 326. Nelle

carte del Gran Consiglio conservate in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato (1922-1943) (da ora ACS, SPD, CR), b. 26, fasc. 242/R, «Gran Consiglio», sottofasc. 1/F «Resoconti stenografici di Benedetto Fasciolo del Gran Consiglio marzo, aprile e luglio 1923», e ivi, b. 37, fasc. 242/R «Gran Consiglio», seduta del 24-25 luglio 1943, vi sono soltanto resoconti stenografici delle prime sedute, rimasti finora indecifrati. Delle riunioni del Gran Consiglio veniva data una notizia sommaria con un comunicato alla stampa, che, a parte i temi discussi e le decisioni approvate, quasi mai riferiva quanto era stato detto dai partecipanti, ad eccezione degli interventi del duce. Gran parte degli ordini del giorno e dei comunicati sono autografi di Mussolini. 28 L. Pesce, Ecco il dossier del 25 luglio, in «Epoca», 10 aprile 1966. 29 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, p. 163. 30 G. Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Cappelli, Rocca San Casciano 1968, p. 498 n. 31 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, p. 410. 32 Cit. in L. Garibaldi, Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Mursia, Milano 1983, p. 207. 33 G. Polverelli, La notte del Gran Consiglio negli appunti dell’unica persona autorizzata a stenografare, in «Il Tempo» (settimanale), 15 novembre 1952. 34 Cfr. G. Bottai, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano 1949, pp. 293318; E. Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., Editrice Bernabò, Milano 1950, pp. 218-233; Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, cit., pp. 271-317; A. De Marsico, 25 luglio 1943. Memorie per la storia, a cura di

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M.A. Stecchi de Bellis, Fratelli Laterza, Bari 1983, pp. 232-235. 35 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, pp. 345, 349. 36 C. Scorza, La notte del Gran Consiglio, Palazzi, Milano 1968, p. 23. 37 Ivi, p. 195. 38 Ivi, p. 199. 39 V. Cersosimo, Dall’istruttoria alla fucilazione. Storia del processo di Verona, Garzanti, Milano 1963 (prima ed. 1961), pp. 46-47. Deposizioni e memoriali presentati al processo di Verona furono resi noti subito dopo la fine della guerra: D. Mayer, La verità sul processo di Verona, a cura della Casa editrice «Avanti!», Mondadori, Milano 1945; R. Montagna, Mussolini e il processo di Verona, Edizioni Omnia, Milano s.d. (ma 1949). 40 G. Bottai, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1988, p. 114. 41 Cfr. V. Napolitano, 25 luglio, Vega, Roma 1944. 42 Ivi, pp. 369-370. 43 Cfr. B. Mussolini, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, Mondadori, Milano 1944. 44 Bottai, Diario 1944-1948, cit., p. 118. 45 Ivi, p. 119. 46 Cfr. P. Monelli, Roma 1943, Migliaresi, Roma 1945. 47 Ivi, p. 157. 48 R. Forte, Grandi e la fosca tragedia del 25 luglio. Il duello al gran Consiglio, in «Il Popolo», 13 gennaio 1946. 49 C. De Martino, Suardo smentisce Grandi, in «Il Popolo», 18 gennaio 1946. 50 Il libro è stato pubblicato postumo: L. Federzoni, Memorie di un condannato a morte, Le Lettere, Firenze 2013. 51 Bottai, Vent’anni e un giorno, cit., pp. 293-318. 52 L. Cavicchioli, Le dieci drammatiche ore che decisero il nostro destino, in «Oggi», 4 settembre 1958. 53 G. Cavallotti, La mia parte nel dramma del 25 luglio, in «Oggi», 4 giugno 1959. Dopo la pubblicazione della prima puntata, il 7 maggio 1959, Grandi protestò vivamente con il direttore del settimanale accusando il giornalista di aver pubblicato senza la sua autorizzazione, sotto forma di intervista, quel che Grandi aveva detto durante varie conversazioni, ma col divieto di renderle pubbliche. Cfr. Ministero degli Affari Esteri, Archivio storico-diplomatico, Carte Dino Grandi (da ora MAE, AS, CDG), b. 166, fasc. 203, sottofasc. 6. 54 ACS, Carte Luigi Federzoni (da ora ACS, CF) (acquisite dalla

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Direzione Generale Archivi nel 2016), b. 4 (collocazione provvisoria), fasc. 1 «Gran Consiglio 25 luglio 1943». Sulla minuta autografa vi è una nota: «Minuta originale lettera di Dino Grandi a Giovanni Artieri, fornita da Grandi». 55 G. Artieri, Quattro momenti di storia fascista, Berisio Editore, Napoli 1968, pp. 299-300. Nelle sue memorie inedite, la figlia di Federzoni, Elena Federzoni Argentieri, racconta che il 25 luglio «quasi tutti i diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi vennero a casa nostra a Roma per stendere il verbale della seduta» (cit. in Federzoni, Memorie di un condannato a morte, cit., pp. 5-6 n.). 56 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 425. 57 M. Zamboni, Grandi fece sapere al re che era pronto a mettersi subito in contatto con Churchill, in «Oggi», 1° agosto 1963. 58 M. Zamboni, Diario di un colpo di Stato. 25 luglio-8 settembre, Newton Compton, Roma 1990, p. 142. 59 D. Grandi, Pagine di diario del 1943, in «Storia contemporanea», dicembre 1983, pp. 1066-1067. 60 Ivi, p. 1069. 61 MAE, AS, CDG, b. 132, fasc. 192, sottofasc. 23. Il testo della lettera è riprodotto in Dino Grandi racconta l’evitabile Asse. Memorie raccolte e presentate da Gianfranco Bianchi, Jaca Book, Milano 1984, pp. 96-119. 62 Pesce, Ecco il dossier del 25 luglio, cit. 63 MAE, AS, CDG, b. 167, fasc. 203, sottofasc. 7, ins. 2. 64 S. Bertoldi, Mussolini tale e quale, Longanesi, Milano 1965, p. 213. 65 Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, cit., p. 271. 66 La storica seduta del Gran Consiglio del 25 luglio, in «Il Messaggero», 25 febbraio 1967. 67 Bisognava affrontare Mussolini prima che la rovina fosse totale, in «Il Messaggero», 5 marzo 1967; Finirla con la guerra e con i tedeschi a questo mirò l’ordine del giorno Grandi, in «Il Messaggero», 6 marzo 1967. 68 D. Grandi, L’amletico Mussolini volle perdere la sua battaglia, in «Il Messaggero», 7 marzo 1967. 69 A. De Marsico, A qualunque prezzo, una svolta nella situazione politica italiana, in «Il Messaggero», 11 marzo 1967. 70 G. Balella, Durante il dibattito e la votazione Mussolini si dimostrò un uomo finito, in «Il Messaggero», 12 marzo 1967. 71 U. Albini, La grave situazione del Paese rendeva vana la retorica fascista, in «Il Messaggero», 9 marzo 1967. 72 G. Acerbo, Non fu il voto contrario a Mussolini a determinare lo sbarco degli alleati, in «Il Messaggero», 10 marzo 1967. Acerbo pubblicò un proprio

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resoconto della seduta del Gran Consiglio nel suo libro di memorie Fra due plotoni di esecuzione, cit., pp. 497 sgg. 73 Alberto de’ Stefani e Ettore Frattari sulla storica seduta del Gran Consiglio, in «Il Messaggero», 14 marzo 1967. 74 A. Bignardi, Non fu un tradimento, in «Il Messaggero», 16 marzo 1967. 75 Il memoriale di Bignardi è riportato in Cersosimo, Dall’istruttoria alla fucilazione, cit., pp. 165-170. 76 Ibid. 77 E. Galbiati, Nessun ordine del giorno poteva sanare la situazione, in «Il Messaggero», 13 marzo 1967. 78 Alberto de’ Stefani e Ettore Frattari sulla storica seduta del Gran Consiglio, cit. Frattari però incorreva nell’errore di negare la presenza all’ultima seduta del Gran Consiglio di Guido Buffarini Guidi. 79 C. Scorza, Fu l’effetto di una profonda crisi, in «Il Messaggero», 15 marzo 1967. 80 A. Frignani, Prepara un libro sul 25 luglio l’ultimo segretario del Partito fascista, in «Il Tempo», 25 luglio 1964. 81 C. Scorza, L’ultima notte del Gran Consiglio, Palazzi, Milano 1968. 82 Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione, cit., pp. 497-498. 83 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983; De Marsico, 25 luglio 1943, cit.; C. Scorza, Mussolini tradito, Cino del Duca, Milano 1983; Cianetti, Memorie dal carcere, cit.; A. De Stefani, Gran Consiglio ultima seduta. 24-25 luglio 1943, Le Lettere, Firenze 2013.

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Capitolo terzo. Il regime del duce

Fra le varie, contrastanti e contraddittorie versioni sull’ultima seduta del Gran Consiglio, appartiene ai fatti certi – come è dimostrato dalla concordanza di tutte le testimonianze dei protagonisti – l’oggetto principale sul quale si discusse durante le dieci ore di seduta, cioè il regime totalitario, così come si era venuto formando e strutturando all’interno dello Stato monarchico nel corso di un ventennio. Infatti, gli stessi principali promotori della convocazione del Gran Consiglio, da Farinacci a Grandi, da Bottai a Scorza, prevedevano che la riunione sarebbe stata una sorta di giudizio sull’esperienza ventennale del regime fascista e, di conseguenza, una sfida al potere del duce, per come si era venuto accrescendo e concentrando sempre più nelle sue mani, a svantaggio e a danno delle altre istituzioni del regime, partito e Gran Consiglio inclusi. Il processo al regime totalitario e la sfida al duce erano impliciti nel paragrafo finale dell’ordine del giorno Grandi, dove, in forma ambigua e generica, si invitava «il Capo del Governo» (in altre versioni è scritto «invita il Governo») a pregare il re di assumere il comando effettivo delle forze armate e «quella suprema iniziativa di decisioni che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia».

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Ambiguità di una sfida Tuttavia, molti erano i motivi di ambiguità che si celavano nell’ordine del giorno Grandi, e influirono sul modo in cui i membri del Gran Consiglio lo interpretarono, lo votarono o lo respinsero a conclusione della seduta. La principale ambiguità è il riferimento alle «nostre istituzioni», «retaggio glorioso» della dinastia di Savoia. Infatti, al retaggio istituzionale della monarchia sabauda appartenevano certamente il Senato e la Camera dei deputati (soppressa nel 1939 e sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni), ma non il Gran Consiglio, che apparteneva invece al più recente retaggio del regime fascista, inserito e integrato entro lo Stato monarchico alla fine del 1928, quando il Gran Consiglio fu trasformato nel supremo organo costituzionale dello Stato monarchico. Inoltre, apparteneva al retaggio del regime fascista, aggiunto al retaggio della dinastia sabauda come istituzione dello Stato monarchico, il partito nazionale fascista, che non era nominato nell’ordine del giorno Grandi, ma la sua presenza era comunque assicurata dalla menzione del Gran Consiglio fra le istituzioni statali delle quali si sollecitava il ripristino. Infatti, lo statuto del PNF, deliberato dal Gran Consiglio il 12 novembre 1932 e approvato con regio decreto 17 novembre 1932, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 21 novembre 1932, definiva il partito fascista «una Milizia civile, agli ordini del Duce, al servizio dello Stato Fascista», che svolgeva la sua attività «sotto la guida del Duce e secondo le direttive segnate dal Gran Consiglio». Lo statuto stabiliva inoltre che la nomina del segretario del PNF era fatta dal re su proposta del duce, con il parere del Gran Consiglio. Successivamente, con regio decreto legge 11 gennaio 70

1937, erano stati conferiti al segretario del PNF il titolo e le funzioni di ministro segretario di Stato. Il resoconto ufficiale sull’attività della XXIX legislatura (1934-1939), pubblicato a cura del Senato del Regno e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, collocando il partito fascista nella parte prima, dedicata all’ordinamento costituzionale dello Stato, asseriva che la legge dell’11 gennaio 1937 «ha saldato definitivamente, anche nel campo del diritto costituzionale, il Partito allo Stato», consacrando «il potenziamento delle funzioni del Partito quale organo dello Stato»84. Infine, per la legge del 1928 che aveva trasformato l’organo supremo del partito fascista nell’organo supremo del regime, il segretario del partito era di diritto segretario del Gran Consiglio, e in assenza del capo del governo spettava di diritto al segretario del partito convocare il supremo organo del regime e definire l’ordine del giorno. Pertanto, sollecitando il ripristino delle funzioni statali del Gran Consiglio, l’ordine del giorno Grandi non prevedeva l’eliminazione del partito unico. L’ambiguità dell’ordine del giorno Grandi sugli aspetti istituzionali e costituzionali ai quali faceva riferimento, derivava probabilmente dall’incertezza con la quale, nei giorni fra il 10 e il 24 luglio, si era giunti alla convocazione del Gran Consiglio: incertezza che, nonostante quanto poi asserito da Grandi e da altri promotori della sua iniziativa, permase durante le dieci ore di discussione, fino all’esito finale della votazione. Tuttavia, nonostante quello che molti di loro hanno asserito dopo il 25 luglio, nessuno dei partecipanti all’ultima seduta del Gran Consiglio, neppure i promotori dell’ordine del giorno Grandi, aveva idee chiare su come affrontare il giudizio sul duce e sulla esperienza ventennale del regime. Così come nessuno sapeva come sarebbero andate le cose, e quale sarebbe stato l’esito finale. Ma un 71

altro fatto era comunque certo, alla vigilia della riunione del Gran Consiglio: alla costruzione del regime del duce, che si intendeva mettere sotto processo, avevano collaborato per l’intero ventennio, eseguendo gli ordini del duce, tutti i promotori e i principali firmatari dell’ordine del giorno Grandi. Era questa la maggiore ambiguità nella sfida al duce lanciata in Gran Consiglio, per mezzo del Gran Consiglio e addirittura in nome dello stesso Gran Consiglio. Grandi ha scritto nel suo libro sul 25 luglio di aver detto, nel suo primo discorso la sera del 24 luglio per illustrare il suo ordine del giorno, che all’autorità e alla deliberazione del Gran Consiglio, «i suoi membri, dal Duce che lo presiede a noi tutti, siamo tenuti ad obbedire»85. E nel suo ultimo intervento, alle 2 del mattino del 25 luglio, ha detto di aver aggiunto che la dittatura «non si può opporre a che il Gran Consiglio, organo creato dalla dittatura medesima, esprima la sua volontà, il suo giudizio ed anche il suo voto di fiducia o di sfiducia»86: «È soltanto il Gran Consiglio crea​to dalla dittatura, il quale ha il diritto e il dovere di dichiarare decaduta la dittatura e di fare appello alle responsabilità di tutti, da quelle del Re a quelle dell’ultimo cittadino»87. Ma entrambe le affermazioni, per quanto riguardava l’ordinamento costituzionale del regime fascista, erano senza fondamento. Dal partito armato al regime totalitario Il Gran Consiglio era stato inventato da Mussolini poco dopo la sua ascesa al potere, come il nuovo organo supremo del partito nazionale fascista. Attraverso questo organo, Mussolini, divenuto presidente del Consiglio, intendeva controllare il partito fascista e consolidare la sua autorità di duce. La prima riunione informale avvenne a Roma il 15 72

dicembre 1922 nell’appartamento del Grand Hotel dove Mussolini alloggiava. Due giorni dopo, dando notizia della riunione, «Il Popolo d’Italia» definì l’istituzione del Gran Consiglio un «avvenimento sostanziale per lo sviluppo e l’affermazione della politica fascista» e «per la netta fisionomia che sarà per prendere lo Stato fascista uscito dalla rivoluzione»88. Lo stesso giornale pubblicava l’11 gennaio 1923, alla vigilia della prima riunione ufficiale, un comunicato nel quale erano fissate le norme per la convocazione: «Il Gran Consiglio si tiene tutti i mesi il giorno 12 alle ore 22 e continua i suoi lavori nei giorni successivi alla stessa ora, fino ad esaurimento dell’ordine del giorno. Le riunioni sono convocate e presiedute dal Capo del Governo». All’inizio i partecipanti di diritto al Gran Consiglio furono i membri fascisti del governo, i dirigenti del partito fascista, della Milizia e dei sindacati fascisti, il direttore generale della pubblica sicurezza. Una delle prime decisioni prese dal Gran Consiglio nella prima riunione ufficiale il 12 gennaio 1923 fu la legalizzazione dell’organizzazione armata del partito fascista: con un regio decreto del 14 gennaio 1923, lo squadrismo fu trasformato in Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, posta agli ordini del capo del governo, con «lo scopo di proteggere gli inevitabili ed inesorabili sviluppi della rivoluzione d’ottobre». Il Gran Consiglio definiva «rivoluzione d’ottobre» il modo in cui era avvenuta l’ascesa al potere di Mussolini e del partito fascista. Quando il 29 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III aveva affidato l’incarico di formare il nuovo governo a Mussolini, duce di un partito armato che si era imposto nel paese con la violenza dello squadrismo e alla Camera aveva soltanto trenta deputati eletti nel 1921, la decisione del re non era stata dettata da una designazione del Parlamento, ma era stata presa sotto il ricatto della mobilitazione insurrezionale 73

proclamata dal partito fascista89. La fiducia data subito dopo dalla maggioranza del Parlamento al governo Mussolini non aveva impedito al partito armato di proseguire l’azione violenta contro gli antifascisti fino all’assassinio di Giacomo Matteotti. La conferma della fiducia parlamentare, anche dopo il delitto Matteotti, aveva comunque confermato la legittimità costituzionale del governo Mussolini, e ciò – sostenne allora il re, che si professava rigorosamente ligio alla costituzione – gli impediva di destituire Mussolini dalla carica di presidente del Consiglio come chiedevano i partiti antifascisti: finché il duce del partito armato, come presidente del Consiglio, aveva la fiducia del Parlamento, il re non poteva intervenire in alcun modo per allontanarlo dal potere. Da questo atteggiamento Vittorio Emanuele non si discostò mai per tutto il successivo ventennio, fino al 25 luglio 1943. Nel 1927, nella prefazione alla raccolta degli atti del Gran Consiglio «nei primi cinque anni dell’Era Fascista», il duce rievocava il travagliato periodo di trapasso dal regime parlamentare al regime a partito unico: Tutte le grandi istituzioni del Regime sono sorte dal Gran Consiglio. In primo luogo, la Milizia. La creazione della Milizia è il fatto fondamentale, inesorabile, che poneva il Governo sopra un piano assolutamente diverso da tutti i precedenti e ne faceva un Regime. Il Partito armato conduce al Regime totalitario. La notte del gennaio 1923, durante la quale fu creata la Milizia, segnò la condanna a morte del vecchio Stato demo-liberale e cioè del giuoco costituzionale che consisteva nelle vicende dei Partiti al Governo della Nazione. Da allora il vecchio Stato demo-liberale non fece che attendere di essere sepolto: il che accadde con tutti gli onori, il 3 gennaio 192590.

Dopo il 3 gennaio 1925, con leggi approvate dal Parlamento e firmate dal re, Mussolini e il partito fascista operarono la distruzione del regime liberale per costruire, entro le strutture dello Stato monarchico, un regime a partito unico, un regime totalitario come fu definito dagli antifascisti che per primi coniarono il termine. 74

Le esequie del regime parlamentare La prima e più importante legge fascista, che modificava profondamente l’assetto parlamentare dello Stato monarchico, approvata il 24 dicembre 1925, concerneva le attribuzioni e le prerogative del capo del governo, accrescendone il potere sia nei confronti del Consiglio dei ministri sia nei confronti del Parlamento. La legge dichiarava che il potere esecutivo era esercitato dal re per mezzo del suo governo, costituito dal primo ministro, capo del governo, e dal Consiglio dei ministri. Il capo del governo era nominato e revocato dal re ed era responsabile verso il re dell’indirizzo politico generale del governo. Il decreto di nomina del capo del governo era «controfirmato da lui, e quello di revoca dal suo successore». Era il capo del governo che proponeva al re la nomina e la revoca dei ministri e dei sottosegretari di Stato, che erano responsabili verso il re e verso il capo del governo. Questi poteva assumere, con regio decreto, la direzione di uno o più ministeri e delegare al sottosegretario di Stato parte delle attribuzioni del ministero. Infine, la legge stabiliva che nessun oggetto poteva essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere senza l’adesione del capo del governo. La nuova legge, fece notare il 19 dicembre 1925 il senatore liberale Gaetano Mosca, l’unico a prendere la parola per dichiarare il suo voto contrario, mirava «a cambiare radicalmente l’ordinamento dei pubblici poteri, e quindi, si può dire, la nostra costituzione», perché concentrava il potere esecutivo nel capo del governo e trasformava il Consiglio dei ministri, da «corpo collegiale deliberativo» quale era stato fino ad allora, quasi «in un corpo consultivo», accentuando «la superiorità del Presidente del Consiglio: egli può creare con una semplice sua proposta nuovi ministri, come può abrogare i Ministeri 75

esistenti, può cambiare le attribuzioni dei ministri, può avocare a sé la decisione delle questioni di competenza che sorgono tra i vari ministeri. Tutto il potere esecutivo ormai si riassume nel Capo del Governo, ed i ministri non sono quasi che gli esecutori della sua volontà». Inoltre, fece ancora notare Mosca, nella relazione che accompagnava il disegno di legge era scritto che il capo dello Stato manteneva al potere il capo del governo «finché quel complesso di forze economiche politiche e morali che lo hanno portato al Governo non lo abbandonerà»: Ora fino a quando questo complesso di forze economiche politiche e morali che sosteneva il Gabinetto, e che qualche volta lo disfaceva, si manifestava coi voti del Parlamento, la cosa era chiara. Ma se questo complesso di forze non è più rappresentato dal Parlamento, allora ci si domanda: da chi è rappresentato? In fondo non si vuole accordare al Re la libera scelta del suo Governo e non si vuole che questa scelta sia influenzata dai voti del Parlamento. Tutto questo sarebbe un rebus indecifrabile se non si sapesse leggere attraverso le righe della relazione e del disegno di legge. Ho già accennato che questa volta avrei parlato con una certa emozione, perché noi assistiamo, diciamolo pure sinceramente, alle esequie di una forma di Governo; io non avrei mai creduto di dover essere il solo a fare l’elogio funebre del regime parlamentare91.

Alla legge sul capo del governo, seguirono nei mesi successivi altre leggi dette «fascistissime» che completarono l’affossamento del regime parlamentare, instaurando il regime totalitario. Il sistema elettivo fu abolito nelle amministrazioni locali nel 1926, con l’istituzione del podestà, su proposta del ministro dell’Interno Federzoni. Infine, il 5 novembre 1926, ancora su proposta di Federzoni, fu adottato un complesso di misure repressive di polizia contro qualsiasi opposizione, compreso lo scioglimento di tutti i partiti e associazioni antifasciste. Quattro giorni dopo, il segretario del partito fascista Augusto Turati fece approvare dalla Camera una proposta che dichiarava decaduti dal mandato parlamentare 124 deputati antifascisti e il 25 novembre 1926, con 76

l’approvazione dei provvedimenti per la difesa dello Stato, fu vietata la ricostituzione di tutte le associazioni, organizzazioni e partiti disciolti, e fu istituito un Tribunale speciale, formato da ufficiali generali di tutte le forze armate e della Milizia, per perseguire i delitti contro lo Stato. Dopo lo scioglimento di tutti i partiti, i sindacati e le associazioni non fasciste, il partito fascista divenne di fatto il partito unico dello Stato monarchico. Un nuovo statuto, elaborato dal Gran Consiglio e approvato l’8 ottobre 1926, abolì il metodo elettorale, fino ad allora adottato nelle nomine della gerarchia di partito, e deliberò che il partito fascista «esplica la sua azione sotto la guida suprema del Duce del Fascismo e secondo le direttive stabilite dal Gran Consiglio», che nominava il segretario generale del partito, i vicesegretari e i membri del direttorio. Tutte le altre cariche della gerarchia fascista erano nominate dall’alto. Per completare la fascistizzazione della Camera dei deputati, dove era ancora presente qualche deputato liberale come il vecchio statista Giovanni Giolitti, il Parlamento approvò il 17 maggio 1928 la riforma della rappresentanza politica: fu istituito il collegio unico nazionale e fu attribuito al Gran Consiglio il compito di formare la lista dei candidati alla Camera dei deputati, che gli elettori potevano votare esprimendo un sì o un no. La riforma della rappresentanza politica, trasformando la Camera dei deputati in una Camera esclusivamente fascista, «segnava il decisivo distacco del regime fascista dal regime retto dallo Statuto», disse Giolitti il 16 marzo 1928, esprimendo il suo voto contrario92. L’organo supremo del regime A coronamento della prima fase di demolizione del regime parlamentare e di costruzione del regime totalitario, 77

fu approvata la legge del 9 dicembre 1928 sulla «costituzionalizzazione del Gran Consiglio», come fu chiamata. L’organo supremo del partito fascista divenne «l’organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922. Esso ha funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge, e dà, inoltre, parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo». Presidente di diritto del Gran Consiglio era il capo del governo: «Egli lo convoca quando lo ritiene necessario e ne fissa l’ordine del giorno». Il segretario del partito fascista era il segretario del supremo organo del regime: «Il Capo del Governo può delegarlo a convocare e a presiedere il Gran Consiglio in caso di sua assenza od impedimento, o di vacanza della carica». Con una successiva legge del dicembre 1929 sull’ordinamento del Gran Consiglio, fu definitivamente stabilita la sua composizione: erano membri del Gran Consiglio per un tempo illimitato i quadrumviri della «marcia su Roma», mentre erano membri «a cagione delle loro funzioni e per tutta la durata di queste», i presidenti del Senato e della Camera dei deputati; i ministri e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio; il comandante generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; i membri del direttorio del partito fascista; i presidenti dell’Accademia d’Italia e dell’Istituto fascista di cultura; il presidente dell’Opera nazionale Balilla; il presidente del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; i presidenti delle confederazioni nazionali fasciste di sindacati legalmente riconosciute e il presidente dell’Ente nazionale per la corporazione. Inoltre, con decreto del capo del governo, potevano essere nominati membri del Gran Consiglio per un triennio, «e con facoltà di conferma, coloro che hanno, quali membri del Governo, 78

o segretari del Partito Nazionale Fascista dopo il 1922, o per altri titoli, bene meritato della Nazione e della causa della Rivoluzione fascista», ma la loro nomina poteva essere revocata dal capo del governo in qualsiasi momento. Nessun membro del Gran Consiglio poteva essere arrestato «salvo il caso di flagrante reato, né sottoposto a procedimento penale, né assoggettato a provvedimenti di polizia senza l’autorizzazione del Gran Consiglio»; allo stesso modo, nessuna misura disciplinare poteva essere adottata contro un membro del Gran Consiglio quale appartenente al partito fascista, «se non con deliberazione del Gran Consiglio». Il Gran Consiglio deliberava sulla lista dei deputati designati; sugli statuti, gli ordinamenti e le direttive politiche del partito fascista; sulla nomina e la revoca del segretario, dei vicesegretari, del segretario amministrativo e degli altri membri del direttorio del partito fascista. Inoltre, il parere del Gran Consiglio doveva essere sentito su tutte «le questioni aventi carattere costituzionale»: fra queste, erano esplicitamente indicate le leggi concernenti la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; la composizione e il funzionamento del Gran Consiglio, del Senato e della Camera; le attribuzioni e le prerogative del capo del governo; i rapporti fra lo Stato e la Santa Sede e i trattati internazionali «che importino variazioni al territorio dello Stato e delle Colonie, ovvero rinuncia all’acquisto di territori». Infine il Gran Consiglio, «su proposta del Capo del Governo, forma e tiene aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato», e «forma altresì e tiene aggiornata la lista delle persone che, in caso di vacanze, esso reputa idonee ad assumere funzioni di Governo». Non risulta però che 79

questa lista sia stata mai proposta dal capo del governo né mai richiesta dai membri del Gran Consiglio né dal re per l’eventualità dell’assenza improvvisa di Mussolini. Il diritto attribuito all’organo supremo del regime di intervenire nella successione al trono era una lesione gravissima inflitta da Mussolini alla monarchia di Savoia, e molto probabilmente suscitò in Vittorio Emanuele una reazione negativa, anche se non vi sono testimonianze dirette o esplicite di una sua protesta formale93. Che vi siano state o meno proteste da parte del re, il Gran Consiglio, divenuto organo costituzionale supremo dello Stato monarchico, continuò per tutto il decennio successivo a stravolgere, secondo le decisioni prese dal duce e avallate all’unanimità dai membri del supremo organo del regime, l’assetto dello Stato italiano, così come era prefigurato nello Statuto e nello sviluppo della monarchia costituzionale in monarchia parlamentare durante sette decenni di governo liberale. Stato monarchico a regime totalitario Tutte le riforme politiche e sociali del fascismo, che nel corso degli anni Trenta intensificarono la costruzione del regime totalitario entro lo Stato monarchico, dall’ordinamento corporativo alla proclamazione dell’impero e alla legislazione razzista e antisemita, furono discusse e approvate dal Gran Consiglio. Fino alla vigilia dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, l’organo supremo del regime tenne complessivamente 186 riunioni. Come era stato stabilito nel 1923, le sedute iniziavano alle 22 e finivano nelle prime ore del giorno successivo, e talvolta continuavano nei giorni seguenti. Le sedute si svolgevano a Palazzo Venezia, nella sala detta del Pappagallo. La convocazione del Gran 80

Consiglio era annunciata dalla stampa con comunicati solenni. Quando il Gran Consiglio era riunito, sul balcone di Palazzo Venezia veniva issato il gagliardetto del partito fascista. Dopo ogni riunione, il «Foglio d’ordini» del partito e la stampa riportavano un comunicato nel quale, insieme ai nominativi dei membri presenti, erano sommariamente indicati gli argomenti discussi e le decisioni prese, sempre all’unanimità. Nel novembre del 1932, nella prefazione a una edizione aggiornata degli atti del Gran Consiglio nei primi dieci anni del regime, il duce ricordava che dopo la sua costituzionalizzazione, voluta dallo stesso Gran Consiglio, «il Gran Consiglio resta non solo il consesso supremo del Regime, ma un organo squisitamente rivoluzionario, che garantisce, al di sopra degli uomini, la continuità storica della Rivoluzione»94. E di nuovo il 1° luglio 1938, nella prefazione alla terza edizione aggiornata degli atti del Gran Consiglio dal 1923 al 1938, Mussolini esaltò il contributo che il Gran Consiglio aveva dato nella decisione e nella direzione degli eventi internazionali che avevano avuto l’Italia fascista come protagonista, dalla conquista dell’impero alla partecipazione nella guerra civile spagnola. Era stato il Gran Consiglio a deliberare la proclamazione dell’impero e il conferimento del titolo di imperatore d’Etiopia a Vittorio Emanuele III. Era stato il Gran Consiglio che aveva dato nuovo impulso, dopo la conquista dell’impero, all’azione rivoluzionaria all’interno del paese per forgiare una nazione guerriera: Ora la rivoluzione deve incidere profondamente sul «costume». A tale riguardo la innovazione del «passo romano» è di una importanza eccezionale. Lo riprova l’eco avuta nel mondo. Anche l’abolizione del «lei» servile e straniero e detestato dai grandi italiani, da Leopardi a Cavour, è del massimo rilievo. Altri passi dovranno essere compiuti in questo settore e sarà facile travolgere i residuali scetticismi dei deficenti nostrani e stranieri, che preferirebbero l’Italia

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facilona, disordinata, divertente, mandolinistica del tempo antico e non quella inquadrata, solida, silenziosa e potente dell’era fascista. […] Tutta l’atmosfera nella quale si svolge la vita del popolo italiano, ha carattere militare, deve avere e avrà un carattere sempre più militare: il popolo ha l’orgoglio di sapersi mobilitato permanentemente per le opere di pace e per quelle di guerra95.

Tre mesi dopo, il 6 ottobre, il Gran Consiglio unanime approvava il varo della legislazione razzista e antisemita. Alla seduta erano presenti, fra gli altri, Federzoni, Bottai, Alfieri, Grandi, Acerbo e De Stefani. Prima della costituzionalizzazione del Gran Consiglio, il 17 maggio 1928, il Parlamento aveva approvato la riforma della rappresentanza della Camera, che la trasformava in una istituzione composta esclusivamente da deputati fascisti, designati dal Gran Consiglio e votati con elezioni plebiscitarie nel 1929 e nel 1934. Nel 1939 il duce decise di abolire quel residuo del regime parlamentare rappresentato dall’elettività della Camera dei deputati, sostituendola con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni: i membri della nuova Camera, definiti «consiglieri nazionali», erano nominati dal duce fra i membri del consiglio nazionale del partito fascista e del consiglio nazionale delle corporazioni, e decadevano quando cessava la loro carica nel partito o nelle corporazioni96. Era stato il segretario del partito Achille Starace, componente più autorevole della commissione istituita nel 1936 per elaborare la riforma della rappresentanza parlamentare, a dare impulso all’abolizione della Camera dei deputati97. Durante l’elaborazione, il presidente del Senato Federzoni, che già aveva contribuito personalmente alla revisione dello statuto del PNF approvato nel 1932, inviò a Starace il 22 ottobre 1938 un memoriale riservato nel quale proponeva alcune modifiche per riaffermare il primato del Gran Consiglio nei confronti della nuova Camera e del Senato su tutti i disegni di legge di carattere 82

costituzionale98. Federzoni citava il caso della successione al trono e delle prerogative della Corona, per le quali il dovere di sentire il parere del Gran Consiglio era «norma tassativamente prescritta dall’articolo 12 della legge sul Gran Consiglio stesso»: Ma che la successione al Trono possa formare oggetto di una proposta di legge, la quale debba essere sottoposta alla discussione e al voto della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e del Senato del Regno, non sembra possibile per evidenti ragioni di procedura e di opportunità e anche perché, mentre è perfettamente legittimo il parere di un altissimo consesso come il Gran Consiglio del Fascismo, non sembra giustificabile che l’autorità di questo venga diminuita sottoponendo, dopo il parere del Gran Consiglio, la successione del Trono ad un provvedimento di carattere legislativo, il quale porterebbe inconvenienti e ritardi suscettibili di gravi conseguenze. […] In tutta questa materia particolarmente delicata e importante parrebbe opportuno che la competenza del Gran Consiglio, supremo organo della Rivoluzione, rimanesse inalterata e non condivisa con le Assemblee legislative.

Per questo, e per altri argomenti per i quali era tassativamente richiesto il parere preventivo del Gran Consiglio, come i rapporti fra lo Stato e la Santa Sede e i trattati internazionali, Federzoni propose modifiche allo scopo di evitare «una procedura lunga e dannosa in assoluto contrasto con i metodi e le direttive del Regime Fascista», e di salvaguardare l’esclusiva «competenza del Gran Consiglio, il quale è chiamato, in materie di somma importanza, a dare il suo parere al Governo, come consesso supremo del Regime, custode dello spirito della Rivoluzione fascista». Grazie alla collaborazione di Federzoni, presidente del Senato dal 29 aprile 1929 al 19 gennaio 1934 e dal 24 aprile 1934 al 2 marzo 1939, con il segretario del partito Starace, nemmeno la Camera Alta, i cui componenti erano nominati a vita dal re, rimase indenne dallo stravolgimento totalitario dello Stato monarchico. L’opera di fascistizzazione del Senato fu accelerata soprattutto dopo la riforma della rappresentanza politica alla Camera e la 83

costituzionalizzazione del Gran Consiglio. Essa avvenne progressivamente, sia con le perio​diche «infornate», come erano chiamate le nomine di nuovi senatori, riservandole agli iscritti al partito fascista, sia attraverso l’azione svolta al suo interno dall’Unione dei senatori fascisti per promuovere fra i senatori l’iscrizione al partito e per incrementare il controllo del partito fascista sui senatori e sull’attività del Senato. La fascistizzazione del Senato proseguì col successore di Federzoni alla presidenza, Giacomo Suardo: nel giugno 1943, i senatori iscritti al partito fascista erano 430 su 459, ma i senatori non fascisti generalmente non frequentavano più il Senato99. Camera e Senato furono di fatto subordinati al controllo del segretario del partito fascista, carica alla quale il duce nominò e mantenne Starace per otto anni, dal 12 dicembre 1931 al 31 ottobre 1939. Ossequente agli ordini del duce, ma deciso ad affermare il primato del partito nello Stato totalitario, Starace proseguì la strategia di espansione già adottata dai suoi predecessori, per dilatare sempre di più la sfera di controllo del partito nella società e nello Stato, e per porre sotto la sua egida tutte le organizzazioni del regime, iniziando nel 1926 con l’imposizione del controllo del segretario del partito sull’Opera nazionale dopolavoro, e continuando nel decennio successivo con l’estensione del controllo del partito sui sindacati e sulle corporazioni, e con l’annessione di tutte le organizzazioni giovanili, maschili e femminili, nella nuova organizzazione della Gioventù italiana del littorio. Nel 1937 fu conferita al segretario del partito la qualifica di ministro segretario di Stato100. Duce del fascismo, capo del governo, maresciallo dell’impero L’ordinamento dello Stato monarchico a regime totalitario era una gerarchia piramidale, dove tutto il potere 84

era concentrato al vertice nella persona di Mussolini, duce del fascismo, capo del governo. Le due dizioni apparvero associate per la prima volta in una simbiosi costituzionale nel regio decreto legge del 27 ottobre 1937, che istituì la Gioventù italiana del littorio: «Tale provvedimento – si legge nel capitolo Il Duce del Fascismo Capo del Governo nel volume La legislazione fascista nella XXIX legislatura 19341939 (XII-XVII), pubblicato a cura del Senato del Regno e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni – ha consacrato legislativamente e con forma solenne il nome che è divenuto sacro a tutti gli italiani». Successivamente, nella legge del 19 gennaio 1939 che istituì la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la denominazione «Duce del Fascismo, Capo del Governo» venne usata in tutti gli articoli. Inoltre, il regio decreto del 2 marzo 1939, che disponeva lo scioglimento della Camera dei deputati e la convocazione per il 23 marzo successivo del Senato e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, fu emanato «sulla proposta del Duce del Fascismo, Capo del Governo». In tal modo, osservava la citata pubblicazione ufficiale, la qualifica di duce «ha assunto compiutamente un significato giuridico. Né con essa s’intende solo il Duce del Partito, ma il Duce del Fascismo, cioè la guida, il Capo supremo del Regime, che si identifica ormai indissolubilmente con lo Stato»101. Era probabilmente sfuggito all’estensore della frase citata che la sua affermazione, dichiarando l’indissolubile identificazione del regime totalitario con lo Stato, indirettamente identificava il capo supremo del regime con la figura del capo dello Stato. Nello Stato monarchico a regime totalitario, tutto il potere effettivo, e non solo quello derivante dalla funzione di capo del governo, era comunque nelle mani di Mussolini. Dallo stravolgimento dell’ordinamento costituzionale, compiuto con la costruzione del regime totalitario 85

all’interno dello Stato monarchico, rimase indenne soltanto quanto era dichiarato nell’articolo 5 dello Statuto del Regno. Tuttavia, dopo la proclamazione dell’impero, Mussolini cominciò a manovrare per sottrarre al re anche il comando supremo delle forze armate. Per un ventennio il duce aveva predicato l’inevitabilità della guerra: «la storia – proclamò il 26 maggio 1934 – ci dice che la guerra è il fenomeno che accompagna lo sviluppo dell’umanità. Forse è il destino tragico che pesa sull’uomo. La guerra sta all’uomo come la maternità alla donna»102. Alla tesi dell’inevitabilità della guerra, il duce associava l’esaltazione etica della guerra stessa, proclamando nella Dottrina del fascismo che il fascismo «non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà di fronte al sacrificio»: Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato pregiudiziale della pace, è estranea al fascismo103.

Coerente con questa visione, Mussolini aveva imposto l’irreggimentazione della popolazione in ogni aspetto della vita collettiva per prepararla alla guerra: «Io considero la nazione italiana in istato permanente di guerra», aveva detto nel 1925104. E un decennio dopo, il 16 marzo 1934, ribadiva: «Tutta la nostra vita di regime deve svolgersi attorno a questo asse: la potenza militare della nazione, che dà al popolo il senso della sicurezza e l’abito a una sempre più ferrea e consapevole disciplina»105. E ancora, il 24 agosto dello stesso anno, dopo aver assistito con il re alle grandi manovre, issatosi su un carro armato, il duce proclamò: Stiamo diventando e diventeremo sempre più, perché lo vogliamo, una nazione militare. Poiché non abbiamo paura delle parole, aggiungerò: militarista.

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Per completare: guerriera, cioè dotata in grado sempre più alto della virtù dell’obbedienza, del sacrificio, della dedizione alla patria. Questo significa che tutta la vita della nazione, la politica, l’economica, la spirituale, deve convogliarsi verso quelle che sono le nostre necessità militari. La guerra è stata definita la corte di cassazione fra i popoli. E, poiché i popoli non si cristallizzano, ma seguono le linee della loro forza e del loro dinamismo storico, ne consegue che, malgrado tutte le conferenze, tutti i protocolli e tutte le più o meno pietose e buone intenzioni, il fatto guerra, come rimane all’origine della storia umana, si può prevedere che l’accompagnerà ancora nei secoli che verranno106.

Nel 1938, nella prefazione al volume degli atti del supremo organo del regime, il duce diede risalto alla «cura più assidua del Gran Consiglio» per il potenziamento della forze armate: «Tutta l’atmosfera nella quale si svolge la vita del popolo italiano, ha carattere militare, deve avere e avrà carattere sempre più militare: il popolo ha l’orgoglio di sapersi mobilitato permanentemente per le opere di pace e per quelle di guerra»107. Alle proclamazioni verbali, seguirono le azioni di guerra. Soldato semplice, poi caporale nella Grande Guerra, Mussolini aveva assunto in vari periodi, fra il 1925 e il 1933, i dicasteri della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica, che dal 6 novembre 1933 tenne ininterrottamente fino al 25 luglio 1943. Quando il duce dichiarò guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, il 10 giugno 1940, già da cinque anni le forze armate italiane erano impegnate in imprese belliche: l’aggressione all’Etiopia il 2 ottobre 1935, e la partecipazione nella guerra civile spagnola, dal luglio del 1936 al marzo del 1939. Inoltre il 6 aprile 1939 l’esercito italiano procedette all’invasione e all’occupazione dell’Albania, e Vittorio Emanuele assunse il titolo di re d’Albania. Mussolini aveva diretto personalmente da Roma la campagna militare in Etiopia, e con il successo dell’impresa si convinse di essere non solo un grande politico, ma anche 87

un grande stratega e condottiero. Due anni dopo il duce, al pari del re, fu insignito del nuovo grado di primo maresciallo dell’impero, istituito il 30 maggio 1938 dopo l’approvazione per acclamazione, alla Camera, di una proposta di legge presentata dal presidente Costanzo Ciano, e subito approvata dal Senato per la sollecita adesione all’iniziativa da parte del presidente Federzoni108. Comandante supremo L’istituzione del nuovo grado militare era stata una iniziativa presa da Starace, subito dopo il discorso sulle forze armate della nazione pronunciato da Mussolini in Senato il pomeriggio del 30 marzo 1938. Parlando sulla necessità di un coordinamento unitario fra le diverse armi per attuare «quella che io chiamo la condotta unitaria della guerra integrale, cioè rapida e implacabile», il duce affermò che nell’Italia fascista era stato già risolto «il problema del comando unico»: «Le direttive politico-strategiche della guerra vengono stabilite dal capo del Governo. La loro applicazione è affidata al capo di Stato Maggiore generale e agli organi dipendenti. La storia, anche la nostra, ci dimostra che fu sempre fatale il dissidio tra la condotta politica e quella militare della guerra». Nell’Italia fascista, aggiunse, «questo pericolo non esiste. In Italia la guerra, come lo fu in Africa, sarà guidata, agli ordini del re, da uno solo: da chi vi parla, se, ancora una volta, questo grave compito gli sarà riservato dal destino»109. Mussolini così concluse il discorso sulle forze armate della nazione: Da quanto vi ho detto, una convinzione spero sorgerà nell’animo vostro: che i problemi militari sono i fondamentali e ad essi io dedico la massima parte della mia giornata. Questo compito mi è facilitato grandemente dall’assidua, preziosa collaborazione che mi viene data dai sottosegretari Pariani, Cavagnari, Valle, coi quali ogni problema di cose e di uomini viene esaminato e discusso: noi lavoriamo cameratescamente insieme, con l’animo teso all’identico obiettivo.

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Un’altra convinzione io credo sia sorta in voi, e cioè che chiunque osasse attentare ai diritti e agli interessi della patria, troverebbe in terra, in mare, in cielo, la immediata, risoluta, fierissima risposta di un intero popolo in armi. Ciò stabilito, desidero che una terza convinzione non si faccia strada in voi, e cioè che ormai tutto è a posto e che possiamo dormire sonni tranquilli. Appunto perché molto si è fatto, bisogna dire a noi stessi che il più resta da fare. E lo faremo a qualunque costo. Così noi intendiamo assicurare la pace in genere; ma soprattutto la «nostra» pace. Noi respingiamo illusioni e utopie. Per questo abbiamo lasciato lo spaccio che le vende a Ginevra. Quello che ha sempre contato e conta nei rapporti fra i popoli è il loro potenziale di guerra. Noi mettiamo in prima linea del nostro potenziale le forze dello spirito. Esse non furono mai in Italia così profonde, così diffuse, così ardenti e volitive come oggi. Napoleone Bonaparte, l’italiano che trovò in Francia lo strumento per dispiegare il suo sovrumano genio militare, previde questo: quando durante la guerra di Spagna il maresciallo di Francia Suchet chiese all’imperatore di poter disporre della divisione italiana Palombini, Napoleone rispose: «Avete ragione, questi italiani saranno un giorno i primi soldati del mondo». Noi questo vogliamo: che il vaticinio napoleonico si tramuti nella realtà fascista e romana del nostro tempo110.

La legge sul primo maresciallo fu varata a insaputa del re, che fu informato poco prima della subitanea approvazione della legge alla Camera e al Senato. Vittorio Emanuele protestò per l’istituzione del primo maresciallo dell’impero, che poneva il duce sullo stesso piano del re al vertice della gerarchia militare, e minacciò persino il rifiuto di firmare la legge per la promulgazione. Il duce chiese un parere costituzionale al giurista Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, il quale si espresse a favore della legittimità della legge. Mussolini fece pervenire il parere al re accompagnandolo con una lettera molto secca e velatamente sarcastica: «Maestà, mando alla M.V. questa nota del Presidente del Consiglio di Stato, che io quantunque profano considero esauriente». Come era avvenuto per la costituzionalizzazione del Gran Consiglio, il re dovette rassegnarsi a subire la volontà del duce, come aveva fatto nei precedenti quindici anni111. Con maggior contrarietà, ma con altrettanta 89

rassegnazione, nel giugno 1940 Vittorio Emanuele dovette cedere alla richiesta avanzata dal duce di avere per delega il comando supremo di tutte le forze armate nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia. «Il Re è seccatissimo – annotava il generale Puntoni il 1° giugno – e mi dice che durante la discussione avuta col Duce non si era affatto parlato di decreto. Se del caso, il Re avrebbe scritto una lettera (rescritto reale) al Capo del Governo, e gli avrebbe affidato una delega temporanea di comando»: Comunque, dice il Sovrano, se il Duce si intesterà a volere un decreto, per amor di patria, dal momento che non è proprio il caso di aprire una crisi con la guerra alle porte, avrà il decreto ma in esso e nella relazione di accompagnamento dovrà essere detto chiaramente che il «Sovrano conserva il comando supremo e che ne fa delega al Capo del Governo, dal momento che egli desidera recarsi in zona di operazioni»112.

Il re riuscì a salvare le apparenze, delegando temporaneamente a Mussolini il comando delle truppe operanti su tutti i fronti. Quando il duce, con l’approvazione del re, decise la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, non consultò né il Consiglio dei ministri né il Gran Consiglio. Come capo del governo, inoltre, il duce continuò a nominare e revocare i ministri: al ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla, che il 21 gennaio 1941 aveva detto che si sarebbe dimesso piuttosto che ritirare un decreto come gli ordinava il duce, Mussolini gli replicò con «tono beffardo» che «i ministri li chiama lui e li licenzia lui, perciò non è il caso di parlare di dimissioni»113. Come per il precedente ventennio, fino alla vigilia del 25 luglio, i ministri apprendevano dai giornali o dalla radio la nomina o la revoca; e nel corso del secondo decennio del regime, il duce assunse contemporaneamente, per periodi più o meno lunghi, la titolarità di molti ministeri. Il 4 giugno 1940, nell’ultima riunione del Consiglio dei 90

ministri prima dell’entrata in guerra, furono discussi e approvati soltanto provvedimenti di ordinaria amministrazione, senza alcun cenno alla guerra in corso. Soltanto di misure amministrative di guerra, il Consiglio dei ministri si occupò il giorno dopo l’entrata in guerra dell’Italia: «Non una parola della guerra, della sua condotta, delle garanzie politiche che ne assicurano gli sviluppi», scriveva nel suo diario Bottai, che fra il 1926 e il 1943, prima come sottosegretario e poi come ministro, fece parte per lunghi periodi del Consiglio dei ministri114. E il 6 luglio 1940 annotava: Consiglio dei Ministri. Un istituto in piena decadenza: i provvedimenti per la più gran parte v’arrivano di sorpresa, anche i meno importanti; e gli altri passano tra la disattenzione generale. Ormai, la burocrazia manda a macinar la sua carta a questo mulino senza pagare scotto. Governo di funzionari per interposti ministri, dove tutte le responsabilità politiche e tecniche, s’elidono. Si potrebbe pensare, che vi si sostituisce la responsabilità personale d’un Capo. Ma neppure questo è vero, ché il Capo è costretto dalla moltitudine dei provvedimenti ad avallarli senza assumerli in proprio. Se le cose vanno bene, il merito è suo; se vanno male, la colpa degli altri. Così, praticamente, si attua la formula: «Mussolini à sempre ragione». Della politica di guerra non una parola d’esposizione e di programma115.

Durante la guerra, Mussolini volle accentrare ancora di più il suo potere su tutta l’organizzazione del regime e dello Stato, con la pretesa di controllare tutto, ma con la conseguenza invece di disorganizzare apparati di Stato e di regime a causa della frequente sostituzione di ministri, sottosegretari e generali, che egli riteneva responsabili delle carenze organizzative e produttive del paese in guerra e delle disfatte militari. Il 1° febbraio 1943 nominò come capo di Stato maggiore generale Vittorio Ambrosio al posto del maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, il 6 febbraio sostituì quasi tutti i ministri, tranne tre, e assunse di nuovo il ministero degli Esteri, aggiungendolo ai ministeri di cui era già da un decennio titolare: Interno, Guerra, Marina, Aeronautica. Il 14 aprile rimosse il capo della polizia 91

Carmine Senise, in carica dal 1940, e lo sostituì con Renzo Chierici. E il 19 aprile nominò segretario del partito Carlo Scorza. Inoltre, negli anni di guerra, la rotazione imposta dal duce al vertice del partito fu la più frequente: dopo il licenziamento di Starace il 31 ottobre 1939, fino al 1943 si avvicendarono alla guida del PNF ben tre segretari: Ettore Muti fino al 30 ottobre 1940, Adelchi Serena fino al 26 dicembre 1941, Aldo Vidussoni fino al 19 aprile 1943. Vidussoni era un giovane di ventisette anni, aveva combattuto in Etiopia e in Spagna, era mutilato e medaglia d’oro: con la nomina di un giovane, il duce aveva sperato di ridare vitalità al partito, assumendone personalmente la guida attraverso Vidussoni. Ma l’esperimento di rivitalizzazione fallì. Il duce ci riprovò con Scorza, che era stato uno dei capi dello squadrismo toscano, più volte federale, e membro del direttorio del partito dal 1929 al 1931; ma poi alla fine del 1932 era stato deplorato da Starace per «deficienze di carattere politico», estromesso dal partito e relegato ai margini per oltre un decennio, finché fu richiamato dal duce al partito come vicesegretario nel dicembre 1942. Nello stesso periodo, il Parlamento rimase inerte nella sua funzione di coro plaudente ai discorsi e alle decisioni del duce. Dino Grandi, che dal 30 novembre 1939 era stato nominato dal duce presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, mentre il 6 febbraio 1943 era stato dimesso da ministro di Grazia e Giustizia, così dichiarava il 12 febbraio al generale Puntoni, poco prima di essere ricevuto in udienza da Vittorio Emanuele: Dopo l’udienza Grandi viene a salutarmi e si trattiene con me per oltre mezz’ora. Dice di essere contento dell’esonero perché fin dall’ottobre aveva dimostrato al Duce l’impossibilità di coprire contemporaneamente le due cariche di presidente della Camera e di ministro Guardasigilli. «Non c’è alcuna soddisfazione a presiedere una Camera del genere», dice Grandi. «Si tratta di un

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complesso che ha perduto le sue prerogative costituzionali e che non può neppure adempiere il compito di consulenza tecnica che teoricamente gli è assegnato. I consiglieri nazionali sono nominati con criteri politici e spesso, il che è ancora peggio, con arbitrii»116.

Nelle stesse condizioni era il Senato. Il 9 gennaio 1943, il generale Enrico Caviglia, uno dei pochissimi senatori non iscritti al partito fascista, annotava nel suo diario: «Il Senato boccheggia. Se si riunisce in seduta pubblica plenaria si mostrerebbe pronto ad approvare ed applaudire qualsiasi canagliata decreti il governo. Momento triste! Unico segno di vita le barzellette che si moltiplicano»117. Così come aveva esautorato il Consiglio dei ministri, la Camera e il Senato, il duce aveva esautorato il Gran Consiglio. Le sue riunioni, divenute più rare, si concludevano sempre con l’approvazione all’unanimità delle decisioni del duce. «L’unanimità è, ormai, in tutto lo svolgimento della nostra vita politica, presupposta», osservava nel suo diario il 5 gennaio 1936 Giuseppe Bottai, che dal 1927 fu ininterrottamente membro del Gran Consiglio. La sua osservazione si riferiva alla riunione del Gran Consiglio che aveva approvato la guerra contro l’Etiopia: L’unanimità vi fu, non espressa, ma implicita nella deformazione istituzionale del Gran Consiglio. Questo non isfugge al fenomeno più generale di sterilizzazione di tutti gli organi creati dalla Rivoluzione. L’unanimità vi fu e fu effettiva, ma né una discussione, non chiesta e, in ogni modo, non alimentata dai formali panegirici di Rocco, Federzoni, etc. etc., né una votazione, del tutto abolita nella prassi attuale del Gran Consiglio, la provarono118.

La costruzione del regime totalitario era proseguita fino all’inizio della seconda guerra mondiale. A celebrare l’avanzamento della costruzione fu Grandi, che nella relazione inviata al duce sull’attività legislativa dal 23 marzo 1939 al 23 marzo 1941 proclamava che lo Stato totalitario, fondato sulla «compenetrazione del Partito nello Stato» e sull’ordinamento corporativo, era l’attuazione di una «esigenza profonda», che era «già presente agli albori della 93

nostra Rivoluzione»: Lo Stato totalitario non è più un semplice postulato teorico, per superare le contraddizioni della democrazia parlamentare. Una coerenza intrinseca, quasi elementare, ne è caratteristica fondamentale. Esso pone il Governo al centro del sistema e rende attuabili forme di operosa e armonica collaborazione, particolarmente apprezzabili e innovative nei riguardi delle Assemblee politiche. E appunto la felice e costruttiva esperienza della nostra Assemblea porta nuova luce sull’istituto legislativo, mediante il quale non solo si esplica una sostanziale attività pubblica, ma la profonda trasformazione operata dal Fascismo nella struttura sociale del Paese viene a mano a mano acquisita allo ordinamento giuridico119. 84 La legislazione fascista nella XXIX legislatura 1934-1939 (XII-XVII), vol. I, a cura del Senato del Regno e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Roma 1939, pp. 20-21. 85 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, p. 286. 86 Ivi, p. 301. 87 Ivi, p. 267. 88 Dopo il Gran Consiglio Fascista, in «Il Popolo d’Italia», 17 dicembre 1922. 89 Cfr. E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 187 sgg. 90 Partito Nazionale Fascista, Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell’Era Fascista, Libreria del Littorio, Roma 1927, pp. XI-XII. 91 G. Mosca, Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Laterza, Bari 1949, pp. 277-282. 92 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista. 1925-1929, Einaudi, Torino 1968, p. 325. 93 Ivi, pp. 304 sgg. Cfr. P. Colombo, La monarchia fascista 1922-1940, il Mulino, Bologna 2010, pp. 66 sgg. 94 Partito Nazionale Fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell’Era Fascista, Editrice Nuova Europa, Roma 1933, ora in B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXV, p. 173. 95 Partito Nazionale Fascista, Il Gran Consiglio del fascismo nei primi quindici anni dell’Era Fascista, Stabilimenti poligrafici editori de «Il Resto del Carlino», Bologna 1938, ora in Mussolini, Opera omnia, XXIX, p. 117. 96 ACS, SPD, CR, b. 37, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 16, ins. A, «Marzo 1938», «Ottobre 1938». 97 Cfr. F. Perfetti, La Camera dei fasci e delle corporazioni, Bonacci, Roma

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1991. 98 ACS, CF, b. 4, fasc. 3, «Memoriale inviato riservatamente a S.E. Starace, 22/10/1938 XVI». 99 Cfr. E. Gentile, Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, in Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, a cura di E. Campochiaro e E. Gentile, Senato della Repubblica, Roma 2003, pp. 3-128. 100 Cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008, pp. 187 sgg. 101 La legislazione fascista nella XXIX legislatura, cit., p. 13. 102 Mussolini, Opera omnia, XXVI, p. 259. 103 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 124. 104 Mussolini, Opera omnia, XXII, p. 37. 105 Mussolini, Opera omnia, XXVI, p. 190. 106 Ivi, p. 308. 107 Partito Nazionale Fascista, Il Gran Consiglio del fascismo nei primi quindici anni, cit., p. 37. 108 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino 1981, pp. 19 sgg.; Gentile, Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, cit., pp. 75 sgg. 109 Mussolini, Opera omnia, XXIX, p. 77. 110 Ivi, pp. 81-82. 111 De Felice, Mussolini il duce, cit., pp. 31-33. 112 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, pp. 7-10. 113 G. Gorla, L’Italia nella seconda guerra mondiale. Diario di un milanese, ministro del re nel governo Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano 1959, p. 126. 114 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 193. 115 Ivi, p. 211. 116 Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, cit., pp. 118-119. 117 E. Caviglia, Diario (aprile 1925-marzo 1945), Gherardo Casini, Roma 1952, p. 383. 118 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 73. 119 D. Grandi, L’attività della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. 23 marzo 1939-XVII-23 marzo 1941-XIX, Tipografia della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Roma MCMXLI-XIX, p. 5.

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Capitolo quarto. Ai tuoi ordini, duce

Apologeta dello Stato totalitario nel 1941, dopo la fine del fascismo Dino Grandi ha più volte affermato di non aver mai «soggiaciuto al potere carismatico di Mussolini», anche se lo aveva considerato, esprimendosi in un linguaggio tipicamente carismatico, «come una forza straordinaria, quale da molti secoli non era apparsa nella storia d’Italia, una fiamma bruciante che occorreva intiepidire, una fiumana impetuosa che bisognava incanalare perché, invece di inaridire la terra, potesse renderla più feconda». Pur negando d’essere stato soggetto al carisma mussoliniano, Grandi ribadiva di essere stato fedele al duce per trent’anni, fino al 25 luglio 1943, precisando che per fedeltà egli intendeva «anche, e soprattutto, i miei frequenti tentativi, non sempre vani e non sempre riusciti, di modificarlo e di correggerlo, lasciando immutata la sua statura e la sua grandezza»120. Origine di una fede Che sia stato o meno soggetto al potere carismatico del duce, certo è che Grandi, a diciannove anni, fu affascinato dalla figura di Mussolini quando l’ex direttore dell’«Avanti!», convertito all’interventismo, il 15 novembre 1914 fece uscire il primo numero del suo nuovo giornale «Il Popolo d’Italia», che provocò la sua espulsione dal 96

partito socialista nel quale Mussolini aveva militato per oltre un decennio fino a diventarne, dal 1912, un capo autorevole e idolatrato dalle masse. Il 17 novembre, il diciannovenne Grandi gli scrisse: «Permettete ad un giovane – ad un ‘solito ignoto’ – (non socialista), di gridarvi tutta la sua ammirazione per la vostra opera di coraggio e di fede», vedendo nel Mussolini interventista la guida di «tutti i giovani, i giovanissimi, che pieni d’inquietudine e di sdegno per quest’Italia fallita si preparavano, appena affacciati alla vita, all’acre rinunzia della loro speranza»: Voi combattete in nome di questi, della nuova generazione ventenne che sarà domani al primo posto sotto le trincee, e che si riattacca con fede e con orgoglio ai primi fratelli del Risorgimento. Questa battaglia è la vostra ed è la loro. Io mi auguro così di essere il primo soldato dell’ultima guerra nazionale.

All’entusiasmo del giovane ignoto, Mussolini aveva risposto: «grazie per la solidarietà. Ma bisogna combattere e farsi lapidare, se occorre!»121. A vent’anni, il 4 giugno 1915, Grandi aveva indossato l’uniforme come volontario nella Grande Guerra. Al movimento dei Fasci di combattimento Grandi aderì alla fine del 1920, ma nei mesi successivi già emerse come uno dei giovani capi dello squadrismo emiliano, dirigente del settimanale fascista di Bologna «L’Assalto» sul quale nell’agosto del 1921, dopo l’elezione a deputato, capeggiò la rivolta degli squadristi contro il patto di pacificazione col partito socialista, voluto da Mussolini. Il quale allora mirava a trasformare il fascismo in un partito parlamentare, mentre gli squadristi e i loro capi, come Grandi, volevano conservare al movimento l’impeto rivoluzionario, l’organizzazione armata e la pratica della violenza per imporre il loro predominio, distruggere i sindacati socialisti e inquadrare i lavoratori nei sindacati fascisti. Sebbene fosse il fondatore dei Fasci di combattimento, oratore e giornalista di straordinario fascino e l’unico 97

politico fascista nazionalmente conosciuto, Mussolini nel 1921 non aveva ancora affermato il suo potere di duce sulla massa degli squadristi e sui capi del fascismo provinciale. Il conflitto fu molto aspro per la virulenza polemica con la quale Grandi negò la paternità del fascismo a Mussolini, che pretendeva di essere obbedito come un capo indiscusso e di disporre del movimento a proprio piacimento. Alla ribellione degli squadristi, Mussolini reagì dimettendosi dal comitato centrale dei Fasci di combattimento. Grandi commentò il gesto mussoliniano con addolorato stupore, ma ribadì che i capi squadristi non potevano sacrificare all’affetto per Mussolini «la vita e i destini futuri del nostro movimento». L’aspro conflitto fu sanato con un plateale abbraccio di riconciliazione fra Grandi e Mussolini al congresso fascista di Roma nel novembre 1921, dove fu deciso di annullare il patto di pacificazione e trasformare il fascismo in partito politico, conservando come sua struttura essenziale l’organizzazione armata squadrista. Fedele in umiltà Da quel momento, Grandi raffreddò l’impeto rivoluzionario, tanto che il 28 ottobre 1922 si dichiarò pubblicamente contrario alla «marcia su Roma», patrocinando un governo presieduto dal vecchio liberale Antonio Salandra. Pochi mesi dopo la «marcia su Roma», nel marzo 1923, chiamato da Mussolini nella capitale per riprendere l’attività politica, Grandi gli scriveva, umilmente, pentito e riconoscente: Ti ringrazio per le tue parole, che mi hanno ridato a un tratto tutta la mia vecchia forza di lottare e di lavorare. Rimprovero a me stesso questo tempo perduto a consumarmi in silenzio sterilmente. Nessuno più di me conosce e sa i miei difetti. Essi sono grandi e infiniti. Ma tu che sei il mio capo mi vedrai alla prova. Vedrai di quale devozione e di quale lealtà sarà esempio il tuo Dino Grandi122.

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Grandi continuò a mantenere le distanze dalle attività del partito fascista, atteggiandosi a difensore dell’autorità dello Stato, ora rappresentata da Mussolini, contro l’estremismo dei fascisti integralisti, che continuava a inveire contro di lui considerandolo un traditore. Grandi si avvalse di questa polemica per dimostrare al duce la sua obbediente fedeltà. Il 14 dicembre 1923 scriveva a Mussolini, «con tutta la sincerità dei miei vent’otto anni»: Ho sempre pensato che in politica il rancore è il peggiore dei consiglieri, e per questo sento in coscienza di poter affermare che la battaglia da me combattuta in questo momento non è una miserabile battaglia di fazioni e di persone. È l’epilogo di una lotta fra il fascismo statale ed un pseudo fascismo antistatale – demagogico e ribellista. Una lotta insomma fra certo fascismo che vorrebbe, attraverso un sindacalismo male inteso e mal digerito, perpetuare il suo assalto allo Stato, e il nostro fascismo il quale altro non vuole e non deve essere che un organo della politica interna dello Stato e cioè del suo governo. Qualche mese fa tu mi ordinasti di riprendere il mio posto. L’ho ripreso. E riprendendolo con tutta la mia passione non ti ripeto una assicurazione, che è un giuramento di fedeltà. Ti dico solo che la mia fedeltà è cieca, assoluta e indistruttibile. Essa è la conquista spirituale di un anno di silenzio e di meditazione. Mi vedrai alla prova123.

Nel periodo della grave crisi del fascismo provocata dal delitto Matteotti, Grandi capeggiò una mobilitazione di 50.000 squadristi contro gli oppositori per riaffermare il predominio del partito fascista, ma l’atteggiamento avuto al momento della «marcia su Roma» lo aveva reso inviso ai fascisti intransigenti, che presero il sopravvento nel partito alla fine del 1924 e imposero al duce la svolta totalitaria del 3 gennaio 1925. Il duce premiò la fedeltà di Grandi nominandolo sottosegretario all’Interno nel luglio 1924, con Federzoni ministro; nel maggio 1925 lo nominò sottosegretario al ministero degli Esteri, e ministro nel settembre 1929, per trasferirlo poi nel luglio 1932 come ambasciatore a Londra, dove rimase sette anni. Nell’agosto 1939, Grandi fu nominato ministro di Grazia e Giustizia e dal novembre fu anche presidente della Camera dei Fasci e delle 99

Corporazioni. Nel corso di questa lunga carriera politica, Grandi si astenne dalla militanza di partito, ostentando però costantemente fedeltà assoluta a Mussolini, specialmente nei rapporti personali, ai quali mostrava di tenere particolarmente. Per esempio, il 14 maggio 1925, quando apprese da Federzoni e da Salvatore Contarini, segretario generale al ministero degli Esteri, che Mussolini intendeva nominarlo sottosegretario al ministero degli Esteri, del quale lo stesso Mussolini era titolare, Grandi gli scrisse: Senza perplessità e goffe modestie ti dico che l’inaspettata notizia mi ha molto lusingato – anche perché l’avermi tu prescelto ad una funzione tanto importante mi permetterebbe di servirti più da vicino. Questa è la massima ambizione ed il maggiore premio che io possa desiderare. Con eguale franchezza ed onestà debbo farti presente – come già fatto a Federzoni e Contarini – che dubito di possedere i requisiti – soprattutto esteriori – e la preparazione richiesta da una funzione come quella che tu vuoi affidarmi. Tu sai d’altra parte quanta illimitata e incondizionata sia la mia fedeltà, e come mio unico desiderio sia di ubbidirti. Fai perciò di me quello che riterrai più utile e più rispondente alle esigenze del momento, che Tu soltanto sai e puoi valutare. In attesa dei tuoi ordini, con devozione Dino Grandi124.

Il 1° gennaio 1926, dopo la cerimonia ufficiale per gli auguri di capodanno, Grandi gli scriveva: Caro Presidente, permettimi che al di fuori delle cerimonie ufficiali – io ti ripeta il mio augurio devoto ed affettuoso per l’anno che viene e per tutta la vita che verrà. Voglio ti giunga, ancora una volta, tutta la mia gratitudine per l’affetto e la benevolenza che mi hai dimostrato e mi dimostri – e che è il premio più grande al mio lavoro e alla mia fedeltà. Non ho che un desiderio: quello di poterti servire – umilmente – in silenzio. Il Tuo Grandi.

Tre mesi dopo, il 31 marzo, Grandi inviò a Mussolini il libro di Aristotele Trattato dei governi, tradotto da Bernardo Segni per Cosimo de’ Medici, «una piccola edizione veneziana del ’500 – ma rara – se non addirittura introvabile», che aveva scovato in una libreria, aggiungendo 100

così alla sua «soddisfazione di bibliofilo […] la gioia di farne dono a Te che sei e rimarrai nella storia, il più possente Creatore di una nuova Arte di Governo». E chiudeva così la lettera: «Le tue ultime parole – nell’alba di stamane – hanno dato al mio spirito un brivido pieno di aspettazione». All’alba del 31 marzo, una seduta del Gran Consiglio si era conclusa con l’approvazione di un ordine del giorno presentato da Mussolini, col quale il supremo organo del partito fascista manifestava «ancora una volta il suo più profondo disprezzo per quei gerarchi minori del fascismo, deputati e aspiranti, che si occupano di elezioni e di collegi elettorali». Poche settimane dopo, Grandi, che era stato rieletto deputato nel 1924 ed era stato altresì vicepresidente della Camera dal luglio al novembre dello stesso anno, scriveva a Mussolini il 29 aprile 1926: Caro Presidente, in una memorabile seduta del Gran Consiglio tu hai rimproverato agli uomini della Rivoluzione di preferire i contrasti sterili e rumorosi della lotta politica al lavoro silenzioso e duro della pubblica amministrazione. Ebbene io – che durante sette anni di battaglia fascista e parlamentare, ho imparato a disprezzare il mestiere di deputato, mi dichiaro pronto ad entrare nella grande Corporazione dei silenziosi, che sono i funzionari dello Stato. Ho ammirato profondamente, in due anni di vita al Governo, questo grande esercito di soldati incorrotti e di costruttori fedeli. Li ho apprezzati come dipendenti – domani li apprezzerò come compagni. Così intendo servire, finché vivo – lungi da contese elettoralistiche – Te, mio Capo e la Rivoluzione.

Con l’instaurazione del regime totalitario dopo il 1926, il duce destinò Grandi alla politica estera, confermandolo nella carica di sottosegretario al ministero degli Affari esteri. Tre anni dopo, al momento della nomina a ministro degli Esteri, Grandi ringraziò il duce per la fiducia che gli dimostrava, e che gli era «viepiù cara, poiché viene dopo quasi sei anni di lavoro – uno a Pal.[azzo] Viminale e cinque a Pal.[azzo] Chigi. Nulla sarà mutato nel mio lavoro quotidiano – e nel mio spirito. Io resto, come sono stato, il 101

tuo sottosegretario, come Tu mi hai insegnato ad essere, e come io ho imparato ad essere. Il tuo fedele Grandi»125. Un «italiano nuovo» Nei successivi quattordici anni, Grandi mai smise di professare al duce la sua devozione e fedeltà di gregario, neppure nel periodo in cui, come ambasciatore a Londra, non condivise la politica bellicosa del duce, tentò di contrastare l’alleanza con la Germania hitleriana, patrocinò una politica d’intesa con la Gran Bretagna, spesso operando segretamente in senso contrario alle direttive del duce126. Eppure Grandi continuò nelle sue lettere a cantar lodi alla grandezza di Mussolini. Lo fece – dirà dopo la fine del fascismo – per indurre il duce ad accettare le sue iniziative di fedele disobbediente, e usò l’espediente dell’adulazione più smaccata, che solleticava la vanità di Mussolini e alla fine lo induceva ad accettare le iniziative di Grandi. Ma questa postuma ritrattazione, in chiave di consapevole uso strumentale dell’adulazione, non basta a giustificare un comportamento che risaliva, come si è visto, ai primissimi tempi del fascismo al potere. In cambio, ricevette dal duce elogi, prestigiosi incarichi, altre cariche, e la concessione di un titolo nobiliare127. Inoltre, con le sue lettere adulatorie, Grandi avallò tutte le decisioni belliche del duce, inneggiando all’espansione del nuovo impero italiano con la retorica di ardite metafore. Il 7 aprile 1939, all’epoca dell’occupazione dell’Albania, da Londra, Grandi manifestò la sua incondizionata ammirazione per un’azione imperialista che infliggeva un colpo alla potenza inglese e altri ne prevedeva, fino alla dominazione italiana nel Mediterraneo: Duce, Gli avvenimenti di oggi mi hanno «elettrizzato» lo spirito. Le nostre truppe a Valona. Tra poche ore l’Albania intera sarà «nostra», sarà una «Provincia»

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dell’Impero! Dopo la vendetta di Adua, la vendetta di Valona. Tu, Duce, fai camminare la Rivoluzione col moto fatale e spietato della trattrice: un cingolo prende, schiaccia e non lascia se non quando l’altro cingolo ha già preso a schiacciare. […] Il Tuo collaboratore fedele, il quale ha avuto il privilegio di essere stato per otto anni, testimonio quotidiano della Tua azione in Albania, sa che questa azione tu non l’hai mollata mai, neppure per un secondo, e che una sola era la Tua direttrice di marcia, e una sola era la soluzione definitiva alla quale Ti preparavi, la conquista militare, definitiva e permanente dell’Albania. Questa conquista fa dell’Adriatico, per la prima volta, un mare militarmente italiano, e apre all’Italia di Mussolini le antiche strade delle conquiste romane in Oriente. Ma la conquista dell’Albania non significa soltanto la sicurezza adriatica; la tenaglia che immobilizza Belgrado per sempre; la «testa di marcia» attraverso i Balcani e l’Oriente. È molto di più: essa si traduce automaticamente in una nuova sconfitta militare dell’Inghilterra nel Mediterraneo, perché mette alla nostra «mercè» la Grecia, che l’Ammiragliato Inglese ha considerato sino ad oggi la fortezza naturale e indispensabile della Inghilterra nella sua guerra navale in Mediterraneo. Tu hai detto una volta in Gran Consiglio che una delle ragioni determinanti la nostra Vittoria Africana, è stata l’aver obbligato gli Inglesi, coll’invio delle due Divisioni motorizzate in Cirenaica, alla «guerra terrestre». È questa, Duce, una delle più profonde fra le Tue Verità. Le Tue due Divisioni in Cirenaica alle frontiere Egiziane, furono la chiave del Tuo piano strategico, e la premessa della Vittoria Africana. Le tue Legioni in Albania, il che vuol dire «in Grecia» quando Tu voglia, significano un’altra «guerra terrestre» che Tu imponi all’Inghilterra, colla perdita automatica per quest’ultima delle sue basi navali, e la nostra completa dominazione del Mediterraneo orientale128.

Lo zelo devoto di Grandi andò ben oltre le circostanze delle sue iniziative in politica estera difformi dagli ordini del duce, perché le sue lettere adulatorie coinvolsero anche le manifestazioni dello stile fascista adottato dal partito durante la segreteria di Starace, come l’adozione del «passo romano» per le sfilate militari. Dopo aver assistito a una delle prime sfilate col nuovo passo, Grandi esternava il suo emozionato entusiasmo, plaudendo alla campagna per la «rivoluzione del costume» intrapresa dal duce, tanto da proporre persino modifiche per migliorarne l’effetto: La terra tremava sotto la picchiata o meglio la martellata dei piedi dei legionari. Ho osservato da vicino queste camicie nere: quando essi marciano al «passo romano», i loro occhi sfavillano, la bocca si fa dura e lineare e la faccia acquista un

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senso nuovo, che non è soltanto il senso marziale, ma è piuttosto il senso di superbia soddisfatta di un martellamento che spacca, che schiaccia la testa del nemico. Infatti, è dopo i primi dieci-dodici passi che la picchiata diventa di una potenza uniformemente crescente e questo perché l’eco della martellata nell’orecchio stesso del martellatore vi raddoppia la forza. Nella necessaria rivoluzione del costume, che tu stai facendo, il «passo romano» è e sarà sempre il più potente strumento di pedagogia fascista. Per questo mi domando se nel passo di parata la musica non vi sia di troppo. Mentre il tamburo «sigilla», la musica della banda (non darmi del presuntuoso per queste impressioni) crea delle diversioni spirituali a tutto scapito di quello che deve essere ingigantito dal silenzio e dal tamburo, la eco e la vibrazione di questa ritmica potente collettiva martellata di bronzo129.

Dopo la nomina a ministro Guardasigilli e presidente della Camera, Grandi mostrò di gradire la duplice funzione, scrivendo al duce il 27 novembre 1939 che, secondo il parere di «autorevoli esperti di Diritto costituzionale», la difficoltà della duplice funzione «sia superabile anche sotto il rigido profilo formale, e nell’ambito della nostra stessa Legge costituzionale». E ancora una volta la lettera conteneva una dichiarazione di fedeltà: «Essere sempre più uno degli italiani nuovi che Tu sbalzi a martellate: questo vogliono la mia vita, la mia fede, il mio spirito che da venticinque anni sono Tuoi, del mio Duce»130. Più fede, più fiducia, più fascismo Contrario al «patto d’acciaio» e all’intervento italiano a fianco della Germania nella guerra scatenata da Hitler il 1° settembre 1939, Grandi insistette col duce affinché tenesse l’Italia fuori dal conflitto, inviandogli il 21 aprile 1940 una lunga lettera, nella quale, con perspicace preveggenza, osservò che la guerra era un duello fra «due nazioni di origine Germanica; la nazione tedesca (che sono i ‘Sassoni della terra’) e la nazione britannica (che sono i ‘Sassoni del mare’) – Il duello non è ancora divenuto un duello mortale, ma può divenirlo»; e allora chi «sarà l’arbitro che deciderà dell’esito del mortale duello? La Russia», «con tutto il peso 104

rappresentato dal suo inesauribile potenziale umano e dal suo spazio: i due eterni fattori di tutte le guerre russe». Nell’incertezza del futuro, per l’Italia Grandi giudicava «una decisione saggia e corrispondente ai nostri vitali interessi» la dichiarazione di non belligeranza, che conveniva conservare perché l’Italia non era «di potenza pari a nessuna delle altre protagoniste dell’attuale dramma europeo, ma può tuttavia, in determinate condizioni, essere il ‘peso determinante’ per la soluzione del dramma nel quadro dei propri interessi nazionali e di quelli dell’Europa. Queste condizioni dipendono da quello che farà o non farà la Russia, la terza grande protagonista ancora assente. Da quello che sarà nel futuro la posizione definitiva che assumerà la Russia, potrà essere giudiziosamente considerata la posizione futura dell’Italia». Fino a quel momento, consigliava Grandi al duce, «restiamo come siamo: neutrali, non belligeranti, astenuti. Le formule non contano purché l’Italia rimanga fuori»131. Mussolini non gradì la lettera di Grandi: «Profezie cervellotiche di un intellettuale che legge troppi libri e fa poca ginnastica»; ricevendolo qualche settimana dopo a Palazzo Venezia, il duce, non ancora convinto della vittoria tedesca, gli disse: «I tedeschi credono di avere già sconfitto e piegato la Francia. Si sbagliano. Prima di arrivare a Parigi essi incontreranno nuovamente l’intera Francia schierata sulla Marna. I francesi si batteranno come si batterono nella prima guerra mondiale. La Francia si salverà e anche noi, l’Italia, saremo salvi dalla prepotente avanzata dei ‘boches’»132. Invece la Francia crollò. E il duce, convinto ora che la vittoria tedesca fosse inevitabile e prossima, decise l’entrata in guerra dell’Italia. Sembra che anche Grandi fosse stato impressionato dalla fulminea avanzata vittoriosa dei tedeschi: «Persino Grandi – annotava nel suo diario Ciano 105

il 21 maggio 1940 – è venuto a vedermi e ha detto, con aria assai drammatica, ‘che dovevamo riconoscere di aver tutto sbagliato’ e prepararci ai tempi nuovi»133. Entrata l’Italia in guerra, il 9 agosto 1940 Grandi inviò al duce copia fotografica di un suo articolo scritto nel dicembre 1914, per dimostrare che l’intervento del 1940 aveva le stesse basi ideali e politiche dell’interventismo di venticinque anni prima. L’articolo fu pubblicato sulla rivista del duce «Gerarchia» e fu riprodotto sia da altri giornali italiani sia dalla stampa tedesca134. L’invio dell’articolo diede a Grandi l’occasione per rinnovare al duce la sua ammirazione incondizionata: «Sin da allora, sotto la Tua guida, Duce, pensavamo che la guerra vera, la guerra rivoluzionaria dell’Italia, doveva ancora venire e sarebbe stata la guerra futura, la guerra proletaria fra Italia, Germania e Russia da un lato, Francia e Inghilterra dall’altro, e contro queste ultime, che sin da allora dichiaravano essere le nostre vere nemiche, anche se ci preparavamo a combattere insieme ad esse»135. A gennaio del 1941, il duce ordinò ai ministri di partecipare alla guerra. Grandi fu mobilitato sul fronte greco-albanese. Nei primi mesi al fronte, ha raccontato nelle sue memorie pubblicate nel 1985, comprese che l’Italia avrebbe perso la guerra e che per salvarla era necessario liquidare Mussolini: «Sì, è vero, nelle trincee della Grecia avevo maturato, senza esitazioni di sorta, la convinzione che per compiere l’estremo tentativo di salvare il mio paese era necessario, inevitabile, il sacrificio di Mussolini. Ma come? Ma quando, con chi?»136. In altra occasione Grandi ha raccontato di aver scritto allora il testo dell’ordine del giorno, che intendeva presentare in Gran Consiglio, per invitare il re a riassumere il comando supremo delle forze armate e il pieno esercizio dei poteri che gli spettavano secondo l’articolo 5 dello Statuto137. 106

Eppure, mentre era sul fronte greco-albanese, Grandi scrisse al duce lettere piene di fervore, dalle quali nulla trapelava delle sue pessimistiche considerazioni sull’andamento della guerra e sulle sorti dell’Italia138. Descrivendo le sue impressioni nei primi dieci giorni di guerra, dopo aver «avuto la fortuna di essere presente e di assistere, dal principio alla fine», a due aspri combattimenti nei quali sono stati impegnati i reparti alpini dal 12 al 14 febbraio, Grandi commentava: Il nemico ha attaccato in forze, con un intero reggimento, che i prigionieri fatti durante l’azione ci hanno detto essere giunto in linea soltanto cinque giorni fa, proveniente direttamente da Atene. […] Il nemico è stato respinto con brillanti contrattacchi degli alpini che si sono battuti valorosamente lasciando un numero considerevole di cadaveri davanti ai nostri reticolati. Io stesso ho potuto vedere le colonne di greci avanzare su per il pendio e sulle piste di neve, decimati dalla nostra artiglieria, che ha fatto miracoli, fin sotto le mitragliatrici radenti dei nostri reparti. Bisogna riconoscere che questi greci si battono assai bene, e conoscono tutte le risorse della montagna, e con mordente: meglio ancora di quanto facessero gli Alpen Jager austriaci di 25 anni or sono. Combattono alla tedesca, coll’ufficiale dietro la compagnia ed il plotone serrato che spingono ed eccitano avanti a suono di corno. Queste nostre truppe alpine sono superiori ad ogni elogio. Il morale è altissimo, seppure le difficoltà siano di gran lunga superiori a quelle incontrate nell’altra guerra. La mortalità degli ufficiali è alta. Nelle prime ore del combattimento sono caduti il comandante del Batt[aglione] Valleogra e tutti i com[andan]ti di compagnia. Questo è molto bello ed eroico, ma si ripercuote nell’efficienza dei reparti. Il nemico maneggia i mortai con abilità e precisione, ma le nostre artiglierie sono magnifiche, ed il fuoco di sbarramento non potrebbe date le condizioni del terreno aspro e difficile essere più pronto ed efficace. Impressioni complessive su questo settore sono ottime. Ottimi i comandanti, ottime le truppe. Tutti – dico tutti – si domandano perché abbiamo abbandonato Korcia, ed anche io – dopo essere stato con queste truppe e in queste montagne, mi domando il perché. Abbiamo rinunciato ad un’ottima linea, imbaldanzito il nemico e ridotto lo spirito delle nostre truppe. Ma questo è passato. Adesso si tratta di rispondere, e risponderemo. L’usura delle truppe è forte: alpini che da tre mesi combattono ininterrottamente; i feriti per giungere alle più vicine sezioni di sanità debbono percorrere dalle 18 alle 24 ore di barella, il che significa praticamente che la maggior parte arrivano congelati o cancrenosi. Nell’altra guerra dalle linee avanzate dell’Adamello si impiegavano al massimo 12 ore. Ma ciò non

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diminuisce lo spirito di questa nostra gente che è veramente magnifica. Io Ti sono sinceramente riconoscente per avermi mandato al fronte. Qui c’è, senza dubbio, più fede – più fiducia – più fascismo. Tuo devotamente Grandi.

Addirittura con entusiasmo, Grandi commentava il discorso che Mussolini aveva tenuto a Roma, al teatro Adriano, il 23 febbraio. Parlando alle gerarchie fasciste della capitale, il duce aveva giustificato l’attacco alla Grecia perché era legata alla Gran Bretagna: perciò era «necessario affrontarla»; e su questa decisione, precisò il duce, «l’accordo di tutti i fattori militari responsabili fu assoluto», così come «il piano operativo, preparato dal Comando superiore delle Forze Armate di Albania, fu approvato, senza riserve di sorta». Il duce aveva poi detto che «i soldati italiani in Albania hanno superbamente combattuto», che in particolare «gli alpini hanno scritto pagine di sangue e di gloria che onorerebbero qualsiasi esercito», che «i successi ellenici non esorbitano dal campo tattico e solo la megalomane rettorica levantina li ha iperbolizzati; le perdite greche sono altissime, mentre fra poco verrà primavera e, come vuole la stagione, la nostra stagione, verrà il bello. Vi dico che verrà il bello e verrà in ognuno dei quattro punti cardinali!»139. Dopo aver ascoltato il discorso alla radio, Grandi scrisse al duce il 25 febbraio: Duce. Abbiamo ascoltato con fierezza e commozione il tuo discorso all’Adriano, e siccome quasi tutti i Comandi di Battaglione Alpino sono forniti di radio, così poco dopo la intera linea di questo settore ha potuto conoscerlo, ripetuto da coloro che lo avevano ascoltato. Ho subito telefonato a Tirana, per mezzo del Comando di Divisione, per aver il testo integrale dal giornale «Tomori», e ho telefonato al Com. di Corpo d’Armata perché provvedessero a tirare mediante ciclostilo il maggior numero di copie, ciò è stato fatto subito con entusiasmo. Oggi alle 12 tutti i comandi di compagnia nei posti avanzati avevano il Tuo discorso distribuito insieme con l’ordine del giorno diramato ieri alle truppe dal nostro comandante gen. Nasci, cosicché tutti gli ufficiali hanno potuto leggerlo integralmente e commentare il discorso ai soldati, sulla linea di combattimento. Tu non puoi immaginare come il Tuo elogio abbia reso fieri questi rudi e

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meravigliosi soldati, e come ne abbia centuplicato la loro forza materiale e fisica. Attendiamo ansiosi il momento di avanzare. […] Ai tuoi ordini, Duce.

I nostri grandi Capi Negli anni di guerra, ci furono varie occasioni nelle quali Grandi non fece mancare pubbliche espressioni di fedeltà non solo al duce, ma al regime e all’Asse. Il 22 novembre 1940, nell’aula magna dell’università di Monaco, al convegno dei giuristi germanici, Grandi disse che considerava «come un alto onore conferitomi dal Fuehrer la nomina a membro della vostra Accademia», e che a Monaco non si sentiva un ospite «bensì un camerata di vecchia data che ritorna tra voi», perché fra i ricordi a lui più graditi della sua «attività politica e rivoluzionaria» vi era «quello di avere sempre, in tutte le conferenze internazionali cui ho preso parte come Ministro degli Esteri inviato dal Duce, difeso a viso aperto a fianco dei rappresentanti del Reich i diritti della Germania conculcati e misconosciuti dalle potenze egemoniche di Versaglia». Grandi ricordò che il suo primo incontro col nazionalsocialismo era avvenuto a Monaco nel 1931, dove era di passaggio mentre si recava a Berlino come inviato del duce: «A Monaco, come a Berlino, le squadre delle Camicie brune che lottavano strenuamente per la conquista del potere e per la vittoria della Rivoluzione, mi accolsero sin d’allora come un camerata e un combattente in nome di una stessa fede e di una battaglia comune». Gli ideali che i nostri grandi condottieri, il Duce e il Fuehrer, hanno creato e suscitato nelle nuove generazioni, non potevano non accomunare nella lotta le nostre due rivoluzioni. La vittoria irrompente e definitiva sui vecchi regimi democratici che governavano i nostri due paesi non poteva non svilupparsi in un più vasto e necessario fronte comune di guerra per liberare il mondo dall’oligarchia degli stati democratici che intendevano soffocare il naturale e fatale espandersi delle forze giovani e fresche delle nostre due nazioni.

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Grandi proseguì con l’esaltazione della comune «epica e gigantesca lotta rivoluzionaria che dura da venti anni e che sta per essere coronata dalla definitiva vittoria», lotta alla quale le due nazioni avevano portato ciascuna il contributo originale delle «rispettive civiltà, tradizioni, costumi e modi di vita», per marciare unite verso una meta comune: «Razza, Nazione, Impero: questa è l’origine, questo è il cammino, questa è la meta dell’idea rivoluzionaria così nel Nazionalsocialismo come nel Fascismo», che si muovevano nel solco della romanità e del germanesimo, «le grandi idee imperiali alle quali l’Europa deve i caratteri unitari della sua civiltà, i due pilastri granitici sui quali l’Europa ha costruito il suo glorioso passato». Anche se il diritto nazionalsocialista scaturiva dal germanesimo e dalla razza tedesca, mentre il diritto fascista propugnava il diritto romano, che era «il Diritto della nostra razza italiana […] le nostre due collettività nazionali e le nostre due rivoluzioni confluiscono per direttive fondamentali dei nostri grandi Capi, il Duce e il Fuehrer, verso un’unica mèta»: Nulla che a ciò somigli è mai esistito nella storia del mondo: la rivoluzione del Fascio littorio e della Croce uncinata più che due rivoluzioni parallele costituiscono la manifestazione autonoma nelle nostre due nazioni di una stessa rivoluzione, che è la rivoluzione europea del XX Secolo. È questa la ragione della prodigiosa potenza con cui Germania e Italia hanno potuto trasformare profondamente e su piani fra loro non dissimili le proprie costituzioni sociali e politiche. […] Comuni sono le linee direttrici nell’azione del fascismo e del nazional-socialismo: fedelissimo rispetto della nostra essenza etnica; feconda purità razziale organizzata e difesa nella famiglia; la terra quale fattore massimo della produzione nazionale e coefficiente più sicuro della sanità morale e fisica della stirpe; il lavoro come dovere, come diritto e come massimo crea​tore di forze organizzate nella nazione; lo Stato come sintesi suprema e perenne della comunità nazionale; l’Impero come volontà di potenza140.

Nel marzo 1941, la rivista tedesca «Berlin-Rom-Tokio», che si pubblicava sotto gli auspici del ministro Ribbentrop, pubblicava una più ampia versione del discorso di Grandi in un articolo intitolato Legislazione come espressione di un’idea rivoluzionaria, che fu riprodotto da vari giornali italiani. 110

Grandi accentuava nell’articolo l’esaltazione della comunanza di ideali, di regimi e di mete del fascismo e del nazionalsocialismo, pur insistendo sull’autonomia della loro specifica individualità razziale, nazionale e storica: Due popoli combattono insieme sui campi di battaglia e la volontà dei due eserciti è la volontà stessa di un unico blocco compatto di 130 milioni di uomini, tesi all’unisono verso un unico imperativo categorico – Vincere – che con serena certezza sappiamo sarà realizzato. E al tempo stesso due popoli, due civiltà, due razze, legittimamente orgogliosi di una gloriosa individualità storica e di una sacra autarchia spirituale, sono consapevolmente affiancati per forgiare insieme un ordine nuovo; e pur mentre duramente giorno per giorno prosegue la lotta contro il nemico comune, sono in pari tempo intenti alle opere di pace, dirette a creare una più alta giustizia sociale.

Dopo aver esaltato la nuova codificazione civile italiana, intrapresa sotto l’egida del duce, Grandi affermava che con il varo del nuovo codice civile «non si chiude certo il processo storico segnato dalla rivoluzione», ma, al contrario, «la rivoluzione ne esce rafforzata perché è soltanto nel quadro di un ordinamento giuridico costruito su un’idea politica che una rivoluzione diventa stato e regime. Così la rivoluzione è veramente divenuta stato e regime, perché ha creato un ordine nuovo, concreto e duttile, di principi e di norme, per le generazioni presenti e per quelle che saranno le direttive di marcia che la ideologia rivoluzionaria segnava»141. Viva la guerra totalitaria Un anno dopo, nel marzo 1942, fu la rivista del duce «Gerarchia» a pubblicare un altro articolo di Grandi, dedicato alla formazione del «diritto di guerra» imposto dalla nuova guerra in corso, che era «tipicamente totalitaria» nel senso che nessuna sfera, «nessun aspetto della vita collettiva e di quella individuale si sottraggono all’influenza diretta o indiretta dell’immane conflitto, che investe con la violenza dell’uragano la struttura politica ed economica 111

delle Nazioni e mette alla prova la loro saldezza e la robustezza delle istituzioni che le reggono»; ma, precisava Grandi, «per noi, anche guerra rivoluzionaria: per gli scopi, per i metodi, per le mete che l’Italia si prefigge, partecipando all’immane conflitto, in difesa della sua esistenza, della sua civiltà, del suo Regime, del suo avvenire». In tal senso, la guerra totalitaria e rivoluzionaria insieme imponeva «profonde e vaste modificazioni» nell’ordinamento giuridico, «talune di carattere eccezionale e temporaneo, altre invece premessa e preludio di durature riforme». Si era così prodotta una «multiforme attività legislativa di guerra, che investe tutta la vita sociale e la stessa organizzazione dello Stato», che, se non fosse «convenientemente per quanto rapidamente elaborata e nello stesso tempo coordinata e sistemata nel quadro dell’ordinamento giuridico vigente, potrebbe dar luogo ad una legislazione tumultuaria, sconnessa, caotica, con grave danno per la sua stessa efficacia e potrebbe provocare un altro pericolo non meno grave, quello della inflazione legislativa». Al coordinamento e alla «cauta e ponderata elaborazione legislativa dei provvedimenti eccezionali di guerra», proseguiva Grandi, provvedeva una commissione consultiva, che funzionava alle dipendenze dirette del duce e come organo del comando supremo, presieduta dal ministro Guardasigilli, composta da rappresentanti delle pubbliche amministrazioni, degli altri enti interessati, «e prima di ogni altro dal P.N.F. in modo che non sfugga nessun elemento e nessun aspetto dei problemi che vengono presi in esame». Non si trattava, precisava Grandi, di «uno dei soliti organi burocratici pesanti e ingombranti», perché aveva una «fisionomia originale e per il dinamismo del suo funzionamento, per lo spirito che anima il suo lavoro, ha un impronta squisitamente fascista», a 112

dimostrazione di come «il Fascismo, mentre perdura il fragore delle armi, si preoccupi tuttavia di assicurare nella formazione del diritto bellico la semplicità, la chiarezza, l’efficacia delle norme giuridiche, la loro coordinazione, la loro coerenza con la nostra tradizione, la loro aderenza alle supreme finalità della nostra Rivoluzione»142. Nella scia di queste pubbliche affermazioni di piena aderenza alle istituzioni, alle organizzazioni e ai principi ispiratori e alla loro concreta attuazione nella politica del duce e del regime, compresi il razzismo, l’antisemitismo e la guerra, Grandi poneva anche la sua opera di codificazione compiuta come ministro di Grazia e Giustizia per l’elaborazione del nuovo codice civile. Nella relazione al re, presentata nell’udienza del 21 aprile 1942, Grandi tratteggiava nell’esordio le «difficoltà veramente imponenti» che l’opera aveva incontrato nel corso della sua realizzazione, perché la «guerra gigantesca, che è destinata ad aprire al mondo nuovi orizzonti di civiltà e di giustizia non solo si è inserita nel rinvigorito ritmo di ricostruzione legislativa facendo sorgere nuovi problemi, ma ha anche determinato nuove e complesse situazioni cui occorreva provvedere per sorreggere e disciplinare lo sforzo della Nazione in guerra»143. Il codice della razza italiana Il nuovo codice civile, proseguiva Grandi, era «il codice del popolo italiano, quale lo hanno forgiato e organizzato le forze della Rivoluzione fascista», destinato a regolare tutti i rapporti della vita produttiva secondo i principi corporativi enunciati nella Carta del lavoro e attuati nel nuovo ordinamento giuridico, cioè la «prevalenza dell’autorità dello Stato, della subordinazione dell’interesse dei singoli a quelli della Nazione e della giustizia sociale», per cui 113

l’individuo «non è più principio e fine di questo ordinamento; non è il titolare di una sovranità privata in contrapposto alla sovranità dello Stato, e nemmeno è atomo staccato dal complesso nazionale, ma è il produttore che vive in una società fortemente organizzata e diretta dallo Stato, che vive non già per sé solo, ma in armonia con gli altri membri della società nazionale», diventando così «strumento di ricchezza e di potenza per la Nazione»144. Il nuovo codice disciplinava i rapporti nell’ambito della famiglia, «nucleo dello Stato fascista» e «base dell’ordinamento economico della Nazione: per modo che lo Stato, per ricevere esso stesso forza e compattezza, deve mantenerne l’unità biologica, organica ed economica, agevolarne l’incremento, vigilare le manifestazioni del potere familiare». Di conseguenza, era assegnato speciale rilievo alla funzione educatrice: «onde evitare pericolose contaminazioni di idee religiose e sociali», il nuovo codice proibiva non solo il matrimonio tra persone di razza diversa, ma anche «l’adozione e l’affiliazione tra persone di razza diversa e l’assunzione della tutela di ariani da parte di non ariani»145. Così, se da una parte il nuovo codice, animato da un «profondo spirito etico», disciplinava, tutelandola, l’assistenza all’infanzia, con la facilitazione dell’adozione di minorenni e con l’istituto dell’affiliazione, a protezione dei figli illegittimi, per «contribuire all’elevazione morale ed economica di una categoria di persone che, se non possono essere preferite ai figli legittimi o poste alla pari di essi, non devono essere respinti in una condizione abietta»; d’altra parte ribadiva però che l’educazione familiare doveva «conformarsi alla morale e al sentimento nazionale fascista», perché solo così la famiglia poteva «raggiungere il piano superiore dell’organismo nazionale, permeato in modo totalitario dagli atteggiamenti e dalle finalità della 114

Rivoluzione fascista». Pertanto, la conseguenza della mancata osservanza di questo dovere da parte di chi esercitava la patria potestà «non può non essere se non la perdita della potestà familiare»146. Passando ad illustrare la riforma dell’ordinamento giudiziario, «condotto a termine sotto la costante direttiva del DUCE», Grandi si limitava ad accennare al re «qualche punto saliente, sul quale più profondamente ha inciso, nello spirito del nuovo orientamento assunto dal pensiero giuridico dello Stato fascista, l’opera innovatrice del Regime»147. Un punto saliente citato da Grandi era la riforma delle «guarentigie» che assicuravano l’indipendenza della magistratura «contro le esorbitanze del potere esecutivo», perché «nel clima costituzionale dell’Italia di oggi una siffatta anacronistica concezione doveva essere fondamentalmente riveduta», dal momento che, con l’affermazione del principio, «scientificamente correttissimo, dell’unità fondamentale e sostanziale dello Stato nei diversi attributi della sua sovranità, cessava la ragione giustificativa del riconoscimento di guarentigie alla Magistratura in funzione di difesa contro le esorbitanze del potere esecutivo, pure rimanendo fermo ed intangibile, nel quadro delle nostre leggi costituzionali, il principio della inamovibilità dei Giudici»148. E sempre nel supremo interesse della nazione, Grandi dichiarava che il nuovo codice inaspriva le sanzioni per i delitti «contro l’integrità e la sanità della stirpe»: Sui delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe volli che fossero disposte speciali investigazioni da parte degli uffici addetti di questo ministero. Trattasi di materia strettamente connessa agli interessi demografici nazionali, che è suprema esigenza garantire contro ogni attacco od insidia. Le attuali contingenze di guerra, con le sue dure necessità e con i prevedibili compiti di espansione che la vittoria potrà assegnare al nostro Paese, rendono ormai evidente a chiunque la profonda verità contenuta nell’assioma politico fascista «il numero è potenza»149.

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Chi lesse allora gli scritti pubblicati da Grandi fra l’inizio del 1941 e l’inizio del 1942, mai avrebbe sospettato in lui un gerarca avverso allo Stato totalitario, alla continuazione della rivoluzione fascista, al razzismo, all’antisemitismo, all’alleanza con la Germania nazista, alla guerra in corso. 120 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il

Mulino, Bologna 1983, p. 194. 121 Cit. in D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1985, p. 70. 122 Questa e altre lettere simili di Grandi a Mussolini furono da quest’ultimo riportate nel suo libro Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, pubblicato nell’agosto 1944, ora in B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, pp. 399 sgg. 123 Nella citazione che Mussolini (Opera omnia, XXXIV, p. 401) fa di questa lettera, apportandovi qualche variante, la data è 14 dicembre 1927, e così risulterebbe dalla copia fotografica riprodotta in appendice alla Storia di un anno, ma il riferimento di Grandi ai suoi ventotto anni (era nato nel 1895) rende certa la data al 1923, come è confermato dallo stesso Grandi, che cita la conclusione della lettera nel suo libro di memorie, omettendo però l’espressione «è cieca, assoluta, indistruttibile» (Il mio paese, cit., p. 193). 124 ACS, SPD, CR, b. 14, fasc. 205/R «Dino Grandi», sottofasc. 5 «Varia» (per questa e le successive citazioni). 125 ACS, SPD, CR, b. 14, fasc. 205/R «Dino Grandi», sottofasc. 5 «Varia». 126 Cfr. P. Nello, Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio, il Mulino, Bologna 1993. 127 Lettere d’amore di Grandi a Mussolini, in «Il Borghese», 21 aprile 1966; «Anche per l’America ci vorrebbe un Mussolini!», in «Il Borghese», 28 aprile 1966. Dall’ambasciata di Londra, il 1° marzo 1937 Grandi scriveva a Mussolini per ringraziarlo delle parole di elogio che gli aveva rivolto per l’azione svolta a Londra, e per ricordargli che in segno di apprezzamento aveva preannunciato la concessione di un titolo nobiliare. Ma, non avendo saputo più nulla, Grandi gli scriveva: «Tu sei troppo grande e troppo umano per non comprendere il mio dispiacere per ciò»: «Se tu vorrai dare disposizione perché la cosa abbia corso, Ti sarò proprio riconoscente. Ormai gli eventi, a cui Tu stesso m’annunziasti volevi riferirTi nel darmi questo segno del Tuo apprezzamento di Capo, sono passati e

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lontani. Il passo del tempo è veloce. E il Tuo passo di Condottiero è ancora più veloce di quello stesso del tempo. Non è il caso ormai di riferirsi ad avvenimenti passati. Io Ti sarò comunque riconoscente se la cosa rivestirà carattere di ordinaria amministrazione come è stato fatto ed è fatto continuamente per persone fuori e dentro il servizio diplomatico dei quali nessuno sa o ricorda neppure il nome. Neppure m’importa che della cosa sia data pubblica notizia. Come già ti dissi nel luglio u.s. questa concessione non riveste per me che un interesse: mio figlio, il quale cresce e viene su promettendo bene. Tu che sei Padre affettuoso e fortunato nei Tuoi figli, sai che cosa voglio dire. Per questo io Ti sarò doppiamente riconoscente. Il Tuo devoto e fedele Grandi». 128 Cit. in Mussolini, Opera omnia, XXXIV, pp. 456-461. 129 Ivi, p. 403. 130 Ivi, p. 463. 131 Grandi, Il mio paese, cit., pp. 570-572. 132 Ivi, p. 573. 133 G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1980, p. 433. 134 D. Grandi, Interventismo 1915 e interventismo 1940, in «Gerarchia», dicembre 1940. 135 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 404. 136 Grandi, Il mio paese, cit., pp. 610 sgg. 137 Cfr. G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943: crollo di un regime, Mursia, Milano 1982, p. 419. 138 ACS, SPD, CR, b. 14, fasc. 205/R «Dino Grandi», sottofasc. 5 «Varia» (per questa e le successive citazioni). 139 Mussolini, Opera omnia, XXX, p. 54. 140 D. Grandi, Diritto romano-fascista e germanico-nazista di fronte alla rivoluzione del secolo XX, Tipografia della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Roma MCMXL-XIX, pp. 5-14. 141 Uno scritto di Dino Grandi: Legislazione come espressione di un’idea rivoluzionaria, in «Relazioni internazionali», 29 marzo 1941, pp. 413-414. 142 D. Grandi, Il diritto di guerra e la sua formazione, in «Gerarchia», marzo 1942, pp. 113-115. 143 Ministero di Grazia e Giustizia, L’attività del Ministero di Grazia e Giustizia nell’anno 1941-XX. Relazione del Ministro Guardasigilli (Grandi) alla Maestà del RE IMPERATORE, Tipografia delle Mantellate, Roma

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1942, p. 4. 144 Ivi, pp. 14-15. 145 Ivi, pp. 18-20. 146 Ivi, p. 20. 147 Ivi, p. 55. 148 Ivi, p. 75. 149 Ivi, p. 183.

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Capitolo quinto. I tirannicidi del 25 luglio

«Il 25 luglio è il momento acuto del dramma di una generazione intera e questo dramma, se pur ha trovato l’ambiente nelle tragiche vicende vissute dall’Italia nel 1943, ha le sue radici lontane, così come ha radici lontane l’azione degli uomini che le circostanze portarono ad operare in quel momento drammatico». Così affermava Grandi nel 1983, nel proemio al libro sul 25 luglio, scritto a Lisbona alcuni mesi dopo la fine del regime. Egli rievocava i suoi «trent’anni di vita nel fascismo», sostenendo di averli vissuti «d’accordo con Mussolini ed assai frequentemente contro di lui»150. All’origine dell’ultima seduta del Gran Consiglio, sosteneva Grandi, vi fu la sua avversione per il regime e il duce, che risaliva al 1932. Infatti, dopo la fine del fascismo, Grandi ha sempre dato di sé l’immagine di un uomo politico unicamente mosso dall’ambizione di servire il proprio paese, operando agli ordini di un duce sempre più dispotico in un regime sempre più totalitario verso il quale aveva nutrito un’intima avversione. Negli anni successivi, con l’intensificarsi dell’esperimento totalitario eseguito da Achille Starace sotto il comando del duce, la sua avversione per il regime – racconta Grandi – aumentò, anche se, per continuare a servire il proprio paese, sia nella diplomazia sia al governo, dovette simulare devozione e obbedienza a Mussolini, colmandolo personalmente di private e 119

pubbliche adulazioni, e tributare pubblici encomi al regime totalitario. L’avversione si esasperò dopo l’entrata in guerra dell’Italia, alla quale Grandi si era opposto invano. E alla fine venne allo scoperto con l’attuazione di un «piano temerario», come Grandi stesso lo chiamò, per estromettere il duce dal potere e abbattere il regime, restaurando una monarchia costituzionale. Il piano, pertanto, raccontava Grandi, non fu «l’effetto di una decisione precipitosa, irriflessiva, disordinata», ma l’attuazione di una «visione chiara», che aveva «chiare le difficoltà e le conseguenze»151. Grandi, in sostanza, si è sempre attribuito l’intera iniziativa degli eventi che portarono alla fine del regime fascista, associandovi tutti i firmatari del suo ordine del giorno, primo fra tutti Luigi Federzoni, «l’amico buono e fedele di tutte le ore, il solo che vidi e con cui parlai spesso e a lungo in quei giorni»152. Tuttavia, la ricostruzione retrospettiva che Grandi ha fatto dell’origine del 25 luglio e del suo comportamento nella preparazione di quella vicenda è totalmente in contrasto con la realtà effettuale, così come era stato totalmente in contrasto con la sua postuma descrizione il suo comportamento nei confronti del duce e del regime totalitario nei due precedenti decenni. Grandi l’assente Grandi rientrò a Roma dalla Grecia nel maggio del 1941, dopo aver rifiutato di assumere, come Mussolini gli aveva proposto, la carica di governatore della Grecia, che era stata nel frattempo sconfitta e occupata soprattutto per l’intervento tedesco. Secondo Bottai, che era con lui a Tirana il 9 aprile, Grandi, mentre era «in attesa di avere i territori da governare», si dimostrò «seccato d’un compito che teme lo tenga lontano anche a guerra finita»153: «Grandi 120

declina, per ragioni di salute, l’incarico in Grecia», scriveva Bottai il 25 aprile154. Malignamente Ciano annotava nel suo diario il 21 maggio che Grandi era «tornato all’ovile con affermazioni solenni di devozione e francescane di umiltà. C’era da aspettarselo»155. In quel periodo, alle pubbliche espressioni di devozione al duce e di piena aderenza alla politica totalitaria, il gerarca bolognese contrapponeva un atteggiamento personale e privato sempre più polemico nei confronti di Mussolini e del regime. «Grandi – annotava Ciano il 22 gennaio 1942 – oggi si è lasciato andare e ha detto: ‘Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante venti anni’. A Bologna – mi ha riferito Arpinati – Grandi fa il frondista liberale e monarchico. Ha raccontato che il Re lo trattiene spesso a colazione. Ho domandato ad Acquarone se era vero e lo ha smentito nel modo più categorico»156. Tuttavia, il comportamento di Grandi non fu orientato all’azione per realizzare un piano mirante a estromettere il duce dal potere. Al contrario, egli si appartò dall’ambiente politico della capitale, preferendo soggiornare spesso a Bologna. Un promemoria del 2 febbraio 1942 informava il duce che Grandi «fa vita riservata nell’appartamento di Palazzo Montecitorio. Si reca due o tre volte nella settimana al Ministero, trattenendovisi solo per qualche ora. Alle volte non vi si reca anche per alcuni giorni». E ancora due giorni dopo, veniva segnalato al duce che Grandi restava «assente dal Ministero per intere settimane. […] Anche in questa settimana si è recato per più giorni a Bologna. Si aggiunge, che pur essendo presidente della Commissione consultiva per il diritto di guerra, non l’ha mai presieduta, dando, anche in questo settore, palese prova del suo assenteismo»157. Dieci mesi dopo, il 14 dicembre, una nota informativa sul presidente della Camera denunciava il comportamento 121

ambiguo di Grandi, circondato da voci che lo designavano come successore del duce dopo il crollo del regime. Dalla nota, infatti, il duce veniva informato che «in questo periodo di alta e fervida tensione di tutte le energie come di tutte le istituzioni del Regime, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni non viene valorizzata ed utilizzata secondo le necessità»: La causa di questa inconcepibile inerzia deve imputarsi al Presidente Ministro Grandi. Egli infatti, come volle occupare il predetto posto, nonostante fosse già Ministro ed Ambasciatore, unicamente per accrescere il proprio prestigio personale e per fruire del comodo appartamento del palazzo, si è dimostrato assolutamente incapace a dirigere ed animare l’importante organismo creato, con geniale originalità, dal Regime; praticamente è un assente che si limita solamente ad usufruire dei vantaggi personali del suo ufficio. Se la Camera, in certo modo, funziona si deve unicamente alla attività dei Presidenti di alcune Commissioni tra le quali quella del Bilancio. Inoltre è ben noto come il Ministro Grandi abbia tenuto e tenga un contegno molto equivoco. Anche prescindendo dalle voci, che corrono in Italia e all’estero, secondo le quali egli sarebbe il designato Capo in un eventuale periodo di transizione dopo il crollo del Regime, è da rilevare che in questi ultimi tempi egli si è ben guardato dal riaffermare chiaramente ed esplicitamente la sua precisa solidarietà col DUCE nei riguardi della guerra: ha rifiutato di prendere parte quale oratore alle ultime adunate del XXIII Marzo e del XXVIII Ottobre; e nell’ultima seduta delle Commissioni riunite per il discorso del DUCE si è ben guardato dal pronunciare, come era suo dovere e come certo avrebbe fatto Costanzo Ciano [presidente della Camera prima di Grandi], un discorso sia pure breve di adesione e di plauso per il nostro Capo, lasciando detto incarico alla prosa fratesca di un Vice Presidente. Questa circostanza è stata rilevata da tutti i fascisti intervenuti alla seduta e specialmente dai Segretari Federali. Inoltre è ben noto come il suo ufficio alla Camera sia largamente frequentato da esponenti fascisti malcontenti nonché da parecchie personalità estranee e contrarie al Regime, allo scopo di esaminare «la situazione». Anzi vi sono suoi incaricati che incoraggiano e spingono esponenti della politica, dell’industria e anche del mondo diplomatico a prendere «contatti con Grandi».

Otto giorni dopo, un altro promemoria informava il duce che in «molti ambienti si ha l’impressione che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni non venga valorizzata secondo le necessità del momento, e ciò per l’inerzia del Presidente, Ministro Grandi». La nota informativa proseguiva con commenti sull’atteggiamento di 122

Grandi, attribuendogli addirittura una amicizia personale con il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop, che in realtà odiava, ricambiato, Grandi: Sentendosi una personalità di primo piano, mantiene un atteggiamento abilissimo: svolge un’attività di ordinaria amministrazione, senza manifestare alcuna idea né iniziativa. Il di lui riservatissimo comportamento, l’astensione più assoluta da ogni esteriorizzazione, dà la sensazione che egli voglia tesaurizzare per miglior tempo, raggiungendo lo scopo di mantenere incolume la posizione per raggiungere altra posizione. Peraltro il suo atteggiamento, pure abilissimo, non è [scevro] di ripercussioni nell’ambiente dei magistrati di grado elevato, che, in genere, non reputano molto adatti per la carriera gl’incarichi più vicini al Regime. È amico personale di Von Ribbentrop. Sia nei riguardi del Fascismo che del Capo, è da considerarsi in posizione di riservata attesa.

L’atteggiamento polemico di Grandi, privatamente espresso, era dovuto principalmente alla convinzione che, persa ormai la guerra dopo le ultime sconfitte subite delle armate italiane e tedesche in Africa settentrionale e in Russia negli ultimi mesi del 1942, all’Italia non rimaneva altra strada per impedire una totale catastrofe che sganciarsi dall’alleanza con la Germania e cercare di avviare trattative con i governi nemici sperando di poter evitare all’Italia il capestro della resa incondizionata, decretata da Churchill e Roosevelt a Casablanca. «Non ero rassegnato alla totale sconfitta del mio paese», ha scritto Grandi nelle sue memorie: «Due anni erano trascorsi dal mio ritorno dal fronte della guerra in Grecia. Da quel momento il mio spirito era martellato, giorno e notte, da un pensiero che non mi abbandonò mai: salvare il paese, con ogni mezzo, dall’estrema rovina». Per salvare l’Italia, Grandi riteneva «necessario, urgente, il sacrificio di Mussolini», come volevano tutti gli italiani, che «congiuravano ma nessuno si muoveva», perché le «tenaglie della dittatura di partito avevano ancora una stretta ben salda. Congiuravano i militari dello Stato Maggiore Generale, i maggiori 123

responsabili, dopo Mussolini, della nostra disfatta; congiuravano, ma aspettavano il Re. Congiurava anche, con patetico, temerario coraggio e con regale candore, Maria José principessa di Piemonte». Ma solo il re avrebbe potuto compiere «un atto di coraggio» risolutivo, per «sciogliere il nodo fatale» che legava l’Italia al destino disastroso di una guerra persa, ed evitare «il lento, ma inesorabile cammino della rivoluzione popolare, cioè il caos»158. Tuttavia, fino alla primavera del 1943, neppure Grandi si mosse. Anzi, prolungò i soggiorni a Castenaso, nella campagna bolognese, limitando «a pochi giorni alla settimana la sua presenza nella capitale», come ha testimoniato il suo amico Mario Zamboni, consigliere nazionale nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni159. In realtà, come tutti gli altri gerarchi propensi a cercare uno sganciamento dell’Italia dalla Germania, il presidente della Camera era disorientato perché non sapeva come agire. «Vedo Grandi: e si parla, soprattutto, di situazione interna», scriveva Bottai nel diario il 5 novembre 1942: «Riconosciamo insieme la necessità e l’impossibilità di ‘agire’. Faccio un’analisi del ‘passo collettivo’ presso il Duce, che da più parti sentiamo consigliare: e lo giudico impossibile proprio per la mancanza d’una formazione ‘collettiva’ in nome di cui compiere il passo. Mancano i presupposti. ‘È Mussolini, che ha voluto questo – commenta Dino – isolandoci l’uno dall’altro’»160. Appello al re Nelle sue memorie, Grandi ha scritto di avere più volte sollecitato il re a intervenire. Come ministro della Giustizia, fino alle sue dimissioni decise da Mussolini il 6 febbraio 1943, Grandi incontrò Vittorio Emanuele due 124

volte a settimana per la firma di leggi e decreti, avendo così occasione, come lui ha raccontato, di parlare col re «spesso e a lungo, senza ritegno e senza calcolate prudenze», scoprendogli «fino in fondo l’animo mio, i miei timori, i miei giudizi, le mie previsioni, la mia ferma convinzione che non tutto era perduto se la Monarchia avesse avuto il coraggio nell’ora estrema». Il re, tuttavia, pur invitandolo a parlare senza prudenza né ritegni, lo ascoltava in silenzio, dando sempre la stessa risposta, «una, sola, impenetrabile: ‘Si fidi del suo Re’»161. Tale risposta deludeva il ministro e sminuiva la sua stima per il re. Infatti manifestò la sua delusione a Ciano: «Grandi, accompagnandomi al Ministero», annotava Ciano nel suo diario il 7 febbraio 1942, «mi ha fatto il solito sfogo contro la politica sociale del Regime e se l’è presa anche col Re che sarebbe rimbecillito. Gli ho dato sulla voce, oltre tutto anche perché ciò non è vero»162. Ma risulta che neppure il re avesse Grandi in grande stima né che lo intrattenesse in lunghi colloqui, stando almeno al diario del suo aiutante di campo, il generale Puntoni, che solo una volta accenna a un colloquio fra il re e Grandi, il 19 novembre 1942, per precisare che il ministro rimase col re «solo pochi minuti», mentre Ciano, ricevuto lo stesso giorno, rimase a colloquio per più di un’ora163. In occasione di un altro colloquio, avvenuto il 12 febbraio 1943, Vittorio Emanuele espresse un severo giudizio su Grandi, che era stato da poco dimesso da ministro, conservando la presidenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Prima di essere ricevuto dal re, Grandi aveva conversato con il generale Puntoni, lamentando l’inerzia della Camera esautorata dalle sue funzioni. La conversazione si era poi spostata sulla politica interna e sulla situazione militare. Grandi riteneva ormai necessario per l’Italia «cercare di 125

slegare a poco a poco il suo carro da quello della Germania per rendere il crollo meno penoso». Quanto alla politica interna, non c’era da farsi più illusioni: «Da un momento all’altro, col disastro militare, potrebbe delinearsi un movimento politico a fondo sociale, che i comunisti sfrutterebbero subito. Soltanto il Re al momento opportuno potrà rimettere a posto le cose. Sarà però un’operazione difficilissima e pericolosa. Io, per parte mia, sono con il Re». Le considerazioni esposte da Grandi furono riferite dal generale al re, il quale così commentò: «Quell’uomo non mi soddisfa troppo. Non è un elemento sicuro, non ha schiena e con Mussolini recita una doppia parte. Grandi ha posto direttamente la sua candidatura per il Collare dell’Annunciata, me lo ha detto il Duce. Naturalmente sono impressioni personali e potrei sbagliarmi»164. Un mese dopo, il 25 marzo, alla cerimonia di consegna delle insegne di cavaliere dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata, secondo il racconto fatto da Grandi nel suo diario del periodo marzo-luglio 1943 (ma riscritto o rielaborato successivamente), il re, con «voce grave», gli avrebbe detto di avere «sempre ascoltato con simpatia e interesse» quel che Grandi gli aveva esposto durante i loro precedenti incontri bisettimanali, per dirgli alla fine: «Si fidi del suo Re. Io conto molto su di lei. Cerchi intanto di ‘lavorare’ il più possibile l’assemblea legislativa che ella presiede. Ella sa che io ho bisogno del Parlamento. Poi trovi un pretesto formale ed ufficiale per venire a trovarmi. Ma intanto si fidi del suo Re»165. Non risulta tuttavia che Grandi, con le sue frequenti assenze da Roma, si sia impegnato per assecondare l’esortazione del re a «lavorare» la Camera, anche se il giorno dopo il colloquio col re, ricevuto dal duce, aveva detto – annotava ancora Grandi nel suo diario – che la 126

Camera «è inquieta e rispecchia l’inquietudine del Paese […] Cresce, ciò è palese, l’ostilità popolare verso l’alleato tedesco. Si sta creando un solco tra regime e paese. La maggioranza dei consiglieri nazionali domanda di essere informata, di sapere»: al che, il duce avrebbe replicato con «uno sguardo cupo e duro: ‘Farai sapere ai tuoi consiglieri nazionali ed altresì ai membri del Gran Consiglio che Parlamento e Gran Consiglio saranno convocati alla fine della guerra per celebrare la vittoria’»166. Secondo quanto racconta nel suo diario, Grandi incontrò il 27 marzo il principe di Piemonte, al quale disse che la guerra «deve considerarsi ormai virtualmente perduta»; che gli italiani «si sentono traditi»; che il regime «appare ancora forte, ma si tratta di una forza apparente»; che gli italiani «guardano disperati ed ansiosi al loro Re», e la nazione «domanda al Sovrano di assumere l’effettivo comando non soltanto delle forze armate, secondo la lettera dello Statuto, ma altresì la guida del popolo con decisioni coraggiose, oserei dire temerarie, ma le sole ormai che possano offrire una qualche possibile speranza di salvezza». Il principe di Piemonte, secondo il racconto di Grandi, concordava con quello che gli aveva detto, ma si domandava «come, come posso ‘agguantare’?»167. Il colloquio di Grandi col principe di Piemonte irritò il re, che incaricò il ministro della Real Casa, il duca d’Acquarone, di dire a Grandi di «non montare la testa» del principe168. Un «piano temerario» Sempre stando al suo diario, Grandi maturò nel maggio 1943 il suo «piano» per salvare l’Italia dalla completa disfatta. Nello stesso periodo, tuttavia, mostrava (o simulava) sempre un atteggiamento devoto verso il duce, dal quale sollecitò un intervento presso il re per fargli 127

conferire il Collare dell’Annunziata, cosa che avvenne il 25 marzo: Grandi – riferiva Mussolini nei Pensieri pontini e sardi scritti durante la sua prigionia dopo il 25 luglio – lo «ringraziò con un flusso di parole e mi disse letteralmente: ‘Prima di incontrarti non ero che un cronista del Carlino, un modesto giornalista. Sono una tua creazione. Ti devo tutto. Quel che ho raggiunto nella vita è opera tua. La mia devozione verso di te è illimitata, perché, permettimi di dirtelo, ti voglio anche bene’». Mussolini aggiungeva di avere allora creduto ancora alla sincerità di Grandi, che gli parve confermata dal commento che il gerarca bolognese fece al duce dopo aver partecipato con lui a una manifestazione fascista il 5 maggio, e ascoltato il discorso di Scorza all’Adriano: Grandi, raccontava Mussolini, era «apparentemente addirittura raggiante: ‘Duce! Che nobile discorso! Ci siamo tutti ritrovati. Siamo tornati alla vecchia atmosfera. Abbiamo ritrovato la giusta strada ecc. ecc.’»169. Nonostante queste dichiarazioni verbali, sempre che siano state da lui effettivamente pronunciate, Grandi continuò a meditare sul modo di estromettere il duce e far uscire l’Italia dalla guerra. Poiché nei loro discorsi Churchill e Roosevelt sostenevano che la colpa della guerra italiana non era del popolo ma di Mussolini e del regime fascista, Grandi era giunto alla conclusione, come scriveva nel suo diario il 22 maggio, che gli italiani dovevano operare «da soli, come atto di volontà nostra, il chirurgico distacco del regime di dittatura dalla nazione»: Questo distacco deve essere opera nostra e non effetto inevitabile della sconfitta militare. Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. Mussolini, la dittatura, il fascismo, debbono sacrificarsi, cedere il posto ad una nuova classe dirigente. Debbono «suicidarsi» dimostrando con questo sacrificio il loro amore per la nazione, compiendo con questo sacrificio l’ultimo grande servizio che la nazione in questo tragico momento domanda loro170.

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Poiché Grandi era convinto che mai Mussolini avrebbe ceduto «il suo posto di comando», il re doveva intervenire come capo dello Stato «per sostituire il suo Primo Ministro e con lui l’intero governo», nominando come nuovo capo del governo una persona che non doveva essere compromessa col fascismo, doveva godere la fiducia dell’esercito, «presentarsi alla nazione come l’uomo nuovo, senza carismi ma con autorità morale indiscussa». L’unica persona che secondo Grandi poteva essere questo uomo nuovo era il maresciallo Enrico Caviglia, «nemico personale di Badoglio», che Grandi detestava e col quale non volle avere contatti. Caviglia era «il solo fra i grandi capi militari della prima guerra mondiale che non abbia fornicato col fascismo e dimostrato servilità al duce»; era stimato dagli inglesi che avevano combattuto ai suoi ordini nella battaglia di Vittorio Veneto, e lo rispettavano come leale avversario del regime; ed era «il solo che forse potrebbe, anche nelle condizioni disperate in cui l’Italia si trova, trattare col nemico una pace onorevole che non umiliasse l’Italia, evitando la resa incondizionata decisa dagli anglo-americani nel convegno di Casablanca». Il governo Caviglia avrebbe dovuto escludere chiunque fosse stato ministro con Mussolini e membro del Gran Consiglio, ed essere composto «da uomini nuovi non direttamente compromessi colla dittatura», graditi agli anglo-americani, come l’industriale Alberto Pirelli, e antifascisti «sicuramente patriottici» come i cattolici Alcide de Gasperi e Giovanni Gronchi, e il giolittiano Marcello Soleri. Il nuovo governo doveva quindi presentarsi al Parlamento nello stesso giorno della sua costituzione e procedere seduta stante ad approvare leggi per decretare subito: abolizione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e il ripristino della Camera dei deputati; abolizione delle «inique leggi razziali»; abolizione del 129

Tribunale speciale. «Simultaneamente un proclama del Re alla nazione con l’invito a tutti gli italiani di costituirsi in unione sacra, al di sopra di ogni divisione o partito, fascisti e antifascisti, per affrontare il pericolo mortale che attraversa la patria. Alfiere di questa unione sacra potrebbe essere il venerando Vittorio Emanuele Orlando che nel lontano 1917, come Presidente del Consiglio, riunì attorno a sé tutti gli italiani, di tutte le fedi politiche, socialisti compresi, per resistere al nemico sul Piave e sul Monte Grappa». Infine, poiché sarebbe stato inevitabile combattere per dimostrare agli anglo-americani che gli italiani erano pronti a morire per riconquistare la libertà, Grandi riteneva necessario, indispensabile e inevitabile «che siamo noi a prendere l’iniziativa di guerra contro la Germania nazista, contro il nostro potente e prepotente alleato», tenendo conto del fatto che allora vi erano in Italia «30-35 nostre divisioni contro 4-5 divisioni tedesche»: Non vedo altra via di scampo, se non questa. L’Italia dovrà attraversare un nuovo e forse più doloroso calvario. Questo sarà il prezzo del suo riscatto. Anche Mussolini, alla fine, comprenderà. Il giuramento che è scritto nella tessera di tutti noi fascisti è condizionato – lo è stato sempre – dal nostro giuramento di soldati al Re, ed allo stesso giuramento che Mussolini, come Primo Ministro, ha prestato nelle mani del Sovrano. Questo piano è condizionato come ho già scritto da tre presupposti: il coraggio della Monarchia; l’intelligenza degli alleati; il patriottismo degli antifascisti. Si verificheranno questi presupposti e queste condizioni? Non lo so. Ma lo spero171.

L’interrogativo che Grandi poneva alla conclusione dell’esposizione del suo piano rivelava, in realtà, tutta la sua artificiosità velleitaria, come appariva evidente dalla quasi elementare facilità della progettata esecuzione; velleitaria soprattutto perché, come lo stesso Grandi riconosceva, puntava sulla simultanea concordanza dell’azione di tre soggetti – il re, gli Alleati anglo-americani e gli antifascisti – che non solo, nel momento in cui il «piano Grandi» era progettato, erano in stato di guerra, ma nulla faceva concretamente credere, se non sperare, che tale ostilità 130

potesse essere d’un baleno cancellata, con un atto miracolistico, più che temerario, di un subitaneo cambiamento di fronte e di alleati. Per la realizzazione del suo piano Grandi puntava unicamente sulla speranza che l’appello del re ai fascisti e agli antifascisti li avrebbe convertiti tutti in combattenti congiunti in una sacra unione di guerra, per salvare la patria dalla rovina. Lo stesso appello avrebbe dovuto infondere, in un popolo che ormai agognava unicamente la fine della guerra, una nuova volontà di combattere, anche col sacrificio della vita, contro un esercito che era stato fino al giorno prima alleato, per riscattarsi agli occhi degli angloamericani, riconquistando col sangue la libertà alla quale per vent’anni il popolo aveva rinunciato, senza mai mostrare di rivolerla indietro. Popolazione inerte Le agitazioni e le proteste sempre più frequenti in Italia dopo il 1941 – col crescere del malcontento in tutti i ceti sociali sui quali si stringeva sempre più duramente la morsa del carovita, con la penuria di alimenti essenziali, mentre quotidiani erano diventati in molte città i devastanti bombardamenti aerei – non assunsero mai una connotazione di rivolta politica contro il regime e contro la guerra. Tale connotazione non ebbero neppure gli scioperi di massa nel marzo e aprile del 1943, dove pure operò con qualche efficacia l’azione clandestina dei comunisti. Oltre alla delusione per le sconfitte militari, alle sofferenze e alla paura provocate dai bombardamenti, alle crescenti difficoltà di disporre del minimo necessario per vivere, gravava sulla popolazione il peso di un profondo disagio morale prodotto dalla sfiducia nell’efficienza e nella correttezza dell’amministrazione statale, come riferiva al 131

duce il 28 febbraio 1943 un rapporto sulla situazione politico-economica del paese: Il popolo ha la sensazione che molti settori dell’amministrazione statale siano inquinati dal favoritismo, che ancor più lo siano gli enti corporativi, appesantiti da una pletorica e costosa burocrazia, avida di contributi che assottigliano notevolmente la remunerazione dei lavoratori e i guadagni dei produttori, e vuole che a tutto questo sia posto rimedio, riconducendo dovunque il sentimento del dovere e dell’onestà. È un grave disagio morale che insidia la capacità di resistenza del popolo e che, si può dire, supera lo stesso disagio materiale dello stato di guerra: se, ciò nonostante, mancano manifestazioni di aperta insofferenza, lo si deve al connaturato spirito di disciplina della Nazione, che fa pure escludere con sicurezza, almeno per il momento, ogni probabilità di turbative dell’ordine pubblico. Ma il malessere esiste e va tenuto nel debito conto172.

Poche settimane dopo, all’inizio di marzo, il malessere e il malcontento esplosero in ondate di scioperi nelle fabbriche del Nord, con la partecipazione di oltre centomila lavoratori. Gli scioperi ebbero prevalentemente origine da motivi economici, ma in essi si infiltrarono agenti clandestini comunisti che fomentarono l’agitazione. Un accordo fra la Confindustria e i sindacati fascisti sugli aumenti salariali, associato a una dura repressione contro i fomentatori politici degli scioperi, fecero cessare l’agitazione dopo un mese. Ma rimase l’effetto di una sfida al regime, come scrisse Farinacci al duce il 1° aprile: «Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere, ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime»: Bisogna correre ai ripari e imporre agli organizzatori, dal centro alla periferia, di vivere non già nei grandi e meno grandi loro Ministeri, fra segretari, dattilografe, capo-uffici etc. ma a contatto con le masse. Naturalmente, per questo, ci vogliono uomini di fede e di capacità, che abbiano qualità oratorie ed anche una certa prestanza fisica. Tu sai per esperienza che una massa vuol ricevere da chi parla una certa influenza magnetica. Mezze cartucce, uomini buffi, organizzatori e oratori improvvisati ottengono l’effetto opposto. Se tu parlassi ad una massa di bolscevichi o di seminaristi ti faresti applaudire entusiasticamente prima ancora di aprir bocca.

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Dagli scioperi di marzo, Farinacci, con la preveggenza di una Cassandra, prendeva spunto per denunciare ancora una volta, come spesso aveva fatto durante tutti gli anni precedenti, le carenze e le inefficienze del partito: «il Partito è assente e impotente. Non basta l’assistenza, non basta occuparsi di raccolte di grano e di granone, occorre entusiasmare, provvedere, vigilare. Sopra tutto rincuorare ed incitare i fascisti sempre fedeli, che ora hanno l’impressione di essere sopraffatti dagli avvenimenti»: Sono d’accordo che non occorrono troppe cerimonie; ma ogni tanto un’adunata di forze fasciste è indispensabile per dimostrare agli antifascisti, ai pavidi, che siamo tutti in piedi, pronti a uccidere e a farci uccidere. Ora avviene l’inverosimile. Dovunque nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le Questure rimangono assenti, come se l’opera loro fosse ormai inutile. Andiamo incontro a giorni che gli avvenimenti militari potrebbero far diventare più angosciosi. Difendiamo la nostra rivoluzione con tutte le forze. Basterebbe un mese per quasi capovolgere l’opinione pubblica, e far comprendere all’«Osservatore Romano» che preparare un movimento tipo partito popolare con i suoi articoli politico-sociali è tempo perso. E poi, caro Presidente, perché non convochi il Gran Consiglio? Lascia che ognuno sfoghi il suo stato d’animo, che ognuno dica il suo pensiero. E fa in modo che tutti ritornino rincuorati dalle tue parole173.

La situazione descritta da Farinacci era confermata dai rapporti sullo spirito pubblico che il duce riceveva ogni giorno dalle varie fonti di informazione, tutte concordi – salvo qualche informatore più ottusamente fascista inneggiante alla fede nel duce e nell’immancabile vittoria – nel denunciare ondate sempre più alte e più ampie di malcontento fra la popolazione, specialmente fra i ceti urbani, piccolo-borghesi e popolari, maggiormente colpiti dai bombardamenti, dall’aumento del costo della vita e dalla scarsità di generi di prima necessità, mentre dilagava il mercato nero e la speculazione più spregiudicata di commercianti e affaristi174. 133

Lo stesso Grandi, descrivendo la reazione della popolazione allo sbarco degli anglo-americani sul territorio italiano il 10 luglio, ha raccontato di aver creduto, temuto e sperato insieme, che la notizia dell’invasione della Sicilia «avrebbe dato, specie nelle città del nord d’Italia, la scintilla all’insurrezione»: Attesi. Nulla. Una cappa di piombo gravava sull’Italia. Visi gravi, attoniti per le strade, bocche silenziose e occhi senza speranza. I giornali andavano a ruba. Ma nessuna voce, nessun tentativo, nessun segno, nessuna delle tante voci che dovevano levarsi a gridare rumorose dopo le ore 23,30 del successivo 25 luglio, fu udita allora. Eppure, ancor oggi rivivendo nella memoria quelle giornate, penso che una voce coraggiosa che si fosse levata, sarebbe stata sufficiente a suscitare il grande incendio. Nessun tentativo, nessun segno175.

Il re tace Nelle settimane precedenti lo sbarco alleato, Grandi aveva continuato a pensare al suo piano, ma senza intravvedere ancora una via per metterlo in atto. Anche se ne fece qualche cenno ad alcuni membri del Gran Consiglio. L’11 maggio aveva incontrato Bottai, che nel suo diario annotava con una sola stringata frase: «Cosa pensa il Re? Questa è la domanda reiterata di Grandi, di fresco suo cugino»176. Invece, nel suo diario, quello stesso giorno, Grandi scriveva più ampiamente di aver parlato a Bottai del suo colloquio col duce, riferendosi probabilmente al colloquio del 26 marzo precedente, e di averlo trovato concorde con la sua valutazione della situazione: Bottai è, come lo sono io, persuaso che il fascismo è morto, che la guerra è perduta, che la dittatura sta portando la nazione all’ultima rovina, che la spaccatura tra dittatura e nazione si approfondisce ogni giorno di più e che se non riusciremo a far intervenire un «fatto nuovo» diretto a capovolgere l’attuale drammatica situazione a costo di sacrificare il regime stesso, l’Italia, non soltanto si troverà a dovere pagare l’errore di una guerra sbagliata, ma la sua fragile unità corre altresì il pericolo di spezzarsi mandando in frantumi il miracolo dello stesso Risorgimento. Ma come fare? Come «agguantare»?177

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Federzoni, allora presidente dell’Accademia d’Italia, fu un altro membro del Gran Consiglio al quale Grandi confidò le sue apprensioni, i suoi progetti, le sue «delusioni sul comportamento reticente del Re, il solo che potrebbe operare un mutamento radicale nella situazione disperata in cui si trova l’Italia». Federzoni, scriveva Grandi nel diario il 26 maggio, «è d’accordo con me»: Anche egli ritiene che il fascismo è morto, ucciso dalla dittatura, che la dittatura è sconfitta, che Mussolini e noi tutti dobbiamo sacrificarci perché la nazione possa essere liberata e decidere con altri capi il suo destino. Anche egli crede che giorni tremendi attendono l’Italia, e che per evitare la resa incondizionata non vi è se non un mezzo ed una premessa: affrontare in campo aperto i tedeschi. Come mi aveva detto Bottai, Federzoni mi dice: «Sarò con te sino in fondo»178.

Finalmente, il 4 giugno, Grandi poté esporre il suo piano al re, quando ebbe udienza per consegnargli la sua relazione sui lavori della Camera. Dopo aver sfogliato distrattamente la relazione, ha raccontato Grandi, improvvisamente il re gli chiese se la Camera approvava la politica e l’azione del governo. A Grandi non parve vero di poter ribadire quello che, secondo il suo racconto, aveva già detto al re in precedenti colloqui. Rispose che la Camera era «immobilizzata ma inquieta»: «La grande maggioranza dei consiglieri non attende altro che un gesto di forza da parte di Vostra Maestà. L’Italia intera ha condannato ormai la dittatura, vuole uscire da una guerra che non è sua, ma bensì soltanto del dittatore che l’ha proclamata. Fra dittatura e nazione la spaccatura è ormai incolmabile. Sino a quando noi siamo stati padroni nel Mediterraneo una pace separata era possibile; oggi, dopo le decisioni di Casablanca, una pace onorevole con gli alleati è possibile soltanto se noi avremo il coraggio di affrontare in campo aperto i tedeschi». Alle insistenze di Grandi sulla necessità di un suo intervento, il re replicò: «Le ho detto mille volte che io sono un Re costituzionale e che deve essere il Parlamento ad indicarmi la strada. […] Oggi il Parlamento tace, è 135

imprigionato, lo so, ma c’è il Gran Consiglio che potrebbe in via eccezionale costituire un surrogato del Parlamento»179. Nel seguito del colloquio, racconta Grandi, il re gli avrebbe confidato – dicendogli «quello che non ho detto sinora a nessuno» – che riteneva necessario un capovolgimento, ma era dubbioso sul «suo piano temerario di affrontare in campo aperto la Germania per neutralizzare le decisioni di Casablanca»: considerando però che, in caso di tentativo di sbarco delle armate nemiche in Sicilia o in Sardegna, il re era certo che le forze anglo-americane avrebbero incontrato la resistenza delle truppe italiane, Vittorio Emanuele aggiunse: «Abbiamo ancora davanti a noi del tempo per maturare decisioni che – la impegno al segreto su quanto le sto dicendo – prenderò al momento opportuno. Questo momento non è ancora giunto. Ella si fidi del suo Re e lavori per facilitarmi il compito mobilitando l’assemblea legislativa e magari il Gran Consiglio come surrogato del Parlamento. Ma non riveli a nessuno quello che le ho detto». Le parole del re riaccesero la speranza in Grandi, che si domandava ancora: «Oggi il Re ha finalmente parlato. Ma non abbastanza. È rinata in me la speranza. Ma non ancora la mia assoluta fiducia. Le ore passano. L’Italia non può attendere. Avrà finalmente il Re la forza e il coraggio di osare»180. Per tutto il mese di giugno, ha scritto Grandi, ci fu un «assoluto silenzio da parte del Quirinale»181. Del resto, incontrando Bottai l’8 giugno, Grandi dava già «per scontato, ormai, e impossibile ogni tentativo di salvazione»182. L’amico fedele Dalla stessa testimonianza di Grandi, appare dunque 136

evidente che, per quanto lontane fossero le radici del suo 25 luglio e chiara la visione del suo «piano temerario», all’inizio di giugno egli non aveva nessuna idea di quel che avrebbe potuto fare per realizzarlo, in una situazione che non gli dava alcun appiglio per iniziare ad operare: il re silente, la popolazione inerte, il duce saldo al potere, e irremovibile. E lui stesso, Grandi, assente dalla Camera, dove avrebbe dovuto «lavorare» per trovare l’appiglio costituzionale chiesto dal re. Anche se alla notizia dello sbarco in Sicilia non ebbe dubbi che «il dramma di venticinque anni, il dramma di vita dell’Italia, si avvicinava al suo epilogo», fino al 20 luglio Grandi rimase appartato a Bologna, che non era certo un centro operativo adeguato per avviare un’azione mirante a estromettere il duce dal potere e provocare così il crollo del regime. «Ero solo e lontano. Non interamente solo. A Bologna si trovava anche Federzoni il quale abitava non molto lungi da me»183. Al pari di Grandi, Federzoni, l’«amico fedele», ha raccontato nelle sue memorie di aver unicamente servito la patria durante il ventennio fascista, sempre con alte cariche di governo, dal 1922 al 1939, e con la presidenza delle più prestigiose istituzioni culturali, ma coltivando in sé una costante avversione per il regime totalitario, soprattutto dal 1932 in poi. Al pari di Grandi, Federzoni definiva il 25 luglio l’epilogo fatale della «degenerazione totalitaria» del fascismo184. E come Grandi sosteneva che lo scopo della loro comune azione nella notte del Gran Consiglio era «l’eliminazione di Mussolini»185. Ancora al pari di Grandi, nelle sue memorie Federzoni negò d’aver mai subìto il fascino carismatico del duce, anche se ammetteva, nel suo diario inedito del 26 settembre 1943, che da principio, «né più né meno che parecchi milioni di altri Italiani avevamo scambiato Mussolini per un vero statista, dotato di grande fede e di fortissima volontà, 137

unicamente rivolto a un’impresa di restaurazione della legge, del sentimento nazionale e dell’ordine produttivo». Pur osservando «con una certa apprensione come in tale opera egli fosse insidiato dalle suggestioni e iniziative di alcuni faziosi compagni delle sue giovanili battaglie di piazza, rimasti accanto a lui», Federzoni aveva sperato che Mussolini «resistesse a quelle torbide influenze», e si era illuso che le avesse allontanate per sempre «dopo il primo grave disinganno del 1924», credendo «alla rettitudine delle sue intenzioni». Per questo, dopo l’ascesa di Mussolini al potere, ritenne suo dovere «cooperare cordialmente a quelle intenzioni e dargli modo di effettuarle, aiutandolo a fronteggiare le oblique correnti del deteriore fascismo estremista»186. La demolizione della monarchia Ma tutti i suoi sforzi, ha raccontato Federzoni nelle sue memorie, furono vanificati dopo il 1932, con la degenerazione totalitaria del regime, sotto la dittatura del partito negli otto anni della segreteria di Starace. Anche se la degenerazione, stando al racconto di Federzoni, era iniziata già prima, perché fin «dai primi atti di governo di Mussolini fu manifesto l’intento di demolire sistematicamente il prestigio della Corona»: nella sostanza, col far comprendere in tutti i modi e in tutte le occasioni che chi comandava e chi decideva in qualsiasi campo e per qualsiasi questione era il Duce, e soltanto il Duce; nella forma, sopprimendo con ogni sorta di scuse e pretesti le consuetudini che offrivano al Sovrano l’opportunità di un diretto contatto col mondo, anche all’infuori del tramite e del controllo del Governo. Quel proposito di fare aprire il meno che fosse possibile le porte del Quirinale, riuscì ad attuarsi tanto più facilmente, quanto più rispondeva ai gusti piuttosto casalinghi della Famiglia Reale. […] Proposito costante di Mussolini era di ridurre al minimo la partecipazione visibile del Re alle manifestazioni salienti della vita nazionale. Il graduale assorbimento, dal parte del Regime, di attività di ogni specie che sarebbero dovute spettare – semplicemente – allo Stato, serviva a far passare a poco a poco

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al Duce anche la suprema funzione di rappresentanza187.

Che l’usurpazione dei poteri della Corona nei propositi di Mussolini non fosse solo velleità, asseriva Federzoni, «fu provato dal fatto che il risultato, almeno dal 1932, era per metà conseguito, poiché in Italia non esisteva più una monarchia nel senso proprio della parola, ma – se mai – una diarchia», che Mussolini aveva imposto dopo la svolta totalitaria del 1925188. Federzoni manifestava una retrospettiva indulgenza verso il comportamento di Vittorio Emanuele, che nulla fece per impedire la demolizione della monarchia intrapresa dal duce: Negli anni successivi, in mezzo al dilagante fanatismo per l’opera taumaturgica di un uomo, mentre gli Italiani sembravano ormai considerare un cosa sola il Regime e la Patria, e affascinati dalla personalità predominante del Duce non si ricordavano ormai più del loro Re, e meno ancora pensavano che mettesse conto, per il domani, preservare dal tracollo l’istituto monarchico, che cosa poteva più fare la Corona, a poco a poco isolata, gradualmente privata dei suoi delicati ma concreti poteri, rimasta come una decorazione anacronistica e pleonastica, ancora tollerata finché non risultasse ingombrante, in quella che pareva ben altrimenti salda, efficiente e moderna struttura dello Stato fascista? Su chi e su che cosa si sarebbe potuto appoggiare il Re per mutare quella situazione, se tutto l’organismo della Monarchia costituzionale era stato, pezzo a pezzo, scomposto e frantumato; se Camera, Forze Armate, forze economiche e sociali, stampa, attività scientifiche e culturali, tutte le vive energie del Paese erano state espropriate, assorbite e assimilate dal Regime? Persino gran parte dell’aristocrazia della Corte preferiva inchinarsi al padrone vero, piuttosto che restare inutilmente intorno al Sovrano simbolico […]. Il Re era solo. Non aveva più alcun collegamento col Paese189.

Durante il ventennio fascista, tuttavia, Federzoni, non diversamente da Grandi, si comportò in modo totalmente diverso da come ha raccontato nelle sue memorie. E molto più di Grandi, da ministro dell’Interno e successivamente da presidente del Senato, collaborò alla costruzione del regime totalitario e, di conseguenza, alla demolizione della monarchia.

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«Siamo ai tuoi ordini» Giornalista, proveniente dall’Associazione nazionalista, di cui era stato uno dei fondatori con Enrico Corradini nel 1910, deputato nel 1913, devoto alla monarchia, Federzoni il 28 ottobre 1922 aveva tentato di osteggiare la «marcia su Roma», cercando di persuadere Mussolini ad accettare la partecipazione dei fascisti a un governo presieduto da Antonio Salandra, recedendo dalla mobilitazione insurrezionale delle camicie nere e dalla pretesa di essere investito dell’incarico di presidente del Consiglio. Ma dopo l’ascesa di Mussolini al potere, nominato ministro delle Colonie, Federzoni assecondò il consolidamento del fascismo, promuovendo la fusione dell’Associazione nazionalista nel partito fascista: «tengo a riconfermarti – scriveva a Mussolini il 24 dicembre 1922 – nella maniera più categorica, a nome di tutti i miei amici, la fedeltà più devota e più obbediente alla causa che tu splendidamente impersoni. Anche quei nazionalisti che per un motivo o per un altro furono finora meno proclivi al concetto della fusione, furono e sono illimitatamente mussoliniani, perché – mentre ammirano il rigore prodigioso della tua tempra – hanno compreso la purezza del tuo lealismo e dei tuoi intendimenti innovatori»; pertanto se «tu credi ormai conforme al superiore interesse della Nazione l’unificazione dei due partiti, noi siamo comunque ai tuoi ordini»; e anche i giovani nazionalisti, che «hanno l’amor proprio ombroso», «se oggi ti ammirano, domani ti venereranno essi pure, essi più di tutti, come il Capo»190. Dal 12 marzo 1923, dopo la fusione dell’Associazione nazionalista nel partito fascista, Federzoni divenne membro del Gran Consiglio. Da ministro delle Colonie, il 22 luglio 1923 confermò a Mussolini la sua «fervida, disinteressata e incondizionata fedeltà», agendo sempre in modo «conforme all’etica fascista», con la coscienza «di aver dato alla tua 140

potente opera di governo, nei limiti delle mie forze, un contributo non inefficace»191. Nominato ministro dell’Interno il 17 giugno 1924, dopo il delitto Matteotti, conservando tale incarico fino al 6 novembre 1926, Federzoni ebbe un ruolo decisivo nella trasformazione del regime parlamentare in regime totalitario, pur cercando di osteggiare l’estremismo dei fascisti intransigenti capeggiati da Farinacci, che fu segretario del partito fascista dal 12 febbraio 1925 al 30 marzo 1926. Per la sua decisiva collaborazione alla demolizione del regime parlamentare, Federzoni si guadagnò un elogio pubblico da Mussolini, il quale, parlando alla Camera il 18 novembre 1925 sulla politica interna, «dopo tre anni di regime fascista, mentre ci avviamo al quarto dei sessanta preventivati», rivolse una «parola di plauso fraterno» ai suoi collaboratori: «E in prima linea voglio mettere il ministro dell’Interno, onorevole Federzoni (vivissimi applausi, gli onorevoli ministri e gli onorevoli deputati sorgono in piedi), che tiene con solido pugno le redini della politica interna e coi suoi disegni di legge, specialmente con quello del podestà, ha dato un colpo mortale a trenta o quarant’anni di miserabile pratica suffragista!»192. Lo stesso giorno, Federzoni scrisse al capo del governo per ringraziarlo: «Parole come quelle che hai detto per me moltiplicano il fervore e la forza di un’anima devota. Ricordati che domani e sempre come ieri sono per te e solo per te»193. A sua volta, Federzoni plaudiva Mussolini per la sua opera di governo: il 7 febbraio 1926, professando una «illimitata devozione», elogiò la politica estera mussoliniana, definendola una «rivoluzione nell’ambito internazionale»: «Certo non mai, nella storia, l’Italia parlò al mondo linguaggio più alto e più degno […] sarò domani da te a prendere ordini, per l’opera e la lotta che devono 141

intensificarsi». Mussolini apprezzava molto l’azione condotta da Federzoni per eliminare le sacche dell’estremismo fascista e consolidare l’ordine pubblico. Di ciò volle dargli un nuovo riconoscimento pubblico, associandosi a una manifestazione che i fascisti milanesi tributarono al ministro dell’Interno, con una lettera pubblicata da «Il Popolo d’Italia» il 6 marzo 1926: Quattro anni ormai al Governo – in tempi politicamente, economicamente, moralmente difficili – sono indiscutibile testimonianza della opera tua, intesa a realizzare nel tuo campo i postulati della nostra Rivoluzione. Io che conosco la tua attività quotidiana, posso più di ogni altro misurare l’ampiezza del tuo sforzo e la somma dei risultati conseguiti, che vanno dal complesso imponente delle attività amministrative interne alla garantita pace sociale194.

Il regime è l’Italia Decisiva fu l’azione di Federzoni, come ministro dell’Interno durante tutto il 1926, per rafforzare il regime fascista, continuando a contrastare l’estremismo residuo dello squadrismo. Dopo l’attentato contro Mussolini compiuto il 7 aprile da Violet Gibson, un’anziana signorina inglese, il 16 aprile Federzoni scrisse al duce una lunga lettera per porre «nuovamente, con imperativa gravità, alla mia coscienza, come a quella di tutti i fascisti, un problema fondamentale per il Regime, anzi per la Nazione: il problema della difesa della tua vita», perché l’episodio Gibson «resterà egualmente causa di angoscia insopprimibile per tutti coloro, e sono ormai la quasi totalità degli Italiani, che vedono in te il presidio dell’ordine nazionale e la guida della Patria nella sua ascesa miracolosa»: Tu conosci il mio pensiero preciso in argomento. Io non credo che il Regime abbia ancora raggiunto condizioni intrinseche di stabilità, di vitalità. Se un fatto deprecabile qualsiasi ti togliesse anche solo temporaneamente alla direzione dello Stato, sarebbe il caos. Ciò costituisce la grandezza tragica e, insieme, l’unica debolezza della nostra situazione. Perciò il problema di cui si tratta non è tanto

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quello della incolumità personale di Benito Mussolini, quanto quello della sola garanzia di vita e di sviluppo del Regime; e il Regime, oggi, è il nuovo modo di essere dell’Italia, è l’Italia stessa. Dunque il problema va esaminato anche da te con obiettività scrupolosa e attentissima. 1. Tu hai uno stile e un costume che sono caratteristici della tua personalità e connaturati alla tua formidabile virtù di attrazione su le masse fasciste e sul popolo in generale. Vivere lontano dalla folla che ti adora e ti vuole, sarebbe rinunciare a fare qualcosa che è essenziale al tuo potere. Ciò peraltro moltiplica incalcolabilmente i pericoli e le difficoltà di prevenirli. Spiace essere fastidiosi come le suocere della tua similitudine; ma quelli che ti vogliono veramente bene, che non iscorgono salute fuori di te, ti scongiurano di evitare, per quanto è possibile, le occasioni inutilmente rischiose. Tu medesimo sei, fatalmente, per il motivo che ho detto, la causa prima di quei pericoli. Potresti e dovresti rassegnarti a ridurli a un margine ragionevole. Questo è il primo provvedimento che mi permetto indicare come indispensabile. 2. È lecito pensare che giovi qualche riforma positiva di sistemi e di criteri nella tecnica della polizia per quanto riguarda l’argomento in questione. Per la prima volta, possiamo dire, nella nostra storia, l’opera di un Capo di governo è accompagnata dal consenso appassionato, attivo, presente di immense masse popolari. Disciplinare le manifestazioni esteriori di tale consenso, in guisa da premunirsi contro ogni possibile insidia di malintenzionato che ne profitti, è impresa nuova e difficoltissima.

La lettera proponeva altre misure di polizia per la tutela della incolumità di Mussolini, e si concludeva con un’accorata richiesta di essere rimosso dall’incarico di ministro dell’Interno: Presidente, io ho compiuto il mio ciclo. Nunc dimitte servum tuum, ossia un servitore dello Stato e del Fascismo. Eliminato Farinacci, l’interesse massimo del Regime è ricomporre totalmente nella politica interna l’unità e l’armonia. Trova un «Cavallero» per il Viminale, e riprendi il portafogli dell’Interno. Ciò metterebbe fine, una volta per sempre, all’inevitabile trascinarsi delle chiacchiere provinciali contro il Viminale, riconducendo la politica interna, attraverso l’opera di un diretto esecutore, sotto l’autorità insostituibile e indiscutibile del Capo. Altrimenti, nomina un ministro, che non sia – come me – logorato da quasi quattro anni di governo. Presidente, io resto più che mai ai tuoi ordini. Puoi darmi, anche fuori del Governo, qualche altra cosa da fare, per mostrare che mi stimi e che io rimango legato, legatissimo a te. Non sono un ambizioso. Ebbi troppo; e n’avrò d’avanzo per tutta la vita, come la vita non mi basterà per dimostrarti la mia riconoscenza affettuosa e la mia devozione.

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Pacifica per sempre il Fascismo! I tentativi dissennati di questi giorni, risuscitando l’assurdo pretesto di un’antitesi fra Fascismo intransigente e Viminale «normalizzatore», sfruttano un equivoco pericoloso per l’opera dei bravi camerati che hai chiamato alla direzione del Partito. Tutto ciò che oggi è sintomo può essere domani una minaccia. Bisogna togliere l’impressione che il Ministero dell’Interno abbia vinto il Partito. E ciò non può farsi se non nel tuo nome e col Viminale alle tue dirette dipendenze. Tu intenderai tutta la sincerità e tutta la serietà di questa mia lettera, e vorrai scusarne la chiarezza forse ruvida e troppo confidenziale195.

Mussolini non volle esaudire al momento la richiesta di Federzoni, che continuò a manifestargli la sua apprensione per la salute del duce, pregandolo, come gli scriveva il 26 maggio, di «riposare la mente e i nervi, in vista delle nuove battaglie che dovrai ancora guidare e vincere per il Fascismo»: Io temo sempre di riuscirti molesto con preghiere delle quali forse non sai che farti, benché siano suggerite non solo dalla mia illimitata devozione personale verso di te, ma anche e molto più dal mio convincimento che in te, e solo in te, si riassumono oggi, e per molto tempo si riassumeranno le sorti della Nazione. Ma vorrei ancora una volta pregarti di pensare seriamente alla tua salute, che non è tua solamente, ma di tutti noi, di tutti gli Italiani! È inutile illudersi: il Fascismo ti offre in vari di noi, uomini del Governo o del partito, dei buoni pezzi di ricambio per la macchina che tu devi regolare; ma nessun altro macchinista!196

Un mese dopo, per ringraziare il duce delle parole di elogio che gli aveva rivolto in Gran Consiglio mentre era assente, il 26 giugno Federzoni gli scrisse: «Mi tarda tornare al lavoro, per dare ancora e sempre tutta l’anima a te e al Fascismo». Il 6 novembre, Federzoni fu dimesso dal ministero dell’Interno e nominato nuovamente ministro delle Colonie, dove rimase fino al 18 dicembre 1928. E continuò sempre a manifestare la sua ammirazione e devozione al duce quando se ne presentava l’occasione. Come fece subito dopo il discorso di Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927, detto il «discorso dell’Ascensione», nel quale il duce elogiò Federzoni che «ha lasciato una legge di Pubblica sicurezza che è quasi perfetta». Inoltre, Mussolini espose le sue idee sulla «situazione del popolo italiano dal 144

punto di vista della salute fisica e della razza», lanciando la campagna per l’incremento demografico e la difesa della razza; poi il duce inneggiò alla solidità del regime, che era difeso da una milizia armata e si appoggiava «sopra un Partito di un milione di individui, su un altro milione di giovani, su milioni e milioni di italiani, che vanno perfezionandosi, raffinandosi, organizzandosi»; per concludere ribadendo che il potere sarebbe rimasto concentrato nella sua persona: Qualche volta ho pensato che dopo cinque anni avrei visto compiuta gran parte della mia fatica. Signori, mi accorgo che non è così. Lo constato, come constato che questo è un libro. Non ci metto nessuna simpatia e nessuna antipatia. Mi sono convinto che, malgrado ci sia una classe dirigente in formazione, malgrado ci sia una disciplina di popolo sempre più consapevole, io debba assumermi il compito di governare la nazione italiana ancora da dieci ai quindici anni. È necessario. Non è ancora nato il mio successore. (Applausi vivissimi e prolungati). E perché? Ma è dunque una libidine di potere che mi tiene? No. Credo, in coscienza, che nessun italiano pensi questo: nemmeno il mio peggiore avversario. È un dovere. Un dovere preciso verso la rivoluzione e verso l’Italia197.

Subito dopo il discorso, Federzoni sentì il bisogno di scrivere il suo entusiasmo al duce: desidero ripeterti meglio ciò che la mia profonda commozione e l’entusiasmo indicibile di tutti mi impedirono di esprimerti chiaramente al termine del tuo grandissimo discorso di oggi: Grazie, grazie, con tutta l’anima, per l’alto riconoscimento della mia opera di fedele soldato del Regime! Tale mi avrai sempre.

Il 22 novembre 1928, nominato senatore, subito telegrafò al duce: «Continuerò a servire con immutabile fedeltà la Patria e il Regime»198. Fu probabilmente a premio di tanta fedeltà che il 29 aprile 1929 Federzoni divenne presidente del Senato, carica che mantenne fino al 1939. Inoltre, il 26 maggio 1931, per volontà di Mussolini, Federzoni assunse la direzione della rivista «Nuova Antologia», che mantenne fino al luglio del 1943: una «nuova alta fatica», gli scrisse il duce, «alla quale sei perfettamente preparato e dalla lunga coerente feconda tua 145

milizia politica e dalla viva esperienza che hai accumulato durante gli anni di prove e di responsabilità nell’opera di governo; dalla tua vasta cultura, sbocciata nelle lettere ma poi arricchitasi lungo la via, in molti altri campi del pensiero»: La Nuova Antologia deve dimostrare e dimostrerà quanto sia falsa l’asserzione di un’Italia che il fascismo avrebbe abbassato nella cultura, mentre invece dalla storia al diritto, dalla scienza alle arti, dal romanzo alla critica, l’Italia, oggi, può reggere al confronto con tutte le nazioni nel mondo in fatto di «produzione» intellettuale. In parecchi settori siamo all’avanguardia. E quel che è più consolante è ciò che si può intravedere dagli accenni e dai tentativi delle nuove generazioni le quali – maturate nel clima storico del fascismo – sono ansiose di ulteriori, ancor più ardimentose avanzate. Come vedi la N.A. ha – secondo me – un compito di primo ordine: aumentare la potenza spirituale della Nazione. Sono sicuro che tu lo assolverai199.

Per l’alta stima che il duce aveva delle doti culturali di Federzoni, nel 1937 lo nominò presidente dell’Istituto fascista dell’Africa italiana fino al 1940, e nel 1938 presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e dell’Accademia d’Italia, cariche conservate fino al 25 luglio 1943. Lode al fondatore dell’impero Il fedele soldato del regime aveva fama d’essere prima di tutto un devoto servitore della monarchia: «si dice – riferiva un rapporto della polizia politica del 23 marzo 1932 – che il controllo sulle mosse del Duce e dello stesso Regime è esercitato con tanta oculatezza dal Presidente del Senato S.E. Federzoni che ne è l’osservatore tenace, pronto sempre ed in ogni momento a proteggere la Dinastia di Casa Savoia», sostenendo «quelle forze, che per quanto siano pur ligie al Fascismo, sono poi d’altro canto attaccate indissolubilmente al Re ed a Casa Savoia»200. Forse proprio perché godeva fama di devoto alla monarchia, il duce lo volle alla presidenza del Senato appena un anno dopo la 146

nomina a senatore, affidandogli il compito di accelerare la fascistizzazione della Camera Alta, come osservò un informatore della polizia politica in un rapporto del 30 aprile 1929: Sembra che S.E. Federzoni abbia una ripresa politica in questo senso. Il Duce, avendolo messo nella riserva per tirarlo fuori nel momento in cui potrà adempiere una funzione politica (gesuitica) in seno al Senato, egli stesso contribuisca alla sua rivalutazione per queste ragioni: il Senato è oggi un organismo assai delicato. In seno ad esso si potrebbe sentire una nota un po’ stonata, sia pure in forma di critica serena. Data la delicatezza di quest’organismo non corporativo, la funzione del presidente è assai importante, perché egli dovrà in certi momenti fare un’opera che si potrebbe definire di ovattamento201.

Nel discorso di insediamento alla presidenza del Senato, Federzoni dosò abilmente la dichiarazione di fedeltà alla monarchia con la dichiarazione di fedeltà al regime. Ostentò devozione alla Corona, citando più volte la dinastia e il re, «sacro simbolo e invitto presidio della Patria», ma precisò che la sua nomina era dovuta «all’indirizzo ideale e politico che io qui rappresento, se non con il valore dell’intelletto e delle opere, con la mia antica fedeltà militante»202. In effetti, l’opera di «ovattamento» del Senato, iniziata negli anni precedenti attraverso l’azione di proselitismo attuata dall’Unione nazionale dei senatori fascisti, sorta subito dopo la «marcia su Roma», fu accelerata durante la presidenza di Federzoni203. Contrariamente a quanto egli ha asserito nelle sue memorie, non solo non oppose alcuna resistenza alla politica totalitaria del partito fascista nei confronti del Senato, ma la assecondò, in accordo con Starace, anche nelle forme esteriori, con l’imposizione dello «stile fascista» ai senatori, per ridurre nella Camera Alta il numero delle «camicie bianche», come lo stesso presidente del Senato scriveva al segretario del partito nel 1932. Con la stessa solerzia, il presidente del Senato procedette alla rapida fascistizzazione del personale di Palazzo Madama204. 147

Anche come senatore, Federzoni manifestò in più occasioni la sua devozione al duce, sotto la cui «possente guida» l’Italia aveva raggiunto una nuova grandezza. Commemorando Enrico Corradini al Senato l’11 dicembre 1931, Federzoni ne esaltò la figura come precursore della rivoluzione nazionale, per la quale «abbisognavano titanico vigore e coraggio di supreme responsabilità»: Così il Fascismo, primo moto di masse nella nostra storia, doveva attuare la propria rivoluzione rigeneratrice della Patria. In Roma redenta dalla giovinezza Enrico Corradini, con gesto di riconoscente devozione, consegnava al nuovo grande Capo sorto dal popolo quella che era stata la milizia degli antesignani, la quale prendeva posto, fraternamente accolta e irrevocabilmente fedele, sotto i neri gagliardetti del Littorio. Era il sogno realizzato; era la realtà d’un’Italia finalmente capace di gloria e di avvenire affidata a chi ne sarebbe diventato veramente il Duce degno e sicuro205.

Nello stesso periodo, Federzoni esaltò la costruzione del regime totalitario definendolo, in un discorso al Senato del 5 dicembre 1932, la «creazione originale di un genio romano, suscitata sotto l’imperio di una legge di vita», corrispondente non solo «ai bisogni e agli interessi fondamentali ma alla volontà consapevole degli italiani», essendo provato «per mille forme imponenti come il proprio carattere totalitario non sia più un postulato dialettico, bensì una realtà già in atto», perché «Fascismo e Nazione sono oggi una cosa sola, o, meglio, una sola forza e un solo destino nella vita del mondo»206. L’entusiasmo di Federzoni per il duce aumentò durante la guerra di Etiopia, che coronava con una impresa vittoriosa la principale aspirazione del movimento nazionalista italiano, del quale Federzoni era stato uno dei massimi dirigenti negli anni precedenti la Grande Guerra. Il superamento degli ostacoli che le «insidiose gelosie straniere» avevano tentato «di opporre alla veggente e intrepida azione del Duce», affermava Federzoni dopo l’inizio dell’aggressione all’Etiopia, dimostrava che «Mussolini, come sempre, ha scelto il momento giusto e il 148

modo appropriato, costi ciò che dovrà costare, ma non a noi solamente»: «Oggi, sotto l’impulso prodigioso del Duce, tutta la gioventù italiana in armi ricalca le orme dei vecchi solitari pionieri. Gli Italiani non vogliono più combattere e lavorare per l’impero degli altri. A dispetto dei beati e ingrati possidenti, essi vogliono combattere e lavorare per il loro proprio impero»207. Il 1° marzo 1936 ribadiva che «il problema dell’avvenire, non solo materiale, sì anche storico e ideale dell’Italia nuova non può trovare la sua soluzione se non nella guerra che soldati e Camicie Nere vittoriosamente combattono in Africa, e che tutto il popolo sostiene col suo sforzo e col suo sacrificio sotto la guida possente e sicura del Duce, contro tutte le forze avverse e insidiose, per conquistare alla Patria il nostro posto al sole»208. Nella prefazione al libro che raccoglieva i suoi scritti e discorsi sull’espansione coloniale italiana, Federzoni esaltava la nuova politica imperiale in Africa, «che ha in Roma il suo vivo centro e nel Duce il suo gigantesco protagonista»: Tutti ammettono, molti ormai anche nei paesi avversi, che Mussolini aveva dunque veduto giusto: egli aveva compreso che si poteva osare e si doveva osare. Il popolo italiano, per parte sua, ha bene intuito che ancora una volta, e questa volta più che mai, bisognava affidarsi a lui; e lo ha seguito, ed è stato degno del suo Capo. Fortunati noi uomini della lontana vigilia, che dopo aver sofferto, quando ci affacciammo alla vita, le disperate amarezze di un’Italia dilaniata e umiliata dai faziosi e divenuta inconscia della propria missione storica e ideale nel mondo, per tanti e tanti anni sognammo e invocammo la rinascita di una Patria meritevole di grandezza, e adesso vediamo questo meraviglioso riascendere della luce di Roma su l’orizzonte della civiltà universale. Sia lecito dire che in noi la devozione a Mussolini, comune a tutti gli Italiani, ha una tonalità particolare d’amore e di riconoscenza, perché scaturisce anche dalla antica fede adempiuta, dalla lunga attesa esaudita. Egli solo poteva condurci a questa meta209.

La ragione dello Stato totalitario

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Dopo la proclamazione dell’impero, all’Accademia d’Italia Federzoni inneggiò alla figura storica del duce, «il cui coraggio non è eguagliato che dalla saggezza», perché nella costruzione dello Stato totalitario aveva compiuto una rivoluzione rispettando la monarchia, l’esercito e la religione, iniziando con due «istituti rivoluzionari, la Milizia e il Gran Consiglio, scaturiti vitali e robusti dall’improvvisazione dei primi giorni», fissando «subito le pietre angolari di quello che sarà il grandioso edificio futuro». Dopo il 3 gennaio 1925 «la Rivoluzione riprende i suoi diritti e accelera i tempi: nasce il regime totalitario»: Il pensiero di Mussolini si traduce in un nuovo e originale sistema legislativo. […] Cessata la distinzione teorica dei tre poteri, quello che impropriamente era chiamato esecutivo piglia il rango di superiorità, mentre il Capo del Governo vi è investito di una funzione preminente di direzione, di propulsione e di coordinazione di tutte le attività dello Stato. […] Meglio che superato, il parlamentarismo è infatti condannato dalle esigenze della società attuale, oltre che dall’esperienza. […] L’orbita spirituale e politica del Fascismo si è d’anno in anno allargata fino ad abbracciare ormai senza eccezione tutti gli Italiani di ogni età e di ogni grado sociale. […] L’essenza totalitaria del Regime non è più dunque un postulato da avverare, ma è una realtà già perfetta. Fascismo e Nazione sono una cosa sola, anzi un solo volere e un solo destino nel mondo210.

Nel 1937 Federzoni fece un viaggio nell’America del Sud per celebrare fra le comunità italiane le conquiste del regime fascista, dovute alla «nostra grande forza, che è l’intima unione dell’intero popolo con l’intelletto e col volere del Capo che lo conduce ai suoi destini». Il fascismo, proclamava Federzoni, è «un regime di popolo», e chi all’estero «farnetica sulla oppressione fascista in Italia e raffigura in Mussolini il Dittatore che ha abolito tutte le libertà popolari», dice solo «volgari menzogne o, meglio, insensate facezie» perché l’Italia «ha spontaneamente rinunciato a una sola libertà: quella di fare il male di se stessa. In cambio ha guadagnato un’altra libertà molto più importante: quella di fare il bene di se stessa; libertà che prima le era negata dagli odi avvelenati delle sette vecchie e nuove»: 150

Regime di popolo, dunque, fondato sui valori perenni della religione, della nazionalità, della famiglia, della giustizia e del lavoro, il Fascismo è compenetrato con la vita stessa degli Italiani, fino ad essere diventato il loro abito mentale, la tempra del loro carattere e il costume della loro convivenza. Sta di fatto che l’abusata antitesi tra Democrazia e Fascismo non interessa più che i pappagalli impagliati delle ideologie da museo211.

Il fascismo come regime di popolo era «il più sorprendente miracolo di Mussolini»212. Dopo la Grande Guerra, l’Italia era precipitata nel baratro della violenza con la minaccia del bolscevismo, ma con Mussolini e lo squadrismo «la parte sana del Paese reagì», e l’Italia fu salva. Per assicurare la salvezza dell’Italia, da «una vera e grande rivoluzione costruttiva» sorse il regime fascista: «Il genio del Duce ha trovato la sua espressione più fulgida in questo risultato di avere reso irrevocabile e perenne la trasformazione effettuata negli istituti della Nazione e più ancora nel carattere degli Italiani. Ecco la ragione dello Stato totalitario»213. Ma il duce aveva compiuto miracoli anche nella politica internazionale, capovolgendo «i metodi tortuosi e ostruzionistici della vecchia diplomazia, portando il suo dinamismo la sua sincerità e la sua precisione matematica di idee anche nelle relazioni internazionali. Oggi vi è un indirizzo chiarificatore e risanatore di queste, ed è l’indirizzo comune dell’Italia e della nostra grande e potente amica, la nuova Germania di Hitler e delle camicie brune»214. Mussolini aveva suscitato un nuovo orgoglio italiano nel mondo, esaltando «il genio e l’eroismo: le virtù imperiture del popolo italiano» resuscitato «a nuova, più alta vita da Colui che il genio e l’eroismo fonde in sé come i massimi creatori della storia»215: «Tutti, Italiani e stranieri, sanno che l’Italia è una delle nazioni più potenti e più civili del mondo, e Mussolini è riconosciuto anche dagli avversari il più grande degli uomini viventi e uno dei maggiori statisti che la storia di tutti i tempi ricordi»216. 151

Un grande momento storico Al pari di Grandi, Federzoni era contrario all’intervento dell’Italia in guerra a fianco della Germania nazista, ma non per questo i suoi rapporti con il duce si raffreddarono. Mentre si intensificava l’esperimento totalitario con l’espansione del predominio del partito fascista e Mussolini accresceva a dismisura il suo potere personale, Federzoni si rivolse talvolta «alla benevolenza e all’equità del Duce», con la consueta «profonda devozione», come scrisse in un promemoria inviato al capo del governo dopo aver lasciato la presidenza del Senato, per chiedere che «al Presidente dell’Accademia d’Italia sia dato, insieme con l’indennità di carica corrispondente a quella già percepita come Presidente del Senato», un congruo «assegno di rappresentanza», in considerazione della lunga militanza prestata a servizio del regime: il sottoscritto, uscendo dalla politica attiva, in cui ha dato per molti anni con suo totale disinteresse e con sensibile sacrificio della sua famiglia un contributo non trascurabile alla formazione e allo sviluppo del Regime, è giunto all’ultima tappa della sua carriera di vita pubblica; e pertanto sente, più che il diritto, il dovere di domandare un trattamento che con l’intenso onesto suo lavoro gli permetta di assicurare, a Dio piacendo, una sorte meno precaria alle sue tre figlie, delle quali una adolescente e le altre due ancora bambine217.

Anche con l’approssimarsi ormai certo dell’entrata in guerra dell’Italia, nelle lettere al duce, Federzoni continuò a professare la sua «infinita devozione», come gli scrisse il 6 giugno 1940 con lettera «riservatissima», per sollecitare l’intervento del duce in una vertenza con il ministro dell’Agricoltura, che non aveva accolto la domanda presentata da Federzoni e dalla moglie «per ottenere il contributo dello Stato nella spesa di esecuzione delle opere di trasformazione fondiaria delle nostre proprietà in provincia di Bologna»: Due torti io ho avuto, e li confesso; di aver forse voluto far troppo per preservare da privazioni e pericoli l’avvenire delle mie figliuole; di aver voluto

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conferire alle nostre proprietà agrarie quell’impronta di modernità, di produttività, di benessere per i contadini, che è richiesto dalla coscienza fascista, Duce, per il Tuo monito e per il Tuo esempio. Ho fatto, insomma, il passo più lungo della gamba; ma, se ho errato, è stato a fin di bene; e in conclusione non credo di avere abusato della longanimità dello Stato fascista, invocando un sollievo al mio disagio di agricoltore e di padre di famiglia. Tale sollievo nuovamente domando e spero. Chiedo venia se mi sono permesso di intrattenerti, in un grande momento come questo, di simili miserie personali.

Durante la guerra, Federzoni diede il suo sostegno oratorio alla politica imperialista del duce. Nell’adunanza plenaria dell’Accademia d’Italia per celebrare il Natale di Roma, il 21 aprile 1941, «in questo grande momento storico» Federzoni ricordava che l’accademia era stata creata «con geniale e preveggente saggezza dal Duce per dimostrare che il Fascismo, mentre sorgeva a potenziare tutte le capacità del Paese per l’azione e per la produzione, intendeva parimenti conferire più alta autorità e nuova efficacia alle opere dello spirito»; pertanto, l’accademia stessa si sentiva «nella necessità di vivere pienamente essa pure, con intensità e consapevolezza di fede non inferiori a quelle di qualsiasi altro corpo o istituto dello Stato, la vita, le passioni, le prove dalle quali uscirà sempre più potente l’Italia». Gli scrittori, gli studiosi, gli artisti, per «adempiere i doveri della disciplina nazionale», non dovevano fare altro che ispirarsi «all’esempio che vien loro dalla Maestà del Re e Imperatore, simbolo e presidio glorioso della continuità della Patria, e da tutto l’alacre e fidente popolo italiano», mentre «i soldati d’Italia, in stretta unione con gli eserciti della grande Alleata, dopo aver sostenuto i più duri cimenti, rivendicano vittoriosamente oltre i due mari i fasti e le fortune della nostra bandiera». E dopo aver accennato ai «non meno gravi né ardui problemi, intrepidamente affrontati dall’Italia fascista, per impulso poderoso del Duce» che attendevano «la loro soluzione dal valore dei nostri combattenti e dall’operosa obbedienza del Paese», 153

Federzoni inveiva contro «un tentativo di intimidazione del nemico, che, mescolando, come è suo costume, il veleno della calunnia alla perfidia del ricatto, parla di un possibile bombardamento di Roma»: sia detto alto e chiaro da questa massima sede della cultura italiana che noi, studiosi, scrittori, artisti, i quali vediamo e adoriamo nei monumenti e nei capolavori dell’Urbe i segni immortali della più eccelsa civiltà umana e cristiana, preferiremmo che fosse distrutto tutto questo incomparabile patrimonio di bellezza e di grandezza piuttosto che subire la obbrobriosa minaccia. La responsabilità di tentare sì nefando delitto ricadrebbe esclusivamente sui barbari che già ne confessano cinici la premeditazione. D’altronde se osassero, sarebbero indubbiamente accolti a dovere dalle nostre ali invitte218.

Il 3 maggio 1941, la Slovenia fu annessa all’Italia. Due giorni dopo, in Etiopia, Hailè Selassiè rientrava in Addis Abeba con le truppe britanniche vittoriose, che posero fine ai cinque anni di dominazione italiana. Il 18 maggio, il capo del governo croato Ante Pavelić, in visita a Roma, chiedeva al re di designare un principe di Casa Savoia come re del nuovo Stato di Croazia. Pochi mesi dopo, Federzoni ripubblicò in un libro i saggi scritti nel 1919 e nel 1920 per rivendicare l’italianità della Dalmazia, aggiungendovi uno scritto recentissimo, intitolato La pace adriatica, «che ne saluta la miracolosa resurrezione, dovuta alla pronta e costruttiva genialità con cui il Duce ha saputo trarre partito da un concorso straordinario di circostanze, determinato dalle vicende della guerra nell’Oriente europeo, per fondarvi quella pace equa, chiara e leale fra Italiani e Croati, che già anticipa colà i benefici dell’auspicato nuovo ordine internazionale»: Così Mussolini ha fatto ancor più che liberarci in un giorno da un incubo che aveva pesato per tre quarti di secolo su la vita della Nazione, quello della nostra frontiera orientale: ha creato il primo saldo addentellato dell’Europa di domani, che nascerà dalla vittoria delle Potenze dell’Asse. Ciò basterebbe a ripagare l’Italia delle sofferenze e delle ansie di un anno di guerra. […] Per essa l’Italia fascista può ricalcare, sicura dell’avvenire, le vestigia di Roma e di Venezia. […] Ebbene, valeva la pena di vivere attraverso tante agitate vicende, per assistere al crollo dello Stato jugoslavo, che era stato creato a Versaglia, sotto gli auspici del chimerico Wilson, con una specifica finalità antitaliana; e più ancora per arrivare

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a vedere come, con uno dei suoi colpi maestri, Mussolini abbia saputo fulmineamente trarre da questo fatto straordinario due risultati tanto più sorprendenti in quanto si accompagnano e si integrano l’un l’altro: l’adempimento delle aspirazioni nazionali nel Quarnaro e in Dalmazia e, insieme, la pace adriatica219.

«Tutti annaspiamo» Non si hanno testimonianze dirette sul dissenso manifestato da Federzoni dopo il 1941 sulla politica interna o sulla condotta della guerra, prima del suo discorso in Gran Consiglio la notte del 1943, né vi accenna lo stesso Federzoni nelle sue memorie. Non risulta neppure dal diario dell’aiutante di campo del re che Federzoni abbia avuto incontri con Vittorio Emanuele, come li ebbe invece Grandi, per sollecitarlo a prendere l’iniziativa di rimuovere il duce dal governo. Una prima allusione in questo senso, ma molto indiretta, si trova nel diario di Bottai alla data del 5 gennaio 1943, dove annotava che Federzoni gli aveva raccontato un episodio avvenuto durante la crisi Matteotti nel 1924, per dimostrargli «l’attaccamento del Duce al potere, tale da soverchiare in lui ogni altra considerazione»: mi dice d’avergli, durante la crisi matteottiana del 1924, lui ministro dell’Interno, prospettata l’opportunità di mettere le opposizioni dell’Aventino dinnanzi alle loro responsabilità, lasciando il governo. Si sarebbe trattato, nell’animo del proponente, d’una manovra che avrebbe costretto al rapido richiamo di Mussolini, che nel suo ritorno al comando avrebbe trovato sgombrata la via dal certo fallimento dei partiti avversari. Ma il Capo s’oppose con un: «Lasciare il potere? Mai!», che fece a Federzoni intendere di qual tempra fosse la sua volontà di dominio220.

Ancora nel diario di Bottai, al 16 gennaio, si parla di un «chiacchiericcio in casa Federzoni»: «Questi, a parte, mi confida un suo pensiero: che Mussolini, almeno temporaneamente, si ritiri, per rendere possibile trattative di pace, d’accordo, s’intende, coi tedeschi. Questa dei ritiri tra le quinte è una ricetta che evidentemente gli piace, 155

come il mio appunto del 5 gennaio dimostra»221. Ma al chiacchiericcio non seguirono, per quanto se ne sa, atti concreti di Federzoni nella direzione da lui auspicata. Cinque mesi dopo, quando ormai erano già in corso manovre di vari gruppi per trovare il modo di estromettere il duce dal potere e far uscire l’Italia dalla guerra, Bottai annotava un altro colloquio con Federzoni sulla rimozione di Mussolini, ma a nulla di concreto dovettero pensare i due se, il 19 maggio, lo stesso Bottai scriveva nel diario: «A sera lungo colloquio con Federzoni. [Mancano tre righe]. Ma anch’egli annaspa. Tutti annaspiamo. Mussolini ci ha impoveriti, anche in quelle qualità con le quali potremmo e dovremmo servirlo»222. Membro del Gran Consiglio dal marzo 1923, Federzoni lo rimase senza interruzione fino alla seduta finale, collaborando attivamente, come abbiamo visto, alla costruzione del regime totalitario e alla sua trasformazione nel regime del duce. E al pari di tutti gli altri membri del supremo organo del regime, pur se talvolta manifestò opinioni diverse, come nel caso della legislazione razzista e antisemita, alla fine aderì all’unanimità con la quale si concludevano tutte le sedute del Gran Consiglio223. Suona pertanto stravagante, quanto meno come testimonianza di avversione al regime del duce, che un eminente membro del massimo consesso del regime come Federzoni, che fu presente in tutte le sue più importanti e decisive riunioni durante un ventennio, abbia scritto nelle sue memorie, come avrebbe potuto scrivere un qualsiasi antifascista monarchico: «Il Gran Consiglio per vent’anni era vissuto male, ma aveva saputo morire bene»224. In conclusione, le versioni di Grandi e di Federzoni sull’origine del 25 luglio e sul loro ruolo non corrispondono alla realtà effettuale degli eventi e neppure al ruolo che entrambi gli aspiranti tirannicidi, sia pure in 156

senso esclusivamente metaforico, hanno raccontato di aver svolto nella notte del Gran Consiglio. Come vedremo nei prossimi capitoli, furono altri i gerarchi che presero l’iniziativa di chiedere la convocazione del Gran Consiglio dopo tre anni e mezzo dall’ultima seduta. Solo quando, per iniziativa di altri, il duce alla fine concesse la convocazione, Grandi, con l’amico fedele, decise di entrare in azione. Ma neppure allora ebbe veramente, come ha sostenuto invece nel libro sul 25 luglio, la visione chiara, chiare le difficoltà e le conseguenze225. 150 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il

Mulino, Bologna 1983, p. 138. 151 Ivi, p. 225. 152 Ivi, p. 215. 153 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 262. 154 Ivi, p. 264. 155 G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1980, p. 515. 156 Ivi, p. 582. 157 ACS, SPD, CR, b. 14, fasc. 205/R «Dino Grandi», sottofasc. 2 «Rilievi a suo carico» (per questa e le successive citazioni). 158 D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1985, p. 613. 159 M. Zamboni, Diario di un colpo di Stato. 25 luglio-8 settembre, Newton Compton, Roma 1990, p. 65. 160 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 333. 161 Grandi, Il mio paese, cit., p. 614. 162 Ciano, Diario 1937-1943, cit., p. 588. 163 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, p. 104. 164 Ivi, pp. 119-120. 165 Grandi, Il mio paese, cit., pp. 617-618. 166 Ivi, pp. 619-620. 167 Ivi, pp. 620-621. 168 Ivi, p. 621. 169 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La

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Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, p. 292. 170 Grandi, Il mio paese, cit., p. 624. 171 Ivi, pp. 625-626. 172 Cit. in R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in guerra 19401943, 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 773-774. 173 Ivi, pp. 951-952. 174 Cfr. De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 772 sgg.; S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 399 sgg. 175 Grandi, 25 luglio, cit., p. 216. 176 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 377. 177 Grandi, Il mio paese, cit., p. 622. 178 Ivi, pp. 626-627. 179 Ivi, p. 627. 180 Ivi, p. 628. 181 Ivi, p. 631. 182 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 381-382. 183 Grandi, 25 luglio, cit., p. 215. 184 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, p. 198. 185 Ivi, p. 200. 186 ACS, Carte Federzoni (acquisite nel 2009, da ora in poi CF), b. 5 (collocazione provvisioria), Diario di un condannato a morte, p. 18. 187 Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, cit., pp. 230-231. 188 Ivi, p. 228. 189 Ivi, pp. 241-242. 190 ACS, SPD, CR, b. 5, fasc. 82/R «Federzoni Luigi», sottofasc. 1 «Fusione tra nazionalismo e fascismo». 191 Ibid. 192 Mussolini, Opera omnia, XXII, p. 9. 193 ACS, SPD, CR, b. 5, fasc. 82/R «Federzoni Luigi», sottofasc. 1 «Fusione tra nazionalismo e fascismo». 194 Mussolini, Opera omnia, XXII, p. 399. 195 ACS, SPD, CR, b. 5, fasc. 82/R «Federzoni Luigi», sottofasc. 1 «Fusione tra nazionalismo e fascismo». 196 ACS, SPD, CR, b. 5, fasc. 82/R «Federzoni Luigi», sottofasc. 2 «Atti di governo» (per questa citazione e la successiva). 197 Mussolini, Opera omnia, XXII, pp. 384-385.

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198 ACS, Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, Senatori del

Regno, 1924-1934, b. 3, fasc. 154. 199 ACS, CF, b. 4 (collocazione provvisoria), fasc. 3. 200 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia Politica, categoria M2, b. 158, fasc. 2, rapporto da Roma 23 marzo 1932. 201 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia Politica, categoria M45, b. 150, fasc. 18. 202 Atti Parlamentari, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, 1a Sessione, Discussioni, Tornata del 1° maggio 1929, p. 22. 203 Cfr. E. Gentile, Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, in Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, a cura di E. Campochiaro e E. Gentile, Senato della Repubblica, Roma 2003, pp. 75-101. 204 Cfr. D. Musiedlak, Lo stato fascista e la sua classe politica 1922-1943, il Mulino, Bologna 2003, pp. 236-241. 205 L. Federzoni, A.O. Il «posto al sole», Zanichelli, Bologna 1936, p. 71. 206 Atti Parlamentari, Senato del Regno, Legislatura XXVIII, 1a Sessione, Discussioni, Tornata del 5 dicembre 1932, p. 5480. 207 Federzoni, A.O. Il «posto al sole», cit., pp. 90-94. 208 Ivi, p. 271. 209 Ivi, pp. X-XI. 210 Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Dal regno all’Impero 17 marzo 1861-9 maggio 1936. Pubblicazione commemorativa della proclamazione dell’Impero, Tipografia della R. Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1937, pp. 30-34. 211 L. Federzoni, Parole fasciste al Sud America, Zanichelli, Bologna 1938, pp. 10-11. 212 Ivi, p. 35. 213 Ivi, p. 49. 214 Ivi, p. 37. 215 Ivi, p. 54. 216 Ivi, p. 47. 217 Cfr. ACS, SPD, CR, b. 5, fasc. 82/R «Federzoni Luigi». 218 L. Federzoni, Per il Natale di Roma dell’anno XIX, Reale Accademia d’Italia, Roma 1941, pp. 5-8. 219 L. Federzoni, L’ora della Dalmazia, Zanichelli, Bologna 1941, pp. VII-VIII, 53. 220 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 350.

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221 Ivi, p. 352. 222 Ivi, p. 378. 223 Cfr. Ciano, Diario 1937-1943, cit., p. 193 (6 ottobre 1938); Bottai,

Diario 1935-1944, cit., p. 137. 224 Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, cit., p. 205. 225 Cfr. Grandi, 25 luglio, cit., p. 225.

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Capitolo sesto. Prova di Gran Consiglio

Federzoni racconta nelle sue memorie pubblicate nel 1967: L’origine della riunione del 24 luglio fu un conciliabolo di gerarchi riunitosi a Roma presso il Partito il lunedì 19. Si sapeva che Mussolini stava per recarsi a Feltre obtorto collo a un convegno con Hitler. Nel corso di un’udienza concessa dal Duce, Farinacci aveva perentoriamente affermato la necessità urgente di riunire il Gran Consiglio; Giuriati aveva appoggiato la tesi con motivi politico-giuridici; gli altri si erano associati, ripromettendosi di ottenere dal Duce in tale sede ragguagli e chiarimenti e di esprimere i loro dubbi e le loro preoccupazioni; ma è da escludere che avessero concertato una qualsiasi linea di condotta per arrivare a una soluzione praticamente utile. Farinacci, solo, come poi si vide, aveva un suo piano, il quale era, naturalmente, un piano dello Stato Maggiore germanico: sopprimere l’Esercito italiano come organismo autonomo, facendone soltanto un contingente di truppe ausiliarie della Wermacht. In quell’ora di smarrimento, Mussolini accusò il colpo della richiesta di convocazione, che intuì facilmente essere stato suggerito dai Tedeschi, e – non sapendo o non volendo reagire – consentì. Dino Grandi, allora presidente della Camera, preparò lo schema di un ordine del giorno che investiva in pieno il Regime, ed ebbe il mio accordo. Subito dopo cominciò la raccolta delle firme226.

Nel suo diario inedito, scritto nell’estate del 1943 mentre era nascosto nell’ambasciata portoghese, Federzoni dava una versione più dettagliata del modo in cui si giunse alla convocazione del Gran Consiglio: L’origine della riunione del 24 luglio fu la seguente. Il martedì 13, a Bologna, appresi dalla radio che per la domenica 18 erano indetti nei vari capoluoghi di regione adunate di propaganda per la resistenza e che Grandi e io eravamo inclusi fra gli oratori designati. Pochi minuti dopo quella radiotrasmissione Grandi, che si trovava pure in provincia di Bologna, venne da me per esaminare meco il da farsi di fronte al precipitare della crisi militare e politica e all’evidente

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smarrimento dell’azione di governo. Circa le adunate egli mi disse che, poiché era destinato proprio a Bologna, e per motivi di opportunità locale aveva sempre rifiutato di parlare quivi, avrebbe senza altro declinato l’invito. Io non potevo addurre un pretesto simile per non andare a Perugia. Posto che dovevo fare una corsa a Roma per ragioni di ufficio, risolsi di dichiarare lealmente a Scorza che avrei fatto il discorso, ma per esprimere senza veli il mio pensiero su le cause e le responsabilità dei dolorosi avvenimenti e su l’urgenza di un mutamento radicale di indirizzo mediante la formazione dell’unione nazionale, per trarre il Paese dalle mortali distrette. L’indomani mattina avevo appena cominciato a esporre al segretario del partito questo risoluto intendimento, quando egli mi interruppe per informarmi che si era rinunziato all’adunate, data la sempre maggiore gravità del collasso. La sera stessa del 13 ripartii per Bologna, ove rividi due volte Grandi nei giorni successivi. Il lunedì 19 egli mi portò la notizia, pervenutagli da Roma, di un conciliabolo che si era tenuto presso il partito, fra gli altri oratori designati per le famose adunate, e dell’udienza accordata a costoro da Mussolini, che stava per recarsi «obtorto collo» al convegno di Feltre. Nel corso dell’udienza Farinacci aveva manifestato l’opinione che fosse necessario riunire il Gran Consiglio; Giuriati aveva appoggiato la tesi con motivi politico-giuridici; gli altri si erano associati. Coloro si ripromettevano di ottenere dal Duce in tale sede ragguagli e chiarimenti ed esprimere i loro dubbi e le loro preoccupazioni; ma è da escludere che avessero concertato una qualsiasi linea di condotta per arrivare a una soluzione praticamente utile. Farinacci solo, come si vide, aveva un suo piano. In quell’ora di smarrimento, Mussolini cedette. Grandi ed io stabilimmo di profittare dell’occasione per agire a fondo, e formulammo insieme, su uno schema preparato da Grandi stesso, un ordine del giorno che investiva in pieno il regime227.

Nel racconto di Federzoni quasi nulla è esatto, tranne la notizia che la riunione del 24 luglio ebbe origine da un «conciliabolo» di gerarchi, smentendo così, indirettamente, la rivendicazione dell’iniziativa fatta da Grandi nelle sue memorie. Ma il «conciliabolo» presso la sede del partito non avvenne il 19 luglio, bensì venerdì 16 luglio. Inoltre, non fu un «conciliabolo» ma un incontro promosso dal segretario del partito Scorza, al quale era stato invitato anche Federzoni, che quel giorno si trovava a Roma ma non andò all’incontro giustificando la sua assenza. Infine, l’incontro fra i gerarchi non avvenne perché si sapeva che Mussolini avrebbe incontrato Hitler a Feltre, visto che il 16 luglio non lo sapevano ancora neppure i due diretti interessati: l’incontro era infatti stato «improvvisamente voluto da 162

Hitler» il 18 luglio, come ha scritto l’ambasciatore italiano a Berlino228. Il «conciliabolo» avvenne subito dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, quando il duce ordinò al segretario del partito di organizzare adunate in tutti i capoluoghi di regione, nelle quali dovevano parlare come oratori designati i principali esponenti del regime, alcuni dei quali erano o erano stati membri del Gran Consiglio, per rincuorare il popolo e incitarlo alla resistenza contro l’invasore. La convocazione degli oratori designati fu la prima occasione di una riunione fra alcuni gerarchi, che erano da tempo in profondo dissenso con Mussolini per la condotta politica e militare di una guerra disastrosa. La riunione avvenne nella sede del partito la mattina del 16 luglio, e nel pomeriggio dello stesso giorno, dopo aver chiesto con decisione di essere ricevuti a Palazzo Venezia, il gruppo dei gerarchi fu ricevuto dal duce. L’incontro nel grande salone del Mappamondo fu una sorta di prova del 25 luglio, perché le questioni che i gerarchi posero furono le stesse che vennero poste durante la notte del Gran Consiglio. Scorza e la mistica del duce Il segretario del partito Carlo Scorza aveva avuto l’idea delle adunate regionali, convinto, come ha scritto nelle sue memorie, che «solamente se si riusciva a creare, anzi a ricementare l’antico patto tra il popolo e il Regime esistente al tempo della marcia su Roma e della impresa etiopica, si poteva sperare di creare il clima indispensabile alla unione degli italiani, specialmente ora che a tutti gli italiani si devono chiedere sacrifici sempre più duri». Nei propositi di Scorza, gli oratori designati «avrebbero dovuto abbandonare il solito frasario magniloquente, e rivolgersi a tutti gli italiani senza pregiudizio di partito. Essi avrebbero dovuto trattenersi alcuni giorni nelle città per poter ricevere 163

e ascoltare tutti coloro che lo desiderassero»229. A tale scopo, egli riteneva «indispensabile richiedere la collaborazione della Chiesa», e specialmente dei parroci. Scorza era stato nominato segretario del PNF il 19 aprile 1943, dopo essere stato vicesegretario dal 22 dicembre 1942. Calabrese, fascista dal 1920, uno dei capi degli squadristi della provincia di Lucca, sostenitore del fascismo intransigente e integralista dopo la «marcia su Roma», responsabile nel 1925 di una violenta aggressione al deputato liberale Giovanni Amendola (morto l’anno dopo anche per conseguenza delle violenze subite), Scorza rimase un capo fascista locale finché il 1° ottobre 1929 entrò a far parte del direttorio nazionale del PNF, e durante la segreteria di Giovanni Giuriati, dal dicembre 1930 al dicembre 1931, ebbe l’incarico di ispettore generale dei reparti universitari fascisti. Animato da una concezione mitica e mistica del fascismo, nella primavera del 1931 condusse una virulenta campagna del partito contro l’organizzazione dell’Azione cattolica. Alla fine dello stesso anno, con le dimissioni di Giuriati, Scorza cessò di far parte del direttorio nazionale, e il 19 dicembre 1932 fu deplorato dal segretario Starace «per deficienze di carattere politico». Per dieci anni fu tenuto lontano da cariche di partito e di governo, pur manifestando in varie pubblicazioni una fanatica devozione per il duce. Nominato segretario generale del PNF, Scorza aveva preso l’iniziativa di rivolgersi in più occasioni agli italiani per incitarli alla resistenza e alla riscossa. Il 5 maggio organizzò nella capitale una manifestazione di massa per il rapporto ai federali del nuovo direttorio nazionale del PNF. In un prolisso discorso al Teatro Adriano, intonato a una mistica rivoluzionaria che ancora lo animava, Scorza annunciò radicali riforme nel partito per restituire al regime, con un rinnovato slancio rivoluzionario, vitalità ed 164

efficienza. Poi concluse: «La dedizione al DUCE è un elemento che non può essere non dico discusso – ma nemmeno esaminato: perché supera la valutazione umana per appartenere alla mistica delle nostra Fede. […] Se dovremo cadere, giuriamo di cadere in bellezza, con dignità, con onore, affinché quelli che verranno dopo di noi possano continuare a vivere con dignità e onore»230. Subito dopo i gerarchi si recarono a Palazzo Venezia, mentre una numerosa folla si adunò in piazza Venezia ad acclamare il duce, che pronunciò poche parole di vacua retorica – fu l’ultimo suo discorso dal balcone – per dire al popolo che gli italiani sarebbero tornati in Africa, e poi concludere: «Gli imperativi categorici del momento sono questi: onore a chi combatte, disprezzo per chi si imbosca, e piombo per i traditori di qualunque rango e razza. Questa non è soltanto la mia volontà. Sono sicuro che è la vostra e quella di tutto il popolo italiano»231. Nella scia del discorso all’Adriano, Scorza inviò al duce il 7 giugno un appunto in cui proponeva un vasto programma di riforme per una «pronta trasformazione e riorganizzazione» in tutti i settori della vita nazionale; per richiamare «fortemente il Paese alla realtà della situazione, imponendo a tutti uno stile e un metodo di vita consoni al grave destino che incombe sulla Nazione»; per ridare prestigio al partito, eliminando i «parecchi mali» dei quali soffriva, come «l’elefantiasi non solamente numerica ma spirituale», la «diffidenza tra i gerarchi – in carica e non in carica», l’«esagerato arricchimento di alcuni gerarchi»; per combattere la corruzione dilagante; e per restituire efficienza all’amministrazione statale, alle forze armate, alla produzione e alla politica annonaria. Inoltre, Scorza proponeva un riordinamento dei poteri centrali che prevedeva la nomina di tre ministri responsabili per le tre forze armate, mentre il duce avrebbe continuato ad essere 165

«il Comandante Supremo, col suo Capo di Stato Maggiore Generale coadiuvato dai tre Capi di Stato Maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica»; soprattutto, insisteva Scorza, il duce «deve riprendere fuori d’Italia la direzione politica dell’Asse con tutte le iniziative che ne possono derivare. All’interno, Egli deve continuare ad essere l’Unico supremo regolatore della vita morale politica e sociale». Scorza concludeva il suo appunto con una professione di mistica devozione: «DUCE, io sono una ruota del Vostro carro: ma questa ruota girerà fino a schiantarsi o fino a che Voi crederete che possa servire»232. Per realizzare il suo vasto programma di riforme – che erano in sostanza le stesse sollecitate dagli altri gerarchi, molti dei quali divenuti critici del regime del duce, ma senza ancora osare manifestare il loro dissenso con iniziative e azioni concrete – Scorza impegnò tutta la sua attività con piglio energico, proponendosi come promotore di un’azione decisiva del partito, per restaurare il suo prestigio fra la popolazione e per svolgere, come segretario del PNF, un ruolo preminente nell’affrontare la gravissima crisi della disfatta militare. A questo scopo dovevano mirare le adunate regionali. Le adunate furono fissate per il 18 luglio. Mussolini, racconta uno degli oratori designati, Giacomo Acerbo, «si affrettò a farle annunziare con strepito dai giornali e dalla radio: il suo spirito vaneggiava ancora nell’aura delle adunate, come se i tre terribili anni di guerra non fossero stati che un sogno!». Ma, racconta ancora Acerbo, parecchi degli oratori designati per i comizi, «scelti tra i membri del governo o del Gran Consiglio (ed io fra essi) fecero comprendere al segretario del partito quanto di grossolanamente indecoroso, e quasi schernevole e provocatorio fosse nelle divisate cerimonie; e gli comunicarono la loro decisione di non prendervi parte. E 166

allora Scorza la mattina del 15 [sic] convinse il capo a revocare l’ordine, e convocò tutti gli ex-designati per il pomeriggio negli uffici del partito, essendo nelle sue intenzioni di condurci da Mussolini per indurlo a chiarire senza ulteriori indugi il suo pensiero e a manifestare i suoi disegni»233. Uno degli oratori designati era il senatore Giovanni Giuriati. Nel primo decennio del regime era stato più volte ministro, poi segretario del partito fascista dall’ottobre 1930 al dicembre 1931, infine presidente della Camera dal 1929 al 1934 e membro del Gran Consiglio per lo stesso periodo: ma dopo la nomina a senatore, il 1° marzo 1934, aveva lasciato definitivamente la politica attiva e non volle più assumere incarichi di governo. Giuriati aveva molta stima per Scorza, e accolse con favore la sua nomina a segretario, scrivendo il 28 aprile 1943 a un suo amico che la designazione di Scorza gli aveva procurato «una soddisfazione immensa. Per lui, che amo e stimo da vent’anni, ma più ancora per il Paese e per il Capo». E allo stesso Scorza, il 31 maggio, aveva telegrafato: «mi felicito fervidamente con te che in poche settimane hai potuto riportare il Partito nel cuore pulsante di Roma»234. Nonostante ciò, Giuriati fu contrariato dalla sua designazione come oratore al raduno di Trieste: «erano ormai dieci anni che non partecipavo in alcun modo alla vita pubblica attiva e mi toccava riprendere la parola per infondere nei miei camerati una fiducia che non era più nel mio cuore!». Tuttavia non chiese di essere esonerato, perché fermamente convinto che «durante una guerra, gli ordini politici devono essere eseguiti come ordini di guerra»235. Non ritenne opportuna l’iniziativa neppure Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni, che aveva appreso dai giornali la notizia di essere stato designato come oratore 167

a Venezia: «Al Ministero trovai un telegramma che confermava la notizia», ha raccontato Cianetti nelle sue memorie: «Lì per lì rimasi perplesso sul significato di quelle adunate, ma poi mi tranquillizzai pensando che fossero l’inizio della fine di un torpore». Il ministro si recò immediatamente da Scorza: «Ho ricevuto quel telegramma per andare a Venezia. Non ti chiedo istruzioni perché suppongo che mi debba regolare in relazione all’ora tragica che attraversiamo. Ho già telefonato al Prefetto». Scorza mi rispose: «Sospendi ogni cosa perché qualcuno di quelli che sono stati designati come te ha chiesto che gli oratori vengano riuniti a Palazzo Littorio. Si pensa che non basti un semplice telegramma per assolvere un compito in questo momento. Che cosa devono dire? Come rispondere ai molti interrogativi che ascolteranno o che leggeranno negli occhi della gente? Alcuni hanno chiesto di conferire con Mussolini prima di partire per le province»236.

Nelle intenzioni di Scorza, la convocazione degli oratori designati non doveva limitarsi soltanto a valutare i temi da trattare nelle adunate regionali, ma doveva essere soprattutto l’occasione per discutere sulla gravità della crisi in cui la disfatta militare aveva precipitato il regime e il paese, e per elaborare i provvedimenti necessari da proporre al duce nell’udienza, sollecitata da alcuni gerarchi e risolutamente appoggiata dal segretario del partito. In tal senso, soprattutto per l’iniziativa di Scorza, il «conciliabolo» del 16 luglio divenne effettivamente il preludio alla notte del Gran Consiglio, come riconobbe Giuseppe Bottai in una riflessione sul 25 luglio svolta nel suo diario il 23 agosto 1946. Polemizzando duramente con Grandi e Federzoni che, nelle loro memorie e interviste pubblicate dopo la fine del fascismo, avevano rivendicato l’iniziativa e il carattere «antifascista» dell’azione che portò al 25 luglio, Bottai riconosceva invece che l’iniziativa era stata unicamente di Scorza: Se Scorza, segretario del Partito, non avesse, lui, convocati intorno al suo tavolo gli oratori designati a imbonire le folle sulla necessità di resistere all’urto col nemico sul suolo nazionale (se ben ricordo il 13 luglio), nessuno avrebbe

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pensato al passo decisivo. Federzoni e Grandi erano in campagna nel Bolognese; Ciano a Livorno. Dei presunti «congiurati» non c’ero che io a Roma. […] Ecco ciò che caratterizza la vigilia del 25 luglio; e il 25 luglio stesso; l’iniziativa del Partito, consapevole, nell’animo del suo Segretario, che la crisi era una risultanza d’un’annosa cronica deviazione del Fascismo, trascorso dai dati obbiettivi della sua dottrina e delle sue carte costituzionali al personalismo dittatoriale. Potrebbe darsi che, oggi, «convenisse» prospettare altre tesi, per farsi il merito di aver segnato nel calendario la data del primo giorno dell’antifascismo. Certe memorie, quelle di Federzoni, o interviste di Grandi e Giuriati, sono su cotesta direttiva: afascisti o antifascisti in potenza, costoro avrebbero atteso il 25 luglio del ’43, per dichiarare il loro nazionalismo o liberalismo. Tesi defensionali «abili»? Un’abilità disonorante. Confessioni sincere? Una sincerità postuma, che squalifica nell’abbiezione vent’anni di vita. Nell’un caso e nell’altro posizioni personali, inconfessate allora, da non mutare il significato genuino della giornata, con la quale s’iniziava non un processo alle riposte intenzioni individuali, ma un processo storico. È in termini di processo storico che, s’ha da dargliene atto, Scorza imposta l’esame della crisi237.

Il rifiuto di Grandi Grandi, appresa la notizia che era stato designato oratore per l’adunata di Bologna, dove allora si trovava, oppose un risoluto rifiuto, e lo ribadì quando il segretario del partito gli telefonò per sollecitarlo a obbedire a un ordine dato personalmente da Mussolini. Nelle sue memorie, Grandi ha scritto di avere allora insistito con Scorza affinché convincesse il capo del governo a convocare il Gran Consiglio, ma di questa sollecitazione non vi è altra testimonianza che la sua238. Comunque, non si mosse da Bologna né risulta che abbia cercato di prendere contatti con gli altri gerarchi, tranne Federzoni, che pure avevano manifestato il loro dissenso nei confronti delle adunate. Quindi Grandi, nei giorni precedenti la convocazione del Gran Consiglio, ottenuta da altri gerarchi senza di lui, nulla fece di quanto il re gli aveva chiesto di fare, cioè 169

mobilitare la Camera o il Gran Consiglio per dare al sovrano la possibilità di intervenire e allontanare il duce dal governo. Anzi, aveva pensato addirittura di lasciare la presidenza della Camera, come disse il 15 giugno a Bottai, che nel suo diario annotò: Mi chiama Grandi. Egli pensa di «mollare» alla fine della legislatura, seppure di ciò possa parlarsi con la legge in vigore, la Presidenza della Camera; e vede in me il suo successore. Un discorso chiaro e affettuoso, alla fine del quale m’autorizza a «muovermi». Ma con chi? Mussolini è sempre a villa Torlonia. Ne accenno in giornata a Scorza, che vede la cosa assai bene239.

Alcuni giorni dopo, fu lo stesso segretario del partito ad informare Bottai di aver lanciato al duce l’idea di Grandi al Senato e Bottai alla Camera. Mussolini l’aveva accolta senza parole «ma con espressioni d’incoraggiamento»240. E il 7 luglio Grandi scrisse a Bottai: «Ti confermo quanto già dissi a te e a Scorza. Da quattro anni sono Presidente della Camera. È naturale e giusto che anche in questo ufficio d’altissima dignità siano avvicendati gli uomini che hanno servito la Rivoluzione. Non ti dico che io sarei particolarmente felice se tu fossi chiamato a succedermi»241. Infine, il 9 luglio, il duce si espresse favorevolmente sull’avvicendamento di Bottai alla presidenza della Camera, con l’assenso di Grandi: «Il Capo mi riceve», annotava Bottai, «e alla conferma di Grandi circa il suo desiderio di lasciarmi la successione alla Camera dichiara: ‘Bene. Tu sarai il nuovo presidente della Camera. Quando finisce la legislatura? Dovrò regolare la cosa in modo da non suscitare chiacchiere all’andata via di Grandi’»242. È singolare che Grandi pensasse a un avvicendamento di cariche, con il consenso del duce, negli stessi giorni in cui meditava su come defenestrarlo. Ma ciò conferma che nella prima decade di luglio nulla di concreto tentò Grandi per avviare alla realizzazione il suo «piano temerario». Addirittura è singolare che volesse lasciare la presidenza della Camera, indicata dal re come uno degli organi 170

costituzionali dai quali attendeva l’indicazione della strada da seguire, e che lo stesso Grandi riteneva che avrebbe potuto appoggiare a maggioranza una iniziativa in tal senso. Oltre tutto, dopo essere stato dimesso dal ministero di Grazia e Giustizia il 6 febbraio, con la rinuncia alla presidenza della Camera Grandi avrebbe cessato di far parte del Gran Consiglio: così, se Mussolini avesse accettato di sostituirlo con Bottai prima del 10 luglio, sarebbe sfumata qualsiasi possibilità per mettere in atto il «piano temerario», perché non ci sarebbe stato nessun ordine del giorno Grandi in Gran Consiglio. Bottai il revisionista In realtà, Grandi annaspava come tutti gli altri e, tranne che nella sua immaginazione, non sapeva come realizzare il suo «piano temerario». Non lo sapevano neppure gli altri gerarchi ai quali egli ha raccontato di aver rivelato il suo piano, come Federzoni e Bottai, che Grandi considerava del tutto schierato dalla sua parte. Bottai era invece interiormente travagliato dal dilemma della fedeltà nei confronti di Mussolini, un dilemma che, pare, non affliggesse né Grandi né Federzoni. Da questi ultimi Bottai si era sempre distinto, durante il ventennio, per un coinvolgimento totale nella politica del regime, in tutti i settori nei quali, dopo essere stato uno dei comandanti delle legioni mobilitate per la «marcia su Roma», operò ininterrottamente, dal 1923 al 1943. E operò assiduamente, sia come uomo di governo, sia come intellettuale fra i più influenti della cultura fascista, con la sua rivista «Critica Fascista», quale promotore e fautore di un revisionismo critico all’interno sia del partito unico sia del regime totalitario. Sottosegretario dal 6 novembre 1926, e poi ministro delle Corporazioni dal 12 settembre 1929 al 171

20 luglio 1932, ministro dell’Educazione nazionale dal 15 novembre al 6 febbraio 1943, Bottai fu membro del Gran Consiglio ininterrottamente dal gennaio 1927 al 25 luglio. Nei quasi vent’anni di carriera ai vertici del regime fascista, Bottai aveva avuto più volte occasione di manifestare privatamente e pubblicamente la propria devozione e obbedienza nei confronti di Mussolini: «con la franchezza che mi viene dalla sicurezza di essere un tuo fedelissimo, ti chiedo di essere adoperato come Commissario politico del Fascismo per il Lazio», gli scriveva il 1° febbraio 1923243. Pur contrastando l’estremismo intransigente dei fascisti come Farinacci, Bottai era stato sempre convinto che il fascismo doveva compiere una rivoluzione integrale per la creazione di uno Stato nuovo, sotto la guida del duce, al quale i fascisti dovevano obbedienza ma senza sottomissione: se i fascisti, scriveva Bottai a Mussolini il 1° dicembre 1924, «sapranno interpretare il tuo pensiero e la tua volontà, se lo sapranno soprattutto i capi, noi creeremo di nuovo in noi stessi quella salda base che ci è necessaria per attuare la Rivoluzione. Occorrerà, nell’avvenire prossimo, guardarsi da due forme di ricatto, coincidenti nella sostanza: il ricatto delle opposizioni e il ricatto dell’estremismo nostro. Si supererà l’uno e l’altro rinforzando lo Stato». Fin dall’avvento del fascismo al potere, Bottai ebbe da Mussolini importanti incarichi, ma ci teneva a precisare al duce, come gli scriveva il 2 marzo 1926, di non aver «mai concepito la mia devozione a te e al Fascismo come un complesso di interessi e posizioni personali suscettibili di baratto e di compensazioni ministeriali. […] Comunque, Presidente, è solo con te che io posso chiudere onorevolmente questa situazione incresciosa. Solo con te, perché in questa selva di insidie, in cui i titoli della propria fede più non valgono a conferire un diritto alla vita e al 172

lavoro, io sento di non potermi affidare che al senso religioso che ò della mia devozione per te». Pur continuando a contrastare l’estremismo nel partito, Bottai coltivava una propria concezione intransigente e totalitaria del fascismo, dichiarandosi sempre pronto a collaborare col duce per il rafforzamento del regime e la prosecuzione della rivoluzione, come gli confermava il 3 novembre 1926: Desidero, però, che tu sappia, mentre necessarie decisioni maturano, atte a difendere il Regime e la Rivoluzione, che, tra i molti che oggi ti seguono e amano, i tuoi vecchi ti sono d’accanto con animo particolare. Tra di essi io ti domando, me per tutti, secondo il tuo disegno, si preparino i tempi di più grande responsabilità, di averne la mia parte, da buon combattente, come ieri la ebbi.

Nel 1928, rispondendo a una inchiesta biografica di un settimanale fascista, Bottai affermava: «Nulla è nella mia vita che appartenga a me solo tanto essa è commista al tempo che Mussolini ha dominato e domina»244. Citando queste parole in un suo libro di memorie pubblicato nel 1949, Bottai rievocò la «generazione mussoliniana» alla quale sentiva di aver appartenuto per un «patto ideale con un Capo, mai soggezione personale», al quale si sentì vincolato, durante tutta l’esperienza del fascismo, da un sentimento di fedeltà «sempre esattamente bilanciata alle idee che via via lo animarono e guidarono»245. Quando fu dimesso da ministro dell’Educazione nazionale, il suo discorso di commiato provocò vociferazioni per aver usato frasi interpretate come polemiche verso il duce, e per aver omesso il saluto al duce all’inizio e alla fine del discorso, alimentando sospetti sulla sua fedeltà. Bottai replicò in una lettera al duce del 2 marzo 1943 precisando il senso delle frasi incriminate, che avevano eccitato «la fantasia delatrice degl’inventori di ‘voci’», smascherando «il tentativo di creare sospetti contro alcuni Tuoi seguaci d’antica data, la cui fedeltà è documentata da inoppugnabili prove di circa un quarto di 173

secolo» 246. Ragioni di una crisi Tuttavia, nonostante una fedeltà sempre ribadita, dopo la conquista dell’impero Bottai era diventato sempre più critico della personalità del duce, per la mutazione profonda che, secondo lui, la gloria della vittoria militare aveva provocato in Mussolini. Le critiche, confinate nelle pagine del diario, divennero più aspre durante la seconda guerra mondiale, quando il primo disastro militare italiano in Grecia rivelò le gravi carenze del regime totalitario, che investivano ogni suo settore: «Penso – scriveva il 22 novembre 1940 –: non ci sono responsabilità parziali in un regime totale o totalitario. Il regime è nato da un processo unitario: unità, concetto che richiama l’armonica vita del corpo umano, col suo unico cuore e le sue varie membra, ognuna, nell’unica vita, vivente sua vita; è andato con moto crescente alla totalità: una forza che non circola più, fa blocco, diviene massiccia e incapace di variazioni vitali»247. E poche settimane dopo, il 13 dicembre, Bottai registrava la progressione della crisi individuando con acume i mali che saranno denunciati dalla maggioranza dei gerarchi nella notte del Gran Consiglio: Si sente la crisi degli animi arrivare a un estremo non di tensione, ma di rilasciamento. Dov’è il popolo fiero delle adunate «travolgenti»? Si dice, che faccia le «code» dinnanzi ai negozi, che brontoli, che motteggi. Ma, in realtà, nessuno ne sa niente. La totalitarietà à reciso i nervi del sistema sociale, la cui torpidità si chiama «disciplina» in tempi di fortuna e con la sfortuna diventa indifferenza, abulia, cinismo. A cercare in noi s’avverte la stessa vuotaggine, questo cadere d’ogni forza morale: e la nostra fede, a un tratto, ci sta dinnanzi, resa a noi estrinseca e impersonale dalla cosiddetta «spersonalizzazione». La volontà di difenderla non ci può venire, ormai, e ci verrà, da una vittoria su noi stessi, non di noi stessi. Difendendola e salvandola, finiremo col perpetuare il sistema, che l’à creata questa fede anonima, formale, uniforme, non mia, non tua, non sua, ma «di tutti» contro ognuno, totalità, in cui non ti ritrovi, non ti riconosci, ma ti dilegui e cancelli.

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Quest’è la crisi dell’ora: che ciascuno avverte la suprema necessità di salvare l’onore e l’integrità della Patria, ma non a patto di salvare il Sistema che l’à portata a questa congiuntura avvilente. Non una crisi «militare»; e neppure «politica», nel senso che queste due parole sono dai più l’una all’altra opposte: ma intima, personale, di ognuno di noi, singolarmente preso. E, forse, in quest’essere crisi della persona umana è la radice della vera salvezza, se chi può e chi deve vorrà intenderlo. Non basta più agire sulla «massa». Bisogna agire sugli uomini, negli uomini248.

Nondimeno, Bottai non concordava con Grandi e Federzoni né con Ciano nell’attribuire al duce tutte le responsabilità del disastro italiano, immaginando che ciò sarebbe bastato per convincere il re a deporre Mussolini, a procedere al distacco dalla Germania e a chiedere la pace agli anglo-americani. Il 12 maggio 1943, a colazione da Ciano, Bottai annotava nel suo diario che il genero del duce incentrava la sua critica della situazione «sempre più in Mussolini, unico impedimento a esami e valutazioni spregiudicate e urgenti»: E qui ricompare il problema Mussolini, che ancora l’altr’ieri diceva a un industriale romano che ad agosto la situazione muterà a nostro favore. Come? Perché egli non cerca di rifondere questa persuasione nei suoi uomini e nel popolo? Galeazzo definisce egoistico e antipatriottico il suo contegno. E si domanda e ridomanda come se n’uscirà. Da escludere il successo di eventuali «passi» di questo o di quello. Non c’è che il Re. Ma il Re tace. Il Principe, ch’egli ha visto stamane, fa discreti accenni al patriottismo di Mussolini. Forse spera ch’egli levi l’incomodo. Ma Mussolini questo non lo farà mai. Galeazzo aggiunge che una soluzione italiana alla crisi sarebbe aiutata dal Vaticano. «Gran brava gente, quei preti!», esclama. Secondo lui l’America non sarebbe aliena dal trattare, non con il Fascismo, ma con alcuni uomini del Fascismo. In ogni caso non con Mussolini249.

Negli occasionali incontri che ebbe con altri gerarchi nei mesi precedenti il 25 luglio, Bottai sentiva spesso parlare di «pace separata», ma la considerava nulla di più di una formula vaga e illusoria, come scriveva il 19 maggio 1943: Una formula che corre di bocca in bocca. Ma nessuno sa cosa vuol dire. «Vincere», «resistere», «pace separata», nessuno sa più che cosa vogliono dire, che cosa comportino. Si può, al punto in cui siamo, separare una nostra pace dalla guerra comune? Propendo a pensare che non avendo noi, nella guerra comune, fatta una nostra guerra, concepita, cioè, e condotta secondo una chiara autonomia

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di principii, non sia possibile, oggi, una nostra pace: o gli angloamericani ci imporrebbero la loro o i germanici la loro. E, forse, sulla linea del Po, le due «paci» verrebbero a farsi guerra, tra i più o meno partecipi spettatori. Sempre più Mussolini nell’opinione comune è il capro espiatorio di tutto. E in questa riduzione d’un processo storico formidabile, che prelude a un rivolgimento di rapporti sociali interni ai popoli e internazionali, c’è qualcosa di grottesco, d’assurdo, che diminuisce e avvilisce l’intelligenza politica italiana. Per me Mussolini è colpevole, soprattutto, di questo: di avere calpestata e mortificata cotesta intelligenza fino al punto di renderla incapace di guardare oltre la di lui persona, negli elementi e nei fattori della nemesi storica250.

Pur non considerando il duce responsabile unico, Bottai nelle due settimane precedenti il 25 luglio ebbe un ruolo importante nell’avviare il corso di azioni che portarono alla convocazione del Gran Consiglio, mentre nello stesso periodo Grandi e Federzoni restavano inerti in attesa degli eventi. Bottai fu il più attivo fra i gerarchi che il 16 luglio, insieme al segretario del partito, presero l’iniziativa di chiedere al duce il rinvio delle adunate regionali e nello stesso tempo sollecitarono un’udienza per convincerlo a convocare il Gran Consiglio. Tutti con Mussolini Il rifiuto di Grandi di partecipare alle adunate regionali irritò molto il duce. Il 13 luglio, Scorza convocò nel suo ufficio Bottai, oratore designato a Firenze, per chiedergli di recarsi a Bologna e persuadere Grandi ad obbedire. Ma anche Bottai era perplesso sulle adunate e lo manifestò a Scorza, mentre erano presenti nel suo ufficio il capo della polizia Chierici, il sottosegretario all’Interno Albini e il sottosegretario agli Esteri Bastianini, anch’egli oratore designato. «Ho subito la sensazione d’essere in un piccolo consiglio di guerra», scrisse Bottai nel suo diario: «Invitato a rimanere, vengo a farne parte de facto. Vedo che sono arrivati agli argomenti estremi: lui questo lui amato e incombente, adorato e ingombrante». Dopo aver discusso, 176

si giunse alla conclusione che «non bisogna fare i rapporti» nelle città perché «inopportuni nella tragicità della situazione». Invece dei rapporti nelle regioni, Bottai propose «un rapporto al centro degli uomini più rappresentativi, che esaminino la situazione e maturino proposte perentorie da fare al Capo»: Scorza chiede e ottiene di vederlo subito. Noi l’attendiamo. Torna. Il Duce, che m’era stato nel frattempo descritto da Albini come disfatto («pare un budda»), assente, gli ha rifischiato qualche motivo di fiducia. La solita tattica dell’inganno, del trucco. Ha acceduto al rinvio dei rapporti e alla convocazione romana. Si discute di questa, dei nomi e dei temi. O meglio: dell’unico tema. Chierici e Bastianini sono le due punte estreme; sostengono che bisogna andare dal Capo, pregandolo di mettersi da una parte (sopra o accanto al governo non si sa bene) e lasciare che un governo responsabile, coi suoi tre ministri militari da nominare e gli altri da confermare o mutare, governi. Io taccio, ché non arrivo ad afferrare l’idea di questo Mussolini estromesso, ma fino a un certo punto. Sono stordito dal colpo avuto: e qualche cosa mi sfugge. Sento come due tentacoli del cervello frugare in quel viluppo di frasi sconnesse: e trarne un senso. Scorza ha la sua faccia impassibile, «da bonzo», l’ha definita qualcuno. È solo un po’ pallido. Alle 15 ci congeda. Dovremmo tenerci in contatto fino alla riunione, che avrà luogo, dice, venerdì251.

Bottai definiva quella del 13 luglio «una giornata che sarà, se possibile, da ricordare; intanto, tra le più sofferte della mia vita». A renderla tale per il gerarca romano non erano soltanto le notizie dell’avanzata anglo-americana in Sicilia, che ferivano il suo sentimento patriottico. Infatti, dopo la riunione nella sede del partito, Bottai si sentì preso da «un pensiero indistinto e massiccio com’un macigno. Un dolore-blocco; che non si decifra», che egli associava al dolore per la patria: «Sì, la patria. Sembrava un lungo amore il nostro per essa; e prove ne sembrano le guerre fatte per lei. Ora la patria è questo dolore. Immenso, sordo, oscuro, cupo, con un rombo pauroso da visceri sprofondate nella sua terra, nella sua carne». Oppresso da questo dolore, dopo aver trascorso una notte insonne, Bottai rifletté per mettere 177

ordine nei suoi pensieri: «D’istinto mi metto al mio tavolo e metto dell’ordine nei miei pensieri di jeri. Delle ipotesi avanzate in quel piccolo affannato consiglio di jeri mi traccio questo quadro», in cui prospettare alcune possibili situazioni di governo ruotanti attorno alla figura di Mussolini252. La prima era una «situazione di governo con Mussolini», cioè una situazione «tutta interna al fascismo (Partito e idea). Se la situazione è (non si ritiene che sia) questa, occorre, comunque, un Mussolini che, nei limiti, ma anche con la celerità che l’ora consente ed esige, si adegui alle funzioni di Capo del Governo secondo le norme della costituzione fascista», per adottare i seguenti provvedimenti: nomina di ministri militari; funzionamento effettivo del capo di Stato maggiore; «sterzamento della Propaganda, da rendere alta e insieme più elastica, slegata dal formulario di parte»; «responsabilità attiva (non meramente passiva) dei ministri e funzionamento del loro Consiglio con la frequenza adeguata alle circostanze»; convocazione del Gran Consiglio; «proclama del Re al paese, seguito da un manifesto del Duce (e del Gran Consiglio?)». La seconda era una «situazione di governo senza Mussolini», che «già si considera non tenibile in parte o del tutto nella mano del Fascismo (Partito e idea)». Per Bottai, si trattava di una situazione gravida di incognite, che non riguardava più soltanto la figura, e le responsabilità, di Mussolini, ma coinvolgeva nelle sue responsabilità tutti i fascisti: Non è in questo momento che, distinguendo mussolinismo da fascismo si può accantonare (sia pure più in alto) quello per mettere alla ribalta questo: sarebbe troppo tardi. Se fossimo a questo punto (e solo chi ora ha in mano poteri e stromenti di governo può dare responsabile risposta), non si tratterebbe più di distaccare Mussolini dal Fascismo e dal Paese, ma noi, quanti siamo fascisti e incarniamo, quindi, il Fascismo con lui dal Paese; ma la situazione, in questo caso, diverrebbe tipica competenza della Corona. A questa spetterebbe decidere sul tipo di governo: militare? militare-civile? militare-civile soltanto con civili non fascisti, o con gli uni e gli altri insieme?253.

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Bottai concludeva le sue riflessioni osservando che vi erano solo queste due alternative, perché una terza, cioè quella di «Mussolini sopra o accanto a un governo di cui non faccia parte, sarebbe soltanto intermedia: e questo è periodo di decisioni estreme, non intermedie». Nel prospettare le diverse situazioni, Bottai non aveva fatto riferimento al «fatto guerra», ma solo perché – precisava a chiusura delle sue considerazioni – «è evidente ch’esse sono nei loro fondamenti e nei loro fini legate soltanto a esso». Dopo aver stilato questo prospetto, nel corso della giornata Bottai lo fece leggere a Scorza e successivamente a Bastianini, insistendo che non vi era una terza soluzione: «o tutti con Mussolini, sia pure costretto a agire con noi, nell’estremo tentativo di dare un governo della difesa all’Italia; o tutti con Mussolini nel lasciare al Re di tentare lui quella difesa»: «Ci sono i tedeschi, tutti osservano; e io con loro. Mussolini dovrebbe ottenere da loro in extremis che non tormentino il paese; il Re ottenere dagli altri l’uguale. Realizzare una neutralità assoluta. Metterci fuori del tutto. Ricominciare la vita e la storia da una solitudine chiusa e disperata»254. Il «passo» Le considerazioni di Bottai non convinsero Scorza, che ora riteneva «pericolosa» la riunione fissata per il 16 luglio, perché «si darebbe nell’occhio». Il segretario del partito propose di vedersi «alla spicciolata; e di far maturare ‘il passo’ con un numero più ristretto di persone. Tergiversazioni», commentava Bottai. Il 15 luglio, con «animo fermo e nervi sempre più solidi», Bottai espose al generale Gastone Gàmbara, suo comandante durante la guerra in Albania, le sue considerazioni sulle due alternative, e concordarono «che ora non c’è che la prima: 179

con Mussolini, nelle già dette condizioni». Per la prima soluzione si dichiarava anche il capo della polizia Chierici, incontrato nello stesso giorno255. Tuttavia, la sera Bottai fu avvertito che la riunione del 16 era stata rinviata: Dunque, ogni conato ha da cadere nel nulla? Dunque, hanno ragione Grandi, che se ne sta nella sua campagna bolognese; Federzoni che, fatta una capatina a Roma, ha ripreso anche lui il largo; Galeazzo, che sta all’Antignano a far abboccare pesci al suo amo e che avrebbe detto a qualcuno di passaggio colà ch’egli attende un «commando» inglese a prelevarlo? È duro sperare oltre la speranza. Credere contro il crollare d’ogni convinzione256.

Invece, il giorno dopo, alle 11, Bottai fu nuovamente convocato da Scorza alla sede del partito, dove trovò altri oratori designati, fra i quali Giuriati, Farinacci, De Bono, Teruzzi, Bastianini, De Cicco257. Grandi era rimasto a Bologna, Federzoni era a Roma, ma si era scusato per l’assenza, dirà Scorza, «con una lettera in perfetto stile ortodosso»258: Scorza espone la situazione: militare-siciliana, criticissima; militare-nazionale, criticissima, anche per il problema colossale della difesa delle coste, che offrono multipli punti d’attracco e d’attacco; Stato Maggiore, ostile, sfiduciato, tanto da covare in sé l’estremo rimedio del colpo di stato; parte cattolica, ostile, già braccante nuove soluzioni; masse operaie, ostili, facile preda dei Kerenskij prima, dei Lenin poi. «Non c’è – dice – che il popolo, nei suoi indistinti strati, che ancora possiamo tenere a noi con un’energica presa di posizione»259.

Gli altri furono concordi nel giudicare la situazione «più che grave, tragica»260. Le versioni dei vari interventi, date dai partecipanti in diari o memorie, sono tuttavia alquanto discordanti. Secondo quanto scrisse De Bono nel suo diario, furono tutti «contro Mussolini. In sostanza non si è definito bene; ma era nella mente di tutti che non se ne vuol più sapere di Lui»261. Invece, secondo quanto ha raccontato Scorza, De Bono avrebbe detto: «Bisogna che Mussolini resti il nostro Capo e Duce, perché senza di lui succederebbe il terremoto; ma è indispensabile che egli lasci al più presto il Comando delle Forze Armate». Farinacci, sempre nel racconto di Scorza, avrebbe proposto di «fare 180

del Duce il nostro prigioniero, il prigioniero del Partito», per liberarlo «dalla cricca militare che gli si stringe intorno»262. Giuriati affrontò l’aspetto costituzionale della crisi del regime, che egli fece risalire a «una serie di disfunzionamenti cronici dell’apparato di governo». Lo seguì sulla stessa via Bottai, dicendo che bisognava battere su questo tasto, «insistere col Capo: per determinare la posizione di Mussolini nell’ambito dei poteri che le leggi gli attribuiscono» ed «esigere da lui l’osservanza puntuale di coteste leggi», riattivando «il funzionamento di tutti gli organi di consultazione, di controllo, di esecuzione. Dal più al meno, tutti concordano in questo punto di vista»263. Teruzzi auspicò «una riforma per decreto della composizione del Gran Consiglio, che, riportato alla sua essenza politico-rivoluzionaria, dovrebbe essere convocato subito»264. Comunque, alla fine furono tutti d’accordo, e su questo le testimonianze concordano, di incaricare Scorza a sollecitare il duce a riceverli. «Insomma, il ‘passo’ […] sembra maturi, in quest’atmosfera torbida e indefinibile», commentò Bottai265. Nel primo pomeriggio Bottai ricevette una convocazione alla sede del partito per le 17,30 «possibilmente in divisa»: «Ci siamo, penso; siamo al passo, e lo si vuole fare, staracianemente, in costume». Bottai, in abito civile, si recò prima a far visita a Galeazzo Ciano, giunto a Roma ammalato da Livorno. La carriera di Ciano, iniziata in diplomazia, dopo il matrimonio con la figlia primogenita del duce procedette speditamente in cariche di governo: sottosegretario al ministero della Stampa e propaganda dal 6 settembre 1934, poi ministro dal 26 giugno 1935 all’11 giugno 1936, quando fu nominato ministro degli Esteri, fino al 6 febbraio 1943, quando fu dimesso e nominato ambasciatore presso la Santa Sede. Da fautore dell’Asse, dopo l’inizio della 181

guerra il 1° settembre 1939 Ciano ne era diventato un deciso oppositore, convinto che Hitler avesse ingannato il duce iniziando la guerra senza avvertirlo. Fu perciò contrario all’intervento dell’Italia. Quando fu dimesso da ministro degli Esteri, il genero di Mussolini chiuse il suo diario raccontando il cordiale commiato dal duce: «Di ciò sono molto contento perché a Mussolini voglio bene, molto bene e la cosa che più mi mancherà sarà il contatto con lui»266. Furono, forse, le uniche, ultime espressioni di affetto e di stima che Ciano manifestò per il duce in quel periodo, perché fin dal 1941 il suo giudizio nei suoi confronti, dopo aver oscillato secondo l’andamento della guerra, divenne aspramente e sarcasticamente negativo. Dopo la nomina presso la Santa Sede, Ciano si allontanò dall’ambiente politico romano, soggiornando spesso a Livorno, convinto che la guerra fosse ormai perduta e bisognasse cercare di uscirne trattando con gli Alleati. A Bottai, il pomeriggio del 16 luglio, disse che l’unica soluzione era un «armistizio immediato», e considerò «con assoluto scetticismo il passo imminente»267. Preludio al Gran Consiglio Alle 17,30, nella sede del partito, erano nuovamente riuniti gran parte degli oratori designati per le adunate regionali. La riunione fu «breve e animata. Ognuno vuotò succintamente il sacco delle proprie amarezze», ma furono tutti concordi «nel deplorare l’isolamento in cui si era chiuso Mussolini»268 e nel presentare al duce, come «proposizione risolutiva», la prima tesi proposta da Bottai nel suo prospetto, cioè una riattivazione istituzionale degli organi collegiali, per sanare lo squilibrio che da un ventennio gravava sul regime, lo «squilibrio tra potere 182

personale e governo legale»269. Con questo accordo, i gerarchi si recarono a Palazzo Venezia. Sono contrastanti le testimonianze sul contegno del duce durante l’udienza. Giuriati: «Mussolini ci ricevette, secondo il suo stile, stando in piedi. Era dimagrito, se non proprio emaciato; appariva stanco e depresso; anche qualche scatto durante il drammatico colloquio non somigliò più al balenare dell’antica attitudine polemica; sembrò piuttosto dovuto alla reazione nervosa prodotta da eccessiva fatica, o da patemi, o forse da vero e proprio stato di malattia»270. A Cianetti invece il duce, in piedi, indossando una «impeccabile uniforme bianca del Partito», apparve «fresco e tranquillo. Non c’è che dire: il suo fascino personale era, per mio conto, ancora forte perché, nonostante tutto l’amaro che sentivo in gola, provai un senso di conforto nel vederlo così»271. Bottai annotava nel suo diario un’altra impressione ancora: Com’era il volto di Mussolini, in quel primo approccio? Riposato, intanto, e con un suo colorito, di un uomo fisicamente ripreso. Ma la testa si volge verso di noi, a uno a uno, con una leggera, quasi impercettibile, obliquità, come volesse, guardandoci di scàncio, difendersi a un tempo e penetrare intenzioni non meno traverse del suo sguardo. Conosco, conosco questo atteggiamento da uccellaccio da preda. Come conosco quel suo sorriso forzato che ora gli torce le labbra e nasce da un rictus nervoso che, tentando invano di divenire franco riso di cortesia, rimane a mezza strada tra la smorfia della diffidenza e la dissimulata disinvoltura272.

Esordì Scorza a spiegare brevemente il motivo della richiesta di udienza. Il duce diede subito la parola a Farinacci, che fece nel suo intervento una raffica di accuse contro lo Stato maggiore, spesso interrotto polemicamente dal duce, e concluse chiedendo la convocazione del Gran Consiglio. La questione costituzionale, secondo le linee concordate precedentemente, fu esposta in termini propriamente giuridici da Giuriati, il quale disse, e lo ripeté poi in una lunga lettera al duce, che la crisi del paese, precedente la disfatta militare e in parte causa di questa, era 183

derivata dalla disapplicazione o dal travisamento delle leggi istituzionali del regime nel funzionamento dei principali organi di governo. Era il caso della legge sul Gran Consiglio, che non era convocato da anni e aveva disatteso ai suoi compiti fondamentali, come preparare e tenere aggiornata la lista degli eventuali successori alla carica di capo del governo. Era il caso della legge sul primo ministro, stravolta dal fatto che Mussolini era stato sempre titolare di parecchi ministeri e nello stesso tempo aveva screditato il Consiglio dei ministri e gli stessi ministri, ridotti alla funzione di «comandanti in seconda»273. Parlò quindi Bottai, evidentemente come portavoce di tutti, o quasi tutti. Egli affrontò la questione costituzionale come questione essenzialmente politica, perché riguardava il potere del duce. Noi, disse Bottai, siamo venuti «a ricreare con te, e per te, nello spirito della nostra costituzione rivoluzionaria, la salvezza della rivoluzione e dell’Italia»: Noi chiediamo che la rivoluzione ricostituisca i suoi organi, per agire come l’ora comporta. Non siamo qui a chiedere di diminuire i tuoi poteri, anzi il tuo potere; né per dividere, cioè sezionare, frammentare, la tua responsabilità. Siamo qui, nel rinnovato e ribadito riconoscimento del tuo potere di capo, a chiedere, di condividere la tua responsabilità. A farne, cioè, una corresponsabilità, che leghi noi a te, ma anche te a noi, in una pronta, assoluta e dichiarata reversibilità. È per questa corresponsabilità, che visibilmente dia al paese la consapevolezza d’un comando non meramente personale ma collettivo, maturato e formato nel vaglio multianime, e perciò unanime, di tutti gli elementi della situazione; è per creare questa corresponsabilità, che noi chiediamo la rimessa in atto della costituzione. Prevede questa che tu sia il «primo», ma non il solo, dei ministri: il primo, dunque, in un Consiglio dei ministri realmente esistenti in ogni settore, anche quelli, per esempio, e non sono secondari, della guerra, della marina, dell’aria; degli esteri, degli interni. […] Proprio questo noi chiediamo: dei ministri qualificati, attivamente responsabili, per cui la responsabilità non sia un peso, ma un’arma da valere per il combattimento. E che lo siano uno per uno, ma soprattutto tutti insieme. Tutti insieme, questo soprattutto conta, questo vuole il Fascismo, questo soltanto può rendere il Paese rispettoso del Fascismo. Un consiglio dei ministri che delìbi insieme ogni questione, e che insieme ne deliberi le soluzioni. […]

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Potrei ripetere le fatte considerazioni pel Gran Consiglio del Fascismo, che dev’essere richiamato in vita e in azione, riportandolo, secondo noi, con immediata riforma, alla sua primitiva essenza politico-rivoluzionaria. Così com’è oggi esso è un ibrido politico-amministrativo, della cui riunione tu stesso hai avvertito l’inutilità. Vi sono, vi saranno supreme decisioni che solo il Gran Consiglio può e potrà prendere con puntuale rispondenza nell’animo dei fascisti. Penso inoltre, e questo l’aggiungo io, che anche altri istituti debbono essere ravvivati in quest’ora, quelli che rappresentano il Paese: le due Camere. Difficile, lo so, e non scevro d’inconvenienti, ché da troppi anni sono costretti a compiti subalterni. Ma tuttavia è ad essi che noi possiamo chiedere quell’efficace arma della rappresentatività che si deve contrapporre a un mondo che ci combatte in nome d’una particolare rappresentatività. Concludo: noi chiediamo che, attuandosi nella sua interezza la costituzione, si dispieghi nella sua interezza la nostra solidale azione negli eventi decisivi cui andiamo incontro274.

Il duce ascoltò Bottai senza mai interromperlo. Per circa due ore, ha raccontato Cianetti, «quasi tutti i presenti manifestarono le proprie preoccupazioni ed espressero le loro critiche. Ma la nota dominante fu una sola e potrebbe riassumersi con le parole dette da Bottai»275. Dopo aver tentato più volte, con gli altri oratori, di far deragliare la discussione su dettagli marginali, alla fine il duce, soprattutto per la sollecitazione di Bottai e di Farinacci, disse: «Ebbene, radunerò il Gran Consiglio. Si dirà in campo nemico che s’è radunato per discutere la capitolazione. Ma l’adunerò»276. Il contegno di Mussolini durante l’incontro era parso a Cianetti «remissivo»277. Ma, al solito, recitava. Infatti l’incontro lo aveva molto irritato. Due giorni dopo, Cianetti incontrò Galbiati e da lui seppe che Mussolini non aveva gradito la visita, e addirittura aveva commentato come un’offesa personale la varietà d’abito dei presenti: «Sono venuti da me un gruppo di signori malvestiti per farmi un pronunciamento. Chi indossava la divisa fascista, chi quella ministeriale, chi l’abito civile. Alcuni avevano i pantaloni bianchi, altri bleu, altri ancora gli stivali…»278. Udendo ciò, a Cianetti «caddero le braccia dallo sconforto! 185

In quel momento tanto tragico, quando tutto crolla intorno a noi, il condottiero di un popolo ironizzava sui suoi collaboratori e si preoccupa del colore dei loro pantaloni! Questa non si chiama più nemmeno incoscienza, ma pazzia pericolosa!»279. Il duce aveva comunque ceduto alla richiesta di convocare il Gran Consiglio. Il cedimento era una crepa nel suo potere incondizionato, e ciò fu un incitamento per i gerarchi a proseguire nel passo intrapreso. Fra i presenti all’udienza del 16 luglio a Palazzo Venezia c’erano nove gerarchi della notte del Gran Consiglio, e sei di questi avrebbero votato l’ordine del giorno Grandi. Non solo per gli argomenti discussi, ma per la maggioranza dei partecipanti, si può dire che il 25 luglio, come data simbolica della fine del duce e del regime fascista, iniziò il 16 luglio a Palazzo Venezia, con una sorta di prova del Gran Consiglio. Solo che quel giorno, alla prova, non vollero partecipare né Grandi né Federzoni.

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226 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano

1967, p. 193. 227 ACS, CF (acquisite nel 2009), b. 5 (collocazione provvisoria), Diario di un condannato a morte, pp. 8-9. 228 D. Alfieri, Due dittatori di fronte, Rizzoli, Milano 1948, p. 302. 229 C. Scorza, Mussolini tradito, Cino del Duca, Milano 1983, p. 142. 230 Il testo completo del discorso è in ACS, SPD, CR, b. 49, fasc. 242/R «Scorza Carlo Ministro Segretario del P.N.F.». 231 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXI, p. 178. 232 Il testo del rapporto di Scorza è riprodotto in R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in guerra 1940-1943, 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 1528-1535. 233 G. Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Cappelli, Rocca San Casciano 1968, pp. 491-492. 234 Archivio Giuriati. 235 G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 219. 236 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, p. 393. 237 G. Bottai, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1988, pp. 439-440. 238 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, p. 218. 239 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 383. 240 Ivi, p. 385. Cfr. Scorza, Mussolini tradito, cit., pp. 158-159, che attribuisce a Grandi la proposta di cedere a Bottai la presidenza della Camera, passando eventualmente alla presidenza del Senato. 241 ACS, SPD, CR, b. 4, fasc. 64/R «Bottai Giuseppe», sottofasc. 2 «Vicende politiche». 242 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 386. 243 ACS, SPD, CR, b. 49, fasc. 64/R «Bottai Giuseppe», sottofasc. 4 «Varia» (per questa e le successive citazioni). 244 G. Bottai, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano 1949, p. 5. 245 Ivi, p. 8. 246 ACS, SPD, CR, b. 49, fasc. 64/R «Bottai Giuseppe», sottofasc. 7 «Copia di lettere importanti contenute nel fascicolo». 247 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 233-234.

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248 Ivi, pp. 239-240. 249 Ivi, pp. 377-378. 250 Ivi, pp. 378-379. 251 Ivi, p. 388. 252 Ivi, pp. 388-389. 253 Ivi, p. 390. 254 Ibid. 255 Ivi, pp. 390-391. 256 Ivi, p. 392. 257 Giuriati, La parabola di Mussolini, cit., p. 219, dava fra i presenti

anche De Vecchi, Acerbo, Biggini, Cianetti «e forse qualche altro». 258 Scorza, Mussolini tradito, cit., p. 164. 259 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 392. 260 Giuriati, La parabola di Mussolini, cit., p. 219. 261 Cit. in G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943: crollo di un regime, Mursia, Milano 1982, p. 805. 262 Scorza, Mussolini tradito, cit., p. 164. 263 Bottai, Vent’anni e un giorno, cit., p. 277. Il resoconto del diario di Bottai alla data 16 luglio pubblicato in quel volume differisce dalla nota del 16 luglio in Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 392, molto succinta e addirittura senza nulla riferire del suo intervento. 264 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 392. 265 Ivi, p. 393; cfr. Scorza, Mussolini tradito, cit., p. 164. 266 G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1980, p. 497. 267 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 393. 268 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 394. 269 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 394. 270 Giuriati, La parabola di Mussolini, cit., p. 220. 271 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 394. 272 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 395. 273 Giuriati, La parabola di Mussolini, cit., pp. 221-222. 274 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 396-398. 275 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 395. 276 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 398. 277 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 395. 278 Ivi, p. 396. 279 Ibid.

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Capitolo settimo. Gioco grosso

«La sera del 19 luglio, di ritorno dal convegno con Hitler da Feltre, mi chiamò a villa Torlonia e mi ordinò di indire la seduta del supremo consesso fascista per le diciassette del 24 luglio. Mi apparve molto scosso per il bombardamento subito quel giorno da Roma, il primo di tanti»280. Così Carlo Scorza ha ricordato in una intervista del 1968 la decisione del duce di convocare il Gran Consiglio, come aveva promesso alla conclusione dell’udienza con i gerarchi la sera del 16 luglio. Dell’udienza dal duce, Grandi ha raccontato di essere stato informato da Federzoni, tornato a Bologna il 18 luglio, che «l’adunanza presso Scorza era stata burrascosa. Gli intervenuti domandarono al segretario del partito di essere portati a Palazzo Venezia da Mussolini»: Mussolini acconsentì di riceverli e li accolse con tono freddo e sprezzante: «Sia anzitutto ben chiaro che io mi trovo di fronte semplicemente degli oratori che domandano istruzioni, e non membri del governo o del partito». Dovette certo pensare in quel momento, e col ricordo ancora cocente, ad un’altra riunione di vent’anni prima, quando i consoli della Milizia, capitanati da Farinacci, irruppero nel suo ufficio il 30 dicembre 1924 e lo obbligarono al discorso del 3 gennaio. […] Tutti fecero presente la gravità della situazione e domandarono che il Gran Consiglio fosse subito convocato perché ciascuno potesse esprimere la propria opinione ed assumere la propria responsabilità. Mussolini non soltanto non promise affatto (come al contrario egli scriverà più tardi) di convocare il Gran Consiglio, ma escluse tale eventualità: «Lo farò alla fine della guerra e dopo la vittoria». «Per ora il dovere di tutti è uno soltanto: obbedire»281.

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Versioni in contrasto Ci sono alcune rilevanti inesattezze nel racconto di Grandi. Innanzi tutto, il suo racconto su come e da chi apprese la notizia dell’udienza dei gerarchi dal duce contrasta nettamente con quello di Federzoni, il quale, nel suo diario del 20 settembre, narrava che era stato lui ad essere informato da Grandi, e non viceversa, sulla riunione presso Scorza e sull’udienza dal duce. Inoltre, da tutte le testimonianze dei gerarchi intervenuti, non risulta che la riunione da Scorza fosse stata burrascosa, mentre nessuno dei presenti all’udienza dal duce ha riferito la frase mussoliniana sulla convocazione del Gran Consiglio solo dopo la vittoria, citata da Grandi come a lui riferita da Federzoni: pertanto, non si sa da chi Grandi potrebbe aver appreso la falsa notizia di un rifiuto del duce, a meno che non si tratti di una sua invenzione. È tuttavia curioso che nel suo diario del 1943, alla data del 19 luglio, Grandi annoti di aver ascoltato alla radio il discorso di Scorza, ma nulla scrive su quanto aveva appreso da Federzoni o da altri sulla riunione dei gerarchi da Scorza e poi dal duce. Infine, i consoli che imposero a Mussolini il discorso del 3 gennaio non furono capeggiati da Farinacci, ma dai consoli della Milizia Enzo Galbiati e Aldo Tarabella282. Non sono queste le uniche contraddizioni, lacune e inesattezze nei numerosi racconti sulle vicende del 25 luglio, pubblicati dal 1944 al 1983 da Grandi. Ve ne sono molte altre: alcune sono evidenti invenzioni o manipolazioni, particolarmente gravi perché riguardano i discorsi e il contegno di Grandi stesso durante la notte del Gran Consiglio. Ma inesattezze, invenzioni, manipolazioni si trovano egualmente nei resoconti di altri attori del 25 luglio, a cominciare da Mussolini: pertanto, i loro racconti possono essere considerati apocrifi d’autore, composti dopo il crollo del regime totalitario, spesso elaborati col senno del 190

poi, miranti a dare una rappresentazione parziale, lacunosa o semplicemente falsa, essendo ognuno di essi impegnato unicamente a far risaltare la coerenza, la dignità, il coraggio, la consapevolezza del proprio comportamento. Salvo poi contraddirsi in successive versioni o smentirsi reciprocamente. Come fece per esempio Bottai, che polemizzò indirettamente, e con commenti molto aspri, sia nel diario sia nelle lettere alla famiglia, contro Grandi e Federzoni smentendo le loro versioni sul 25 luglio pubblicate fra il 1945 e il 1947, mentre Bottai militava nella Legione straniera, in cui si era arruolato nel settembre del 1944, combattendo poi in Francia e in Germania. A proposito delle memorie di Grandi, il 30 giugno 1945, riferendosi probabilmente all’articolo pubblicato da «Life» nel febbraio 1945 o agli articoli con interviste a Grandi pubblicati da «Il Popolo», Bottai scriveva in una lettera alla famiglia: Quelle puntate del libro di Grandi mi fanno schifo. Se certe confessioni sono vere, l’uomo ne esce squalificato moralmente; se sono false, architettate a scopo di ritrattazione difensiva, sono inutili e stupide. Tutto ciò non serve a nulla: non a salvare la pelle, tanto meno a salvare l’anima. Cosa ha servito a Giacomino [Giacomo Acerbo] definirsi un «fascista per caso»? Semplicemente a velare di disistima la compassione che si deve avere per lui. Io taccio, per ora. Non prendo la parola neppure per confutare le falsificazioni tendenziose di Grandi sulla storia del 25 luglio. Quando scriverò, scriverò da uomo che ha amato Mussolini, che non l’ha ritenuto affatto un pazzo, che ne ha ammirato le doti straordinarie, che lo ha servito lealmente, anche la sera in cui l’ha abbandonato, non con la maschera sul volto, ma a viso aperto. Non cercherò di difendere pretestuando la mia mala fede, ma provando la mia buona fede. Dirò che ho avuto più fede in Mussolini di Mussolini stesso; e che ho veramente atteso da lui, fornendogli, quando Grandi e gli altri tacevano, seri contributi critici, un mutamento di politica. Io ho sbagliato perché ho creduto; e non perché ho finto di credere283.

In altre lettere, Bottai rivendicava la sua militanza nel regime, come scrisse il 25 agosto 1945: «non fui fascista ‘per caso’. […] Se per cotesta fede voi mi chiamate a pagare, 191

eccomi, qui, io pago. Pago per me e per tutti, pago per i Grandi, per gli Acerbo, per i Monelli, per i Suckert, per tutti i furbi, per tutti coloro che per salvare la propria vita fisica non esitano a sporcare la loro vita morale, dichiarando d’aver servito non da uomini liberi, ma veramente da servi. Il 25 luglio non fu per me un giorno di rinnegazione; fu un giorno d’affermazione della mia fede»284. Nel suo diario del 20 dicembre, elencando alcuni nomi di gerarchi aggiungendo per ciascuno una definizione, scriveva: «Grandi, o la vanità della ‘furberia’ – Federzoni, o la ‘paura d’aver coraggio’»285. E ancora, tornando a riflettere sul 25 luglio, nel suo diario il 23 agosto 1946 Bottai polemizzava con le versioni che Grandi, Federzoni e altri gerarchi davano delle vicende che avevano portato alla fine del regime, rivendicando al segretario del partito Scorza l’iniziativa del Gran Consiglio. Bottai accusava Grandi e Federzoni per le loro postume ritrattazioni e rinnegamenti della militanza fascista, con le quali pretendevano di rivendicare una loro presunta opposizione al regime totalitario, una costante avversione al duce e una sostanziale estraneità al fascismo per tutto il decennio precedente la sua fine. Allo stesso modo Bottai smentiva le motivazioni e gli scopi che Grandi e Federzoni attribuivano all’ordine del giorno approvato dalla maggioranza dei gerarchi, rifiutando di seguirli sulla via della loro tesi difensiva: Né io m’acconcerò mai, accanto ai Federzoni e ai Grandi, che ne stravolgono il significato secondo postume tesi difensive, a offuscare la tragica limpida luce di quelle ore. V’era in me un ardore di sacrificio, che non può essere barattato con ignobili indulgenze, attenuazioni o grazie. Meglio mi vale che il sacrificio si compia fino in fondo286.

E di nuovo, con minore asprezza, il 26 novembre 1947 Bottai annotava: «Quando un Grandi e, ho visto dalle puntate d’un suo libro che ho potuto leggere, un Federzoni, e dieci altri con loro, si lavano le mani delle loro 192

responsabilità, posso giustificarli sul terreno tattico. Ma quando il primo, in una lettera privata, mi scrive: ‘se tornassi indietro rifarei tutto quel che ho fatto nei ventanni’, e sottolinea quel ‘tutto’, sento ch’io batto altra via»287. Ma fu soprattutto su Grandi che si appuntarono gli strali polemici di Bottai, nel ripensare al 25 luglio, con un giudizio complessivo molto severo sul promotore dell’ordine del giorno al quale il gerarca romano aveva non solo aderito, ma anche dato un decisivo contributo personale nella redazione del testo finale come fu presentato, discusso e votato in Gran Consiglio. Scrivendone nel diario il 22 ottobre 1947, a commento di frequenti lettere che Grandi gli inviava dal Portogallo, Bottai scriveva: «Misteriose le ragioni e i modi dell’involarsi di lui durante il regime Badoglio, mentre io ero in carcere», forse per prendere contatti con gli Alleati, che però preferirono trattare con il generale Castellano: Immagino il dispetto di Grandi, che a quell’iniziativa doveva aver dato, secondo la sua natura volpina, il valore d’un raggiro. Sempre l’uomo amò le vie tortuose, il doppio gioco, di cui può essere considerato un antesignano. Egli riuscì per vent’anni a essere il più smaccato «mussoliniano» e il più subdolo «antimussoliniano»: e tra l’uno e l’altro di questi atteggiamenti gli mancò il destro di essere fascista. Voglio dire, di comprendere il fascismo nella sua storica evoluzione e di schierarsi con chi lottava per dargli un contenuto sociale e un metodo288.

Nell’acredine del giudizio di Bottai molto influirono sia i racconti che Grandi pubblicò in quel periodo sulla sua esperienza nel ventennio fascista e sul ruolo da questi svolto nella vicenda del 25 luglio, sia la parte che lo stesso Bottai vi aveva avuto, fin da quando Grandi, giunto a Roma dopo il 19 luglio, gli mostrò una prima bozza del suo ordine del giorno, coinvolgendolo subito nella sua iniziativa. Apocrifi d’autore Fra tante versioni discordanti date da Grandi sull’origine 193

della sua iniziativa, il «gioco grosso» come lui stesso lo definì, non è facile ricostruire la realtà effettuale della vigilia del Gran Consiglio. Il caso di Grandi è il più rilevante, per la parte che lui effettivamente ebbe sia nei giorni precedenti la riunione del Gran Consiglio, sia soprattutto durante la notte in cui si impegnò risolutamente nel «gioco grosso». Sua fu l’idea dell’ordine del giorno, attorno al quale seppe radunare la maggioranza dei membri del Gran Consiglio, fino alla vittoria nella votazione finale. Anche se non era stata sua l’iniziativa di far pressione sul duce per la convocazione del Gran Consiglio, di fatto Grandi, appena rientrato a Roma, assunse la guida dell’opposizione antimussoliniana, un po’ come aveva fatto ventidue anni prima, sia pure in senso diametralmente opposto. Nel 1921 Grandi, inneggiando alla rivoluzione fascista contro lo Stato liberale, aveva capeggiato la rivolta degli squadristi contro Mussolini, che pretendeva di trasformare il fascismo armato in un partito parlamentare; nel 1943, invece, Grandi guidò l’opposizione di gerarchi del regime totalitario, inneggiando al re e allo Statuto, per porre fine alla rivoluzione fascista, abbattere la dittatura del duce, restaurare lo Stato monarchico liberale. Considerato il ruolo avuto da Grandi nelle giornate fra il 20 e il 25 luglio, è inevitabile iniziare dalla sua versione dei fatti. Gravi difficoltà per l’accertamento della verità si incontrano nei suoi racconti, cioè il libro 25 luglio, il diario del 1943, il libro di memorie Il mio paese, innumerevoli interviste e articoli, pubblicati fra il 1945 e il 1983. Per quantità, le pubblicazioni di Grandi sul 25 luglio contrastano col proposito di un uomo che a 88 anni confessava di aver sperato «di poter morire in silenzio, sconosciuto e dimenticato»289. Invece Grandi cominciò molto presto, quando era a Lisbona, a raccontare la sua esperienza politica nel fascismo: il 26 febbraio 1945, la 194

rivista americana «Life» pubblicò un lungo articolo di Grandi, in cui rievocava i suoi rapporti con Mussolini dall’inizio alla fine del fascismo. L’articolo fu tradotto e pubblicato in italiano come opuscolo nell’agosto 1945. Seguirono sue testimonianze pubblicate da «Il Popolo» dal 12 al 17 gennaio 1946, e nello stesso periodo uscì su «Milano-sera» e su «Il Tempo» una serie di articoli di interviste di Grandi sulle vicende del 25 luglio, che egli però smentì290. La pubblicazione di ricordi, memorie e ricostruzioni del 25 luglio proseguì fino al 1983. I vari racconti, tra di loro talvolta discordanti, avevano in comune la raffigurazione di Grandi come un uomo che fu in costante dissenso con Mussolini e la sua politica interna ed estera, sforzandosi però di correggerla come poteva con sue iniziative personali, disobbedendo al duce, che egli sapeva accattivarsi simulando una fedeltà incondizionata nelle sue lettere adulatorie. Inoltre, nel rievocare con toni fortemente drammatici le vicende del 25 luglio, Grandi si rappresenta come un eroe solitario e temerario, l’unico che ebbe il coraggio di sfidare apertamente Mussolini in Gran Consiglio, a costo della propria vita, per restaurare la monarchia costituzionale e restituire al popolo italiano la libertà conculcata dal regime totalitario. Nella realtà, le cose si svolsero diversamente da come Grandi le ha raccontate, con frequenti discordanze nella cronologia e nella sequenza degli incontri con altri gerarchi, con inesattezze o invenzioni di cose dette o fatte. Esaminare in dettaglio questi aspetti delle testimonianze di Grandi, mettendole a confronto con le testimonianze degli altri attori della notte del Gran Consiglio, richiederebbe lo spazio di un saggio assai più esteso. Qui dovremo limitarci a mettere in evidenza i casi più rilevanti per la comprensione del significato storico del 25 luglio. Anticipiamo intanto un esempio, il più importante come 195

apocrifo d’autore. Grandi ha pubblicato il testo dei due discorsi tenuti nella notte del Gran Consiglio nel libro sul 25 luglio, scritto a Lisbona fra il 1943 e il 1944, e poi pubblicato nel 1983. Grandi scrive: I miei interventi nella discussione durante la notte del Gran Consiglio furono parecchi. Ho sempre parlato, come si suol dire, a braccio, cioè senza l’ausilio di note od appunti. Alle 8 di mattina del 25 luglio dopo una notte insonne, con la memoria ancora fresca di quanto era accaduto nelle dieci ore della drammatica seduta, dettavo – come avevo promesso a Federzoni – alla mia segretaria, signora Tarentini, nel mio ufficio di presidente della Camera il testo dei miei due principali interventi, il primo all’inizio, per illustrare il mio ordine del giorno, il secondo alle ore 2 del mattino, cioè verso l’epilogo della seduta. La copia dattiloscritta venne da me personalmente rimessa a Federzoni poche ore dopo, perché la inserisse nel verbale della seduta, come da noi convenuto291.

Tuttavia, nel manoscritto del verbale che Grandi, Federzoni e altri dicono di avere insieme redatto in casa Federzoni durante la giornata del 25 luglio, al nominativo «Grandi» segue la frase «[incastro]», con evidente riferimento al fatto che mancava ancora il testo del suo intervento, da inserire in un secondo momento. L’assenza dei discorsi di Grandi non dovette essere un’omissione contingente né per distrazione occasionale perché, fra i testi manoscritti o dattiloscritti dei loro interventi in Gran Consiglio forniti a Federzoni dagli altri firmatari dell’ordine del giorno, manca qualsiasi traccia dei testi dattiloscritti che Grandi ha raccontato di aver rimesso personalmente a Federzoni la mattina del 25 luglio. E ciò non dovette avvenire neppure nei giorni, nei mesi e nei successivi tredici anni, se addirittura il 22 aprile 1956 Federzoni scriveva a Grandi per informarlo che stava approntando un suo «libercolo» sul 25 luglio, dove era incluso «un diffuso ed esatto verbale della famosa seduta»: In questo verbale si deplora una sola lacuna, ma gravissima: manca il riassunto del tuo discorso illustrativo del tuo ordine del giorno, cosa troppo importante, perché si possa arrischiare a sostituirci a te stesso: ti prego vivamente di voler provvedere tu in persona a redigere tale riassunto, in uno spazio di 2 o 3 cartelle, s’intende, con la necessaria obiettività. Credo che sia venuto il momento

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opportuno per una piena e veritiera legittimazione del nostro operato in quella tragica congiuntura.

Grandi rispondeva a Federzoni da Roma il 26 giugno 1956: «Ti accludo il testo del mio discorso pronunciato in Gran Consiglio il 24 luglio 1943, nonché il testo di un mio secondo ‘intervento’ successivo nella discussione, dopo discorsi di Scorza (Suardo), il secondo intervento di Mussolini. Fanne, ti prego, l’uso che riterrai migliore»292. Federzoni utilizzò i testi di Grandi nel resoconto che pubblicò in appendice al suo volume di memorie nel 1967, ma vi fece vistosi tagli di intere parti, tutt’altro che marginali, contribuendo così, per parte sua, a complicare l’accertamento della verità effettuale. Di conseguenza, degli interventi di Grandi nell’ultima seduta, a parte quanto riferito nei racconti degli altri gerarchi, disponiamo ora di tre versioni differenti: la versione data da Grandi nel terzo capitolo del suo libro sul 25 luglio; i testi dei due interventi aggiunti in appendice a questo capitolo che Grandi nel 1983 afferma essere stati da lui dettati la mattina del 25 luglio, che sono però identici ai testi inviati a Federzoni nel 1956; e, infine, la versione degli interventi di Grandi data da Federzoni nel verbale pubblicato nel 1967, che solo in parte coincide con i testi inviatigli da Grandi nel 1956. Comunque, i due testi inviati da Grandi a Federzoni nel giugno del 1956 sono veri e propri apocrifi d’autore, che trovano poche concordanze con le versioni che degli interventi di Grandi hanno dato altri gerarchi presenti nell’ultima seduta del Gran Consiglio, mentre appaiono, con tutta evidenza, elaborati successivamente con il chiaro proposito di fornire ai posteri e agli storici una sorta di autobiografia apologetica di un Grandi che fin dall’epoca dell’ascesa del fascismo al potere e per tutto il ventennio era stato sempre contrario al regime totalitario del duce. Sugli apocrifi di Grandi, sul verbale redatto in casa 197

Federzoni e sui manoscritti degli altri firmatari dovremo comunque tornare nel prossimo capitolo. È ora importante affrontare la questione dell’oggetto che, emblematicamente, è passato alla storia come il protagonista ufficiale dell’ultima seduta del Gran Consiglio: l’ordine del giorno Grandi. Ordine del giorno Grandi: bozza prima Grandi era a Bologna, quando gli giunse telegraficamente la convocazione di Scorza per la riunione del 16 luglio: «Non mi mossi e non risposi»293. Vi rimase fino al 20 luglio. Quando decise di raggiungere la capitale, il passo del segretario del partito e degli altri gerarchi aveva già ottenuto quel che da Bologna Grandi aveva auspicato, cioè la convocazione del Gran Consiglio, senza aver fatto nulla neppure per sollecitarla. Addirittura, era in procinto di rinunciare all’unica carica, la presidenza della Camera, che gli dava il diritto di far parte del Gran Consiglio. Secondo il suo racconto, nei giorni precedenti la convocazione, non era comunque rimasto inattivo. Anzi Grandi ha raccontato che il 15 luglio, quando cioè non sapeva ancora se il duce avrebbe convocato il Gran Consiglio, abbozzò l’ordine del giorno che intendeva presentare, e quello stesso giorno scrisse due «progetti di lettere»: una lettera al re, per invitarlo a riassumere direttamente le prerogative e le funzioni che lo Statuto attribuiva esclusivamente al sovrano; l’altra lettera al duce, dove lo sollecitava con tono imperioso a convocare il Gran Consiglio, preannunciando la presentazione di un suo ordine del giorno così concepito294: Il Gran Consiglio (o la Camera), esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra, afferma il dovere sacro di tutti gli Italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal

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Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità e il dovere dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani e la dedizione di tutti i cittadini senza distinzione di partiti, di tessere, di dottrine o idee politiche; dichiara che a tale scopo è necessario ed urgente il ripristino integrale di tutte le funzioni statali attribuendo al Re, al Governo, al Parlamento i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Sovrano ad assumere direttamente le prerogative cui gli dà dovere e diritto lo Statuto del Regno ed in primo luogo l’art. 5 esercitando tutti i poteri che lo Statuto medesimo attribuisce esclusivamente al Capo dello Stato; invita il Governo del Re a provvedere perché: a) sia restituita al Consiglio dei Ministri la funzione, l’autorità e la responsabilità di organo direttivo della attività dello Stato e ai singoli Ministri quella di capi effettivi delle singole amministrazioni facendo cessare ogni interferenza del Partito Nazionale Fascista colla Pubblica Amministrazione; b) il Capo del Governo sarà ad esercitare le funzioni nei limiti fissati dallo Statuto e dalla legge del 24 dicembre 1925; c) sia abolito il regime totalitario e data a tutti i partiti politici libertà di svolgere la loro attività nell’orbita delle nostre leggi costituzionali; d) siano restituiti alle due Camere legislative i compiti e le funzioni stabilite dallo Statuto procedendo, per quanto riguarda la Camera, all’abolizione della legge 19 gennaio 1939 e al ripristino integrale della Camera dei Deputati; e) siano applicate, nella loro integrità, le leggi sull’ordinamento corporativo le quali stabiliscono espressamente che i dirigenti delle associazioni sindacali ed i membri delle corporazioni debbano essere eletti dai componenti delle associazioni sindacali medesime; f) sia garantita a tutti i cittadini indistintamente la loro uguaglianza di diritti e di doveri di fronte alla legge295.

Una copia della «prima bozza tormentata di quella prima stesura» dell’ordine del giorno fu ritrovata fra le sue carte e inviata da Grandi a Renzo De Felice il 16 ottobre 1976, con la precisazione che un «ordine del giorno analogo» l’aveva già scritto sul fronte greco-albanese: «Ricordo che mostrai questa prima bozza a Bottai ed egli l’approvò. Rientrato a Roma, dopo aver rifiutato l’incarico di Governatore della Grecia ordinatomi da Mussolini d’accordo con Hitler, mostrai anche l’ordine del giorno a Re Vittorio Emanuele (maggio 1941). Il Re mi ascoltò, ma, come sempre, non mi rispose, sorridendo nel suo silenzio ermetico»296. Tuttavia Bottai nel suo diario, dove annotò i suoi incontri con Grandi in quel periodo, non faceva alcun cenno alla bozza di un ordine del giorno che Grandi gli avrebbe mostrato sul fronte greco-albanese, 199

mentre riferisce il suo rifiuto di accettare il governatorato civile della Grecia. Quanto alle lettere al re e al duce, non furono spedite. Grandi ne inviò invece una al generale Puntoni, sicuro che l’avrebbe mostrata al sovrano, nella quale scriveva: «le notizie della Sicilia hanno dato al mio cuore di italiano un profondo dolore. A quasi cento anni dal giorno in cui Carlo Alberto emanò lo Statuto del Regno ed iniziò col Risorgimento la lotta per la libertà, l’unità, l’indipendenza d’Italia, la patria va verso la disfatta e il disonore»297. Grandi ha raccontato di aver fatto leggere le due lettere e l’ordine del giorno a Federzoni, che però «scosse tristemente il capo» dicendogli: «Non accadrà, ahimè, nulla, neppure con questo, se non una cosa certa: Mussolini ti farà arrestare. Ma vale la pena di tentare. Andrò anch’io dal Re, e gli ripeterò le stesse cose. Sarò con te, fino in fondo»298. Di altre iniziative fatte in quei giorni per sollecitare la convocazione del Gran Consiglio non vi è alcun cenno nel diario di Grandi, dove invece alla data del 19 luglio annotò: Scorza ha ieri sera parlato alla Radio. Ottimo discorso: seppure anche questo in ritardo, troppo in ritardo. Almeno di un anno. Gli invio il seguente telegramma: «Ho ascoltato il tuo discorso. Soltanto in nome della Patria, del Risorgimento e del Piave, al di sopra delle tessere, delle dottrine e dei partiti può effettuarsi l’unione sacra di tutti gli Italiani. Dino Grandi». Voglio che Mussolini, il quale intercetterà il telegramma, conosca cosa penso del discorso di Scorza che certamente non gli piacerà. Egli probabilmente mi chiamerà per chiedermi spiegazioni, ed allora gli risponderò dandogli la lettera preparata e poscia recandomi dal Re. Anche al Re è bene «anticipare» qualche cosa. Invio al Gen. Puntoni, Aiutante di Campo, l’unita lettera che sono certo andrà subito nelle mani del Re. È impossibile che il Re non me ne parli, Egli stesso, quando sarò ricevuto in udienza. Ed allora ciò mi faciliterà a dire a Sua Maestà tutto il mio pensiero. Dopodiché partirò soldato299.

Dopo aver atteso cinque giorni dalla stesura della prima bozza, finalmente Grandi decise di partire per Roma.

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Grandi entra in gioco Nel libro 25 luglio, come pure nelle memorie autobiografiche, Grandi racconta di essere partito da Bologna per Roma la sera del 19 luglio «con un piano fatto, ma questo non era, se non in parte, quello che poi doveva, per effetto delle circostanze, effettuarsi»300. Giunse a Roma la sera del 20, dopo aver viaggiato in treno fino a Firenze e poi in macchina fino a Roma. La mattina del 21 luglio, prosegue il racconto, incontrò nella sede del PNF Scorza, al suo ritorno dall’udienza dal duce. Grandi continua dicendo di aver appreso allora da Scorza che il duce aveva ordinato la convocazione del Gran Consiglio per il 24 luglio, e di aver collaborato col segretario del partito a individuare i gerarchi ai quali inviare la convocazione, suggerendo di mandarla anche ad Albini e Bastianini che non erano membri del Gran Consiglio. Grandi racconta di essersi recato quello stesso giorno alle 14 da Federzoni, al quale fece leggere l’ordine del giorno, iniziando a esaminare con lui su quali membri del Gran Consiglio si poteva contare per l’approvazione. Da casa Federzoni telefonò a Bottai chiedendogli di raggiungerlo, cosa che Bottai fece; poi giunsero, convocati, anche Albini e Bastianini. Anche loro lessero l’ordine del giorno e lo approvarono. Bottai suggerì che «era doveroso premettere un saluto alle nostre truppe combattenti in Sicilia, ed aggiungere accanto alle parole ‘ripristino immediato delle funzioni costituzionali della Corona, del governo, del parlamento’ anche ‘del Gran Consiglio e delle corporazioni’»: Per quanto concerneva il Gran Consiglio, Bottai conveniva con me che esso dovesse essere abolito, essendo una struttura artificiosa nella vita dello Stato, ma osservava che era tatticamente opportuno non infirmarne l’autorità nello stesso momento in cui gli si domandava di esercitare i suoi poteri di «organo supremo del Regime» e di impiegarlo come strumento legale per abolire la dittatura medesima. Le osservazioni di Bottai erano giuste. Il Gran Consiglio sarebbe stato comunque abolito dopo. Mi impegnai di introdurre le modifiche da lui

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suggerite, che non alteravano in alcun modo la sostanza del documento ma che lo rendevano più accessibile alla comprensione popolare301.

Grandi racconta poi di essere andato nel tardo pomeriggio del 21 luglio da Scorza, per mostrargli l’ordine del giorno e prean​nunciando quel che aveva deciso di fare in Gran Consiglio: Feci appello al suo animo di soldato e ai doveri di fedeltà verso la nazione, che sovrastano qualsiasi obbligo di fedeltà verso un capo che aveva tradito la nazione ed il fascismo insieme. Scorza mi ascoltò e con mia sorpresa dichiarò che avrebbe appoggiato la mia azione, non soltanto a titolo personale, ma altresì quale segretario del partito. Fu quello il primo momento nel quale cominciò ad apparirmi possibile che il nostro disegno potesse riuscire. La adesione così esplicita del segretario del partito non avrebbe mancato di avere un grande peso per vincere dubbi e perplessità. Ed infatti l’ebbe. Lasciai a Scorza che me lo richiese, l’ordine del giorno. «Mussolini se ne deve andare» mi disse. Il mattino dopo era lo stesso Scorza che informava direttamente Mussolini di tutto quanto io gli avevo detto la sera precedente e gli consegnava il testo del mio ordine del giorno.

Quindi Grandi scrive che, uscito dall’ufficio di Scorza «la sera del 22 [sic], comunicai a Federzoni e Bottai la inattesa adesione del segretario del partito. Essi ne furono gradevolmente sorpresi. Vi era dunque qualche possibilità e qualche speranza…»: Rientrando a notte tarda ripensavo agli avvenimenti della giornata. Era il gioco grosso, finalmente. A carte scoperte e di fronte. Senza più la necessità di maschere (come mi aveva detto un giorno Sir Percy Loraine), senza compromessi guardinghi, calcoli sottili, senza sotterfugi tattici, senza travestimenti, senza l’umiliazione di dover apparire diversi da quello che si era, senza più la costrizione di dover contrattare una obbedienza apparente per ottenere in cambio una modifica anche lieve di ordini assurdi. Finalmente. Potere non soltanto essere, ma mostrare di essere se stessi, finalmente302.

Le versioni di Grandi Fin qui, il racconto del rientro in gioco fatto da Grandi nel libro 25 luglio. Al suo interno, vi è una evidente invenzione nella descrizione del primo incontro con Scorza alle 11 del 21 luglio: Mi disse subito che Mussolini era molto irritato contro di me, sia per il mio

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rifiuto di presiedere l’adunata fascista di Bologna, sia per il contenuto del telegramma inviatogli la sera del giorno 18: «Te lo dirà lui stesso». Scorza mi diede quindi l’inaspettata notizia: «Il Duce mi ha dato in questo momento ordine di convocare il Gran Consiglio per sabato 24 alle ore 17. Sarete finalmente soddisfatti». Non credetti sul principio che ciò potesse essere vero. Eppure era vero. […] Domandai a Scorza quali erano i motivi che avevano indotto Mussolini a accogliere finalmente e inaspettatamente le nostre richieste, cui egli si era rifiutato d’accedere ancora nella settimana precedente. Scorza si strinse nelle spalle e disse soltanto: «Non lo so. È tornato da Feltre con questa idea». Uscii dall’ufficio di Scorza verso mezzogiorno. Non pensai più un istante a recarmi dal Re. L’improvvisa e inattesa decisione di Mussolini di convocare il Gran Consiglio rendeva il mio passo superfluo. Era finalmente il gioco grosso, quello invano cercato, sperato e atteso da tanto tempo, la partita che bisognava giocare appieno e sino in fondo, con tutti i suoi rischi, le sue difficoltà ed i suoi pericoli, a tu per tu col Dittatore303.

La versione del colloquio è inverosimile: infatti, non è credibile che il segretario del partito, dopo essere stato il promotore del «passo» dei gerarchi per ottenere dal duce la convocazione del Gran Consiglio, non abbia riferito a Grandi l’esito dell’udienza a Palazzo Venezia del 16 luglio, e abbia addirittura detto di non sapere perché il duce aveva deciso la convocazione solo al ritorno da Feltre. Inoltre, nel racconto fatto da Grandi in 25 luglio circa l’arrivo a Roma e i primi incontri, vi sono vistose discordanze con il suo diario del 1943. Infatti, nel diario del 1943 (riscritto comunque in tempi successivi alla data effettiva), Grandi ha raccontato di essere partito da Bologna il 20 (non il 19), di essere giunto a Roma il 21 (non il 20), e di aver appreso che Mussolini, «tornato ieri da Feltre» (il duce era rientrato la sera del 19 e non del 20), lo aveva fatto cercare insistentemente per tutta la giornata: Senza dubbio egli ha letto il telegramma mio diretto a Scorza. È su questo che noi cominceremo quello che sarà probabilmente l’ultimo colloquio tra me e Mussolini. Faccio rispondere a Mussolini che sono a Roma e che io stesso desidero vederlo al più presto, non oltre la giornata di domani. Il colloquio mi viene infatti fissato per domani giovedì alle ore 17,30. Farò tutto il mio dovere e

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sono deciso di andare in fondo, qualunque sia la minaccia e l’intimidazione che mi verranno fatte. Basta. È venuto finalmente il momento di agire, anche se il Re non crederà di farlo, io lo farò, debbo farlo, ormai. Non è possibile continuare più oltre così, per un giorno solo ancora304.

Il diario prosegue col racconto del primo incontro con Scorza alle 9 del 22 luglio (e non la mattina del 21), dove apprese la convocazione del Gran Consiglio, ma non viene detto nulla del colloquio col segretario del partito sul motivo della convocazione. Uscito dall’ufficio di Scorza, Grandi annotava di aver mandato a chiamare subito Bottai, «al quale espongo il mio piano e al quale do comunicazione dell’o.d.g. Bottai subito mi dichiara (sono le 12 di giovedì) che è d’accordo con me e che egli intende associarsi in tutto a quello che farò. E uno! Bravo Bottai!»305. Lasciato Bottai, alle 14 andò da Federzoni, dove aveva fatto convocare anche Albini e Bastianini, e ai tre mostrò l’ordine del giorno, al quale tutti e tre aderirono: «Alle 17,30 vado da Mussolini»306. Sulle date discordanti dell’arrivo a Roma e dei primi incontri, è molto singolare che Grandi abbia confuso addirittura di un giorno la data del suo arrivo a Roma e dell’incontro con Scorza. Inoltre, nel libro Grandi dice che la mattina del 21 ricevette nel suo ufficio di presidente della Camera il consigliere nazionale Mario Zamboni, suo «caro e fidato amico», latore di un «urgente messaggio del ministro della Real Casa, il quale domandava di vedermi senza indugio, e comunque prima della convocazione del Gran Consiglio. Feci rispondere al duca d’Acquarone che l’avrei visto dopo, ma non prima della riunione del Gran Consiglio. Non volevo mescolare nella mia azione persone vicine al sovrano e rischiare di compromettere, direttamente o indirettamente, la Corona. Il rischio doveva rimanere interamente ed esclusivamente nostro»307. Ma nel diario Grandi nulla dice di questo episodio, pur importante, nei rapporti fra lui e il re alla vigilia del 25 luglio. Zamboni, 204

nel suo diario (anche questo ampiamente rimaneggiato in epoca successiva dall’autore), alla data del 21 luglio, ha confermato di essersi recato a Montecitorio da Grandi per riferire il messaggio di Acquarone, ma ciò, secondo l’amico di Grandi, avvenne in tarda serata, avendo incontrato il ministro della Real Casa poco prima delle 17308. Inoltre, a proposito del duca d’Acquarone e del re, nei diari dei due amici c’è una discordanza alla data del 23 luglio. Grandi scrive: «Ore 8. Zamboni mi fa sapere che la mia lettera al Gen. Puntoni è stata subito mostrata al Re ed ha suscitato molti commenti a P.[alazzo del] Quirinale. Incarico Zamboni di preavvertire D’Acquarone, Ministro della Real casa, che io intendo dare battaglia domani al Gr. Consiglio ed arrivare in fondo, a qualunque costo»309. In effetti, dal diario del generale Puntoni risulta che questi il 21 luglio aveva parlato «chiaramente a Sua Maestà della situazione. […] Gli mostro anche una lettera di Grandi […]. Il Re ascolta in silenzio poi mi congeda dicendo: ‘Domani ne parlerò francamente al Duce’»310. Tuttavia Zamboni, alla data del 23 luglio, racconta di essere stato presente per tutta la giornata, su richiesta di Grandi, ai suoi incontri con Farinacci e Bottai la mattina a Montecitorio, e nel pomeriggio in casa di Bottai con Federzoni e Ciano, ma nulla annota circa la lettera al generale Puntoni e l’incarico affidatogli di preavvertire il ministro della Real Casa311. La versione di Bottai Oltre alle discordanze fra i due racconti grandiani, vi è discordanza fra questi e il racconto che ha fatto Bottai nel suo diario, dove conferma che il loro primo incontro avvenne il 22 luglio, ma non dice nulla dell’incontro pomeridiano in casa Federzoni con Albini e Bastianini, descritto da Grandi nel libro 25 luglio; inoltre, dal diario del 205

gerarca bolognese, diversamente dal racconto del 25 luglio, risulta che non fu Federzoni il primo al quale Grandi si rivolse dopo l’incontro con Scorza, bensì Bottai, che ricevette nel suo ufficio a Montecitorio la mattina del 22, e non incontrò a casa di Federzoni dopo le 14 del 21312. Lo conferma il diario di Bottai, che alla data del 22 luglio annotava: Vado da Grandi, giunto a Roma jeri sera [sic], che mi spiega la sua resistenza a recarsi agl’indetti rapporti, in quanto aveva nettamente preavvisato Scorza della sua contrarietà dichiarata ad assumere posizioni nel Partito, mentre vanno assunte nel Paese. Ora siamo dinnanzi alla convocazione del Gran Consiglio, per sabato alle 17. È suo parere che si tratti di giornata decisiva. Mi dice d’aver preparato un ordine del giorno, che mi leggerà questa sera, la cui formula centrale mi par di capire sia questa: restituire al Re i poteri militari, lasciando al Duce quelli politici di Primo Ministro in un ricostituito e funzionante Consiglio dei Ministri. Mi avverte d’una tesi più estrema, che taluni propugnano: tutti i poteri al Re, in un gesto di nazionale comprensione da parte del Regime, del suo Capo e dei suoi uomini. La considera ottima, anzi l’unica risolutiva, ma inaccettabile e dal Duce e da un consesso del tipo dell’attuale Gran Consiglio, del quale, del resto, egli proporrebbe la soppressione.

Nella stessa giornata del 22 luglio, Bottai annotava nel suo diario di essersi recato a casa di Ciano per colazione, e vi incontrò, prima dello stesso Ciano, Vittorio Cini, ministro delle Comunicazioni, e Zenone Benini, ministro dei Lavori pubblici, entrambi nominati dal duce il 6 febbraio e definiti da Bottai «due estremisti, nel senso della tesi scartata da Grandi; e tutt’e due m’assicurano essersi su di essa fermamente allineato De Marsico». A Benini, tuttavia, che nella mattina aveva parlato con il re e lo aveva sollecitato a «un intervento decisivo», il sovrano esitante «si sarebbe schermito, ma affettuosamente: ‘Lei confida troppo nel mio valore’». Ciano invece, informato del colloquio col re e dei colloqui con Scorza e Grandi, non aveva fiducia nel Gran Consiglio, per la sua attuale composizione, ma «a poco a poco si persuade cha la giornata è decisiva»: o avallare in blocco tutt’una politica di errori o staccarsene con risoluto

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coraggio, nell’estremo tentativo di salvare il Paese, anche col nostro personale sacrificio. Egli teme la tattica rabbiosa e intimidatoria, la dialettica abile e spregiudicata del Duce, che gli guadagnerà la parte più debole e servile dei membri del Consiglio. Vede, come tutti vediamo, che il coraggio di parlare non può essere che di pochi, forse 7 o 8, da Grandi a Rossoni, a De Vecchi, a De Bono, a De Marsico, a De Stefani, a Albini. C’è poi il gruppo degli incerti; e quello tardo e, comunque, seguace delle disposizioni e intimazioni dall’alto. Io ascolto, intervengo per correggere e chiarire certi indirizzi della conversazione; e, soprattutto, medito sulla gran giornata che s’avvicina, e il cui esito io considero con minore ottimismo di Cini e Benini, l’ultimo in ispecie, che vede un Mussolini accogliente con sollievo una soluzione che, estromettendolo, lo liberi.

Nelle ore successive del 22, Bottai incontrò Eugenio Coselschi, presidente dell’Istituto per gli studi dell’Ordine Nuovo, latore di un messaggio del principe Umberto, il quale gli faceva sapere «che considerava la situazione militare affatto irrimediabile, tecnicamente esaurita. Vuol ch’io sappia alla vigilia del Gran Consiglio, che unico può additare una via di soluzione. Forse, è il suo commento, si può ancora salvare la cattolicità, la monarchia e quel tanto di fascismo che costituiscono i valori italiani in quest’immane crisi»313. Grandi dal duce Quello stesso pomeriggio del 22 luglio, alle 17,30, Grandi era in udienza dal duce. Previsto per un quarto d’ora, il colloquio durò fino alle 18,45. Nella sua rievocazione dell’ultima seduta del Gran Consiglio, pubblicata nel luglio 1944, Mussolini ha scritto, parlando di sé in terza persona: Il mercoledì alle dodici, all’ora del consueto rapporto, il segretario del Partito, Scorza, presentò a Mussolini l’ordine del giorno che Grandi e altri si proponevano di presentare al Gran Consiglio. Mussolini lesse il documento, assai lungo, oltre tre pagine, e lo riconsegnò allo Scorza, definendo tale documento come inammissibile e vile. Scorza se lo ripose nella borsa e non insisté. Fu in quella occasione che Scorza tenne al Duce un discorso piuttosto ambiguo, nel quale si parlava di «giallo», anzi di «giallissimo» che poteva accadere, discorso al quale Mussolini non attribuì molta importanza. Nel pomeriggio il Duce

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ricevette Grandi, il quale gli consegnò il volume contenente i verbali delle riunioni di Londra del Comitato del non intervento nella guerra civile di Spagna. Il Grandi sfiorò diversi argomenti, ma non disse nulla su quanto maturava314.

Il racconto mussoliniano del colloquio con Grandi non solo era collocato in una data sbagliata (il mercoledì 21 invece del giovedì 22 luglio), ma era chiaramente mendace. Infatti, lo stesso Mussolini, nei suoi Pensieri pontini e sardi scritti nei giorni di prigionia dopo il 25 luglio, ha raccontato che in un giorno di cui non ricordava la data precisa, ma comunque nei giorni precedenti l’ultima seduta del Gran Consiglio, aveva convocato Grandi per chiedergli spiegazioni su ciò che intendeva quando aveva scritto a Scorza auspicando una «unione sacra»: se, cioè, pensasse di richiamare in vita i vecchi partiti che avevo soppresso ed i loro capi. Mi disse che pensava all’«unione sacra» di tutti gli italiani per togliere alla guerra il suo carattere di partito. «È il momento – affermò – che si finisca di dire che questa è la guerra di Mussolini. Questa è la guerra di tutti. È ora che la Corona esca dal suo riserbo. Il territorio nazionale ha subito una invasione e la Corona non parla. Essa si sottrae al suo dovere. Deve assumere le sue responsabilità. Questa è anche e soprattutto la guerra di Vittorio Emanuele III. Il paese vuole che la Corona esca dal suo atteggiamento riservato e che la guerra assuma perciò il suo carattere nazionale».

Mussolini proseguiva affermando di aver spiegato a Grandi che in tutte le guerre si formano due partiti: quello di coloro che la vogliono e quello di coloro che non la vogliono, come era accaduto nel 1915-18. Il colloquio, concludeva Mussolini, «si svolse in forma cordiale. Ma ebbi la chiara sensazione che quell’uomo stesse già sull’altra sponda. Si trovava già dall’altra parte della barricata»315. Il colloquio raccontato da Mussolini era certamente quello che si svolse nel pomeriggio del 22 luglio, perché dal registro delle udienze non risulta che Grandi abbia avuto col duce altri colloqui in quei giorni. Il contenuto del colloquio spiega perché l’incontro, previsto per un quarto d’ora, si prolungò fino alle 18,45, come annotava Grandi nel diario: «Alle 17,30 vado da Mussolini. Esco da P. 208

[alazzo] Venezia alle ore 19, dopo un’ora e mezza di colloquio»316. Tuttavia, sorprende che nel suo diario Grandi non abbia riferito nulla del contenuto del suo colloquio col duce, limitandosi a scrivere che subito dopo essere uscito da Palazzo Venezia mandò a chiamare Bottai e lo mise al corrente di quanto aveva detto al duce. Bottai annotava il 22 luglio di essere andato da Grandi «appena reduce dal Duce, che ha trovato alleonato, ma non tanto. Egli ha potuto parlare e dire cose grosse: l’altro è agli alibi, alle scuse e, perfino, alle bugie, non senza punte e animosità personali. Grandi lo ha sospinto e stretto soprattutto con l’argomentazione del ‘governo nazionale’ intorno al Re, ritornato in pieno al comando delle forze armate. L’altro resiste: e Grandi non esclude che, presentendo la mala parata, rinvii il Gran Consiglio»317. Il contenuto del colloquio col duce è stato raccontato da Grandi nel libro 25 luglio. Il duce lo ricevette in piedi, «con lo sguardo freddo e con la faccia dura», e lo «aggredì con parole aspre e vivaci», definendo il suo atteggiamento verso la guerra «oscuro e ambiguo», al quale il direttorio del partito reagiva chiedendo contro di lui «severi provvedimenti»; il duce definì «grave» e «deplorevole» il rifiuto di partecipare alle adunate e «più grave ancora» il telegramma di plauso al discorso di Scorza. Poi, racconta Grandi, «il colloquio proseguì in tono più pacato», ed egli poté dire al duce «quello che pensavo e che del resto egli conosceva perfettamente»: «Gli anticipai, parola per parola, tutto quello che avrei detto e fatto in Gran Consiglio. Lo scongiurai, infine, di deporre spontaneamente, nelle mani del Re, tutti i suoi poteri civili e militari, come unica alternativa possibile per una soluzione della guerra e per il ripristino integrale della Costituzione». Grandi si attendeva «una reazione violenta da parte di Mussolini. Questa non 209

venne. Egli non mi aveva interrotto, aveva continuato a guardarmi fisso e cupo, giocherellando nervosamente con una matita». Quindi, prosegue il racconto di Grandi, il duce gli replicò dicendo «alcune cose che dovrai bene fissarti in mente e sulle quali ti invito a meditare quando sarai uscito di qua»: 1) La guerra è ben lungi dall’essere perduta; avvenimenti straordinari si verificheranno fra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra; Germania e Russia si accorderanno; l’Inghilterra sarà distrutta. 2) Io non cedo i poteri a nessuno; il fascismo è forte, la nazione è con me, io sono il capo, mi hanno obbedito e mi obbediranno. 3) C’è, è bensì vero, molto disfattismo in giro fuori ed entro il regime, ma esso sarà curato a dovere come si merita non appena io giudicherò che sarà venuto il momento. 4) Per tutto il resto, arrivederci posdomani in Gran Consiglio. Puoi andare318.

Il rifiuto del duce di cedere i poteri al re, comunque espresso nell’incontro con Grandi, è confermato dal colloquio che il duce aveva avuto precedentemente con il re il 22 luglio, per riferire sull’incontro di Feltre. Il colloquio, annotò Puntoni nel suo diario, era stato lungo: Alla fine dell’udienza mi reco da Sua Maestà. È scuro in volto e accigliato. Sul principio sembra restio a parlare, poi alla fine, come per liberarsi di un peso che lo angustia dice: «Ho tentato di far capire al Duce che ormai soltanto la sua persona, bersagliata dalla propaganda nemica e presa di mira dalla pubblica opinione, ostacola la ripresa interna e si frappone a una definizione netta della nostra situazione militare. Non ha capito o non ha voluto capire. È come se avessi parlato al vento…»319.

Quel che Scorza disse. O non disse Tornando all’udienza di Grandi, questi ha raccontato di essere uscito «triste» da Palazzo Venezia, ma risoluto ad «andare diritti sino in fondo»320. Mussolini, nei suoi ricordi in prigionia, ha però affermato che il giovedì 22 e il venerdì 23 luglio ricevette ancora Grandi, il quale lo «scongiurò di non convocare il Gran Consiglio, mentre in quel momento il ‘piano’ era già fissato. Con l’ultima parte dell’ordine del giorno, Grandi voleva costringere la Corona ad una 210

decisione»321. Di questi ulteriori incontri non vi è traccia nel registro delle udienze. La confusione sulle date e sui colloqui con Grandi e il riferimento all’ordine del giorno, nei racconti di Mussolini, pongono però una questione importante: qual era il testo dell’ordine del giorno Grandi che Scorza fece leggere al duce. Qui dobbiamo ritornare alle discordanti versioni di Grandi. In 25 luglio, egli racconta di aver consegnato nel pomeriggio del 21 l’ordine del giorno a Scorza, lo stesso che questi avrebbe poi consegnato il giorno successivo al duce. Ma nel Diario del 1943, datando il primo incontro con Scorza alle ore 9 del 22 luglio, Grandi scrive di essere andato dal segretario del partito la sera di quello stesso giorno, alle 20,30, per informarlo del suo colloquio con Mussolini, «e lealmente gli dò visione dell’o.d.g., che presenterò posdomani sabato al Gr. Consiglio, domandando a Scorza di sottoscriverlo egli stesso, il che avrebbe dato all’o.d.g. coll’adesione del Partito una grandissima autorità. Scorza mi dichiara che accetta interamente l’o.d.g. e che lo voterà, anzi che lo sottoscriverà. Mi autorizza a far conoscere ciò agli amici che già lo hanno accettato. Il che subito faccio. Federzoni, Bottai, Albini e Bastianini ne prendono atto con piacere»322. Grandi fece nel 1968 un diverso racconto del suo incontro con Scorza allo storico Gianfranco Bianchi, senza però precisare se si riferiva al primo incontro alle 9 del 22 o al secondo alle 20,30. Disse che il colloquio durò un’ora, e che Scorza non solo approvò l’ordine del giorno, ma promise che Grandi avrebbe iniziato la discussione in Gran Consiglio col suo discorso e la presentazione del suo ordine del giorno, ed «egli l’avrebbe chiusa parlando a nome del Partito ed approvando il mio ordine del giorno»323. Intervistato da un giornalista, Scorza smentì il racconto di Grandi: le sue affermazioni, disse, «si presentano con tale 211

carattere di illogicità e assurdità che vien fatto quasi di dubitarne. In ogni modo (autentiche oppur no)», aggiunse Scorza, «esse sono nient’altro che una menzogna, un’incomprensibile falsificazione della verità». E Scorza diede la sua versione, collocando però l’incontro con Grandi la sera del 20 luglio: Sta di fatto che Grandi venne al partito la sera del 20 luglio e cercò di me, come mi annunciò il console Giuseppe Togni. Stavo presiedendo una riunione. Chiesi scusa e mi assentai. Grandi mi attendeva in piedi fuori della porta. «Avrei preparato con alcuni amici questo ordine del giorno per il gran consiglio – mi disse porgendomi un paio di fogli. – Se lo approvi anche tu, siamo tutti d’accordo». Sebbene per procedura e per tradizione, quasi mai il segretario del partito aderiva a un ordine del giorno presentato da uno o più gerarchi (nel caso si fosse verificato, il partito lo faceva proprio e la figura del presentatore scompariva), risposi che me lo lasciasse, per esaminarlo con comodo. Grandi annuì e si accomiatò con un «Ci vediamo domani». L’incontro non durò più di tre minuti, altroché un’ora! Più tardi lessi il documento lasciatomi da Grandi: era la prima stesura dell’ordine del giorno che poi presentò in gran consiglio. Non lo condivisi; tuttavia mi riservai di sottoporlo a Mussolini. Ciò che feci la mattina dopo [mercoledì 21 luglio, come raccontato anche da Mussolini]. Alla sera, quando il presidente della Camera tornò da me, gli feci presente che il partito non poteva approvare il suo ordine del giorno e che, anzi, ne avrebbe presentato uno proprio, come aveva deciso il duce. Grandi non insistette e se ne andò subito. Anche questo secondo incontrò fu brevissimo. La sera del 22 luglio Grandi riapparve ancora un momento al partito per informarmi che era stato appena ricevuto da Mussolini, cui aveva espresso tutto il suo pensiero. Non entrò in particolari, e da allora non lo rividi che il pomeriggio del 24, in Gran Consiglio. Tutto qui. Pertanto le sue affermazioni non sono altro che un’allegra storiella, da cima a fondo324.

È comprensibile che il segretario del partito abbia disapprovato l’ordine del giorno, cioè la prima stesura, così come è plausibile che, mostrato questo testo al duce, sia stato da lui definito «inammissibile e vile», essendo un ordine del giorno che chiedeva, esplicitamente, l’abolizione del regime totalitario, il ripristino della libertà per tutti i partiti politici «di svolgere la loro attività nell’orbita delle nostre leggi costituzionali», e comportava quindi l’eliminazione del partito unico, del Gran Consiglio e del potere del duce. 212

Ordine del giorno Grandi: seconda stesura Ci troviamo qui di fronte a una discordanza piuttosto grave sulla data della consegna dell’ordine del giorno da parte di Grandi a Scorza e, di conseguenza, sul contenuto dell’ordine del giorno che Scorza avrebbe poi fatto leggere al duce. Infatti, se Grandi parlò del suo ordine del giorno a Scorza poco dopo il suo arrivo a Roma, doveva trattarsi della prima stesura del testo. Nel libro Grandi racconta però che la prima stesura era stata rielaborata a casa Federzoni nel pomeriggio del 21, con le modifiche proposte da Bottai sull’appello ai soldati combattenti e sul Gran Consiglio. Il racconto del 25 luglio contrasta col racconto del Diario del 1943, dove Grandi annota che Bottai propose le modifiche sulla parte dell’ordine del giorno relativa all’abolizione del Gran Consiglio il 22 luglio, quando si recò a Montecitorio da Grandi dopo l’udienza dal duce. Quindi il testo della prima stesura non fu rielaborato in casa Federzoni il pomeriggio del 21, ma a Montecitorio con Bottai il 22 luglio dopo le 19. Di conseguenza, quel che Mussolini avrebbe letto sarebbe stato il testo dell’ordine del giorno nella prima stesura, dove si chiedeva in sostanza l’abolizione del regime totalitario fascista. Ma il testo della seconda stesura dell’ordine del giorno, notevolmente diverso e lungo quasi il doppio rispetto al precedente, che è stato allegato da Grandi in appendice al suo diario del 1943, con la data 21 luglio, reca ancora la richiesta di abolizione del Gran Consiglio, e ciò confermerebbe che non si tratta del testo rielaborato dopo l’incontro con Bottai, il 22 luglio, successivamente all’udienza di Grandi dal duce, ma che era stato già rielaborato prima di farlo leggere a Bottai e avere da questi la proposta di eliminare la richiesta di abolizione del Gran Consiglio. Ecco dunque il testo della seconda stesura: Il Gran Consiglio, esaminata la situazione interna e internazionale e la

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condotta politica e militare della guerra, afferma il dovere sacro per tutti gli italiani della resistenza contro il nemico il quale intende distruggere l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità e il dovere dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani e la dedizione di tutti i cittadini senza distinzione di partiti o di dottrine politiche alla lotta per l’onore e per la salvezza d’Italia; afferma la necessità e l’urgenza di un riordinamento integrale di tutte le funzioni statali attribuendo al Re, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo del Re a provvedere affinché: 1) il Re Capo dello Stato assuma l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e d’aria secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno; 2) il Capo del Governo assuma le funzioni stabilite dalla legge costituzionale 24 dicembre 1925, emanata dal Fascismo, sulle attribuzioni del Primo Ministro; siano nominati in distinta persona i Ministri della guerra, della marina, dell’aeronautica ed i tre Capi di Stato Maggiore delle suddette forze armate; sia restituita al Consiglio dei Ministri la funzione, l’autorità e la responsabilità di supremo organo politico direttivo dello Stato ed ai singoli Ministri la funzione, l’autorità e la responsabilità di Capi effettivi delle singole Amministrazioni, facendo cessare conseguentemente le attività che interferiscono con tali funzioni e responsabilità; 3) sia restituita al Partito Nazionale Fascista la fisionomia originaria e la sua primitiva funzione di organizzazione politica quale venne stabilita dai congressi che deliberarono la fondazione del P.N.F. Questa fisionomia e questa funzione di organizzazione politica, è indispensabile, è insostituibile ed è la sola che giustifichi l’esistenza di un Partito politico nella vita di uno Stato moderno; essa deve esplicarsi in una attività costante diretta all’educazione politica del popolo e alla formazione e alla preparazione della classe dirigente la vita dello Stato. Sia pertanto garantita la precisa separazione fra i compiti spettanti alla pubblica amministrazione e quelli spettanti al P.N.F. Sia stabilito altresì che tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza al P.N.F., hanno uguali diritti e uguali doveri di fronte alle leggi ed in primo luogo alle leggi che regolano l’attività professionale; 4) siano restituiti al Parlamento i compiti e le funzioni stabiliti nello Statuto del Regno e siano applicate nella loro integrità le leggi dell’ordinamento corporativo senza di che l’Assemblea legislativa e le Corporazioni non saranno mai in grado di assolvere le funzioni ed i compiti loro attribuiti dallo Statuto del Regno e dalle nostre leggi costituzionali dallo stesso regime fascista promosse. Queste ultime stabiliscono espressamente che i Consiglieri Nazionali debbono essere nominati dalle associazioni sindacali; i Consiglieri Nazionali rappresentano infatti, in seno alle corporazioni, gli interessi economici delle categorie e rappresentano in seno all’Assemblea legislativa gli interessi politici dell’universalato dei cittadini della Nazione. La mancata ed arbitraria applicazione delle leggi corporative ha portato come naturale conseguenza quella di privare l’Assemblea legislativa della sua ragion d’essere e della sua funzione costituzionale e politica riducendo quest’ultima ad un mero organo di consultazione amministrativa e formale da parte del governo. Perché

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l’ordinamento corporativo possa funzionare occorre pertanto applicare integralmente le leggi che lo hanno creato e che sono consacrate nei Codici restituendo in primo luogo alle Corporazioni caratteristica di organo prevalentemente legislativo o pre-legislativo, e sottraendo queste all’anacronistica tutela di organo della Pubblica Amministrazione; 5) sia infine abrogata la legge istitutiva del Gran Consiglio di cui ogni attività ha cessato di esistere da prima ancora che la Nazione entrasse in guerra, il nessun rispetto che il Governo ed il Parlamento hanno dimostrato sinora per le disposizioni della legge istitutiva del Gran Consiglio statale, dimostra quanto inutile ed artificioso sia da considerarsi quest’organo nella vita dello Stato, e come ne sia auspicabile l’abolizione anche per non ingenerare ulteriormente nel popolo italiano il dubbio sulla regolarità e sulla opportunità di molte leggi che sono state dal governo promosse e dal Parlamento approvate325.

Le modifiche della seconda stesura sono molte e sostanziali, e soprattutto meno sommarie e radicali nella demolizione dell’intera costruzione del regime totalitario. Si tratta però di modifiche fatte da Grandi precedentemente all’intervento di Bottai, perché nella seconda stesura è ancora presente l’abolizione del Gran Consiglio, mentre non si chiede più il ripristino dei partiti, e soprattutto si ribadisce la necessità di restituire al partito fascista la sua funzione originaria, definita «indispensabile» e «insostituibile», come organizzazione dedita «alla educazione politica del popolo e alla formazione e alla preparazione della classe dirigente la vita dello Stato», sgravandolo dei troppi poteri di interferenza e di sovrapposizione con l’amministrazione statale. La sostanziale differenza fra le due stesure, e soprattutto, nella seconda stesura, la revoca della richiesta di abolizione del regime totalitario e la conservazione del partito fascista come partito unico, dimostrano che Grandi e i suoi primi sodali avevano tutt’altro che idee chiare e un piano preciso in vista della riunione del Gran Consiglio, barcamenandosi ancora fra propositi e obiettivi differenti e persino contrastanti. Infatti, il giorno prima della seduta del supremo organo del regime, la seconda stesura dell’ordine del giorno Grandi 215

passò attraverso un’ulteriore modifica, con la cancellazione della richiesta di abolizione del Gran Consiglio; e fu in una «seconda versione bis», come potremmo definirla, che l’ordine del giorno fu riproposto a Scorza la mattina del 23 luglio. Il 23 luglio, Grandi annotava nel diario di aver incontrato Bottai alle 8,30 pregandolo «di lavorare qualcuno dei membri del Gr.Cons. che egli conosce meglio e che sono disposti ad ascoltarlo»326, ma non dice nulla della variazione della seconda stesura dell’ordine del giorno su proposta di Bottai. Bottai ha dato nel suo diario una versione diversa del suo intervento di modifica sulla prima stesura, e non accenna a una sua proposta di cancellare la richiesta di abolizione del Gran Consiglio, che Grandi nel suo diario dice di essere stata fatta da Bottai a Montecitorio nel pomeriggio del 22 luglio (e non nel pomeriggio del 21 in casa Federzoni, come Grandi racconta nel 25 luglio) dopo l’udienza dal duce. Bottai, infatti, alla data del 23 luglio scriveva nel diario di essere andato da Grandi alle 11 e non alle 8,30, mentre Grandi nel suo diario annotava alle 11 un incontro con Bignardi, il quale gli promise di «lavorare» Pareschi e il capo della polizia Chierici, suo amico, e di recare a De Bono una lettera di Grandi con una copia dell’ordine del giorno per la sua approvazione327. Il 23 luglio, Bottai annotava: Alle 11, da Grandi, con cui ci consigliamo circa alcune varianti all’ordine del giorno da lui preparato. Secondo me la formula dei poteri da riconoscersi al Re va amplificata, fino a ricomprendere tutta la sfera politica. «Noi abbiamo in mano la spada, nell’altra lo scettro del comando politico. Non possiamo riconsegnargli soltanto la prima, ora che è spuntata e senza taglio. Una di lui azione può essere completa e risolutiva solo a patto d’essere intiera, militare e politica»328.

Grandi annotava nel diario del 23 luglio di essere andato alle 10 da Scorza: Egli mi dice di aver meditato tutta la notte «pur non avendo nessuna intenzione di ritirare la sua adesione, pure egli è molto perplesso a sottoscrivere l’o.d.g. pure impegnandosi comunque ad approvarlo e dare il suo voto favorevole alla riunione». Egli aggiunge che per ciò egli ha intenzione di parlare per ultimo e riassumere così la discussione in

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senso favorevole al mio o.d.g. Così restiamo d’accordo329.

Nella giornata del 23 luglio, Grandi incontrò altri membri del Gran Consiglio per persuaderli a sostenere il suo ordine del giorno: Bignardi alle 11, Federzoni alle 15 e Ciano alle 17. Di Ciano, Grandi annota: «Parliamo a lungo. Egli legge l’o.d.g. Lo accetta. Secondo lui è però troppo lungo. Forse ha ragione. Gli prometto di ripensare a ciò. Però lungo o corto, Ciano dichiara di sottoscriverlo». Alle 18 Grandi incontrò Farinacci, al quale non mostrò l’ordine del giorno, ma che disse di essere «d’accordo nelle linee generali», riservandosi una risposta definitiva dopo aver letto il testo che Grandi promise di fargli avere la mattina successiva alle 10. Infine, alle 20, tornò da Scorza, «il quale mi conferma, per la terza volta che egli approva l’o.d.g. che non può sottoscriverlo, ma che lo appoggerà»330. Ordine del giorno Grandi-Bottai: definitivo Anche per la giornata del 23 luglio, nel diario di Bottai vi sono discordanze di orari e di incontri rispetto a quello di Grandi. Dopo l’incontro da Grandi alle 11, con i consigli di modifica che estendevano la restaurazione dei poteri sia militari sia politici del re, Bottai annotava alle 12,30: «da Scorza, Grandi e io troviamo Ciano, che concorda col divisato ordine del giorno. Scorza ritiene essere utile che non sia lui stesso ad ‘attaccare’, domani». Anche Farinacci, «ch’era da Grandi, nella prima parte del nostro colloquio, sembra concordi. Ma tutti intuiamo il senso e il significato della sua approvazione, intesa come solidarietà jusqu’au bout coi tedeschi»331. Null’altro scrisse Bottai nel diario per la giornata del 23 luglio. Mentre Grandi chiuse così il diario della giornata: «Riesamino l’o.d.g. Effettivamente è troppo lungo. Decido di accorciarlo lasciando naturalmente l’essenziale»332, 217

allegando al diario il testo definitivo, nella versione che avrebbe poi presentato in Gran Consiglio, ma senza alcun accenno alle modifiche suggerite da Bottai e da Grandi apportate al suo ordine del giorno nell’ultima stesura. Il giorno dopo, Grandi apriva il diario con una previsione tragica: «Giornata che deciderà tutto. Sento che questa è veramente e forse la più grave giornata della mia vita. È probabile che sia fucilato domattina da Mussolini, che sia arrestato subito dopo il Gran Consiglio. Non importa. Bisogna farlo. Per la Patria»333. Quali motivi Grandi avesse di fare così fosche previsioni sul suo immediato futuro non è dato sapere. Come giurista che era stato ministro Guardasigilli, non ignorava certamente che nessun membro del Gran Consiglio, salvo il caso di flagrante reato, poteva «essere arrestato, né sottoposto a procedimento penale, né assoggettato a procedimenti di polizia, senza l’autorizzazione del Gran Consiglio», e che nessuna misura disciplinare contro un membro del Gran Consiglio «quale appartenente al Partito Nazionale Fascista, può essere adottata, se non con deliberazione del Gran Consiglio». Inoltre, come «cugino del re», avendo da marzo ricevuto il Collare dell’Annunziata, Grandi godeva personalmente di ulteriori protezioni. Che potesse poi addirittura essere fucilato, sembra una eventualità di rischio estremo, persino ardua da concepire seriamente, per un membro del Gran Consiglio che aveva fatto conoscere in anticipo al duce, al segretario del partito e alla maggioranza dei membri del Gran Consiglio il suo ordine del giorno, coinvolgendo altri nella sua stesura, e soprattutto Bottai. Ma anche sulla paternità della stesura definitiva ci sono notevoli discordanze fra i diari di Grandi e di Bottai. Nel suo diario del 24 luglio Grandi annotava un incontro con Bottai alle 9,30, mentre mezz’ora prima aveva consegnato a Bignardi una lettera per sollecitare l’adesione di De Bono, e 218

ricevette poi la conferma dell’adesione di Albini, che aveva avuto qualche scrupolo. Nella nota su Bottai, Grandi attribuiva a se stesso le ultime modifiche all’ordine del giorno, senza nulla dire della rielaborazione fatta da Bottai: «Rivedo Bottai. Approva le modificazioni dell’o.d.g.». Seguivano poi telegrafiche annotazioni degli incontri successivi: Ore 10 – Farinacci dichiara che non può votare il mio o.d.g. perché non parla dei tedeschi e perché egli non è disposto a restituire al Re nulla oltre lo stretto Comando Militare. Fa questioni personali collo Stato Maggiore. Di Farinacci non mi importa. È meglio che egli non sia con noi. Farinacci conclude dicendo che egli presenterà un suo ordine del giorno. Ore 11 – Vedo Cianetti. Accetta. Ore 12 – Vedo Ciano. Accetta definitivamente. Bignardi torna per dirmi che De Bono accetta. Federzoni mi informa che De Vecchi accetta. Ore 12.30 – Vado da Suardo. Dopo un lungo e pesante colloquio egli mi dichiara di accettare l’o.d.g. Ore 15 – Pareschi accetta. Ore 17 – Anche Acerbo, al quale parlo brevemente, finisce coll’accettare. Siamo in 17334.

Non con il pensiero d’essere fucilato o arrestato iniziò per Bottai la mattina del 24 luglio, ma piuttosto con un travaglio interiore, che intimamente lo lacerava da quando aveva perso la sua fede nel duce, mentre apportava nuove modifiche e aggiunte al testo dell’ordine del giorno: Giornata attesa con drammatica commozione. A un bivio. Il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo. Tanto duro lavoro per unire, cementare, fondere, fare di due uno nella coscienza una; e, oggi, questo essere a un bivio e un decidere che separa, dentro, che torce, che dilania. Ma è il dovere. Mi alzo, al Pilozzo, e completo l’ordine del giorno, inserendovi una parte introduttiva di saluto alle Forze Armate e alle popolazioni in combattimento. Già jeri nel pomeriggio, qui, con Grandi e Ciano, l’abbiamo, in due tormentate caldissime ore, limato, aggiustato, scorciato di tutt’una parte finale troppo prolissa e di carattere giuridico-istituzionale.

Poi seguivano gli incontri della giornata: Alle 10,30, da Grandi, Farinacci, che ripugna dalla formula dei poteri pieni,

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anche politici, da riconoscersi al Re. Solo la spada egli, insomma, vorrebbe dargli; e non riusciamo a persuaderlo. Viene Cianetti, che è d’accordo con noi, e ci garantisce l’adesione di Bignardi. Alle 13,30, ancora da Grandi, Ciano. L’ordine del giorno è, ormai, a punto. Lo schieramento delle firme sicure sembra essere questo: Grandi, Ciano, De Bono, De Vecchi, Suardo, Bottai, De Marsico, Bignardi, Federzoni, Cianetti, Rossoni, De Stefani, Bastianini, Albini, Alfieri. Questi è arrivato ieri da Berlino. Ce l’attendevamo incerto; e, invece, è senza oscillazioni pel nostro indirizzo, cui porta, proprio dalla Germania, nuovi elementi di conforto. Vedo più tardi, Balella che, nel suo galantomismo, assicuro facilmente al nostro punto di vista335.

Quindi, un’ora prima di recarsi a Palazzo Venezia, rilesse il testo dell’ordine del giorno nella stesura definitiva, trascrivendolo nel diario: Il Gran Consiglio del Fascismo riunendosi in questa ora di supremo cimento, volge, innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti d’ogni arma, che fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e d’indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose forze armate. Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.

Bottai aveva sottolineato in rosso (qui in corsivo) «i tratti che ho o direttamente scritti io, come tutto il primo capoverso, o, che, d’accordo con Grandi, ho rielaborato per 220

una formulazione più chiara»336. Così compilato, nella forma definitiva con la quale fu fatto circolare il pomeriggio del 24 luglio fra i membri del Gran Consiglio, l’ordine del giorno aveva ormai acquisito la duplice paternità di Grandi e di Bottai. Anzi, confrontando le tre stesure, nel testo definitivo le richieste più risolutamente rivolte a esautorare, o a dare al re la possibilità di esautorare il duce, erano state inserite da Bottai. Alle ore 17, sabato 24 luglio, i membri del Gran Consiglio erano radunati nella sala del Pappagallo, in attesa dell’ingresso del duce. 280

C. Scorza, Mussolini non fu tradito, servizio di D. Susmel, in «Domenica del Corriere», 5 marzo 1968. 281 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, p. 219. 282 Cfr. E. Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., Editrice Bernabò, Milano 1950, pp. 37 sgg. 283 G. Bottai, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1988, pp. 176-177. 284 Ivi, p. 181. 285 Ivi, p. 236. 286 Ivi, pp. 440-443. 287 Ivi, p. 570. 288 Ivi, p. 544. 289 Grandi, 25 luglio, cit., p. 137. 290 Dino Grandi smentisce l’intervista con «Milano-sera», in «Il Tempo», 28 gennaio 1946. 291 Grandi, 25 luglio, cit., p. 285. 292 ACS, CF, b .4, fasc. 2 «Gran Consiglio». 293 Grandi, 25 luglio, cit., p. 218. 294 Il testo dell’ordine del giorno Grandi, con le due successive stesure, è riportato in D. Grandi, Pagine di diario del 1943, in «Storia contemporanea», dicembre 1983, pp. 1073-1075. 295 Il testo dell’ordine del giorno è riprodotto, con qualche difformità non sostanziale, anche in D.Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1985, pp. 641-642. 296 MAE, AS, CDG, b. 128, fasc. 189, sottofasc. 1, ins. 1.

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297 Grandi, 25 luglio, cit., p. 217. 298 Ivi, p. 223. 299 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., pp. 1061-1062. Come precisa

Renzo De Felice nella premessa al diario di Grandi, le annotazioni originali «secche ed essenziali» erano state «rielaborate e sviluppate ampiamente, dando loro un andamento più disteso e narrativo e un carattere più autobiografico» (ivi, p. 1035). 300 Grandi, 25 luglio, cit., p. 223. 301 Ivi, p. 237. 302 Ivi, pp. 238-239. 303 Ivi, p. 225. 304 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1062. 305 Ivi, p. 1063. 306 Ibid. 307 Grandi, 25 luglio, cit., p. 233. 308 M. Zamboni, Diario di un colpo di Stato. 25 luglio-8 settembre, Newton Compton, Roma 1990, pp. 103-106. 309 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1064. 310 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, p. 142. 311 Zamboni, Diario di un colpo di Stato, cit., pp. 116-118. 312 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1063. 313 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, pp. 402-403. 314 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, p. 343. 315 Ivi, pp. 292-293. 316 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1063. 317 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 403-404. 318 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 241-242. 319 Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, cit., p. 142. 320 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 241-242. 321 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 293. 322 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., pp. 1063-1064. 323 G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943: crollo di un regime, Mursia, Milano 1982, p. 438. 324 Scorza, Mussolini non fu tradito, cit. 325 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., pp. 1074-1075.

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326 Ivi, p. 1064. 327 Ibid. 328 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 404. 329 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1064. Il corsivo è nel testo. 330 Ivi, pp. 1064-1065. 331 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 404. 332 Grandi, Pagine di diario del 1943, cit., p. 1065. 333 Ibid. 334 Ibid. 335 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 404-405. 336 Ivi, pp. 406-407.

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Capitolo ottavo. L’incognita del Gran Consiglio

Nel film Rashōmon sono quattro i personaggi che raccontano il fatto accaduto nel bosco: il bandito da strada, che aveva violato la moglie del samurai, la moglie del samurai, il samurai ucciso, e infine il boscaiolo che aveva assistito al fatto. Ciascuno diede la sua versione, che negava la verità delle altre. Attraverso il racconto di ciascuno, i tre protagonisti del fatto appaiono, di volta in volta, ora coraggiosi, ora vili, ora ridicoli, ora tragici. E alla fine il fatto rimane senza una storia certa, perché la certezza si è frantumata nella varietà delle narrazioni contraddittorie, che rendono impossibile comprendere come e perché il fatto accadde. Nel film di Kurosawa, i protagonisti del fatto erano tre, uno il testimone estraneo al fatto, ma egualmente inattendibile per il suo racconto. Nel Rashōmon a Palazzo Venezia, come abbiamo chiamato la notte del Gran Consiglio, sono più di venti i protagonisti che hanno raccontato la loro versione di quanto accaduto. Ma non c’è neppure una delle loro testimonianze che possa fornire un racconto sicuramente veritiero. Una sorta di testimone attendibile avrebbe potuto essere il verbale ufficiale della seduta, che non fu redatto. Una lacuna, questa, che è stata colmata finora dagli storici confezionando una sorta di postumo verbale apocrifo, composto con le parti concordanti delle differenti versioni ritenute più attendibili, 224

attribuendo alla concordanza come tale un persuasivo grado di attendibilità, e scartando quelle che, con più evidenza, apparivano invenzioni o manipolazioni. Eppure, l’arte combinatoria, sia pur esercitata col massimo rigore critico, non è sufficiente a dare risultati persuasivi per la conoscenza e la comprensione di come andarono veramente le cose nella sala del Pappagallo a Palazzo Venezia durante la notte del Gran Consiglio. Soprattutto perché, come abbiamo detto nel Prologo, i racconti sul 25 luglio furono fatti dai protagonisti dell’ultima seduta soltanto dopo l’arresto di Mussolini, il crollo del regime, l’instaurazione di una dittatura militare con l’assenso del re, la dichiarazione che «la guerra continua», l’armistizio dell’8 settembre, l’occupazione tedesca, la liberazione di Mussolini, l’istituzione della Repubblica sociale e il processo di Verona. Tutti questi fatti nuovi e del tutto imprevisti dai protagonisti della notte del Gran Consiglio, influenzarono e condizionarono la rappresentazione e l’interpretazione dei fatti allora accaduti e il comportamento che i gerarchi ebbero. Inoltre, la diversa dimensione dei loro racconti, che varia da qualche pagina di deposizione al processo di Verona ad alcune pagine di diario, da brevi resoconti e testimonianze giornalistiche a narrazioni più ampie in capitoli di memorie, fino a un racconto dettagliato che copre un libro di 215 pagine, quante ne conta La notte del Gran Consiglio di Scorza, complica piuttosto che agevolare l’indagine, per il contrasto evidente e inevitabile fra evocazioni concise, necessariamente lacunose, e narrazioni più dettagliate ma non per questo necessariamente esaurienti e persuasive. Tutto questo materiale è stato più volte utilizzato e riproposto nei molti libri che hanno ricostruito le vicende del 25 luglio. Pertanto non sembra necessario combinare ora un ennesimo, postumo verbale apocrifo, riassumendo, 225

citando, confrontando i racconti dei vari protagonisti. Daremo la parola non a tutti i membri del Gran Consiglio, oltre una ventina, che parlarono durante la seduta, ma solo ai protagonisti principali che discussero la questione centrale della seduta, cioè la sfida al regime del duce. Tralasciando le questioni militari e i rapporti con la Germania, il nostro riflettore sarà puntato su un fenomeno che, avviato già da alcuni anni, si manifestò e si concluse nella notte del Gran Consiglio: il disfacimento del carisma di Mussolini. Per l’epilogo della nostra indagine, possiamo avvalerci di un contributo documentario nuovo, che agli storici è finora mancato, cioè alcuni documenti inediti sulla notte del Gran Consiglio provenienti dall’archivio di Luigi Federzoni e recentemente ritrovati, e acquisiti dalla Direzione Generale Archivi, fra i quali vi sono gli appunti sullo svolgimento della seduta, scritti da Federzoni durante i vari interventi, e il resoconto manoscritto a più mani compilato in forma di verbale in casa Federzoni, probabilmente fra la fine di luglio e l’inizio di agosto, ai quali sono allegati i testi del proprio discorso, manoscritto o dattiloscritto, dati da alcuni dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi: Acerbo, Albini, Alfieri, Bastianini, Bignardi, De Stefani, De Marsico, De Vecchi, Federzoni. Mancano però i testi dei discorsi di Grandi, da quest’ultimo inviati a Federzoni, come abbiamo visto, solo nel 1956. Anche i testi di De Marsico e di De Vecchi furono inviati a Federzoni nel 1956. Di questi testi, con tagli, varianti e modifiche per alcuni di essi, specialmente quelli di Grandi, Federzoni si servì per compilare il resoconto da lui pubblicato nel 1967. Per tutti gli altri membri del Gran Consiglio, compreso Mussolini, i loro interventi, in questo verbale postumo, sono stati ricostruiti unicamente dai firmatari dell’ordine del giorno Grandi, con la conseguenza che alcuni dei testi 226

da questi consegnati sono notevolmente più lunghi di quelli degli altri membri, che avevano votato contro o che, pur avendo votato a favore, non furono interpellati, o rintracciati, o nulla seppero dell’operazione di verbalizzazione in corso. Ad essi vanno aggiunti gli appunti presi durante la seduta da De Marsico, riprodotti in copia fotografica nell’appendice al suo libro sul 25 luglio pubblicato nel 1983, e che sono stati ignorati o trascurati dagli storici che sul 25 luglio hanno scritto dopo il 1983. In assenza di un verbale ufficiale, questi documenti – che citeremo con le sigle Federzoni 1 [F.1] e 2 [F.2], e De Marsico [De M.] – possono essere un’utile fonte per seguire quel che fu detto dai principali oratori nella notte del Gran Consiglio, prima di essere da loro stessi rielaborato, ampliato, aggiustato, modificato o aggiunto in postume rielaborazioni. È evidente che neppure questi nuovi documenti possono fornire risposte certe a tutte le domande sulla notte del Gran Consiglio, ma almeno con essi è possibile chiarire alcune questioni rimaste in ombra, eliminare definitivamente le risposte certamente errate che sono state date finora dalla storiografia, e aprire così la strada a una più realistica conoscenza e comprensione delle vicende che sono passate alla storia sotto la data del 25 luglio. Alla conta dei voti Alle ore 17 del 24 luglio, Grandi contava a diciassette il numero dei membri del Gran Consiglio che avevano accettato il suo ordine del giorno. Tuttavia, i nominativi citati nel suo diario, dalle 17 del 22 luglio alle 17 del 24 luglio, erano, oltre lui stesso, dodici, qui elencati nella successione della loro adesione: Bottai, Federzoni, Albini, Bastianini, Bignardi, Ciano, Cianetti, De Bono, De 227

Vecchi, Suardo, Pareschi, Acerbo. Curiosamente, nel suo diario Grandi ometteva i nomi di altri membri del Gran Consiglio che avevano dato la loro adesione alla sua iniziativa, direttamente o indirettamente: De Marsico, Alfieri, De Stefani, Rossoni, Balella. Aveva invece già dichiarato la sua opposizione Farinacci, ed era data per scontata l’opposizione di Biggini, Galbiati, Buffarini Guidi, Polverelli, Tringali Casanuova. Non risultava allora nota la posizione di Marinelli, Frattari e Gottardi. Dei diciassette aderenti all’iniziativa di Grandi, ben undici diedero la loro adesione soltanto nella giornata del 24 luglio, anche durante la seduta del Gran Consiglio. E non tutti aderirono con convinzione risoluta e con la consapevolezza di quel che volevano conseguire con l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, immaginando quali conseguenze avrebbe potuto avere. Lo stesso Grandi ha raccontato che le «adesioni ricevute, salvo quelle di pochi sui quali sentivo di potere sicuramente contare, erano state generiche, ‘di massima’. Nessuna firma e nessun impegno formale era stato richiesto e dato. Una metà dei componenti del Gran Consiglio non era stata neppure presentita. Il tempo era mancato. Tutto sarebbe quindi dipeso dall’esito della discussione a Palazzo Venezia»337. Nella mattinata del 24 luglio Grandi seppe da Federzoni che De Stefani e De Bono avevano «in linea di massima aderito»338. Albini aveva invece avuto qualche scrupolo, ma poi promise a Grandi che non lo avrebbe abbandonato339. Lo stesso Albini gli comunicò l’adesione di Rossoni. De Bono in principio era scettico sull’esito della riunione, come scriveva nel diario il 23 luglio: Naturalmente si cercherà di avere il Gran Consiglio solidale con l’opera del Capo e trascinarci ad assumere responsabilità su quel che è stato fatto fin qui e in cui il Gran Consiglio non c’entra per niente. Tutto è stato fatto da lui. Non si caverà un ragno da un buco. Si farà dell’Accademia… Io sono sfiduciato;

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preferirei qualunque cosa a questo Gran Consiglio. Fino a che ci sarà Mussolini non si combinerà niente di veramente utile per questa povera Italia […] Io penso che anche il Gran Consiglio di domani finirà come uno dei soliti. Nessuno è pronto a sferrare un attacco del genere340.

Ma il giorno dopo, informato da una lettera di Grandi sulla sua iniziativa, il quadrumviro aveva idee più chiare: 24 luglio. Sarà una cosa molto seria e può darsi anche pericolosa. Io parlerò per tutta la parte militare. Grandi presenterà un ordine del giorno col quale si chiede al Re il ritorno alla costituzione. Di qui salteranno fuori le decisioni. La maggioranza è favorevole all’ordine del giorno; anche Farinacci lo firmerà, Io subisco il Fato e mi raccomando a Dio, alla Madonna e ai miei cari morti. Sono riuscito a portarmi in tasca il mio S. Giuseppone; non mi abbandonerà341.

A mezzogiorno, Grandi si recò da Suardo al Senato per chiedere la sua adesione. Il presidente del Senato, ha raccontato Grandi, in principio fu perplesso: «Gli parlai a lungo, feci appello al giuramento fatto al Re, quale ufficiale dell’esercito e presidente della Camera Alta». In principiò titubò, poi alla fine acconsentì, abbracciò Grandi «colle lagrime agli occhi, dicendosi dolente di trovarsi costretto ad un’azione così apertamente diretta contro Mussolini», e promise «che sarebbe stato senza esitare solidale con noi»342. Perplesso era anche Cianetti, al quale Grandi aveva telefonato per incontrarlo verso mezzogiorno343. La sera precedente Cianetti era stato convocato dal duce a Palazzo Venezia per il consueto rapporto. Finito il rapporto, il duce cominciò a parlargli «stizzito contro le vociferazioni di pace che sempre più si diffondevano nel Paese. Ad un tratto disse: ‘La Finlandia, la piccola eroica Finlandia si è forse arresa a discrezione?’»: Risposi: «Duce, ma chi è che può pensare ad una resa?» Replicò: «Oh, c’è molta gente che sarebbe disposta ad accogliere trionfalmente i liberatori» calcando ironicamente sulla parola di moda. «Che ci siano molti a invocare una pace qualsiasi, non v’è dubbio; ma quello che la stragrande maggioranza del Paese invoca e attende è una più energica condotta della guerra». «Che cosa intendete dire?» «Intendo dire che il Paese non sente più una guida sicura. La nostra

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propaganda è pietosa, il Partito è ridotto ormai agli estremi, il disfattismo più deleterio ha preso il dominio della piazza, mentre le difficoltà alimentari fanno il resto. A giuocare alla disfatta vi sono anche e soprattutto gli imboscati e gli affaristi arricchitisi sulle speculazioni. Il tutto avviene impunemente: si continuano a far leggi che prevedono ammende di 300 lire per i trasgressori, mentre occorrerebbe stringere più fortemente i freni. L’esercito è in crisi gravissima, nelle alte sfere militari è subentrata una grande sfiducia e non manca chi si augura una disfatta militare. In questa guerra non si sono fatte fucilazioni…» «Che cosa vorreste risolvere con le fucilazioni?» mi interruppe seccamente Mussolini. «Per mio conto, si risolve un problema semplicissimo: se un ufficiale o un soldato fuggono e voi li fate fucilare, quelli che si trovano vicini ci penseranno due volte prima di imitarlo». Mussolini fece un gesto indefinibile e mi congedò rapidamente.

Dopo l’udienza dal duce, Cianetti incontrò il ministro Benini e concordarono nel «ritenere che il Regime andasse sfaldandosi», mentre Benini immaginava che un giorno sarebbero stati arrestati dai carabinieri «in nome di non so quale autorità che abbia fatto un colpo di Stato»344. La mattina del 24, continua il racconto di Cianetti, «il clima politico di Roma era rovente». Al ministero delle Corporazioni, ricevette autorevoli personalità del mondo sindacale che denunciarono la gravità dell’ora, e «uno dei più accesi», il presidente della Confederazione dei commercianti, sperava che al Gran Consiglio i membri avrebbero fatto «comprendere a Mussolini che è ora di farla finita con i capricci. Bisogna togliergli dalle mani le principali leve di comando. Lasci fare a tutti voi, cominciando dal Segretario del Partito, e si contenti di dare il suo nome alla compagine governativa». Le parole pronunciate «da uno dei più ardenti innamorati di Mussolini» fecero riflettere Cianetti. Quando, alle 11,30, si recò da Grandi, che l’aveva fatto cercare, il ministro delle Corporazioni vide uscire dall’ufficio del presidente della Camera Farinacci, che lo prese a braccetto per dirgli che Grandi gli avrebbe sottoposto il suo ordine del giorno: «il 230

principio è giusto, ma non ti impegnare fino in fondo. Ti aspetto verso alle 15 a casa mia»345. Per «liberare» Mussolini Da Grandi, Cianetti incontrò Bottai, che gli parve «triste e preoc​cupato». Con lui, raccontava Cianetti, aveva avuto una lunga conversazione alla vigilia dello sbarco in Sicilia. Bottai gli aveva manifestato le sue gravi preoccupazioni «che si manifestavano in tutti i settori del Regime, non soltanto per l’andamento della guerra, ma soprattutto per l’inspiegabile contegno abulico di Mussolini», e gli aveva poi proposto di cercare una linea comune per agire su di lui: alcuni, gli aveva detto Bottai, «pensano che si dovrebbe estromettere Mussolini dalla politica del Paese, mentre altri sarebbero propensi ad una giubilazione. In questo secondo caso, Mussolini resterebbe un simbolo con apparente funzione massima direttiva, ma privato in realtà delle principali leve di comando». Cianetti si era dichiarato per la seconda soluzione, perché «il nome di Mussolini riscuote ancora molto credito e la sua presenza evita i litigi successorii. Mussolini non può e non deve avere successori». Cianetti e Bottai avevano infine concordato nel ritenere che «alla dittatura di un uomo non può non succedere che un Regime a larga base democratica. Il corporativismo deve essere la base dello Stato di domani»346. Di Grandi, nelle memorie scritte nel carcere di Verona, Cianetti parlava con stima, nonostante quel che era accaduto dopo il 25 luglio, perché gli riconosceva di «aver servito con fede il proprio Paese ed il Regime», ma gli rimproverava «di non aver saputo mostrare più energia (egli era uno dei pochissimi che avrebbe potuto farlo) nell’affrontare con decisione il dittatore», osservando che «se nei primi sei anni del Regime le figure più eminenti 231

non si fossero lasciate irretire dal giuoco capriccioso del Capo, molte deviazioni avrebbero potuto essere evitate o per lo meno ridotte». A Cianetti, Grandi fece leggere il suo ordine del giorno, che gli parve andare «benissimo» poiché rispondeva «alle esigenze del momento ed al pensiero di ogni italiano di buon senso», con l’incitamento alla difesa dell’indipendenza della patria, la necessità di ripristinare tutte le funzioni costituzionali e di restituire al re il comando supremo delle forze armate. Poi però Cianetti chiese: «indipendentemente dalle parole, che cosa s’intende raggiungere con questo ordine del giorno?». «Caro Cianetti – disse Grandi con energia – con questo ordine del giorno si vogliono raggiungere due obiettivi: sollevare Mussolini dalla totale responsabilità della condotta della guerra impegnando la Monarchia, e liberare, dico liberare, Mussolini della dittatura!». Cianetti disse di approvare «entusiasticamente queste finalità», dichiarando «apertamente che quello era ‘l’atto di più grande onestà che si compiva verso il Duce’». Cianetti ebbe poi da Grandi l’assicurazione che anche il segretario del partito conosceva il testo ed era «pienamente d’accordo»: «Egli – disse Grandi – dovrà barcamenarsi data la sua posizione; presenterà un altro ordine del giorno, ma sostanzialmente è d’accordo con noi. Scorza è veramente bravo». Al timore di un eventuale colpo di testa di Mussolini mostrato da Cianetti, Grandi disse «con forza» che Mussolini doveva capire che non era più «il momento di abbandonarsi ai capricci. Vi è in giuoco qualche cosa di più sacro di quello che non siano i risentimenti personali». Cianetti fu convinto anche dall’apprendere che avevano già aderito Bottai, Federzoni, De Bono, De Vecchi, Bignardi, Rossoni e De Marsico. Un residuo di perplessità rimase in Cianetti per l’ultimo periodo dell’ordine del giorno, dove si parlava dell’iniziativa politica del re, oltre quella militare: 232

«Non ti pare che ciò possa prestarsi ad equivoci?». Pronta la risposta di Grandi: «D’accordo con te, ma come possiamo fare altrimenti? Non possiamo, in sostanza, offrire al Re il diritto d’iniziativa militare e negargli quella politica». «Allora è una questione di forma?». «Precisamente». «Per me sta bene; poi sentiremo i pareri che affioreranno nel corso della discussione»347. Rientrato al ministero, Cianetti rassicurò anche il presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria Luciano Gottardi, che avrebbe partecipato per la prima volta al Gran Consiglio, esortandolo a decidere secondo la sua coscienza, valutando la situazione. Alle 15 Cianetti si recò da Farinacci. Lo trovò solo. «Era nervoso ed agitato e mi chiese se avevo aderito all’ordine del giorno Grandi»: «Ho detto a Grandi che come base di discussione può andare: ho però fatto presente che la seconda parte della terza affermazione (iniziativa politica al Re) mi pare in contrasto con la prima parte della seconda affermazione. Grandi mi ha dato ragguagli che lì per lì mi hanno convinto, ma ti confesso che permangono in me dei dubbi. Io non so come possa conciliarsi la funzione del Gran Consiglio con il ripristino integrale delle prerogative reali che furono ridotte proprio con la legge che inseriva nello Stato il supremo organo del Regime». Farinacci convenne ma non approfondì la cosa, mentre fece leggere a Cianetti il suo ordine del giorno, che gli «parve più completo» tanto da proporgli di «mettersi d’accordo con Grandi prima della seduta», dicendosi favorevole ad appoggiarlo, «anzi avrei ritirato l’adesione verbale al primo e firmato regolarmente quello che aveva letto or ora». Ma Farinacci replicò che il suo ordine del giorno doveva portare solo la sua firma348. Le stesse cose Farinacci aveva detto a Grandi, che lo aveva ricevuto la mattina, alle 10 e successivamente alle 15, secondo la testimonianza del gerarca cremonese nella sua 233

deposizione al processo di Verona. Grandi gli diede allora copia dell’ordine del giorno: «Meravigliato, feci subito comprendere – ha raccontato Farinacci – che io non avrei potuto aderire a questa mozione perché avrebbe permesso al Re di abbattere il Regime. Mancava ogni accenno al Gran Consiglio, al Partito, alle camicie nere ed ai camerati tedeschi che combattevano con indomito valore. L’ultima parte era antirivoluzionaria ed antifascista. Aggiunsi testualmente: ‘Se le camicie nere domani ti pugnalassero avrebbero ragione’»349. Nel racconto fatto da Grandi del colloquio con Farinacci, questi avrebbe commentato il suo ordine del giorno con un linguaggio sprezzante nei confronti di Mussolini: Tu vuoi che Mussolini se ne vada e che il Re riassuma non soltanto il comando delle forze armate, ma altresì un’iniziativa politica per mettere fine alla guerra. Ora, che Mussolini finisca una buona volta la buffonata di fare il comandante supremo delle forze armate e che il Re riassuma nominalmente il comando militare, sta bene; ma ciò soltanto perché il governo possa affidare tale comando ad altri i quali sappiano fare veramente la guerra. […] Ma niente fine della guerra. Al contrario, la guerra deve cominciare adesso, e cominciare sul serio, come la fanno i nostri alleati, d’accordo con loro e affiancandoci a loro. Per quanto riguarda quello che tu richiami il ripristino della Costituzione e l’abolizione del regime totalitario, eccetera, Mussolini ha fallito, perché semplicemente la sua è una dittatura da burla. Non è la Costituzione che bisogna ripristinare, è, al contrario, una dittatura sul serio che bisogna finalmente instaurare, con o senza Mussolini. I tedeschi non hanno alcuna fiducia in noi ed hanno ragione perché non siamo mai stati leali con loro e perché il regime fascista è diventato un regime di femmine e di preti.

Grandi non ha confermato nel suo racconto il letale auspicio di Farinacci nei suoi confronti, ma ha riferito che il gerarca cremonese, uscendo, gli disse: «Domani sera non succederà nulla. Finirà come sempre. Lui farà approvare l’ordine del giorno che avrà preparato in precedenza e tutti applaudiranno alla fine. Io dirò invece quello che penso, ma sarò il solo…»350. Anche nel colloquio con Cianetti, per circa un’ora Farinacci «si sfogò acerbamente contro Mussolini, 234

dicendomi tra l’altro: ‘Ieri sera l’ho investito violentemente ed a lungo. Alla fine gli ho detto che ringraziasse Dio che avevo vuotato il sacco perché così sarei stato meno violento alla seduta del Gran Consiglio. Mussolini mi ha dato ragione su tutto’». Tuttavia, dalle parole di Farinacci, raccontava Cianetti, «rilevai, cosa che non era successa nel colloquio con Grandi, che alle 17 non si trattava di spuntare gli artigli al dittatore, ma forse di peggio. Ma poiché era abituato da anni alle sfuriate farinacciane, non attribuii soverchia importanza alle impressioni del momento». Con dubbi ancora assillanti, Cianetti alle 16,30 partì con Farinacci per Palazzo Venezia: «Dalle parole che scambiammo lungo il tragitto mi venne il dubbio che Farinacci si sentisse più investito della parte di contraltare a Mussolini che della responsabilità imposta dagli avvenimenti disastrosi»351. Massimo riguardo per il duce Gli ondeggiamenti di Cianetti, oltre che da scarsa comprensione della sostanziale diversità fra i due ordini del giorno, quello di Grandi e quello di Farinacci, erano conseguenza anche della tattica adoperata da Grandi per convincere all’adesione i più perplessi sulla sorte del duce, una volta restituiti al re tutti i poteri civili e militari. L’argomento usato da Grandi per persuadere Cianetti fu adoperato abilmente dal gerarca bolognese, direttamente o indirettamente, per persuadere a votare il suo ordine del giorno altri membri del Gran Consiglio, specialmente i neofiti, come Bignardi, Gottardi e Pareschi, che avrebbero partecipato per la prima volta e che pertanto erano i più esposti a subire ancora il fascino carismatico del duce, assiso nel supremo organo del regime. La stessa argomentazione fu usata da Grandi e da Ciano 235

con l’ambasciatore Alfieri, giunto da Berlino a Roma nella tarda mattinata del 24. Recatosi a Palazzo Chigi per conferire con Bastianini, vi giunse anche Ciano, il quale, ha raccontato Alfieri, «cordiale, amichevole, un poco eccitato, mi accolse con evidente compiacimento», dicendogli: «Hai fatto molto bene a venire. Siamo tutti d’accordo che bisogna fare il possibile per salvare l’Italia per sottrarla al dominio ed alla prepotenza dei ‘tuoi’ tedeschi…». L’ultima frase suscitò la protesta di Alfieri, che obiettò di essere stato nominato ambasciatore a Berlino un anno dopo che lui, Ciano, aveva firmato il Patto d’acciaio. E Ciano, racconta Alfieri, rispose: «Scherzo! So benissimo che hai fatto anche tu quello che potevi per evitare il peggio. Ma ‘quello’ – il testone – non vuole capire. Oggi in Gran Consiglio parleremo chiaro e sarà obbligato a capire». Alla richiesta di Alfieri su come si sarebbe svolta la seduta «e quale sarebbe presumibilmente stata la conclusione», Ciano rispose che si sarebbe svolta sulle questioni attuali, ma una sola dominante sulle altre: «la necessità di salvare il paese», e lo informò dell’ordine del giorno preparato da Grandi che aveva raccolto già molte adesioni, e anche Farinacci e Scorza erano d’accordo. Poi, Ciano e Alfieri si recarono insieme da Grandi, che li accolse «col suo fare bonario e signorile», e diede ad Alfieri il dattiloscritto dell’ordine del giorno, ribadendo che aveva avuto già l’adesione di De Bono, De Vecchi, Federzoni, Bottai, De Stefani, Suardo e altri; che anche Scorza aveva dato la sua adesione e aveva avuto una copia dell’ordine del giorno da trasmettere al duce. Lo stesso aveva fatto con Farinacci, sicuro che l’avrebbe portato all’ambasciata tedesca. «Tu, caro Alfieri, quale ambasciatore a Berlino ti trovi in una situazione particolarmente delicata, e sarebbe comprensibile che ti astenessi dal voto», consigliò Grandi, ma Alfieri, dopo aver letto rapidamente il dattiloscritto, lo 236

trovò corrispondente ai suoi pensieri, e chiese solo alcuni chiarimenti: «Ma Ciano – ha raccontato Alfieri – subito intervenne: ‘Non avere scrupoli o riserve. Si tratta di una chiarificazione. La discussione si svolgerà nel massimo rispetto e riguardo per il Duce. D’altronde, se ad onta della mia particolarissima condizione io stesso lo sottoscrivo…’». Alfieri fu persuaso dall’argomentazione di Ciano, e aderì. Sopraggiunse allora Bottai, proseguiva il racconto dell’ambasciatore, e discusse con Ciano e Grandi, «alternando le cose serie e le battute scherzose. Furono d’accordo che Grandi avrebbe inquadrato la discussione illustrando l’ordine del giorno»: «‘Ora’, disse Grandi, come per porre termine al colloquio, ‘salgo in appartamento, per preparare quello che dovrò dire. Ma tant’è, ormai non si tratta più di far delle parole. La situazione è quella che è, nella sua tragica realtà’»352. Il piano di Scorza Per convincere i perplessi, Grandi menzionava fra i sostenitori del suo ordine del giorno anche il segretario del partito. È tuttavia singolare che né Cianetti né Alfieri si siano rivolti direttamente a Scorza, che era comunque la massima autorità del regime dopo il duce e segretario di diritto del Gran Consiglio, per chiedere quale fosse il suo effettivo atteggiamento nei confronti dell’iniziativa di Grandi, soprattutto considerando che era stata di Scorza l’iniziativa di riunire il gruppo dei gerarchi che il 16 luglio avevano chiesto e ottenuto dal duce la convocazione del Gran Consiglio. Sul comportamento di Scorza fra il 22 e il 24 luglio, la netta contrapposizione fra il racconto dello stesso Scorza e quelli di Bottai, di Grandi e di Mussolini lascia molte zone di ombra353. È però probabile che Scorza abbia agito simulando di essere d’accordo con l’iniziativa di 237

Grandi e di Bottai per la parte che concordava col suo piano di riforme e di cambiamenti, proposto al duce nell’appunto del 7 giugno, e che si proponeva di esporre in Gran Consiglio, associandolo al progetto di riforma del partito, per far sì che apparisse prossimo nei propositi all’iniziativa di Grandi e di Bottai in modo da ottenere l’assenso degli altri membri del Gran Consiglio su un ordine del giorno presentato a nome del partito. Secondo la testimonianza di Alfredo Cucco, che era allora uno dei vicesegretari del PNF, Scorza non aveva affatto concordato con l’iniziativa di Grandi, ma aveva preparato un proprio ordine del giorno, che la sera del 23 luglio espose ai quattro vicesegretari convocati nel suo ufficio alla sede del partito: Ci parlò press’a poco così: «Ci troviamo alla vigilia di avvenimenti che potrebbero assumere una certa gravità. Per questo vi ho chiamato. Voi siete i miei più diretti collaboratori. Avete visto in questi giorni che c’è stato molto movimento di gerarchi e di personalità, qui, al Partito. Vi dico subito che si vorrebbe arrivare da alcuni alla sostituzione del Duce. Ebbene, io ho detto chiaro a Grandi, che è l’esponente di detto gruppo, che non condivido questo loro disegno. Per me, sostituire il Duce non farebbe che aggravare la situazione. Da allora si sono allontanati dal Partito e da me ed avrete notato come da ieri mattina qui non si sia visto più nessuno. Poiché, di fronte ad ogni evenienza, è bene ognuno assuma la sua precisa responsabilità, io ho preparato un mio ‘Ordine del giorno’ che nessuno conosce, neanche il Duce, e che io mi riserbo di presentare domani nella riunione del Gran Consiglio. Ve lo leggo perché tengo a conoscere l’opinione di ciascuno di voi»354.

Il testo dell’ordine del giorno era lo stesso che Scorza poi lesse in Gran Consiglio. I quattro vicesegretari diedero pieno consenso all’iniziativa del segretario e il giorno dopo sottoscrissero una dichiarazione nella quale essi, «presa nozione dell’ordine del giorno del Segretario del Partito da presentare in Gran Consiglio», manifestavano la loro «viva totale solidarietà alle idee ed ai sentimenti espressi dall’Ordine del giorno». La dichiarazione fu consegnata da Cucco a Scorza «perché egli sentisse per sé, e fosse in grado di documentare, occorrendo, agli altri, che i quattro 238

vicesegretari del Partito erano intimamente concordi con lui»355. A parte l’affermazione, chiaramente inesatta, secondo cui non si era visto nessuno da Scorza dalla mattina del 22, avendo lui ricevuto la mattina del 23 luglio Grandi, Bottai e Ciano, è certo però che il segretario del partito non pensava affatto alla possibilità di sostituire il duce e non avrebbe mai seguito Grandi e Bottai su questa strada in Gran Consiglio. Alle sede del partito, la mattina del 24 luglio, ci fu molto movimento di gerarchi minori, ma da Scorza si recarono soltanto Farinacci, per presentargli il suo ordine del giorno rifiutando di aderire a quello del partito, e il presidente del Senato Suardo, per informarlo che vi era fra i senatori un gruppo che chiedeva con urgenza la convocazione della Camera Alta356. Poi, ha raccontato Scorza, si recò a rapporto dal duce, al quale consegnò l’ordine del giorno di Farinacci, il suo e un appunto nel quale aveva sintetizzato, secondo le direttive del duce, i casi dei possibili esiti della seduta e delle sue conseguenze. L’ipotesi più grave era che, di fronte al rifiuto del duce di accettare le richieste del Gran Consiglio, poteva accadere «o la sostituzione del Duce o l’arresto dei membri del Gran Consiglio dissidenti». Per evitare il verificarsi dell’ipotesi più grave, Scorza propose al duce di prevenire le richieste del Gran Consiglio annunciando le riforme che aveva già deciso di attuare, e prima fra tutte la nomina di ministri militari responsabili e del ministro degli Interni357. Secondo la testimonianza di Cucco, Scorza riuscì a persuadere il duce ad annunziare nella sua relazione di apertura del Gran Consiglio i provvedimenti prospettati dal segretario del partito, «e sui quali il Duce aveva espresso il suo concorde assentimento. Così – era questo il giusto convincimento di Scorza – avrebbe messo Grandi e compagnia in condizioni di sfondare… una porta aperta»358. Prima di congedarlo, ha 239

raccontato Scorza, il duce ricevette una telefonata con la quale lo si informava che Bottai, Ciano e Alfieri erano a Montecitorio da Grandi: «Il Gran Consiglio servirà anche a svuotare questa sudicia vescica del complotto e della fronda in seno al Regime», avrebbe commentato il duce, secondo il racconto di Scorza, prima di congedare il segretario del partito: «Allora a stasera! E molta calma»359. Pensieri della vigilia Calmi certamente non erano Grandi e i sostenitori del suo ordine del giorno. De Marsico ha raccontato di avere avuto un tumulto nella mente, prima entrare a Palazzo Venezia: Un dubbio solo ci turbava: si sarebbe giunti alla votazione, o Mussolini avrebbe troncato la seduta, rimaneggiato il Ministero, evitato gli scogli di altre riunioni? […] Pensare che la determinazione del futuro di una Nazione, forse di una civiltà, sarebbe dipesa dal voto di pochi uomini – anche dal mio voto – mi poneva la mente in tumulto: temere che quanto io avevo pensato del fascismo in venti anni poteva farmi velo e trascinarmi in un errore di cui sarebbe stata vittima la Patria, mi portava assai vicino alle frontiere della follia. […] La tempesta della mente si placò solo dopo che ebbi varcato la soglia della sala in cui ci riunimmo. Mai più di allora mi sono sentito lucido nella coscienza, fermo nella volontà: il mio spirito era trasparente come l’aria dopo una burrasca360.

De Stefani ha raccontato che l’incognita più grave era l’imprevedibilità della reazione di Mussolini: «Nessuno avrebbe saputo prevedere quello che il Duce ci avrebbe detto. Egli era per noi e per tutti l’imprevedibile: lo era sempre stato. La sua imprevedibilità ci aveva sempre reso ansiosi. Per tanti anni al fondo della nostra fiducia c’era l’ansia dell’imprevisto che ci teneva inquieti»361. Bottai, nel primo pomeriggio, era andato a riposare al Pilozzo, dove meditò sulla gravità del passo che stava per compiere, soprattutto verso Mussolini, che egli, ormai 240

disincantato dal carisma del capo, guardava come «elemento d’una situazione esterna in cui si tratta d’agire, non più personaggio della mia vita interiore»: Non è più questione di «tradire» o di «non tradire», ma d’avere il coraggio di confessare il tradimento da lui compiuto, consumato giorno per giorno, dalla prima delusione a questo crollo morale. Non un’idea, un patto, una legge, cui egli abbia tenuto fede. Tutto fu da lui guastato, distorto, corrotto, sulla scia d’un empirismo presuntuoso e pure accorto, fondato sul disprezzo degli uomini e dei loro ideali. Tra poche ore bisognerà riscattarsi da tutto ciò; e riscattare tutto ciò con un taglio netto. Sta a Mussolini prendere posizione o di qua o di là del taglio, o per un’estrema rigenerazione del Fascismo in una comunione aperta e sincera con la Nazione, o per una rimessa a questa delle sue sorti. Se egli vorrà mettersi di traverso, il taglio della decisione passerà su di lui con l’inesorabilità d’una conclusione fatale. La mia, la nostra risoluzione è nel suo attuarsi resa pura e diritta dal fatto che con essa noi mettiamo in gioco noi stessi: è un gioco senza alternative, ché sboccherà comunque in una rinuncia, in un sacrificio, in una dedizione di noi, oltre la parte, alla Patria nella sua suprema incarnazione.

Dopo aver riletto l’ordine del giorno nella stesura definitiva, Bottai scriveva nel diario: «Vorrei prepararmi alcuni temi per la discussione; ma è impossibile sceverarli nell’intelletto bloccato da una commozione, che impegna tutto il mio essere. Darò voce a cotesta commozione, che troverà da sé le parole nel corso del dibattito»362. Grandi ha raccontato che la mattina del 24 si era procurato due bombe a mano, che avrebbe portato con sé nella riunione, perché, se escludeva «da parte di Mussolini una reazione brutale», non la escludeva da parte dei nazisti, informati del suo ordine del giorno da Farinacci363. Poi, come ultimo atto prima di andare a Palazzo Venezia, aveva scritto una lettera al re, che fece portare dall’amico Zamboni al ministro della Real Casa con l’impegno di consegnarla a Vittorio Emanuele solo dopo le 17: Sire, è mio dovere portare a conoscenza di Vostra Maestà, l’accluso ordine del giorno che, in questo momento, confortato dall’appoggio di alcuni amici miei, io mi reco a sottoporre al Gran Consiglio a Palazzo Venezia. Non solo come

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presidente dell’assemblea legislativa, ma altresì come soldato, oso supplicare Vostra Maestà, in queste ore così gravi e decisive per le sorti della nazione e della monarchia, di non abbandonare la patria. Questo io domando al Re del 24 maggio 1915, del convegno di Peschiera del 1917, della resistenza del Piave e della vittoria di Vittorio Veneto. Il Re soltanto può ancora salvare la patria. Devotissimo, Dino Grandi (presidente dell’assemblea legislativa).

Alle 16 Grandi uscì da Montecitorio e si soffermò per qualche minuto nella piccola chiesa in piazza Colonna per raccomandare «al Signore mia moglie ed i miei figli lontani e Lo pregai di illuminare me ed i miei compagni nell’azione che stavamo per compiere». Poi mise in tasca le due bombe a mano che si era procurato la mattina: «Mi prospettai freddamente, come eventualità pressoché certa, che non saremmo usciti vivi da Palazzo Venezia»364. «Anch’io, come Grandi, come forse qualcun altro», ha raccontato Federzoni, «mi ero confessato e comunicato», prima di andare a Palazzo Venezia, perché, spiegava, lui e Grandi erano «consapevoli del rischio mortale, ma sereni per la certezza di combattere una battaglia forse decisiva per la salvezza del Paese». E Federzoni aggiungeva, senza menzionare Grandi, che per la verità «tutti i componenti del consesso si aspettavano qualche tempestoso incidente, senza escludere l’eventualità di una sparatoria; e non pochi perciò erano venuti bene armati. Uno di essi mi rimorchiò in un cantuccio e con aria alquanto spaccona trasse di sotto la palandrana di prescrizione due bombe a mano, meravigliandosi poi che io non mi fossi similmente premunito. Né si mostrò persuaso, quando gli feci notare che se fossimo dovuti arrivare a quegli estremi, saremmo certamente rimasti sopraffatti, e in tal caso meglio valeva restare interamente dalla parte della ragione»365. I quindici membri di diritto del Gran Consiglio, più Albini e Bastianini invitati a partecipare alla seduta, che avevano già espresso a Grandi la loro adesione, lo avevano fatto per motivi e propositi che non coincidevano del tutto. 242

Tanto più che dell’ordine del giorno, prima della riunione a Palazzo Venezia, alcuni avevano letto la prima o la seconda stesura, altri avevano letto solo all’ultimo momento il testo definitivo, presentato e discusso in Gran Consiglio. Pertanto, la prevalenza numerica dei membri che avevano accettato l’ordine del giorno Grandi non era già una garanzia della sua approvazione. Salvo i più convinti e decisi, cioè i promotori dell’ordine del giorno Grandi, che non erano però la maggioranza, nessuno poteva prevedere quale sarebbe stata la scelta definitiva degli altri quando avrebbero dovuto decidere, in presenza del duce e dopo averlo ascoltato. Soprattutto per i fautori dell’ordine del giorno Grandi, l’imminente seduta del Gran Consiglio era un’incognita. A Palazzo Venezia, ore 17 Rashōmon a Palazzo Venezia inizia col contrasto delle testimonianze sull’arrivo dei gerarchi, tanto diverse da descrivere situazioni opposte. Racconta Grandi: «Attraversando il cortile di Palazzo Venezia una sorpresa ci attendeva. Il cortile era interamente occupato da reparti della milizia fascista, armati e in pieno assetto di guerra. Militi fascisti coi loro ufficiali stazionavano lungo lo scalone, e nella stessa anticamera della sala di riunione»366. Racconta De Marsico: «Moschettieri nell’atrio»367. Diversamente, Federzoni ha raccontato: «Quella sera i moschettieri del Duce, funebre parodia in formato ridotto dei corazzieri del Re, non erano stati richiamati in servizio a cagione della particolare segretezza dell’adunanza»368. Così anche Alfieri: «non prestavano servizio i Moschettieri del Duce normalmente dislocati lungo i corridoi ed ai lati di ogni porta o passaggio»; e Cianetti: «i moschettieri non prestavano servizio»369. 243

Per quel giorno, in realtà, era stato sospeso tutto il consueto cerimoniale per le riunioni del Gran Consiglio: niente comunicato sulla stampa con l’annunzio solenne della convocazione, niente gagliardetto del partito issato sul balcone di Palazzo Venezia, niente guardia dei Moschettieri, niente reparti di militi fascisti. Di ciò si era meravigliato il comandante generale della Milizia Galbiati col segretario del duce Nicolò De Cesare, sollecitandolo a chiedere al duce almeno la presenza di legionari dei battaglioni «M», reparti speciali della Milizia istituiti nel 1941 per la difesa del territorio, stanziati allora nei pressi della capitale: «Un servizio è necessario», disse Galbiati. Ma De Cesare replicò: «Non insistere. Ho potuto capire che non vuole nessuno. D’altra parte, il servizio nell’interno, lo farà il reparto speciale preparato da Stracca», il prefetto che dirigeva il servizio di sicurezza personale del capo del governo. Galbiati telefonò allora a Scorza per pregarlo di insistere presso il duce, ma «con mio stupore mi sentii rispondere: – Lo so, ma qualsiasi pressione sarebbe inutile. Pensa che non vuole nemmeno il gagliardetto del Partito – Ma è la prima volta! – Sai…, vuol dare alla seduta un carattere assai limitato»370. Così aveva voluto il duce, come ha raccontato egli stesso: Le macchine che portavano i membri del Gran Consiglio non furono fatte stazionare nella piazza, ma furono concentrate nel cortile. Anche i moschettieri furono esentati per quella riunione dal loro ufficio di vigilatori del palazzo. Lo avevano disimpegnato egregiamente per lunghi anni.

Negli intendimenti di Mussolini la riunione del Gran Consiglio doveva essere «una riunione confidenziale, nella quale tutti avrebbero potuto chiedere e ottenere spiegazioni; una specie di comitato segreto. Prevedendo lunga la discussione, invece che alle consuete ore 22, il Gran Consiglio fu convocato per le ore 17»371. Rashōmon a Palazzo Venezia prosegue con le contrastanti descrizioni dell’atteggiamento dei gerarchi nella sala del 244

Pappagallo, prima dell’ingresso del duce. È evidente che le impressioni di ciascuno riflettevano il proprio stato d’animo nel momento in cui si accingevano ad affrontare l’incognita del Gran Consiglio. Grandi racconta: «Recandoci ai nostri posti, attorno al grande tavolo a ferro di cavallo al centro del quale troneggiava il podio del Duce, coperto di un drappo rosso con le insegne del fascio littorio, tutti sentimmo che un’atmosfera di dramma avvolgeva la seduta. Mussolini si era garantito da ogni sorpresa e ci faceva intendere, con chiarezza brutale, che cosa poteva attenderci. Ostaggi nelle mani del dittatore»372. De Stefani ha scritto: C’era un’angoscia opprimente e negli occhi di taluno la trepidazione dell’imprevedibile. Nell’anticamera i soliti moschettieri. Mi sembrava che fossimo più disuniti del solito. […] Eravamo tutti arrivati prima dell’ora comunicataci. Vi eravamo arrivati prima senza un accordo per l’istintiva volontà di anticipare un giudizio che ci pesava di dare. […] Le solite frasi di rito ispirate dal ritrovarsi insieme mal nascondevano la sospensione delle anime. Guardando negli occhi i miei camerati ho veduto soltanto in pochi di loro la fiamma di una tragedia operante. Gli altri erano abbattuti, preoccupati perché solo chi opera è sollevato dalla convinzione al di sopra delle preoccupazioni. Pareva che ognuno avesse una propria idea tormentosa, incomunicabile373.

Diversa impressione ebbe invece Bottai: «Nessun nervosismo apparente nel convenire dei camerati. I vecchi fiutano la vecchia aria da gran consiglio rivoluzionario; i nuovi smorzano la tensione in un trepido senso di curiosità»374. Lo stesso ha raccontato Alfieri: «Entrando, non ebbi affatto l’impressione di trovarmi in un’atmosfera di dramma. […] L’atmosfera appare calma, in contrasto con l’intima angosciosa inquietudine che vibra in ciascuno di noi»375. Simile il racconto di Cianetti: «nei saloni di Palazzo Venezia c’era un’aria grigia, pesante, velatamente drammatica. Il dramma però era negli animi dei presenti, ché non c’era niente di concitato e di confabulatorio nelle conversazioni dei Membri del Supremo Consesso»376. Invece Galbiati vide al suo ingresso gruppi divisi e appartati: 245

«Entro a Palazzo Venezia con una decina di minuti d’anticipo sull’ora fissata e passo senz’altro nella sala del Gran Consiglio. Sono già presenti quasi tutti gli altri membri i quali riuniti a gruppi, parlottano più o meno concitatamente. Intravedo De Bono con De Vecchi, Marinelli ed altri; osservo Grandi con Bottai, De Stefani, Bastianini, Alfieri. Costoro più che parlottare hanno l’aria di confabulare»377. Il duce entrò nella sala del Gran Consiglio alle 17,15. Differenti furono le immagini che ne ebbero i gerarchi già disposti ai loro posti. Che siano immagini simultanee all’ingresso del duce oppure rielaborate dalla memoria, mostrano anch’esse contrastanti rappresentazioni del contegno che il duce ebbe fin dall’entrata, nell’ultima notte del Gran Consiglio, contrasti che si ripeterono sulla valutazione del comportamento avuto da Mussolini fino alla conclusione della seduta. Grandi ha fatto nel suo libro sul 25 luglio una descrizione da cronista senza impressioni: «Mussolini entrò, vestito in uniforme di comandante generale della milizia fascista. Il segretario del partito ordinò il prescritto saluto al Duce. La grande porta fu chiusa da militi armati che rimasero di guardia. Appello dei presenti, nessuno mancava. Il Duce aprì una voluminosa cartella e cominciò la sua esposizione»378. Lo stesso fece Bottai nel suo diario: «Alle 17,15 esce Mussolini, in divisa della Milizia, dalla sua sala. […] Ci disponiamo dinnanzi ai nostri posti. Il Duce si dirige al suo, mentre Scorza dà il rituale saluto. Dopo l’appello nominale, apre una grossa cartella di documenti»379. Sorpreso fu invece Cianetti dall’atteggiamento del duce: Alle 17 Mussolini entrò nella consueta sala del Gran Consiglio, recando in mano un voluminoso fascicolo. Scorza fece l’appello dei presenti e la seduta ebbe inizio.

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Chi avesse atteso una di quelle «entrate in scena» dei tempi in cui decisioni importanti avevano tenuto gli animi in sospeso, sarebbe rimasto deluso. Mussolini non seppe assumere né un aspetto fiero, né triste di circostanza: era soltanto indispettito380.

Del tutto diversa l’immagine descritta da De Marsico: «Con la puntualità proverbiale nel lavoro fascista, la seduta ebbe inizio alle 17 precise. Il Duce indossava l’uniforme grigio verde di Caporale d’onore della Milizia. Il passo, maschio come al solito. […] Era calmissimo; io credo, sicuro. Fu preceduto da un usciere che depose sul tavolo un grosso fascicolo di documenti»381. Più concisamente De Stefani: «L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio è stato silenzioso. Un’accoglienza di attesa. Pareva non vedesse nessuno. Rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare»382. Più dettagliata la descrizione di Alfieri, che associava il contegno del duce al vario contegno di vecchi e nuovi membri del Gran Consiglio: Mussolini, nell’uniforme di caporale della milizia, entra con passo disinvolto e sicuro, preceduto da Navarra, che gli reca la cartella di cuoio. Secondo la sua abitudine, il Capo non guarda nessuno in volto. Al «saluto al Duce!» lanciato da Scorza, ed a cui fa eco un concorde e vibrato «A noi!», egli risponde alzando la destra nel saluto romano. Sale al tavolo che sovrasta gli altri e traendo dalla sua cartella un fascio di carte, note, appunti, dice rivolto a Scorza – che è alla sua sinistra –: «Fate l’appello». Singolare il diverso tono di voce con cui ciascuno risponde. Alcuni, i maggiori, rispondono in modo annoiato ed indifferente, quasi trovino un’affettazione questo metodo scolaresco; altri, soprattutto quelli che intervengono per la prima volta, rispondono timidamente e si alzano in piedi; altri, con un marcato presente!, ostentano fierezza ed orgoglio. Mussolini, il cui volto pallido non dà a vedere né stanchezza né preoccupazione, comincia a parlare in un’atmosfera di grande attesa e di forte tensione383.

Un duce irresponsabile La relazione del duce in apertura della seduta fu una apologia del proprio operato fin dall’inizio della guerra. Esordì negando di aver sollecitato la delega del comando 247

supremo, e dimostrò, leggendo alcune lettere e circolari del maresciallo Badoglio, che l’iniziativa era partita dall’allora capo di Stato maggiore generale, e che lui, il duce, l’aveva accettata ma senza mai assumere la direzione delle operazioni militari. Pertanto, egli non era responsabile della disfatta militare, che faceva ricadere sui comandanti militari italiani, i quali non lo avevano ascoltato o gli avevano mentito sulla reale situazione; sui generali al fronte, che dalla resa di Pantelleria all’invasione della Sicilia avevano ceduto al nemico senza opporre efficace resistenza; sui soldati che non avevano animo combattivo e si erano sbandati; sulla popolazione siciliana che aveva accolto gli invasori; sulla popolazione italiana che non era all’altezza della prova della guerra. «Gli Italiani non si sono battuti granché bene in questa guerra, salvi pochi episodi» [De M.]: La speranza che nella difesa del suolo della Patria potesse determinarsi una resistenza finalmente efficace fu delusa. […] Del resto, soltanto il Maresciallo Stalin e il Mikado sono obbediti se ordinano di morire sul posto. Intanto migliaia di ufficiali in borghese si sono affollati ai traghetti dello Stretto di Messina. Dei tanti che hanno abbandonato il posto, uno solo è stato fucilato, un capo manipolo della Milmart, per ordine suo. […] Quanto alle cause dello stato d’animo degli italiani bisogna notare che mai una guerra fu popolare. Nella guerra 1915-18 ci furono 530.000 disertori. […] La guerra attuale, poi, ha ragioni e caratteri che non possono essere facilmente compresi dal popolo. Per giudicare la situazione attuale bisogna tener presente che l’Inghilterra fa la guerra all’Italia, non al fascismo [F.2].

Dopo aver attribuito anche agli errori strategici dei comandi militari tedeschi la disfatta italiana, elencato gli aiuti di materiali e armi che la Germania aveva fornito, e avvertito che i rifornimenti armati sarebbero stati ora inferiori alle richieste, il duce concluse: «Ora bisogna che il Gran Consiglio del fascismo si pronunci sul quesito: Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza ad oltranza» [F.2]. «È il momento in cui bisogna parlare chiaro» [De M.]. Mussolini parlò per oltre un’ora, ma deluse tutti. «Il suo discorso non ha scosso gli animi; e forse egli lo sente», 248

annotava Bottai: «rimane in aria, afflosciato com’una bandiera senza vento»384. Persino un gerarca ancora devoto al carisma mussoliniano come Scorza, alla fine della relazione del duce fu invaso da una «ondata di amarezza […] potrei dire di sconforto», perché nulla il duce aveva detto sui provvedimenti di cambiamento del governo e di riforma del partito che avevano concordato per prevenire e svuotare di significato l’ordine del giorno Grandi385. Per Alfieri, la «stanca e scolorita esposizione» del duce era stata un «lungo e inconcludente discorso», reticente sullo stato dei rapporti con l’alleato e soprattutto deficiente di senso della responsabilità da parte di un capo che aveva concentrato nelle sue mani tutti i poteri politici e militari: Un senso di delusione si diffonde su tutti nel constatare come egli tenti con insistenza di riversare la colpa sui capi militari; e la delusione diventa disagio a mano a mano che egli si sforza nella ricerca, che appare del tutto ingenua, delle argomentazioni per liberarsi da ogni responsabilità. Il suo modo di parlare è insolitamente disordinato e confuso, senza nessun accento di convinzione386.

La lunga esposizione, per il contenuto, il modo e il tono con cui fu pronunciata, provocò nella notte del Gran Consiglio il primo colpo al carisma del duce, già fortemente incrinato dalle disfatte militari, perché declinando le sue responsabilità e riversandole su altri, in una requisitoria contro comandi, soldati e popolazione, Mussolini rivelava una gravissima irresponsabilità di fronte a una realtà di cui lui solo era il principale e massimo responsabile, avendo posseduto per un ventennio il potere politico incondizionato, accentrato in sé i ministeri delle forze armate e assunto il comando supremo nella condotta della guerra. Così Acerbo ha visto il duce durante la sua «stentata relazione»: Pareva che vagasse in un mondo irreale, e che non fosse lui a parlare, bensì un altro a pronunciare una serrata requisitoria contro di lui. Mussolini – capo del governo, ministro delle Forze Armate e comandante supremo – specificando la caterva dei suoi errori e delle sue responsabilità. In sostanza, una disquisizione retrospettiva inconseguente e poco edificante, la quale, anzi, corroborava la

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sfiducia verso la sua opera; ma veruna determinazione, sia pur di massima, per l’immediato avvenire387.

Dichiarata dal duce aperta la discussione, gli oratori che intervennero per primi, De Bono, De Vecchi e Bottai, risposero al quesito mussoliniano dichiarandosi per la resistenza, ma dopo il desolante quadro della situazione militare e morale fatto dal duce stesso, si domandavano come resistere e con quali mezzi. De Bono disse: «Resistere: tutti lo vogliamo» [De M.], ma Bottai domandò: «Vi sono le condizioni politiche per evitare la resa a discrezione?» [De M.], e aggiunse: «Dalla tua relazione desumo che non ci sono le condizioni per resistere con onore» [F.1]. La stessa domanda pose Biggini, pur da oppositore dell’ordine del giorno Grandi: «Nessuno dubita proprio che si deve resistere. Vogliamo tutti sapere come si deve resistere» [De M.]. Alle domande su come resistere, nelle dieci ore di discussione, il duce non diede mai una risposta concreta, neppure sui rifornimenti che avrebbe dovuto sollecitare risolutamente da Hitler nell’incontro di Feltre: «Nessuna relazione, molto attesa, sul convegno di Feltre, nessuna informazione sulla situazione generale, nessun accenno al programma avvenire ed ai provvedimenti necessari per fronteggiarlo», ha ricordato Alfieri388. Soltanto verso la conclusione della seduta, quando si era ormai consolidato il fronte dei sostenitori dell’ordine del giorno Grandi, il duce se ne uscì con una vaga allusione, secondo quanto raccontato da Alfieri, a «una grande notizia relativa ad un importantissimo fatto che capovolgerà la situazione della guerra a favore dell’Asse. Ma preferisco non dirvela per ora»389. Con altre parole, la dichiarazione mussoliniana era riportata nel suo diario da Bottai: «Eppoi, io ho in mano una chiave per risolvere la situazione bellica, ma non vi dirò quale»390. Nello stesso senso, ma in parole diverse, il 250

racconto di Cianetti, che ha descritto un Mussolini che con tono «infastidito e dispettoso» disse: «La soluzione c’è, ma non la dico»391. L’annuncio allusivo e dispettosamente reticente del duce al possesso di una misteriosa «chiave» risolutiva, che avrebbe capovolto le sorti della guerra per l’Asse (forse la pace separata con la Russia? forse le armi segrete tedesche?), fu un altro contributo che lo stesso Mussolini diede alla demolizione del suo carisma. Le fratture del regime totalitario I colpi più gravi alla demolizione del carisma mussoliniano furono inferti dall’atteggiamento che egli tenne durante tutta la discussione sulla politica interna, che divenne un processo al regime totalitario, considerato la causa principale della disfatta militare per tutti gli errori che il duce – con il suo esasperato accentramento di poteri, con la dilagante prevaricazione negli apparati statali del predominio totalitario del partito fascista, con le più gravi decisioni belliche da lui prese dopo il 1939 senza mai consultare il Gran Consiglio – aveva accumulato negli anni precedenti la guerra, aggravandoli durante il conflitto. L’unico filo comune che si intravvede scorrere durante lo svolgimento della seduta, attraverso i racconti discordanti, fu la convinzione prevalente fra tutti i membri del Gran Consiglio, anche tra gli oppositori dell’ordine del giorno Grandi, che il regime del duce, la concentrazione personale di tutti i poteri nelle mani di Mussolini doveva cessare o essere radicalmente riformata. In questo senso, le dieci ore del Gran Consiglio furono la prosecuzione della riunione del 16 luglio, con la ripresa della discussione sulla gravissima situazione in atto e sulle soluzioni di riforme proposte allora da Bottai e dagli altri gerarchi presenti 251

all’udienza dal duce. Fu infatti Bottai a spostare la discussione dalla questione militare, sulla quale l’aveva avviata il duce con la sua relazione, alla questione politica, riproponendo i provvedimenti che aveva già indicato nell’udienza del 16 luglio, aggiungendovi ora la deplorazione del «difetto del sistema di comando» [F.1], perché «il settore politico non ha sul settore tecnico la presa necessaria per imporre le sue decisioni» [De M.]. Seguì subito dopo Grandi, che lesse il suo ordine del giorno illustrandolo con un lungo discorso contro il regime totalitario, instaurato dopo il 1932, con cui si erano svuotate di efficacia e di efficienza le stesse istituzioni create dalle leggi fasciste, come il Gran Consiglio: «Abbiamo fatto le leggi e non le abbiamo applicate», disse Grandi [De M.]. Dalla prevaricazione del partito, aggiunse nel suo intervento Federzoni, era derivata la frattura fra il regime e il paese: «Avendo il Partito reso coatte tutte le manifestazioni si è allontanato il popolo» [De M.]; con «le masse travestite con l’uniforme» e «l’antiborghesia» «è stata respinta l’adesione spontanea del popolo». La propaganda aveva poi aggravato la frattura esaltando la «guerra fascista» ed esibendo le statistiche dei caduti iscritti al partito fascista: «È la Nazione che fa la guerra», disse Federzoni, negando quanto asserito dal duce che «tutte le guerre non [sono] popolari» [F.1]. Sulla stessa linea fu l’intervento di Bastianini: «C’è oggi una frattura fra il nostro partito e la nazione. Oggi il popolo si trova in uno sciopero bianco» [De M.]. Mussolini, in un suo secondo intervento, contestò il processo al regime e al partito, e insinuò, alludendo agli arricchimenti di taluni gerarchi, che la frattura era «derivata da fattori di natura economica […] Il fenomeno si è allargato, attribuendosi alla fede la produzione di ricchezze […] tutte le fortune sono state giustificate: allora il 252

popolo… Ma non bisogna farsi illusione cercando solidarietà. Il Fascismo si sente in pericolo e cerca tavole di salvezza. Il Governo sono io» [De M.]. Poi il duce affrontò direttamente la questione posta dall’ordine del giorno Grandi, dando l’unico chiaro avvertimento grave, con tono di ricatto verso il Gran Consiglio, durante le dieci ore di riunione: «Se l’ordine del giorno Grandi fosse approvato, domani io riporterei al Re la delega. Qualora egli la riprendesse, io considererei finito il mio compito» [F.1]. Dopo il duce intervenne Scorza, che difese il partito e lesse il suo ordine del giorno e i provvedimenti di riforma del governo e del regime: «La frattura fra Paese e Partito non c’è. La volontà di combattere parte dal centro: dallo Stato Maggiore. Si deve rinnovare lo S.[tato] M.[aggiore]. La dittatura non dev’essere incrinata» [De M.]. A sostegno del segretario intervenne Polverelli dichiarando che egli «è mussoliniano, e non può firmare l’o.d.g. Grandi. Mussolini è il primo artefice della patria» [De M.]. L’avvertimento del duce e l’intervento del segretario del partito, col suo ordine del giorno, fecero vacillare alcune adesioni all’ordine del giorno Grandi. Suardo «si rimette (dopo i dubbi espressi da Muss.) all’o.d.g. Scorza» [De M.]. Cianetti «ha firmato l’o.d.g. Grandi, perché c’è l’accenno al ripristino degli organi ecc. L’accenno al Re voleva dire riaccostamento della Corona alla condotta della guerra. I generali dicono che non c’è più nulla da fare. Si associa a Suardo per l’o.d.g. Scorza» [F.1]. Non contro il duce né contro il partito Parlando subito dopo Cianetti, Bottai dichiarò di mantenere la sua firma all’ordine del giorno Grandi: Tutti siamo per la resistenza fin da principio. Ma ci vogliono i mezzi. Contro le riforme accennate da Scorza. Tutta la nazione deve essere chiamata. Ripristino delle funzioni costituzion[ali]; divario fra lo Stato di fatto e lo Stato di diritto.

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Applicare le leggi! Rivolgiamo al Monarca l’invito a partecipare visibilmente alla lotta. Se ritirassi mia firma, mostrerei di averla data senza discernimento [F.1]. Dobbiamo rivolgerci agli Italiani. Vi è un divario fra Stato di diritto e Stato di fatto. Vi è una Monarchia fascista e corporativa: a questo Monarca si rivolge il Fascismo. Vogliamo che il Re parli con Voi e dal vostro colloquio esca l’unità degli intenti [De M.].

Negli appunti di De Marsico e di Federzoni, le critiche al regime e al partito non sono mai accompagnate da esplicite condanne del partito stesso e da accuse dirette nei confronti del duce. Non lo sono neppure nei loro stessi interventi o negli interventi di Grandi, mentre sia nelle loro memorie sia nelle redazioni postume dei loro discorsi in Gran Consiglio essi hanno detto di aver fatto dure requisitorie sia contro il partito sia contro lo strapotere del duce. Risulta invece che anche nel fare appello all’unione della nazione al di sopra del partito, sotto la bandiera nazionale e la guida del re, come richiesto dall’ordine del giorno Grandi, non negarono la funzione del partito e la guida politica del duce, né proposero la resa per la pace. Nei confronti del duce, Grandi disse: «Abbiamo la convinzione di patrioti che Muss. è il primo servitore del Re e della Patria». Nei confronti del partito, Federzoni disse: «Bisogna togliere il pretesto per non combattere. Bisogna far intendere che il Partito compirà tutto il suo dovere, ma che tutta la Nazione sente il dovere – la responsabilità di combattere» [De M.]. Lo stesso Federzoni, nei suoi appunti, annotava: «Il Regime è riuscito a quasi tutto fuorché nella preparazione della guerra. […] Ricostruire il fronte nazionale non è distruggere il Partito. […] Solo col blocco spirituale delle forze si può vincere o almeno cadere con onore» [F.1]. Anche De Marsico, nel dichiarare la sua opposizione all’ordine del giorno Scorza, disse: «La Nazione deve avere un interprete, al di là del Partito, non contro il Partito: il Re» [F.1]. E Bastianini, dopo aver denunciato la frattura fra partito e nazione, 254

aggiunse: Compito del Duce è colmare la frattura, rimettere in opera tutta la Nazione. […] Ciò che occorre è dare al paese quella forza morale che il popolo non ha. Convincerlo che questa non è la guerra dei fascisti ma l’ultima del Risorgimento, per la libertà del lavoro. Occorre qualcosa di forte che richiami gli Italiani al dovere e ne ristabilisca l’unità [De M.].

Ciano fu il più esplicito nel negare che l’ordine del giorno Grandi fosse in opposizione al duce e al regime: «Ciano afferma che o.d.g. non vuole indebolire né il Regime né, meno che mai, il Duce. Gran Consiglio offerse Corona d’Etiopia e di Albania al Re, il quale è chiamato ad essere compartecipe ecc.» [F.1]. Anche Grandi, nel suo ultimo intervento, si espresse in modo tutt’altro che polemico nei confronti del duce; anzi, riferendosi all’avvertimento mussoliniano sulla fine del suo compito, spiegò che l’appello al re non nascondeva propositi di resa né altri subdoli scopi: Nessuno mette in dubbio il dovere della resistenza. Il Re deve parlare ed essere col suo popolo. La riforma del Com.[ando] Supr.[emo] è responsabilità del Re e del Duce [De M.]. È stata la documentazione del Duce che ci ha fatto dubitare della resistenza. Legge l’o.d.g. originario. Il Partito non è solo Scorza. Nessuno ha pensato a dare pubblicità all’eventuale approvazione dell’o.d.g., Ricorda il proclama reale del 10 nov[embre] 1917, datato dal Quartiere generale. Vogliamo che il Re parli e sia in linea con i suoi soldati. Il Duce ci ha posti in una situazione imbarazzante. Nostro o.d.g. non ha nessuna intenzione subdola [F.1].

A queste dichiarazioni di Grandi, sia gli appunti di Federzoni sia gli appunti di De Marsico facevano seguire i risultati della votazione, senza citare alcun commento di Mussolini sul risultato. È tuttavia interessante rilevare come, fin dalla stesura di una sorta di verbale in casa Federzoni, iniziata forse nella giornata del 25 luglio e proseguita nei giorni successivi per acquisire i testi degli interventi di altri firmatari dell’ordine del giorno Grandi, fosse già stata introdotta qualche sostanziale modifica (qui segnalata in corsivo) di quanto era stato registrato negli appunti presi durante la discussione. 255

Per esempio, la frase di Federzoni da lui stesso annotata la notte del Gran Consiglio: «Il Regime è riuscito a quasi tutto fuorché nella preparazione alla guerra» [F.1], divenne severamente critica verso il regime e il partito in un testo manoscritto più ampio aggiunto successivamente: Il regime in ventun anni ha raggiunto molti obiettivi singoli, ma è fallito in uno dei punti essenziali: mentre con la propaganda spingeva continuamente alla guerra, a qualsiasi guerra, esso non ha provveduto alla preparazione spirituale e materiale della nazione, e non poteva provvedervi, perché tale preparazione presupponeva come prima necessaria condizione l’unità degli animi. Per contro, la politica del partito, principalmente negli ultimi otto o dieci anni, ha mirato sopra tutto a dividere gli Italiani. Esempio tipico, la stolta campagna antiborghese, scatenata alla vigilia di una guerra che, per poter essere accettata dalla nazione, avrebbe dovuto anzi tutto affratellare i ceti sociali [F.2].

Infine, negli appunti di Federzoni manca qualsiasi riferimento al primo intervento di Grandi dopo la lettura del suo ordine del giorno, così come manca anche nel successivo verbale compilato in casa Federzoni, dove viene riportata la sua ultima dichiarazione, importante soprattutto per il riferimento al Gran Consiglio e al Duce, dichiarazione che era assente nell’intervento nel quale Grandi negò a Scorza il diritto di parlare a nome del partito: Grandi si associa alle dichiarazioni di Bottai. È stata la documentazione portata dal Duce al Gran Consiglio che ha dato purtroppo ragione agli angosciosi dubbi sulla possibilità della resistenza. Polemizzando con coloro che hanno criticato il suo o. d. g., vuole chiarirne pienamente le intenzioni col leggere il primo testo che era stato preparato: testo che parecchi dei presenti già conoscono. [Incastro] Esso era pienamente esplicativo del significato del richiamo alle disposizioni fondamentali dello Statuto e delle leggi costituzionali fasciste mai seriamente applicate dal regime. Contesta che Scorza possa asserire di parlare a nome del Partito. Il Partito è il Duce, il Gran Consiglio, i federali, ecc. ecc., non soltanto il segretario [corsivo nostro]. D’altra parte nessuno ha pensato alla possibilità che si dia una particolare pubblicità all’o. d. g. se sarà approvato, data la segretezza della convocazione di questa adunanza: insiste nell’appello al Re e nella restituzione di tutte le prerogative sovrane. Ricorda ed in parte rilegge il proclama reale datato dal quartier Generale il 1° novembre 1917. S’invoca che il Re parli in quest’ora tragica e sia ancora in linea come allora tra i suoi soldati. Il Duce ha voluto propriamente coartare le coscienze dei firmatari dell’o. d. g., ma questo è ispirato soltanto dal senso di responsabilità che deve guidare l’opera di tutti in questo

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gran momento.

Nel testo del secondo discorso di Grandi, inviato a Federzoni, la frase «Il Partito è il Duce, il Gran Consiglio, i federali» è stata ancora modificata come segue, facendo scomparire nuovamente il Duce: «Egli [Scorza] non è il partito. Egli è semplicemente il segretario del partito, ed un membro del Gran Consiglio. Non gli riconosco il diritto di parlare a nome del partito, il quale non è un uomo e neppure un gruppo di uomini, bensì un complesso di spiriti, di attività, di forze, di energie nazionali, di istituti fissati dalle leggi»392. Ma la contestazione di Grandi, in ognuna delle tre versioni del discorso, era infondata: secondo l’ultimo statuto del PNF approvato dal Gran Consiglio l’11 marzo 1938, art. 1: «Il Segretario del P.N.F. rappresenta il P.N.F. a tutti gli effetti»; inoltre Scorza non era solo un membro del Gran Consiglio, perché dal 1928, con la legge sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio del fascismo, art. 3, «Il Segretario del Partito Nazionale Fascista è Segretario del Gran Consiglio. Il Capo del Governo può delegarlo a convocare e presiedere il Gran Consiglio in caso di sua assenza o impedimento, o di vacanza dalla carica». Aveva pertanto ragione Scorza quando, come si legge nell’ultima citazione di un suo intervento nel verbale compilato in casa Federzoni, «rivendica di fronte a Grandi il diritto di parlare a nome del Partito». Poi, nel manoscritto, seguiva subito, senza alcun altro intervento, né prima né dopo, la votazione: Mussolini mette in votazione l’o. d. g. che porta il maggior numero di firme ossia quello presentato da Grandi. Su di esso Grandi aveva chiesto l’appello nominale. Rispondono sì: De Bono, De Vecchi, Grandi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Federzoni, Cianetti, Balella, Bignardi, Gottardi, De Stefani, Rossoni, Bottai, Marinelli, Alfieri, Ciano, Bastianini, Albini. Rispondono no: Scorza, Biggini, Polverelli, Tringali, Galbiati, Frattari, Farinacci (con la dichiarazione che intende votare il proprio ordine del giorno),

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Buffarini. Astenuto: Suardo. L’ordine del giorno presentato da Grandi è approvato. L’adunanza è sciolta alle ore 2.20.

Gli ultimi atti del duce, dopo la conclusione della discussione, lo fecero apparire stanco, sofferente, come era stato durante tutta la seduta comprimendosi continuamente la mano sullo stomaco, eppure impassibile e quasi indifferente a quanto accadeva. «Senza una parola, senza un gesto, con fare dimesso e abulico», annotò Bottai, il duce aveva messo ai voti l’ordine del giorno Grandi, decidendo di dare ad esso la precedenza393. Dopo l’esito della votazione, raccolse rapidamente le sue carte e disse, secondo il racconto di Alfieri: «L’ordine del giorno Grandi è approvato, gli altri decadono. La seduta è tolta». Mentre abbandonava il tavolo, Scorza lanciò il «saluto al Duce!», ma Mussolini «fa con la destra un gesto di contrarietà come se volesse allontanare da sé qualcosa di noioso. Un dimesso e fioco a noi! esce automaticamente dalle nostre bocche, mentre egli passa lentamente davanti a noi guardandoci in modo strano con gli occhi socchiusi»394. 337 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, p. 245. 338 Ibid. 339 D. Grandi, Pagine di diario del 1943, in «Storia contemporanea», dicembre 1983, p. 1065. 340 Cit. in R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in guerra 19401943, 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 1226-1227. 341 Cit. in G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio 1943: crollo di un regime, Mursia, Milano 1982, p. 805. 342 Grandi, 25 luglio, cit., p. 245. 343 Ibid. 344 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, pp. 405-406. 345 Ivi, p. 406. 346 Ivi, p. 407. 347 Ivi, pp. 408-409.

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348 Ivi, pp. 409-410. 349

Cfr. la deposizione di Farinacci al processo di Verona, in V. Cersosimo, Dall’istruttoria alla fucilazione. Storia del processo di Verona, Garzanti, Milano 1963 (prima ed. 1961), p. 192. 350 Grandi, 25 luglio, cit., p. 243. 351 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 410. 352 D. Alfieri, Due dittatori di fronte, Rizzoli, Milano 1948, pp. 323-325. 353 Cfr. De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 1371 sgg. 354 A. Cucco, Non volevamo perdere, Cappelli, Rocca San Casciano 1949, p. 97. 355 Ivi, p. 99. 356 Cfr. E. Gentile, Senato e senatori nel regime fascista, in E. Gentile, E. Campochiaro (a cura di), Repertorio biografico dei senatori dell’Italia fascista, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 82 sgg. 357 C. Scorza, Mussolini tradito, Cino del Duca, Milano 1983, pp. 218221. 358 Cucco, Non volevamo perdere, cit., p. 99. 359 Scorza, Mussolini tradito, cit., p. 223. 360 A. De Marsico, 25 luglio 1943. Memorie per la storia, a cura di M.A. Stecchi de Bellis, Fratelli Laterza, Bari 1983, pp. 81-83. 361 A. De Stefani, Gran Consiglio ultima seduta. 24-25 luglio 1943, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 30-31. 362 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, pp. 405-406. 363 D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1985, p. 634. 364 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 245-246. 365 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, pp. 195-196. 366 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 249-250. 367 De Marsico, 25 luglio 1943, cit., p. 83. 368 Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, cit., p. 196. 369 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., p. 326; Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 411. 370 E. Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., Editrice Bernabò, Milano 1950, p. 218. 371 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, pp. 344-345. 372 Grandi, 25 luglio, cit., p. 250.

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373 De Stefani, Gran Consiglio, cit., pp. 29-30. 374 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 407. 375 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., pp. 326, 329. 376 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 411. 377 Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., cit., p. 219. 378 Grandi, 25 luglio, cit., p. 250. 379 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 407. 380 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 411. 381 De Marsico, 25 luglio 1943, cit., pp. 83-84. 382 De Stefani, Gran Consiglio, cit., p. 31. 383 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., p. 329. 384 Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 412. 385 C. Scorza, La notte del Gran Consiglio, Palazzi, Milano 1968, p. 37. 386 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., pp. 329-330. 387

G. Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Cappelli, Rocca San Casciano 1968, p. 500. 388 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., p. 330. 389 Ivi, p. 340. 390 Bottai, Diario 1935-1934, cit., p. 418. 391 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 417. 392 Grandi, 25 luglio, cit., p. 300. 393 Bottai, Diario 1935-1944, cit., pp. 420-421. 394 Alfieri, Due dittatori di fronte, cit., p. 341.

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Epilogo. Eutanasia del duce

Nell’uscita di Mussolini dalla sala del Pappagallo qualcuno dei presenti vide l’uscita di scena di un capo sconfitto. «Passò dalla parte mia: eravamo tutti in piedi lungo le pareti della sala», ha raccontato De Marsico: «salutavamo col braccio levato un uomo che, anche nel passo con cui scomparve nel suo Gabinetto, mi sembrò non calcare più le vie della potenza: salutammo, sì, col cuore ferito, colui al quale avevamo guardato come a un simbolo, a un’idea, a una fede»395. Fu probabilmente questa l’impressione che ebbero tutti gli altri gerarchi, favorevoli o contrari all’ordine del giorno approvato, dopo dieci ore di discussione; durante le quali, tuttavia, non vi erano stati mai – come hanno raccontato gran parte dei presenti –, neppure nei momenti di maggior tensione, gesti o parole ingiuriose nei confronti del duce. «Coloro che hanno avuto la fortuna di parteciparvi non dimenticheranno il tono altissimo e la dignità di quella assemblea», ha ricordato De Stefani396. Il dibattito, ha confermato Federzoni, «fu per dieci ore tutto sostenuto da un’alta tensione drammatica»397, ma senza «mai dar luogo – ha scritto Alfieri – a nessun incidente violento, a scambio di frasi offensive o ingiuriose, a parole od a gesti violenti, a forme esteriori di minaccia o di teatralità»398. La discussione fu «animata ma ordinata», ha raccontato Acerbo, riassumendo efficacemente le critiche che erano state 261

manifestate durante la seduta, e il modo in cui erano state espresse: In generale i discorsi di accusa si aggirarono sulla condotta della guerra, sull’impostazione che a questa Mussolini aveva voluto dare come guerra d’idealità fascista accomunandola alla causa del nazismo, ovvero fecero riferimento all’obliterazione arbitrariamente da lui compiuta dei programmi primordiali del fascismo al fine di attuare la dittatura politica della quale ora si maturavano le funeste conseguenze. I diversi interlocutori se talvolta furono aspri negli argomenti che esponevano, nondimeno si mostrarono in ogni momento rispettosi nella forma con cui a lui si rivolgevano, ad eccezione di Farinacci il quale ad un certo punto l’investì virulento rimproverandogli di aver tradito il fascismo e di considerare il governo come un affare di famiglia e, in particolare, censurandolo mordacemente per i criteri seguiti in talune nomine dell’ultima ricomposizione del ministero. E fu rivolgendosi a lui che Mussolini disse, anzi quasi mormorò, con accento di amarezza: «Durante il ventennio mi si è parlato sempre con tono differente!» […] Ogni tanto, ma non frequentemente, Mussolini interrompeva o per contestare o per chiarire con brevi parole qualche particolarità asserita dagli oratori, ovvero per confutare un po’ più ampiamente talune loro enunciazioni; ma quegli interventi furono ognora stentati e quasi timidi399.

Durante la seduta, tutti i gerarchi rimasero sorpresi dal contegno del duce, che apparve non solo sofferente per il suo male fisico, che lo affliggeva dalla fine del 1942, ma dominato da una sorta di abulia, tanto da non contrastare efficacemente la sfida al suo potere condotta non solo dai promotori dell’ordine del giorno Grandi, ma anche dai gerarchi che ad esso si opponevano. Gli argomenti non gli sarebbero certo mancati. Per esempio, dal momento che aveva già in mente di proporre al re una mutazione nella composizione del suo governo, rinunciando ai dicasteri militari e persino al comando supremo, avrebbe potuto esporre chiaramente in Gran Consiglio questa soluzione, che certamente avrebbe condizionato gli incerti, gli indecisi o i perplessi, che non erano una minoranza fra i gerarchi, almeno fino al momento in cui la seduta fu sospesa verso le 23. Inoltre il duce, dopo la sua deprimente relazione sulla situazione militare dell’Italia, riprendendo il quesito posto 262

nel suo primo intervento – «Guerra o pace?» –, avrebbe potuto mettere gli oppositori di fronte al rischio di esautorare l’unica persona che avrebbe potuto convincere Hitler ad accettare un’uscita dell’Italia dalla guerra, per l’impossibilità di proseguirla con mezzi e armi adeguati che neppure l’alleato tedesco poteva più fornire. Oppure, avrebbe potuto insistere sul dilemma della sua personale dignità, cioè di dover rinunciare anche al comando politico e considerare finito il suo compito, qualora il re avesse accolto l’invito a riassumere il comando militare: dai racconti dei presenti, risulta che fu quello effettivamente il momento in cui vacillarono le adesioni dei meno risoluti fra i sostenitori dell’iniziativa di Grandi. Secondo il racconto di Grandi, nel suo ultimo intervento, Mussolini avrebbe lanciato un ammonimento: Tra pochi giorni io avrò sessant’anni, e potrei anche chiudere questa «bella avventura» che è stata la mia vita. Senonché noi vinceremo la guerra. La mia fiducia nella vittoria della Germania e nostra è oggi intatta, così come lo era all’inizio della guerra. Io non intendo rivelare al Gran Consiglio (forse l’avrei fatto se la discussione avesse preso corso diverso) gli importanti segreti di carattere militare, che al Führer e a me non fanno dubitare un solo momento della vittoria. È prossimo il giorno nel quale i nostri nemici saranno inesorabilmente schiacciati. Io ho in mano la chiave per risolvere la guerra. Ma non vi dirò quale. Ora, in questa situazione, è la fine del regime che si vuole. Ebbene, fate molta attenzione, signori, a quello che fate e alle conseguenze. L’ordine del giorno Grandi pone la questione della esistenza stessa del regime. Esso non si dirige al governo e chiama direttamente in causa la Corona, il Re. In altre parole esso domanda che io me ne vada. Ebbene il Re può accettare l’invito dell’ordine del giorno Grandi e allora nascerebbe il mio caso personale, il caso Mussolini. Io non sono disposto a farmi jugulare (qui Mussolini fece un gesto come di tagliarsi la gola). Il Re, del quale sono stato per venti anni il servitore fedele, può dirmi, quando gli racconterò domani quello che è avvenuto stanotte (come egli certamente mi dirà): «La guerra è pervenuta ad una fase critica. I vostri vi hanno abbandonato. Ma il Re, che vi è stato sempre vicino, rimane con voi». Questo sono certo che mi dirà il Re. E allora quale sarà la vostra posizione? Fate attenzione, signori!400

Secondo Grandi, se Mussolini avesse insistito sulla linea dell’ammonimento, avrebbe potuto influenzare a suo 263

vantaggio l’orientamento del Gran Consiglio, perché le sue parole, pronunciate «con tono studiatamente pacato, senza mostrare irritazione e inquietudine, con certezza, con sicurezza e dall’alto, quasi rattristato di dover constatare la pochezza degli uomini che gli stavano di fronte, quasi volesse apparire come Cristo all’ultima cena», scossero molti e fecero riguadagnare al duce «di colpo tutto quello che sembrava aver prima perduto. […] Egli era ancora, malgrado tutto, il mago e il padrone». Grandi ha raccontato di aver reagito di scatto all’ammonimento del duce, gridando: «Questo è un ricatto. Il Duce ci ha posto un dilemma, quello di scegliere tra la nostra fedeltà a lui e la nostra fedeltà alla patria. Ebbene, gli rispondo, non si può esitare un solo istante, quando si tratta della patria». Ma a sostegno del duce giunse subito l’intervento di Scorza, la cui autorità, come segretario del partito, «è la più alta di tutte, dopo quella del Duce», precisava Grandi nel suo racconto, contraddicendo quanto lui stesso affermava di aver detto in Gran Consiglio nel suo ultimo intervento, nel quale aveva negato a Scorza il diritto di «parlare qui a nome del partito. Qui tu non sei altro, come tutti noi, che un membro del Gran Consiglio»401. Grandi comunque osservava che se Mussolini avesse apertamente sostenuto la posizione del segretario del partito, facendo suo l’ordine del giorno presentato da Scorza, che il duce stesso aveva concepito o comunque approvato, l’esito della seduta avrebbe potuto essere diverso. Rievocando il discorso di Scorza e il suo effetto, Grandi racconta: «La partita appare perduta. Federzoni, Bottai, De Marsico che sono di fronte a me mi guardano. Questo dicono i loro occhi: È perduta»402. Una più risoluta opposizione del duce all’ordine del giorno Grandi avrebbe certamente influito sul voto di gran parte dei gerarchi che partecipavano per la prima volta al 264

Gran Consiglio o su coloro che avevano dato un’adesione di massima, non pienamente convinta. Nel suo racconto sul 25 luglio, De Stefani ha confermato che il dilemma posto dal duce e persino «la sua passività silenziosa e abbattuta rendeva titubanti tutti davanti al sommo gerarca i fedeli gregari di tante battaglie e di tante vittorie. Noi dovevamo difenderci contro noi stessi, contro l’imperativo della fedeltà, contro la prepotenza del sentimento sulla ragione»: Ci fu un momento in cui questa esitazione ci aveva preso un po’ tutti. Un senso di rispetto, radicato e inestirpabile. La proposta di far confluire l’ordine del giorno Grandi in quello del Segretario del partito ci tentava. Vi fu un istante di equilibrio instabile della coscienza del Gran Consiglio, che avrebbe potuto farci precipitare in una decisione di compromesso che avrebbe lasciato le cose al punto in cui erano e ci avrebbe allontanato dagli scopi che ci proponevamo di raggiungere403.

Analoghe considerazioni fece nelle sue memorie Acerbo, affermando che quando il duce, «riprendendo in esame la mozione Grandi, espresse il convincimento che la questione in essa posta andava al di là della semplice sostituzione nell’ufficio del comando supremo; e dalle sue parole, pur pronunciate senza energia e fermezza, trapelava chiaramente un monito di diffida e di minaccia»; quell’«estremo tentativo di scompaginare la massa di ostilità che si era formata contro di lui non rimase senza effetto»: infatti i «sintomi di resipiscenza dell’ultim’ora, sia pur limitati e indecisi, e la tardiva ostentazione di combattività da parte dei ‘fedelissimi’ […] lasciano supporre che se Mussolini avesse avuto la possibilità, diciamo psichicofisica, di riarmarsi dell’antico contegno aggressivo e risoluto, e sviluppare come altre volte gli artifizi della sua stringente dialettica, con l’ascendente di cui godeva ancora, e dato che non pochi erano i perplessi e i dubbiosi, avrebbe potuto alterare notevolmente in suo favore la proporzione dei voti, ma non certo capovolgerla»404. 265

Nel suo intervento, nelle ultime ore della seduta, Scorza illustrò i provvedimenti da lui proposti e approvati dal duce, fra i quali la nomina di ministri per i dicasteri militari, il ripristino delle funzioni della Camera e del Senato, la riforma del comando supremo con la restituzione al re della delega dei poteri militari. Tali proposte fornivano al duce nuovi argomenti per influenzare gli incerti e i dubbiosi, dimostrando l’inutilità dell’ordine del giorno Grandi. In effetti, dopo l’intervento di Scorza, Cianetti espresse le sue perplessità sull’adesione all’ordine del giorno Grandi, mentre Suardo ritirò la sua adesione: altri incerti o indecisi li avrebbero probabilmente seguiti, se il duce avesse sostenuto la posizione di Scorza. Invece, nel prosieguo della seduta, non solo il duce non appoggiò l’ordine del giorno Scorza, ma col suo contegno isolò il segretario del partito, che rimase sconcertato da una così palese sconfessione del suo tentativo405. Non solo: col suo contegno, il duce diede l’impressione a molti gerarchi che egli fosse sostanzialmente consenziente con l’ordine del giorno Grandi. Fu questa la giustificazione addotta al processo di Verona dagli imputati presenti, concordi sia nel negare di aver complottato con i militari e la monarchia contro il duce, sia nel dichiarare di aver votato l’ordine del giorno Grandi soltanto perché erano convinti che non fosse contro il duce o addirittura fosse da lui condiviso, come dissero anche Alfieri, Bastianini e Bignardi nei loro memoriali inviati dopo la liberazione di Mussolini406. Si giustificò con questo argomento anche Ciano: «Ma come è possibile voler solamente pensare che il Gran Consiglio avesse voluto provocare l’allontanamento di Mussolini dalla politica italiana con l’inevitabile conseguenza del crollo del fascismo che avrebbe travolto sotto le macerie tutti noi, e specialmente me che godevo e 266

godo la cordiale antipatia dei milioni di italiani, che mi attribuiscono una brillantissima carriera politica ed una favolosa ricchezza soltanto perché genero di Mussolini? Si dovrebbe ammettere che fossimo diventati tutti dementi!»407. Accorata fu la smentita delle accuse fatta dal vecchio quadrumviro De Bono, dichiarando che nella sua mente «non è mai entrata l’idea che Mussolini dovesse cessare di governare la Nazione», perché «nel corso della discussione dell’ordine del giorno, Grandi per primo, sostenuto poi da De Marsico e da Federzoni, ha fatto cenno indubbio della inamovibilità del Duce come reggitore della nazione»408. Fra le lacrime Marinelli, vecchio e sordo, disse che aveva letto l’ordine del giorno Grandi nell’intervallo della seduta e lo aveva votato senza udire quasi nulla della discussione, «rimasto meravigliato nel vedere che Mussolini aveva messo in votazione l’ordine del giorno Grandi senza ‘riassumere la discussione’, come aveva sempre fatto, e per cui la sua volontà era sempre seguita»409. Sdegnata e spavalda fu la reazione di Cianetti alle accuse di aver tradito il duce, l’Idea e la patria: «Quanta roba, quanti paroloni, quanti numeri! Da quanto mi avete letto risulta che abbiamo violato tutto il codice ordinario e militare! C’è tanto da mandarci diritti diritti al Creatore. E pensare che abbiamo discusso nove ore per togliere dalle spalle di Mussolini il fardello della condotta della guerra che andava male, molto male! Ora, niente meno, siamo accusati di aver tradito la Causa, di aver preparato il colpo di stato e di aver aiutato il nemico! Se non ci fosse la tragedia dell’Italia, più che la nostra, ci sarebbe veramente da ridere!»410. Patetica ma ferma la replica alle accuse di Pareschi, uno dei novizi nell’ultima seduta del Gran Consiglio: «Io ho firmato ed ho votato favorevolmente l’ordine del giorno 267

Grandi con l’assoluta coscienza di rendere un servizio al Duce in quanto, sollevandolo dalla responsabilità militare della guerra, egli avrebbe avuto modo di prendere saldamente nelle sue mani la politica del paese per attuare rapidamente sostanziali provvedimenti di carattere sociale. Non ho neanche lontanamente pensato, e non potevo neanche immaginarlo, che quell’ordine del giorno avrebbe provocato le dimissioni di Mussolini ed il crollo del Fascismo. Se avessi potuto ciò prevedere, piuttosto mi sarei fatto scannare anziché votare favorevolmente quell’ordine del giorno»411. Altro novizio in Gran Consiglio era Gottardi, il quale dichiarò di non aver preso la parola durante la seduta, ma di aver votato l’ordine del giorno Grandi «con la precisa coscienza di sgravare il Duce della pesante responsabilità del comando supremo delle Forze Armate e di impegnare più strettamente la Corona», convinto dalle dichiarazioni del duce che questi contava con sicurezza «sulla fiducia e l’amicizia personale» del re, e infine «impressionato» dalla «circostanza che il Duce, dopo la discussione, non ha riassunto ed espresso la propria opinione, ed io sono rimasto perciò disorientato», domandandosi: «Ma perché Mussolini non ci ha espresso il suo parere ed ha messo in votazione l’ordine del giorno?»412. Le giustificazioni degli imputati a Verona erano certamente dettate, oltre che da sincerità per alcuni di essi, anche dal tentativo di evitare la condanna a morte per tradimento, ma esse erano pure fondate sul fatto che, rifiutandosi di proporre un proprio ordine del giorno, come sempre era accaduto alla fine delle sedute, e accettando di mettere in votazione per primo l’ordine del giorno Grandi e sciogliendo la seduta dopo la sua approvazione, il duce lo aveva legittimato come un atto ufficiale del Gran Consiglio. Se gli imputati di Verona non avevano affatto previsto la 268

gravità delle conseguenze del loro voto, la loro giustificazione era resa plausibile dal comportamento dello stesso duce nelle ore successive alla notte del Gran Consiglio. Durante la mattina e nel primo pomeriggio del 25 luglio, egli non apparve affatto sconvolto dall’esito della votazione temendo imminente la crisi del regime. Ai gerarchi che andarono in udienza a Palazzo Venezia la mattina del 25 luglio, il duce sembrò calmo, come se nulla di grave fosse accaduto. Bastianini ha raccontato nelle sue memorie che la mattina del 25, prima di recarsi a Palazzo Venezia per il consueto rapporto quotidiano, era andato da Scorza. Il segretario del partito gli riferì di aver accompagnato a Villa Torlonia il duce, dopo un lungo colloquio che questi aveva avuto con Buffarini, il quale «aveva sostenuto la tesi che la deliberazione del Gran Consiglio avesse un valore puramente consultivo qualora non si volesse invece invalidarla per aver preso parte alla votazione Albini e io che non eravamo membri del consesso ma solo invitati». Poi Bastianini fu ricevuto dal duce: Lo trovai ostentatamente calmo, anche se visibilmente preoccupato. Non si era rasato e quell’ombra sulle gote accentuava il pallore del suo volto. Ma il tono con cui mi parlò fu cordiale, del tutto privo di quelle sfumature di amarezza o di rigidità che si notavano immediatamente quando si apprestava a essere severo con la persona che gli stava davanti. Non fece alcuna allusione alla seduta della notte precedente; mi disse che alle quattro e mezzo sarebbe andato dal Re, ed espresse il dubbio di non poter essere alle sei di ritorno a Palazzo Venezia413.

Bastianini concludeva dicendo: «Mi congedò amabilmente». Anche Galbiati si recò dal duce verso mezzogiorno, per il suo rapporto: «La sua espressione è del tutto normale e anche l’accoglimento che mi serba è un consueto: ‘Date qua, Galbiati’». Il comandante generale della Milizia gli sottopose un promemoria con «un programma di immediato lavoro che poggia su due punti: stroncare l’azione di un probabile complotto in atto; dare uno strappo decisivo, anche se disperato, al disastroso corso 269

della guerra». Mussolini lo lesse ma non commentò restando in silenzio. Allora, ha raccontato Galbiati, prendendo pretesto dal fatto che Grandi si era reso irreperibile mentre il duce lo aveva fatto cercare durante tutta la mattina, propose al duce di «procedere al fermo di tutti i diciannove»: «No! No!» apostrofa Mussolini. E, finalmente, mi investe con un torrente di parole: «Nemmeno a parlarne! Punto primo. Può darsi che il signor Grandi abbia vergogna di presentarsi, specialmente se ha saputo che sono incominciate le defezioni. Ecco la ritrattazione di Cianetti. Avrete visto uscire di qui Albini più livido del solito. Verranno assai probabilmente ad uno ad uno a ripetermi che hanno votato nella piena convinzione di fare il mio bene. Punto secondo. Fra qualche ora andrò dal Re e me la vedrò con lui. Un provvedimento alla persona non può non essere preceduto dalla sostituzione nell’incarico che la persona riveste. Si tratta di ministri e sottosegretari che non posso cambiare senza l’assenso sovrano. Ci sono poi Collari dell’Annunziata che non posso trattare alla stregua di qualsiasi cittadino»414.

Le defezioni non avevano ancora nomi precisi, come lo stesso Mussolini scriveva nel suo racconto sul 25 luglio, riferendosi a una telefonata di Scorza, la mattina, «per dire che la ‘notte aveva portato consiglio e che v’erano delle resipiscenze in giro’. ‘Troppo tardi!’ rispose Mussolini»415. In realtà, vi fu solo la lettera con la quale Cianetti ritrattava il suo voto, dopo averne parlato con Scorza. Inoltre, Mussolini asseriva che la mattina del 25 Scorza gli telefonò, ma «ma non si fece vivo»416. Invece, nel suo libro sulla notte del Gran Consiglio, Scorza ha raccontato di essersi recato dal duce, una prima volta, per consegnargli il testo di una lettera richiestagli telefonicamente dal duce stesso: «voi siete anche il segretario del Gran Consiglio. Preparate perciò una lettera per i signori firmatari di quell’ordine del giorno, nel senso che ho preso atto di ciò che il Gran Consiglio richiede, e lo terrò nel debito conto. Appena l’avete pronta, portatemela insieme coi vostri appunti sui discorsi». Dopo aver 270

preparato la lettera – della quale Mussolini nulla dice nel suo racconto – Scorza fu convocato dal duce. Nell’anticamera incontrò Buffarini mentre usciva dalla sala del Mappamondo, e questi gli disse di aver trovato il duce «veramente bene e in gamba; non ha più i disturbi di ieri sera. È deciso a risolvere la situazione nel modo più energico, appena ritorna dall’udienza reale». Poi, il segretario del partito entrò nella sala del Mappamondo: Porgo al Duce la lettera per i membri del Gran Consiglio: «Sta bene, potete mandarla». È molto asciutto e non mi dà la possibilità d’insinuare nessuna delle obbiezioni che ho in animo di muovere a quell’invio. Ma cerco di prender tempo ugualmente e dico: «Volete che le mandi subito stamane; oppure aspetto il vostro ritorno dall’udienza reale?». Forse comprende a che cosa tendo e vuole venirmi incontro: «Nel pomeriggio sarebbe troppo tardi; ma comunque aspettate una mia comunicazione. Intanto tenetela pronta». Vuole i particolari della mia conversazione con Cianetti; ma non fa commenti… «Avete gli appunti sulla seduta?». Glieli porgo, e si interessa particolarmente ai discorsi di Federzoni, di Bottai e di De Marsico. Quando scorge quelli riguardanti Alfieri, tentenna il capo. Per Bastianini, appena letto il nome, dice: «Bastianini e Albini non avevano diritto né alla parola né al voto. […] Per questi appunti vi chiamerò più tardi, per confrontarli coi miei che ho qui (non doveva essere andato a letto nemmeno per cinque minuti, se aveva fatto quel lavoro a Villa Torlonia). Ne farete un resoconto unico. Cercate di stabilire contatti con la Sicilia»417.

Nel corso della mattinata, Scorza seppe da Alfieri che «aveva trovato una eccellente soluzione la lettera di Cianetti» e che «voleva studiare la cosa». Poi, fu chiamato una seconda volta a Palazzo Venezia alle 10,30, e nell’anticamera incontrò Albini e Chierici: «Il loro fare era sereno, gioviale, scherzoso, tanto che non potetti nascondere la mia sorpresa e glielo feci notare. Mi dissero di essere stati tutti e due a rapporto e di essere soddisfatti per aver trovato il Duce in piena forma, e fiducioso», anche se Albini espresse «un certo rincrescimento perché il Duce gli aveva fatto notare che lui, Albini e Bastianini – essendo semplicemente invitati al Gran Consiglio – non avevano 271

alcun diritto di voto». Scorza non poté commentare perché fu subito invitato a entrare nello studio del duce, che lo attendeva in piedi «nello squarcio della finestra che dà su Piazza Venezia. Non notai niente di eccezionale; dal suo viso non si scorgeva nessuna preoc​cupazione». Il duce gli riferì che non aveva ricevuto alcuna lettera da Alfieri, aggiungendo: «dubito che questa lettera giungerà mai. Non credo che il nostro ambasciatore a Berlino riesca ad avere il coraggio di un onesto pentimento». Il duce proseguì dicendo di aver detto poco prima «il fatto suo» ad Albini, «che si era fatto subito più pallido, più magro, più piccolo, più risucchiato del solito. Comunque ha dimostrato di essere addoloratissimo dell’errata interpretazione che io, secondo lui, avrei dato al suo voto. Com’era da aspettarsi, mi ha fatto ampie dichiarazioni sulla fedeltà e lealtà che hanno ispirato i compilatori e i firmatari dell’ordine del giorno. Ma anche per Albini sarà presto concluso il ciclo!», concluse il duce. E, dopo una pausa, disse: «Scommetto che oggi al Partito non avete avuto la ressa dei giorni scorsi. Ho fatto ricercare Grandi perché desideravo parlare con lui. […] L’udienza sovrana è fissata per le ore 17. Il conte di Mordano non è reperibile. Pare che anche Bottai e Federzoni non siano in casa. Avete pronta la lettera per i membri del Gran Consiglio?». Pur non avendo io alcuna sicurezza di ottenere qualche risultato, ma solo per compiere in ogni caso il mio dovere di esprimergli sempre interamente il mio pensiero, gli dissi: «Se permettete, vorrei pregarvi di riconsiderare gli argomenti che vi ho esposto questa notte che, secondo me, consigliano di non mandare questa lettera perché perfettamente inutile». Mentre io parlavo si era avvicinato un’altra volta alla finestra. Quando ebbi finito si voltò a guardarmi a lungo e, riprendendo il suo posto al suo tavolo, disse semplicemente: «Allora manderete questa lettera oggi, in modo che giunga ai destinatari prima della radio delle ore 20; che annuncierà alcuni dei provvedimenti preparati. I più importanti. Quelli che interessano il governo». «Sta bene, Duce».

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Prima di congedarlo, il duce aprì «quella odiosa, inverosimile cartella delle ‘informative’ e delle intercettazioni», tirando fuori «il solito pacchetto di ‘veline’ verdi e di fogli bianchi dattilografati, anonimi», che non contenevano mai «qualcosa di veramente serio: ma tutte miserie raccolte a carico di semplici disgraziatissimi fascisti, da informatori prezzolati che andavano a raspare in tutte le pattumiere della Penisola. Eppure bisognava vedere con quanta attenzione Mussolini le leggeva e le commentava. Anche quella mattina iniziò quell’assurdo lavoro attraverso il quale egli riteneva di conoscere il polso del Partito e della Nazione». Poi, dopo essersi piegato «alquanto sul tavolo premendosi fortemente lo stomaco», il duce, racconta Scorza, «si riprese subito, si tirò su diritto e parve animarsi di una più aperta cordialità»: «Indubbiamente la seduta di questa notte è stata molto istruttiva. In un prossimo futuro però, s’imporrà anche la riforma del Gran Consiglio. Il supremo organo della rivoluzione non deve annullare di fatto il funzionamento degli altri istituti dello Stato. Esso deve essere la suprema consulta del Regime per i problemi d’importanza fondamentale; ma un istituto a ranghi chiusi, senza cioè la partecipazione di membri per diritto di carica. I capi ed i titolari dei vari settori saranno convocati di volta in volta per questioni di loro specifica pertinenza. Ma ranghi chiusi». Passò ad altri argomenti: «Bisogna procedere su queste direttrici: problema militare; problema del governo; problema del Partito. Se il Re sarà d’accordo – come io non ho motivo di dubitare – ci metteremo subito al lavoro». Che un pensiero di dubbio, a proposito dell’atteggiamento del Re, gli attraversasse la mente, mi fu rivelato dalla seguente frase che aggiunse sottovoce, quasi parlando a se stesso: «A meno che non respinga la sola restituzione della delega dei poteri militari, sospettando che noi vogliamo la sua zampa per trarre dal fuoco la castagna fascista». Poi, rivolgendosi più particolarmente a me: «Sarà opportuno chiamare ai posti di comando del Partito elementi di cultura e tecnici, senza formalizzarsi sulla data d’iscrizione. Per il governo sottoporrò al Re una rosa di nomi. Per il Comando Supremo però bisognerà essere più cauti per non suscitare preventivi allarmi». Prese dalla sua cartella due grandi fogli sui quali era evidente l’intestazione PRESIDENZA DEL CONSIGLIO, e li scorse attentamente. Calcolò qualche

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cosa mentalmente e concluse: «Mi occorreranno forse 15 giorni: arriveremo a metà agosto. Parlerò con Riccardi per le grandi navi».

Scorza proseguiva riferendo alcune considerazioni del duce sul partito, che presentava «alcuni sintomi di stanchezza. Vent’anni di potere logorano. A suo tempo incideremo energicamente nel tronco vecchio ma ancora robustissimo. Il Partito soffre principalmente di non essere più alimentato dalla Nazione; e la Nazione si rivolge ad esso come ad un ufficio di collocamento e di assistenza. Piuttosto che continuare così, meglio scioglierlo del tutto e ricostruirlo su nuove basi»418. Inoltre, il duce autorizzò Scorza a proseguire nella sua iniziativa di recarsi in visita al pontefice e «a riprendere le trattative» col Vaticano, informandone però il direttorio nazionale; per poi concludere: «Bene, continueremo la conversazione o verso mezzogiorno, dopo aver visto l’ambasciatore del Giappone, o oggi dopo l’udienza reale»419. Scorza fu congedato dal duce che, «in piedi, dietro al suo tavolo, in fondo all’immenso salone, illuminato di scorcio dal sole che entrava dal finestrone», al saluto romano del segretario mentre era sulla porta, «rispose alzando il braccio con gesto energico. Questa volta però il gesto militare era reso cordialissimo da un largo sorriso. Non vidi più Mussolini: il Duce che seguivo dalle prime trincee del 1915-1918». Ma poco dopo mezzogiorno, il duce telefonò di nuovo a Scorza per avere notizie sulla situazione in Sicilia. Scorza rispose che avrebbe riferito appena gli fossero giunte: «Sta bene» disse Mussolini; «mi cercherete a Villa Torlonia perché ora mi reco a visitare la zona bombardata». Dopo una breve pausa disse ancora: «Avete qualche notizia di Grandi, Bottai, Federzoni e compagni? Continuano ad essere irreperibili». Chiuse il telefono senza nemmeno attendere la mia risposta420.

L’ultima telefonata del duce a Scorza, per avere notizie della Sicilia, avvenne fra le 16,20 e le 16,30 del 25 luglio421. Nel corso della mattina del 25 luglio, il duce ricevette 274

per il consueto rapporto Polverelli, al quale disse che Grandi e Ciano si ingannavano se credevano di poter trattare le condizioni di pace: «È la resa incondizionata che si vuole imporre all’Italia. E la resa senza condizioni – lo ripeto – sarebbe la fine dell’Italia come grande Potenza e anche come semplice Potenza. Rinuncerò al Comando, se il Re vorrà assumerlo. La cosa più importante è avere rinforzi dalla Germania. Mi meraviglio che alcuni abbiano votato l’ordine del giorno Grandi. Avevo preparato un prossimo cambio della guardia. Bottai doveva avere la Presidenza della Camera. Ora siamo entrati in una fase di grave perturbazione politica e tutto è in sospeso. […] La cosa è grave. Tutto era preordinato»422. L’ultimo gerarca a parlare con Mussolini prima dell’udienza dal re fu Galbiati, che lo accompagnò dopo mezzogiorno a visitare il quartiere di San Lorenzo bombardato. Durante il tragitto, la conversazione, «pacata e riflessiva», riguardò il comportamento dei promotori e firmatari dell’ordine del giorno Grandi: «Hanno fiutato il vento contrario», disse il duce, «sentono la tempesta vicina, come avviene per alcune specie di animali, e s’illudono di crearsi un alibi; non se lo sognano nemmeno questi pusillanimi che quando non ci sarà più colui che li ha issati sulle proprie spalle, si sentiranno ben miserabili tra la polvere di tutti i mortali»423. Al quartiere San Lorenzo, ha raccontato l’autista personale del duce Ercole Boratto, che era al suo servizio da un ventennio, l’automobile «fu circondata e il Duce scese calmo. Prese a insinuarsi tra la folla, accarezzando i bambini, ascoltando le lamentele delle donne e distribuendo personalmente numerosi sussidi in denaro ai più bisognosi. […] Il Duce aveva uno sguardo sereno e benevolo, come tutte le volte che lo avevo visto tra il popolo»424. Verso le tre del pomeriggio, rientrando a Villa Torlonia, 275

il duce disse a Galbiati: «alle 17 andrò da Sua Maestà e gli chiederò intanto che nomini i tre ministri militari e che indirizzi un messaggio agl’Italiani perché non un solo uomo della nostra gente si esima dalla solidarietà nazionale in questa grave ora». E alla domanda di Galbiati: «Scusate, Duce, ma il Re in che considerazione vi tiene in questi ultimi tempi? […] Vi dà sempre tutta la sua fiducia?», il duce, «spalancando tanto d’occhi», gli rispose «ponderatamente: ‘Non ho mai fatto nulla senza il suo pieno assenso. In oltre vent’anni sono andato da Lui una e anche due volte alla settimana, e mi sono consultato con Lui su ogni questione di Stato e anche su cose private. Egli è sempre stato solidale con me’». Alle 15,30, giunti a Villa Torlonia, il duce congedò Galbiati dicendogli: «Dopo l’udienza reale vedrò di telefonarvi»425. Mussolini ha raccontato le sue ultime ore prima dell’arresto in due versioni: la prima, una memoria personale, scritta subito dopo il 25 luglio nei giorni di prigionia all’isola di Ponza e alla Maddalena; la seconda, pubblicata nel luglio del 1944 nella rievocazione del 25 luglio. La prima versione era una laconica cronaca: Alle sedici e trenta mi vestii in borghese ed accompagnato da De Cesare mi recai a villa Savoia, dove Sua Maestà mi attendeva sulla soglia della palazzina. Il colloquio durò mezz’ora. Al momento di separarci, sulla soglia, il re mi strinse molto cordialmente la mano. La mia auto mi attendeva sul lato destro della palazzina; ma mentre mi dirigevo verso di essa fui fermato da un capitano dei carabinieri, che mi disse: «Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra persona!» Quando volli entrare nella mia macchina, mi fecero salire in un’autoambulanza già pronta lì vicino. Naturalmente con me entrò anche De Cesare426.

Il racconto proseguiva con la descrizione del viaggio in auto​ambulanza fino alla caserma degli allievi carabinieri, dove Mussolini fu trattenuto per la notte, e con la citazione testuale della lettera inviata a Mussolini dal maresciallo Badoglio, per informarlo che quanto era stato eseguito «nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale 276

interesse, essendo giunte da più parti segnalazioni di un serio complotto contro la vostra persona», e che era «pronto a dare ordini per il vostro futuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare». Mussolini disse, nella risposta, che si sarebbe «recato volentieri alla Rocca delle Caminate»427. Nella versione del 1944, narrata in terza persona, il racconto era più dettagliato nel descrivere il suo contegno prima dell’incontro col re: Alle sedici e cinquanta giunse a Villa Torlonia il segretario particolare e Mussolini si recò con lui a villa Ada. Il Duce era assolutamente tranquillo. Egli portò con sé un libro contenente la legge del Gran Consiglio, la lettera del Cianetti e altre carte, dalle quali risultava che l’ordine del giorno del Gran Consiglio non impegnava nessuno, data la funzione consultiva dell’organo stesso. Mussolini pensava che il re gli avrebbe ritirato la delega del 10 giugno 1940, riguardante il comando delle Forze Armate, delega che il Duce aveva già da tempo in animo di restituire. Mussolini entrò quindi a villa Ada con l’animo assolutamente sgombro da ogni prevenzione, in uno stato che, visto a distanza, potrebbe chiamarsi di vera e propria ingenuità428.

Quando arrivò a Villa Savoia, Mussolini notò «in giro e nell’interno un rinforzo di carabinieri, ma la cosa non parve eccezionale». Il re, che lo accolse sulla porta della villa e lo fece entrare nel salotto, appariva «in uno stato di anormale agitazione, coi tratti del viso sconvolti», e «con parole mozze» disse: Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’Esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. […] Il voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra di essi quattro collari dell’Annunziata. […] In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento.

Mussolini rispose che il re prendeva «una decisione di una gravità estrema», perché la crisi avrebbe fatto «credere al 277

popolo che la pace è in vista, dal momento che viene allontanato l’uomo che ha dichiarato la guerra», e avrebbe inferto un serio colpo al morale dell’esercito; e concluse così la sua replica, prima di essere congedato dal re: «Mi rendo conto dell’odio del popolo. Non ho avuto difficoltà a riconoscerlo stanotte in pieno Gran Consiglio. Non si governa così a lungo e non si impongono tanti sacrifici senza che ciò provochi risentimenti più o meno fugaci e duraturi. Ad ogni modo io auguro buona fortuna all’uomo che prenderà in mano la situazione». Erano esattamente le diciassette e venti quando il re accompagnò Mussolini sulla soglia della casa. Era livido e sembrava ancor più piccolo, quasi rattrappito. Strinse la mano a Mussolini e rientrò. Mussolini scese la breve scalinata, e avanzò verso la sua automobile.

In questa seconda versione, non vi erano altre considerazioni sulla sua destituzione e sul nuovo governo. Il racconto di Mussolini, infatti, proseguiva con la descrizione dell’arresto, la corsa in ambulanza, il pernottamento nella caserma e il successivo trasferimento a Ponza. Tuttavia, nella nuova versione del 1944, era citata non solo la lettera di Badoglio, «di una perfidia unica nella storia», ma anche la risposta di Mussolini, che augurava successo al maresciallo per il grave compito che si accingeva ad assumere «per ordine e in nome di Sua Maestà il re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia!». Mussolini commentava la sua lettera affermando che essa mostrava come credesse allora «in buona fede, che Badoglio, pur modificando il Governo, non avrebbe cambiato la politica generale dominata dalla guerra»429. Dopo il Rashōmon a Palazzo Venezia, il 25 luglio c’è un Rashōmon a Villa Savoia, dove i protagonisti furono soltanto il re e Mussolini, ma Vittorio Emanuele III non ha dato la sua versione del loro colloquio e del suo comportamento in tutta la vicenda del 25 luglio430. Nessun testimone era presente. Sul contegno del re abbiamo la testimonianza del suo aiutante di campo. Il generale Puntoni ha raccontato 278

che alle 9,45 del 25 luglio, prima di andare dal re, aveva ricevuto De Vecchi: Mi racconta minuziosamente come sono andate le cose al Gran Consiglio e mi conferma che molti di coloro che hanno provocato la frattura hanno parlato esaurientemente, anzi brutalmente come mai era stato fatto prima, mettendo in evidenza tutti gli errori commessi dal Regime ed esigendo provvedimenti radicali per sanare la tragica situazione interna. Secondo De Vecchi, Grandi e Federzoni sarebbero stati magnifici e anche Bottai si sarebbe battuto molto bene. […] Alle 10,50 vado dal Sovrano. Lo trovo tranquillo e sereno. Gli riferisco del colloquio con De Vecchi. Parliamo della situazione e dalle parole di Sua Maestà mi è facile capire che ormai la sostituzione di Mussolini è stata decisa. Il Sovrano affronterà il Duce domani, lunedì, durante la consueta relazione. Alle 12,15 una telefonata di De Cesare, segretario particolare del Capo del Governo, sconvolge il programma del Re.

Il re accettò la richiesta di udienza del capo del governo per le 17 «in forma privata», ma subito il generale avvertì Acquarone che il re desiderava vederlo alle 16. Dopo il loro colloquio, il ministro della Real Casa mise al corrente Puntoni delle decisioni del sovrano: Sua Maestà è nell’interno di Villa Savoia; cammina in su e in giù per il salone e appena lo raggiungo mi dice che ha deciso di invitare categoricamente il Duce ad andarsene e che lo sostituirà con Badoglio. «Farà un Ministero di militari e di funzionari», dice. «Io riprenderò il comando delle Forze armate e Ambrosio resterà al suo posto di Capo di Stato Maggiore generale. Per quanto riguarda Mussolini ho autorizzato che alla fine dell’udienza, fuori di Villa Savoia, sia fermato e portato in una caserma per evitare da un lato che possa mettersi in contatto con elementi estremisti del partito e provocare disordini, e dall’altro che antifascisti scalmanati attentino alla sua persona…». Il Sovrano fa ancora qualche passo poi aggiunge: «Siccome non so come il Duce potrà reagire, la prego di rimanere accanto alla porta del salotto dove noi ci ritireremo a discutere. In caso di necessità intervenga…». Dopo una pausa Sua Maestà riprende a parlare. «Aspettavo da giorni l’occasione buona», dice. «Ormai non avevo più dubbi sull’avversione della massa per il Duce e per il fascismo; per di più ho buoni motivi per ritenere la guerra irrimediabilmente perduta. Fino all’ultimo, data la sua qualità di generale in servizio attivo, ho voluto che lei rimanesse fuori di tutto. Mussolini è ministro della Guerra e lei dipende dal ministro. Ogni sua partecipazione, diretta o indiretta a quest’affare, poteva considerarsi un vero e proprio complotto. Questo non l’avrei mai permesso…»431.

Se non si ha motivo di dubitare dell’attendibilità della testimonianza di Puntoni sulle parole e sul contegno del re, 279

appare però quanto meno singolare che il sovrano temesse addirittura una reazione troppo animosa da parte di Mussolini, tanto da predisporre un eventuale intervento del generale. Messosi in postazione di ascolto fuori della porta del salotto, Puntoni racconta di aver colto solo alcuni frammenti del loro colloquio, che iniziò con «un’esposizione di Mussolini sulla situazione militare e sull’andamento della seduta del Gran Consiglio», mentre altre parole gli sfuggirono perché il duce parlava «sommessamente»; poi sentì parlare il re: Dice che data la situazione militare e quella interna che si è venuta a creare nelle ultime ore, si sente costretto, suo malgrado e con molto rincrescimento, a compiere un passo che soltanto le circostanze gli impongono. «Io vi voglio bene» dice il Re al Duce, «e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo…». Il Duce non risponde subito. Passano alcuni minuti di silenzio poi si sente come un bisbiglio la sua voce interrotta di tanto in tanto da brevi repliche del Sovrano che insiste sulla sua decisione e sul suo rincrescimento. Mussolini interviene a scatti poi le sue parole sono sopraffatte da quelle del Re che accenna al torto fattogli quando senza neppure salvare la forma, Mussolini aveva voluto assumere il comando delle Forze armate. Mi arriva netta questa frase: «E mi hanno assicurato che quei due straccioni di Farinacci e Buffarini che avevate vicini, quando non si sapeva se avrei firmato o no il decreto, dissero: ‘Lo firmerà altrimenti lo prenderemo a calci nel sedere!’». Mussolini ascolta senza fiatare, il Sovrano ormai non gli dà tregua. Sembra che tutti e due però parlino come se temessero di essere ascoltati perché del loro colloquio mi giunge poco o nulla.

Tuttavia, pur ascoltando poco o nulla, Puntoni racconta che dopo «questo rapido battibecco» il colloquio proseguì con una discussione sulla situazione militare, con il re che non si illudeva affatto sulla possibilità di una ripresa tedesca, constatando pertanto che la guerra era ormai perduta, per poi dire, «alzando un poco il tono della voce»: «Io devo intervenire per salvare il Paese da inutili stragi e per cercare di ottenere dal nemico un trattamento meno inumano»: Il Duce soffia in maniera stanca qualche parola. Domanda: «E io, ora, cosa debbo fare?». Non comprendo bene le prime battute della risposta del Re mentre mi giunge nettamente questa frase: «Rispondo io, con la mia testa, della vostra sicurezza personale. Statene certo…».

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Da una battuta che mi giunge spezzettata capisco che il Sovrano ha informato il Duce che il suo successore sarà Badoglio. Nel salotto torna il silenzio rotto soltanto da una frase che il Re ha ripetuto più volte nel corso del colloquio: «Mi dispiace, mi dispiace», dice il Sovrano, «ma la soluzione non poteva essere diversa». Sua Maestà deve aver fatto cenno al Duce che non ha più nulla da dire perché invece di parole sento soltanto rumore di sedie e fruscio di passi che s’avvicinano alla porta432.

Il diario di Puntoni si concludeva con la descrizione dell’arresto di Mussolini, il quale, all’invito del capitano dei carabinieri a salire sull’autoambulanza, perché così aveva ordinato il re per garantire la sua incolumità, si sarebbe limitato a rispondere: «Non ci credo»; inoltre, Puntoni affermava che il segretario De Cesare chiese lui stesso di «seguire la sorte del suo Capo»433. Diverso è il racconto di De Cesare, il quale dichiarò a un giornalista alcuni anni dopo che mentre Mussolini si avviava verso la sua automobile, lui era stato trattenuto dal re, che voleva sapere chi fosse, dal momento che alle udienze col re Mussolini era stato sempre accompagnato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Amilcare Rossi; quest’ultimo quel giorno si era recato a far visita alla madre malata ed era stato sostituito da De Cesare, il quale così, solo per caso, si trovò a condividere il destino del duce: La cosa si prolungò al punto che Mussolini, al fondo della scalinata, mostrò visibilmente di aspettare. […] Un ufficiale, sull’attenti, con urbanità, lo induceva a salire sull’autoambulanza. Udii il duce esclamare: «Che esagerazione! Io non ho paura di niente. E poi, c’è la presidenziale. Macché autoambulanza!» Ma osservai che non era in collera, anzi sorrideva. Il capitano dei carabinieri insisté. Mussolini pure, il capitano disse: «È un ordine». Mussolini si rassegnò e salì a bordo. Io gli tenni dietro, in silenzio434.

Intanto l’autista di Mussolini era stato trattenuto da un funzionario di polizia, che gli impose di consegnare la pistola dicendogli: «Ti avverto che, da questo momento, il nuovo Capo del Governo è Badoglio e che il tuo servizio con il Duce è finito. Ho l’ordine di trattenerti qui. Quindi, cerca di stare calmo perché non ti sarà fatto alcun male»435. De Cesare invece fu condotto a Regina Coeli, senza che 281

nessuno si curasse di esaminare la borsa che portava con sé, contenente il fascicolo con i documenti e lo statuto del Gran Consiglio che il duce aveva portato con sé all’udienza436. Sul contegno di Mussolini all’uscita dalla palazzina dopo l’udienza dal re c’è, infine, la testimonianza della relazione redatta dai carabinieri, dopo la liberazione di Roma il 5 giugno 1944. Un «famiglio fidato», riferiva il generale dei carabinieri Filippo Caruso, aveva avuto l’incarico, come segnale convenuto con i carabinieri, di allontanarsi appena vedeva Mussolini accingersi a uscire: Ad un certo momento il famiglio si allontana. È l’ora. Il piccolo gruppo, formato dai due capitani e dai tre vicebrigadieri, avanza e – quasi contemporaneamente – si scorge il duce – mentre discende gli ultimi gradini della scalinata insieme al suo segretario particolare De Cesare. Vestono entrambi l’abito scuro: Mussolini con un completo blu ed un cappello floscio. Egli deve aver notato all’ultimo istante l’insolito apparato, tanto che trasalisce visibilmente. Il capitano Vigneri gli va incontro e, stando sull’attenti, dice: «Duce in nome di S.M. il Re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla». Mussolini allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con un tono stanco, quasi implorante, risponde: «Ma non ce n’è bisogno!» Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino più piccolo di statura. «Duce, – riprende il capitano Vigneri, – io ho un ordine da eseguire». «Allora seguitemi» risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina. Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi. «No, Duce, – gli dice, – bisogna venire con la mia macchina». L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneri alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa. Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra. Sono esattamente le ore 17,30. Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: «Anche gli agenti?! No!!» Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: «Su ragazzi, presto!!»

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Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti. Il questore Morazzini si avvicina e, prima di chiudere la porta dall’esterno, avverte che si uscirà da un ingresso secondario e che un famiglio accompagnerà l’automezzo sino all’uscita. La macchina si muove, mentre l’autocarro con il plotone dei cinquanta carabinieri rimane fermo. Ormai non c’è più bisogno di loro. Anche la missione del ten. colonnello Frignani e dei capitani Vigneri e Aversa è finita437.

Nel Rashōmon a Villa Savoia molte sono le cose che sorprendono, soprattutto nel contegno di Mussolini. Appare quanto mai strano che nel colloquio col sovrano non abbia dato argomenti e prove convincenti dei motivi della sua certezza nella vittoria della Germania, e della sua «chiave» per risolvere favorevolmente la guerra, cui aveva alluso ermeticamente in Gran Consiglio; e soprattutto sorprende che non abbia insistito con il re che, se si voleva portare l’Italia fuori dalla guerra, l’unico in grado di poter convincere Hitler ad accettare questa scelta era lui, il duce, e che, destituendolo, si sarebbe più facilmente esposto il paese alla vendetta teutonica. Del resto, lo stesso duce aveva precedentemente assicurato il re che entro il prossimo settembre avrebbe sganciato l’Italia dalla Germania. E che lui fosse l’unico che avrebbe potuto fare questo tentativo col dittatore nazista era convinzione condivisa anche da autorevoli persone fedeli al re, come il generale Caviglia, l’ex capo della polizia Senise e persino il generale Ambrosio438. Ma dal racconto dello stesso Mussolini non risulta che il duce abbia neppure sfiorato l’argomento. Se invece è veritiero il racconto di Puntoni, cioè che Mussolini fu informato dal re che il successore era Badoglio, sorprende comunque che non vi sia stata alcuna reazione da parte di Mussolini, che avrebbe potuto commentare la scelta di Badoglio ed esprimere una sua diversa proposta per il successore, o chiedere al sovrano che ne sarebbe stato della figura del duce come capo del partito fascista, del Gran Consiglio come supremo organo costituzionale dello Stato monarchico, dello stesso partito 283

fascista, e della Milizia: insomma, che ne sarebbe stato del regime fascista. L’unica risposta plausibile a tanti quesiti è la rassegnazione di Mussolini, fin dal colloquio col re, a considerare la sua destituzione da capo del governo come la fine del regime fascista. L’arresto immediatamente successivo alla fine del colloquio gliene diede conferma. Anche se – ed è questa la nostra conclusione – la rassegnazione fu l’esito di una scelta maturata fin dalla vigilia del Gran Consiglio e resa definitiva dal risultato della votazione. La destituzione e l’arresto del duce non furono conseguenza diretta e immediata della votazione del Gran Consiglio, perché erano stati previsti dal piano di colpo di Stato che i militari avevano già deciso di attuare, quale che fosse stato l’esito del Gran Consiglio439. Se si confrontano i racconti dei vari protagonisti di Rashōmon a Palazzo Venezia, in particolare quelli che possono essere considerati più attendibili o meno confezionati col senno del poi (e tali certamente non sono i discorsi inviati da Grandi a Federzoni nel 1956), non emerge affatto la consapevolezza che l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi avrebbe provocato la destituzione del duce e la fine del regime; tranne, forse, in Grandi e in Federzoni, ammesso che siano veritiere le loro affermazioni a posteriori secondo cui era loro scopo eliminare Mussolini e, con lui, il regime fascista, per ripristinare il regime parlamentare della monarchia costituzionale. Così Grandi: «Non volevamo salvare il regime. Certo, non lo volevo io, e con me quei pochi che sapevano perfettamente che cosa significava la deliberazione che ci accingevamo a presentare e a sostenere in Gran Consiglio»440. L’andamento della discussione durante la seduta non 284

aveva mai fatto emergere in modo risolutivo una convergenza di pressioni per indurre il duce a rinunciare spontaneamente al cumulo dei poteri, o far suo l’ordine del giorno Grandi, assumendolo nel senso che ad esso avevano dato, nei loro interventi, Ciano, Bottai, De Stefani: cioè l’invito al re, più che essere un atto di deferenza verso il sovrano e i suoi poteri costituzionali, intendeva esercitare una pressione sul capo dello Stato per coinvolgerlo personalmente e attivamente nell’organizzazione della resistenza all’invasione nemica, come lo stesso Vittorio Emanuele aveva fatto all’indomani di Caporetto. L’arresto di Mussolini, il colpo di Stato dei militari, la nomina di Badoglio a capo del nuovo governo furono un brutto colpo a sorpresa per Grandi e per Bottai. Il 2 agosto Grandi andò da Bottai, che nel suo diario annotò: «Egli, presidente, da jeri appena dimissionario, della Camera, è stato più di me in mezzo a questa crisi. Ha parlato con il Re, con Badoglio, col Papa. E mi sembra deluso, amareggiato. Il colpo di Stato dei militari, mi dice, sorpreso ma non parato dalla soluzione politico-costituzionale offerta dal Gran Consiglio, ha premuto nelle decisioni del Sovrano; la revisione del Fascismo, nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, s’è tramutata in demolizione del Fascismo»441. Poi il 16 agosto Bottai incontrò Federzoni, il quale gli confermò che la mattina del 25 luglio Mussolini, pur dubitando ancora della «costituzionalità» della «tempestosa seduta», aveva però «acceduto a quell’idea d’un governo a base più larga e nazionale»; e confermò anche, «in modo tassativo», che vi era stato un «complotto militare a largo raggio», capeggiato dal generale Ambrosio e successivamente da Badoglio come uomo di fiducia del re: Si conferma, dunque: la concomitanza, reciprocamente inconsapevole, dei due moti, il politico e il militare; il primo dei quali, inauguratosi col «passo» del 16 luglio, un mese fa preciso, puntava su, non contro Mussolini, per ricollegarlo costituzionalmente al Re; il secondo puntava sul Re contro Mussolini, tanto

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«contro» da non esitare anche a mettersi contro lo stesso sovrano. Il nostro o.d.g. avrebbe avuto, quindi, questo effetto; d’offrire al Re un appiglio costituzionale per agganciare a sé i militari, impegnati ormai in un movimento che li avrebbe portati assai lontani, oltre la costituzione monarchica442.

La destituzione di Mussolini e la fine del fascismo non erano lo scopo della maggior parte dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi. Essi non formavano un gruppo accomunato da motivi, propositi, obiettivi concordanti nel momento in cui decisero di aderire all’iniziativa del gerarca bolognese. Nel comune filo conduttore delle critiche al regime del duce, semmai, si intrecciavano esigenze diverse, con diverse motivazioni e scopi. Infatti, nei vent’anni precedenti, fra i promotori dell’ordine del giorno Grandi non c’erano mai state concordanza nella concezione del fascismo, solidarietà fra camerati, comunanza di propositi; piuttosto vi erano state discordanza, diffidenza, rivalità, antagonismo, gelosia, invidia. In conclusione, i diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi non agirono vincolati da un’intesa o da un patto, come artefici di una congiura. A smentirlo sono stati innanzi tutto Grandi e quelli fra i gerarchi del Gran Consiglio, come Federzoni, che professavano la massima devozione al re, e dopo il 25 luglio rivendicarono a sé l’iniziativa di aver provocato la fine di Mussolini e del suo regime, in polemica con i militari artefici del colpo di Stato, che nei quarantacinque giorni prima della resa dell’Italia si attribui​rono pubblicamente il merito di aver fatto cadere Mussolini e il regime, cercando di oscurare il voto del Gran Consiglio. Nel suo libro sul 25 luglio, commentando il processo di Verona e la condanna a morte dei firmatari del suo ordine del giorno, Grandi smentiva che Mussolini fosse stato «la vittima di un complotto, organizzato da lungo tempo nell’ombra, tra la monarchia, gli alti capi dell’esercito e alcuni membri del 286

Gran Consiglio», ribadendo che noi «volevamo soltanto restituire al Re comando e autorità, creando le premesse per il ripristino della monarchia costituzionale e dello Statuto. […] Il sovrano aveva sempre detto e fatto dire: ‘Datemi prima un voto contrario a Mussolini’»443: «Nessuno dei membri del Gran Consiglio ha saputo mai che entro il segreto recinto di Palazzo Vidoni, sede del comando supremo, si tramasse contro Mussolini. Ciano, forse, qualcosa sapeva, ma non disse nulla a nessuno, e nella preparazione del Gran Consiglio egli non ebbe comunque una parte determinante»444. Inoltre Grandi deplorava la nomina di Badoglio e l’arresto di Mussolini nella villa del sovrano: Nelle giornate precedenti la riunione del Gran Consiglio evitai contatti di sorta, diretti o indiretti, con chiunque non fosse un membro del Gran Consiglio e non informai il sovrano della mia determinazione, se non quando la porta di Palazzo Venezia era già chiusa dietro di noi. Il ministro della Real Casa venne da me, non io mi recai da lui, alle prime ore del 25 luglio. Sconsigliai il nome di Badoglio ed insistetti sul nome di Caviglia445.

Grandi ha scritto nel suo diario del 1943 di aver appreso solo la mattina del 26 luglio, da Acquarone, che «il colpo di Stato militare […] era già preparato e avrebbe dovuto scoppiare tra qualche giorno. Il Gran Consiglio lo ha preceduto di pochi giorni. Ciò può aver indispettito qualche gruppo militare, ma a maggior ragione l’azione legale del Gr. Consiglio è stata provvidenziale perché ha dato alla crisi la soluzione costituzionale. Come mai di ciò non si accorgono?»446. Grandi dovette far pressioni sul ministro della Real Casa affinché fosse pubblicato sui giornali un comunicato sulla seduta del Gran Consiglio e col suo esito per far sapere che la maggioranza dei gerarchi aveva votato la sfiducia al duce. Anche Bottai negò che vi fosse stata un’intesa fra i firmatari dell’ordine del giorno Grandi e i militari per eliminare Mussolini e abbattere il regime totalitario, ma 287

negava anche che il voto del Gran Consiglio avesse come scopo la fine del fascismo. Il 23 agosto 1946, ripensando alla tragica fine di cinque firmatari dell’ordine del giorno Grandi, Bottai respingeva l’accusa di «complotto» o «congiura»: «io posso, dico, come fossi in punto di morte, ‘confessare’ l’assenza d’ogni complotto da parte dei 19»: I quali, per la storia, agenti furono solo 4. In ordine di tempo: Scorza, Bottai, Grandi, Ciano. Una seconda schiera: De Marsico, De Stefani, De Vecchi, De Bono, fu solo occasionalmente, e mai collegialmente, «presentita» sull’opportunità d’un’azione chiarificatrice. Una terza schiera arrivò alla spicciolata, qualcuno al mattino, i più il pomeriggio stesso della convocazione del GC e lessero l’odg preparato da Grandi, sforbiciato e rivisto da me dopo colloquio a tre con Ciano, aderendovi senza bisogno di pressioni: Albini, Alfieri, Bastianini, Federzoni, Rossoni, Suardo, Balella, Cianetti. Una quarta e ultima schiera: Acerbo, Marinelli, Gottardi, Pareschi, lessero e approvarono in Gran Consiglio stesso. A parte, con una sdegnosa attitudine di missus Domini in terra infidelium, Farinacci. Non un’«intesa» dunque, legata da un patto. L’ambiguo contegno di Scorza, il lacrimante pentimento di Suardo, il caso di coscienza di Cianetti, sono altrettanti indizi della libertà spirituale, non da congiurati, con cui il gruppo si comportò sul terreno dell’azione. È da escludere, nel modo più reciso e assoluto, che i 19 costituissero un’unità omogenea. Scarse le affinità di temperamento, nulli i preventivi accordi. Dei cinque fucilati di Verona, quattro, e cioè Marinelli, De Bono, Pareschi, Gottardi, non erano di certo della partita, se partita ci fu. Sono quattro assassinii gratuiti, senza ragione, neppure politica: essi pesano interamente sulla coscienza dei giudici, mandatarii e mandanti447.

Non ci fu congiura per eliminare politicamente il duce, come non ci fu complotto con il re, «neppure il cenno d’una lontana intesa», perché Vittorio Emanuele era considerato «infido» e persino «capace, in caso di proposte confidenziali, di ‘scoprirci’ dinnanzi a Mussolini. Non sarebbe stata la prima volta; né noi saremmo stati le prime vittime del gioco ‘mussoliniano’, non ‘fascista’, si badi, del Re»: Non con lui, e non con altri per lui. Molte chiacchiere, forse, e un agitarsi inquieto del Conte Acquarone, e vaghi echi dal Quartier Generale del Principe, che faceva sapere di «voler salvare il Fascismo». Torbida atmosfera, un soffoco grave, un’oppressione angosciosa, come suole avvenire alla vigilia d’un

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terremoto: ma un terremoto senza epicentro, piuttosto un’oscura e disordinata frana d’ogni ritegno morale. E fu proprio quale atto di moralità, che, concludendo il nostro lavoro di lima e di tornio, noi tre, Grandi, Ciano e io, presentammo agli altri il nostro o. del g. Inutile, ci oppose qualcuno. Inopportuno, tal’altro. Può essere, rispondemmo, ma questa è l’ora delle supreme responsabilità. E sempre, fino alle individuali accettazioni e firme, la sicurezza dataci da Scorza, d’agire nell’orbita del Partito, oltre che nella piena legittimità del consesso, del quale eravamo membri. Che l’essersi preparati a una discussione di così alto e grave momento, e l’avervi poi partecipato alla scoperta, senza mascherarsi dietro abili allusioni o comode reticenze, e l’avere espresso il voto che il Capo ci richiedeva, ed era in suo potere di non chiederci, e l’averlo egli accolto per presentarlo al Re, ostentando la sua assoluta sicurezza che questi lo avrebbe respinto e messo noi in critica situazione, sia divenuto, per il Tribunale fascista di Verona e l’Alta Corte antifascista di Roma, un complotto con la Monarchia, contro il Fascismo e Mussolini secondo quello, per il Fascismo secondo questo, è cosa che al tempo d’oggi non sorprende più. Concludo questa nota senza entrare in particolari di cronaca, da me colti sul vivo d’allora. Questa è la «verità» effettuale delle cose, la nuda verità.

Bottai rivendicava al segretario del partito Scorza e al gruppo dei gerarchi ricevuti in udienza dal duce il 16 luglio il vero inizio dell’azione che avrebbe portato al Gran Consiglio, col proposito di indurre il duce a «spogliarsi» dell’alto comando, restituendolo al re, per riprendere la propria azione di capo politico, mentre mai si «previde il suo sbancamento completo», ma solo il ridimensionamento degli esorbitanti poteri concentrati nelle sue mani, al di sopra e al di fuori delle leggi del regime stesso448. In conclusione, ribadiva Bottai in una nota dell’11 settembre 1946, i diciannove firmatari volevano porre fine al «potere personale, che si ha quando un uomo, investito legalmente, come Mussolini lo fu, d’autorità, sia pure grandissima, ma circoscritta, di continuo la sforza a illegali decisioni», finendo con l’identificare il fascismo con il «mussolinismo», che del fascismo «fu la deviazione, consacrata da almeno due lustri di pratica di governo personale»: Contro cotesto Fascismo il voto dei 19 fu esplicito: e non fu voto di antifascisti, ma di fascisti, amanti dell’idea e disgustati della sua contraffazione. Per taluni di essi fu tardiva resipiscenza; per altri riconferma, in extremis, d’un

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coerente atteggiamento critico. Per tutti, comunque, un gesto di coraggio, che merita rispetto: essi sapevano che in quel giorno si sarebbe messo tutto in discussione, aprendo una crisi totale di regime. O rinnovazione, da operarsi mediante un’iniziale «restaurazione» delle leggi «fasciste» e un loro conseguente sviluppo verso l’attuazione di quella democrazia corporativa da esse invano prescritta; o dimissione storica, con tutte le conseguenze derivantine. Tra queste, di certo, nessuno dei 19 prevedeva che il Re, cui si restituiva in forma solenne la pienezza della sovranità, n’avrebbe fatto l’uso che ne fece. Né può ancora dirsi se fu più grave da sua parte l’avere sottoposto Mussolini a un arresto proditorio o l’avere permesso la, funesta per l’Italia, esperienza Badoglio. Disonorevole il primo atto, insipiente il secondo, perché la stessa Monarchia doveva perirne. Mancò al Re ogni acume politico. Non vide che Mussolini, un Mussolini riportato alle sue proporzioni di capo del governo, e non dello Stato, di capo politico, e non militare, avrebbe operato lo «sganciamento» dai tedeschi assai più facilmente e abilmente, che non Badoglio: questi non poteva esser dinnanzi ai tedeschi che un «traditore» della riconfermata alleanza; quegli, era l’uomo ingannato e di continuo scavalcato dalla diplomazia germanica, era il «tradito». Scelse il Re, tra il buon gioco e il cattivo gioco, il cattivo449.

A una congiura combinata fra gerarchi e militari, con la complicità del re, credette invece Mussolini, nel ripensare alla notte del Gran Consiglio durante i mesi della prigionia e poi della Repubblica sociale, tacciando gli uni e gli altri di tradimento. Eppure, sorprende che il capo di un regime poliziesco fosse stato del tutto ignaro di quello che politici e militari stavano tramando, nonostante le denunce di congiure e complotti che gli erano pervenute prima del 25 luglio. Anzi, in pubblico e in privato, il duce aveva ostentato la sua incredulità beffarda verso chi gli andava a parlare di «gialli» e «giallissimi»450. La mattina del 22 luglio, quando consegnò al duce l’ordine del giorno Grandi, ha raccontato Mussolini, Scorza «tenne al Duce un discorso piuttosto ambiguo, nel quale si parlava di ‘giallo’, anzi di ‘giallissimo’, che poteva accadere, discorso al quale Mussolini non attribuì molta importanza. […] All’indomani, giovedì [recte: venerdì 23 luglio], Scorza insisté ancora sulla possibilità di un ‘giallo’, anzi di un ‘giallissimo’; ma, poiché non precisava altro, Mussolini 290

ebbe l’impressione che si trattasse di una delle solite vociferazioni su cambiamenti di comandi e di uomini del Governo»451. Eppure, in tutta la vicenda del 25 luglio, fra i fatti certi vi è la decisione del duce di convocare il Gran Consiglio, ben sapendo che i gerarchi dell’udienza del 16 luglio avrebbero posto in discussione l’assetto totalitario del regime del duce. Fatto certo, confermato dallo stesso Mussolini, oltre che da Scorza, da Farinacci e da altri, è che il duce era stato avvertito molto tempo prima del 25 luglio che erano in corso manovre per estrometterlo dal potere452. Fatto certo è la conoscenza dell’ordine del giorno Grandi da parte del duce e la sua conferma della convocazione per discuterlo. Fatto certo è la frequenza degli incontri fra i membri del Gran Consiglio, e fra questi e il segretario del partito, incontri in gran parte noti al duce. «Grande via vai a piazza Colonna nei giorni di giovedì e di venerdì», scrisse Mussolini nel suo racconto sul 25 luglio: in piazza Colonna, nel Palazzo Wedekind, c’era allora la sede nazionale del partito fascista, poco distante da Montecitorio dove era l’ufficio di Grandi e dall’ufficio di Bottai nella redazione della sua rivista «Critica Fascista»453. Altro fatto certo è che nulla e nessuno obbligava il duce a riunire il Gran Consiglio per discutere un ordine del giorno che non era fissato da lui stesso, come stabiliva la legge sul Gran Consiglio. Così come nulla e nessuno poteva impedirgli di revocare e rinviare la convocazione, come avrebbe suggerito Grandi al duce, che rifiutò perché la data «era stata fissata. Gli inviti diramati»454: una motivazione puerile, per un duce che era solito nominare e dimettere i ministri e i gerarchi a suo piacimento, lasciando che gli interessati lo apprendessero dai giornali o dalla radio; tanto più puerile dal momento che nessun giornale aveva annunciato la convocazione e lo stesso Mussolini, nel suo 291

racconto, ha scritto che «doveva essere una riunione confidenziale, nella quale tutti avrebbero potuto chiedere e ottenere spiegazioni; una specie di comitato segreto»455. Il più competente giurista nell’ultima seduta del Gran Consiglio, De Marsico, ripensando nelle sue memorie al contegno del duce, scrisse: Mussolini avrebbe potuto seguire lo scaltro suggerimento di Scorza, rinviare la seduta senza interpellarci, e non convocarci più. Della convocazione nessun avviso aveva dato: la nostra sostituzione al Governo, la decadenza dei componenti del Gran Consiglio, avrebbero aperto la strada alla nostra denunzia al Tribunale Speciale per un reato qualunque. Avrebbe potuto chiudere la seduta senza far votare la mozione: se il Gran Consiglio era un semplice Organo di consultazione, non gli aveva già offerto, nei nostri discorsi, ricca materia di decisione? Quale obbligo egli aveva di accogliere la nostra proposta di votazione? Quale diritto avevamo noi di costringerlo a presentare al Sovrano la nostra mozione? Se si fosse rifiutato di seguirci, un dissidio si sarebbe aperto tra lui e la più alta rappresentanza del Partito, ma egli non avrebbe dovuto adoperare, per dirimerlo, che il mezzo normale: un largo «cambio della guardia». La scintilla sarebbe covata tra le ceneri, ma per molto tempo nessuno l’avrebbe fatta scoppiare456.

Nella stessa linea di considerazioni, De Stefani giunse a sostenere, nella sua rievocazione dell’ultima seduta del Gran Consiglio, che i firmatari dell’ordine del giorno Grandi avevano compiuto un atto rivoluzionario, un colpo di Stato «perché andammo al di là della nostra competenza costituzionale invocando dal Duce e dalla Maestà del Re decisioni politiche che esso non era autorizzato a chiedere», perciò «un nostro parere, una nostra richiesta o una nostra deliberazione fuori dai casi stabiliti dalla legge erano incostituzionali e inammissibili»; ma, proseguiva De Stefani, il duce «non ha opposto l’incostituzionalità dell’ordine del giorno Grandi, benché non potesse essergli sfuggita»; al contrario, mettendolo in votazione «ha legalizzato la nostra iniziativa e il colpo di Stato del Gran Consiglio»457. Secondo De Stefani, il duce alla fine, col suo atteggiamento, aveva di fatto accettato l’ordine del giorno Grandi, perché dalle ore 2 del 24 alle 17 del 25 luglio nulla 292

fece per impedirne le conseguenze, mentre lasciò passare quindici ore «perché non credeva che le ore diciassette avrebbero segnato la fine della sua dittatura e del regime che ne era lo strumento. O non volle usarle per un colpo di Stato contro la Monarchia che poteva avere incalcolabili conseguenze», e allora «ha dimostrato con quella inerzia la sua lealtà monarchica e ha sacrificato se stesso e il regime»: Quell’inerzia fu il frutto di una meditata decisione in cui prevalse, al di sopra delle considerazioni di regime, una valutazione politica più alta e disinteressata. Già nel Gran Consiglio la condotta remissiva del Duce lasciava intravedere ai più perspicaci il suo itinerario interiore. […] Il Duce aveva già quella notte sentito salire in se stesso la necessità storica della sua esclusione. Lo rivelava il suo atteggiamento, la libertà che ci concedeva, la sua paziente passività. […] Egli ci ha lasciato fare, ci ha lasciato dire e decidere, assistendo silenzioso, snervato458.

Riflettendo tre anni dopo sul 25 luglio e sul contegno di Mussolini nell’ultima seduta del Gran Consiglio, Bottai si domandava nel suo diario: «A volerne rimirare ogni aspetto, ché furono ventiquattr’ore d’una grave complessità, ci si può porre un quesito: Mussolini. Perché egli ha lasciato fare?». Nel cercare una risposta al quesito, Bottai riteneva «inammissibile parlare di ‘sorpresa’», perché Mussolini era consapevole dell’opposizione alla sua politica estera e interna che vi era fra i maggiori gerarchi fin dall’inizio della guerra, e che si era apertamente manifestata nella udienza del 16 luglio, con la richiesta di convocazione del Gran Consiglio, così come l’ordine del giorno «detto di Grandi, gli era noto attraverso Scorza. Egli aveva avuto tutto il tempo di meditarlo e di misurarne le conseguenze, che non potevano sfuggire a un ‘manovriero’ della sua forza». Forse, era «cotesta forza diminuita dal suo stato di salute», da un «attutimento morboso del suo acume intellettuale»: Certo, l’uomo non era più quello: snervato dalle avversità, succhiato dalla sua giovane amante, tormentato dalla famiglia discorde, consunto dalla sua ulcera incidente su d’un fondo celtico. V’era in lui minor vivezza di reazioni; e, a quando a quando, eccesso di reazioni: donde discontinuità, incongruenze,

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contraddizioni. Ma da questo a parlare d’un Mussolini fisicamente «minorato» ci corre. Egli era, senza dubbio alcuno, in grado di percepire la portata dell’evento che, sotto i suoi occhi, si preparava459.

Bottai escludeva, inoltre, che il comportamento del duce fosse dovuto al suo arrendersi a «un destino inevitabile», e che pertanto si potesse spiegarlo «sul metro della disperazione. Anzi, al contrario, di un’estrema speranza: quella di liberarsi d’un colpo di quella opposizione, di cui ho detto», anche se per conseguire questo scopo, commentava Bottai, aveva commesso un «errore di calcolo» aspettando troppo per agire. Ma se non osò «rimangiarsi la concessa convocazione del G.C. o di ‘far fuori’ (frase tipica del suo gergo di forza) i suoi avversari durante la seduta», non fu per «difetto d’audacia» ma fu perché – ed era questa per Bottai la spiegazione più plausibile del suo comportamento in Gran Consiglio – Mussolini «si sentiva ‘sicuro’; e la sua sicurezza dipendeva dal Re. Lo disse ben chiaro: ‘io ho intiera la fiducia del Re, che non approverà il vostro o.d.g. E, allora, quale sarà la vostra situazione, signori?», essendo convinto che il sovrano era «dalla sua parte; e non al modo delle marionette, ma in uno schietto rapporto di fiducia umana». Bottai non considerava questo un «errore» di Mussolini: «Nessuno di noi si era ‘accaparrato’ il consenso regale contro di lui, Mussolini. Per noi il Re era un’incognita, tutt’al più una probabilità; per Mussolini era un dato certo a suo favore dell’arduo problema posto sul tappeto»: Così, e non altrimenti, io mi spiego il contegno di Mussolini. Non v’è parola o atto, di quelle ore decisive, che rendano plausibile altra spiegazione. Che, nel contrasto, tra la sua fiducia e il comportamento proditorio del Re, sia questo che fa la più losca figura, può addolorarmi per la dignità d’un istituto, che, con più alta e degna soluzione, poteva essere salvato alla nuova storia d’Italia. Ma è così: Vittorio Emanuele III è stato più Carignano che Savoja.

L’argomentazione di Bottai sulla sicura fiducia riposta da Mussolini nel re, come motivo per spiegare il suo contegno del 25 luglio, si presta però a un’obiezione sostanziale, che 294

ne inficia la plausibilità, a meno che non si voglia attribuire a Mussolini una ingenuità da principiante della politica: infatti, dopo vent’anni di regime totalitario, durante i quali gravi colpi aveva inferto all’autorità e ai poteri del sovrano, Mussolini, politico realista, spregiudicato e cinico, che pubblicamente aveva ostentato la convinzione dell’inaffidabilità umana, avrebbe dovuto sapere che l’amicizia di Vittorio Emanuele e la sua fiducia in lui erano una base molto incerta sulla quale fondare la speranza di conservare il potere nel momento più catastrofico della guerra, quando lui stesso, il duce, ormai aveva perso la fiducia dei suoi più autorevoli gerarchi, dei comandi militari e degli esponenti più importanti del mondo economico e finanziario, e della quasi totalità della popolazione, travolto dalla catastrofe bellica nella quale, con le sue decisioni, aveva fatto precipitare l’Italia. E di questo, al momento di convocare il Gran Consiglio, il duce era certamente consapevole. Nel raccontare un anno dopo la notte del Gran Consiglio, Mussolini disse di aver sciolto la seduta accusando la maggioranza dei gerarchi di aver provocato la crisi del regime. Si trattava, come abbiamo visto, non solo di una frase che Mussolini non pronunciò, ma che è stata smentita da lui stesso quando, nei «pensieri» scritti mentre era tenuto prigioniero nell’isola della Maddalena, affermò che la crisi del regime aveva origini e cause precedenti l’ultima seduta del Gran Consiglio: «Fin dall’ottobre 1942 ho avuto un presentimento continuamente crescente della crisi che mi avrebbe travolto»460. E più avanti aggiungeva: «Gli avvenimenti militari e lo sfacelo del regime stanno nel rapporto di causa ed effetto. È chiaro che oggi non mi troverei su questa isola, se il 10 luglio gli anglosassoni avessero subìta una Dieppe in grande stile nella baia di Gela»461. E in un successivo «pensiero», Mussolini annotava: 295

Fin dal 23 ottobre 1942 la fortuna mi aveva voltato decisamente le spalle. Le feste del ventennale furono disturbate da bombardamenti e dall’offensiva nemica in Libia. Perciò rinviai un discorso che avrei dovuto tenere all’Adriano e per il quale si erano compiuti grandi preparativi. Al discorso del 2 dicembre davanti alla Camera seguirono gli infelici avvenimenti di Libia. Il 5 maggio, in occasione dell’ultima adunata davanti a palazzo Venezia, dichiarai che saremmo tornati in Africa e proprio allora perdemmo in Tunisia l’ultimo lembo di quel continente. Il 10 luglio passai in rivista la divisione M e proprio quel giorno il nemico sbarcò in Sicilia. Il primo bombardamento di Roma ebbe luogo proprio mentre mi trovavo a Feltre a colloquio con il Führer. Tralascio di enumerare altri colpi meno tipici dopo il cambiamento di fortuna. Eppure credevo che il ritirarsi sarebbe stato un segno di pusillanimità. Ho sperato sino alla fine di afferrare l’ultimo capello che, come si dice, la fortuna porta sulla testa, ma non mi è riuscito. L’ho sperato il 10, 11, 12, 13 luglio e poi ho visto che ogni tentativo era vano. Ai miei due incontri veneti con Hitler sono seguiti avvenimenti disgraziati462.

Infine, nella Storia di un anno, narrando l’incontro con Hitler a Feltre il 19 luglio, Mussolini attribuiva esplicitamente la crisi del regime alle disfatte militari subite dall’Italia: La crisi militare non poteva non accompagnarsi a una crisi politica che investiva il regime nel suo capo e nel suo sistema. La storia, soprattutto la moderna, ha dimostrato che un regime non cede mai per ragioni di carattere interno. Questioni morali, disagi economici, lotte di partiti non mettono mai in gioco l’esistenza di un regime. Sono questioni che non abbracciano mai l’intera popolazione, ma settori limitati della medesima. Un regime, qualsiasi regime, cade sotto il peso della sconfitta463.

Più avanti, nel racconto delle vicende che avevano portato alla sua destituzione, Mussolini faceva altre considerazioni sulla crisi del regime, attribuendo ancora una volta la causa alla situazione interna «nella primaveraestate del 1943», prima dell’ultima seduta del Gran Consiglio: Il «complesso» fascista – Governo, Partito, sindacati, amministrazione – appariva sofferente dell’usura della guerra. Decine di migliaia di fascisti erano caduti sui campi di battaglia; fra di essi non meno di duemila gerarchi. Ecco un dato di fatto che parrebbe delittuoso dimenticare. Oltre un milione di fascisti erano sotto le armi, dispersi dal Varo a Rodi, da Aiaccio ad Atene. Nel Partito, in Italia, erano rimasti pochi elementi, i quali si erano applicati oramai a un compito

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esclusivamente assistenziale. A ciò aggiungasi il corso sfortunato delle operazioni militari, con la perdita di tutte le colonie africane; i bombardamenti terroristici sulle città; i crescenti disagi alimentari464.

Mussolini, decaduto dal potere, attribuì alla crisi militare la crisi politica che aveva investito il regime e ne aveva causato il crollo. E attribuì la crisi militare, cioè le continue disfatte subite dalle forze armate italiane, con la perdita di tutti i possedimenti coloniali in Africa fino all’invasione del territorio nazionale, non a suoi madornali errori, ma unicamente ai capricci della fortuna, che gli aveva voltato le spalle. Di fronte alla puerilità di simili spiegazioni della causa originaria della crisi che aveva portato alla sua destituzione e al crollo del regime, realistica appariva, nelle considerazioni di Mussolini su quanto era accaduto, solo la constatazione, e la consapevolezza, di essere diventato, come avrebbe detto in Gran Consiglio, «l’uomo più odiato d’Italia». Del resto, alla vigilia del 25 luglio, le prove della sua crescente impopolarità gli giungevano ogni giorno a Palazzo Venezia465. Una nota informativa del 20 luglio, pervenuta il 24, citava ampiamente critiche e accuse raccolte fra la gente, che si scagliava ormai apertamente contro il duce. Durante e dopo il bombardamento, scriveva un informatore, «si sono aperte le cateratte del risentimento e dell’odio popolare contro la guerra, e dovunque si udivano imprecazioni ed insulti pronunciati ad alta voce, senza più alcun ritegno, senza timore di eventuali conseguenze». Le imprecazioni e gli insulti non erano per la maggior parte rivolti contro gli anglo-americani che bombardavano, ma contro Mussolini: «Abbiamo potuto constatare negli assembramenti della gente in diversi punti della città, che le donne del popolo davano sfogo al loro dolore ed odio prevalentemente contro gli inglesi ed americani, mentre gli uomini si esprimevano in termini più che vivaci contro il Duce, che aveva ‘condotto l’Italia in 297

guerra senza avere i mezzi necessari’, che aveva ‘affamato e sacrificato il popolo’ ecc. ecc. nonché contro i tedeschi, i quali ‘non aiutano abbastanza l’Italia oppure fanno i gradassi contro di noi’ ecc.». Anche se era stato «il momento di profonda emozione a trascinare i popolani ad un linguaggio tale», aggiungeva l’informatore, «pur tuttavia resta il fatto significativo che le critiche velenose e le imprecazioni piene d’odio erano dirette soprattutto contro il Regime ed il Duce, ed attribuivano al Duce la responsabilità del disastro. Si notava ugualmente, nei discorsi della gente, una diffusa persuasione che la guerra dell’Italia è già perduta, o che dopo la disfatta dell’Italia verrà la volta della Germania ed infine del Giappone». Un’altra nota informativa del 24 luglio dava una «sintesi purgata» degli insulti e delle accuse al duce: Mussolini ha sempre barato al tavolo della storia: tutto bleuff [sic]! Mussolini; esempio classico dell’ambizione dalle proporzioni senza limiti e senza freni e dai metodi cinici. Pallone gonfiato o da gonfiare dai vari astutissimi Starace! Sicurezza inoculatagli dagli interessati, dalla sua infallibilità. […] L’impero, l’alleanza con Hitler; la esaltazione, senza basi, della nostra preparazione militare; le rivendicazioni nazionali etc.etc.; sono le prevedibili tappe verso la guerra… senza alcuna preparazione: o il DUCE è stato ingannato o ha egli stesso ingannato la Nazione. Collaboratori efficienti non ha mai voluto in nessun campo! Si è illuso sulla sua infinita capacità, aiutato soltanto dal suo infinito orgoglio: galloni, galloni e nient’altro! Si è permesso il dilagare di notizie scandalistiche circa la sua vita privata in coincidenza col dissanguamento del popolo italiano. Ha chiamato Scorza, ma troppo tardi. E per quanto tempo? Ha compromesso la Monarchia affidandola al destino effimero del Regime. Ha rovinato l’economia nazionale e impoverito l’erario. Se viene a mancare lo stellone, Mussolini ha ridotto l’Italia in schiavitù, che non ha precedenti nella plurisecolare storia. Egli dovrà pagare. Potrei continuare, ma me ne astengo466.

Non si sa se queste note furono lette dal duce prima della seduta del Gran Consiglio, ma molte altre simili nel 298

contenuto, pervenute nei giorni precedenti, recano la sua sigla o sono incluse nei promemoria per il duce. Mussolini sapeva dunque di aver perso ormai la fiducia della popolazione, come dimostrano gli sprezzanti insulti che egli scagliava contro il popolo italiano nei suoi sfoghi privati con Ciano, con Bottai e con altri interlocutori fin dall’inizio delle disfatte con la campagna di Grecia467. Così come sapeva che il suo prestigio era decaduto fra la classe dirigente sociale ed economica, fra i militari, fra gli stessi membri del governo. Infine, l’udienza del 16 luglio era la dimostrazione che il suo prestigio e la sua autorità erano fortemente decaduti anche fra i più importanti gerarchi, che per un ventennio gli avevano obbedito con incondizionata fedeltà. La seduta del Gran Consiglio confermò che la fedeltà era ormai definitivamente dissolta, sia pure in nome di una più alta fedeltà, quella dovuta al re e alla patria. In questa situazione, il contegno di Mussolini durante le ventiquattro ore dalle 17 del 24 luglio alle 17 del 25 non sarebbe stato niente altro che un espediente per trovare finalmente una via di uscita per scendere dal treno della storia, sul quale aveva preteso di guidare l’Italia, ora che, per colpa sua, stava deragliando verso una inevitabile catastrofe. Fra i gerarchi del Gran Consiglio, ci fu chi, come Cianetti, attribuì «l’inesplicabile atteggiamento del duce» durante la seduta addirittura alla viltà, fino a ipotizzare che «se si considera l’atteggiamento di Mussolini nel primo semestre del 1943 fino al 25 luglio, vien fatto di pensare che il Re e lui abbiano agito in pieno accordo per affrettare la fine del Regime»468. Non di viltà, ma di implicita complicità del duce con l’ordine del giorno Grandi ha parlato invece Giuriati nelle sue memorie, raccontando che quando, a Cortina, dove allora si trovava, lesse sui giornali «le prime narrazioni degli avvenimenti svoltisi a Roma del 24 e 25 luglio, e col testo dell’ordine del giorno Grandi, dissi ai 299

miei familiari, che sono vivi e sani: ‘Mussolini è stato consenziente al colpo di Stato’»; poi, quando lesse nel racconto dello stesso Mussolini sul 25 luglio che il duce conosceva da tre giorni l’ordine del giorno Grandi, Giuriati considerò che tre giorni, «per uno che aveva illimitate possibilità di persuasione e di repressione era un tempo abbondantemente bastante per tagliare la strada a ogni genere di oppositori», mentre Mussolini stesso «non riferisce un gesto o un ordine inteso a impedire che la seduta imminente avesse un esito e uno svolgimento diversi da quelli che ha avuto»; pertanto, concludeva Giuriati, «se Mussolini non ha impedito il voto del Gran Consiglio, è certo, è manifesto che lo ha accettato. E lo ha accettato perché aveva perduto ogni speranza di vincere la guerra»469. Ma che lo abbia accettato non significa, come pure qualcuno ha sostenuto, che «Mussolini volle il 25 luglio»470. Fra le motivazioni che possono aiutare a comprendere il contegno di Mussolini in tutta la vicenda del 25 luglio, dall’udienza dei gerarchi del 16 luglio fino al momento in cui rispose alla lettera del maresciallo Badoglio, ve ne può essere ancora un’altra, più plausibile perché forse più congeniale alla personalità, al carattere, alla mentalità di Mussolini. Roberto Michels, sociologo di origine tedesca italianizzato, professore in Italia dall’inizio del Novecento e ammiratore del fascismo e del duce, che a sua volta molto lo stimava, nel 1927 dedicò a Mussolini un corso di sociologia politica, nel quale alcune lezioni riguardavano la figura del «duce carismatico». Solo da pochi anni la nozione di carisma e di capo carismatico era entrata in circolazione dopo la formulazione che ne aveva dato Max Weber, del quale Michels era stato amico e collaboratore. Mussolini aveva certamente letto il libro di Michels, ma non aveva prestato attenzione a un avvertimento che lo studioso dava 300

al duce carismatico: «il condottiero popolare che non agisce per una mera ambizione personale, ma perché guidato da un’alta idealità […] sa, cosa certo non facile ma ardua quant’altra mai, sfuggire alla tentazione costante della megalomania, nemica mortale del buon senso e dell’affetto obbiettivo della patria»471. Se aveva ignorato questo ammonimento quando era all’apogeo del potere, ora che stava precipitando verso la disfatta della patria e sua personale, può essere tornato alla mente di Mussolini un altro ammonimento di Michels: il duce carismatico «non abdica neppure quando l’acqua gli giunge alla gola. Perché appunto nella sua prontezza di morire sta un suo elemento di forza e di trionfo. Egli abdicherà solo qualora sarà preso da estrema amarezza e ripugnanza: in tal caso vuol dire che ha perso il suo carisma»472. Durante la notte del Gran Consiglio quando contro di lui, quali che fossero i motivi, votarono i massimi gerarchi del regime, alcuni dei quali – i due quadrumviri, Bottai, De Stefani, Grandi, Acerbo, Bastianini, Farinacci, Rossoni, Marinelli – erano stati al suo fianco fin dalle origini del fascismo; e altri, Federzoni, Alfieri, Ciano, De Marsico, erano stati per lunghi anni fedeli e devoti collaboratori nel governo, Mussolini si rese conto che il suo carisma di duce era svanito. E se ne rese conto gran parte dei gerarchi la notte del Gran Consiglio, e la gran massa dei fascisti che non reagì alla destituzione del duce, come osservò Cianetti nel rievocare le ore successive alla fine del regime: Quanto grave e profonda fosse la crisi che minava questo Regime lo si può desumere dal fatto che, tranne qualche episodio sporadico a Milano, a Torino e Venezia, in nessun’altra parte d’Italia i fascisti presero iniziative per reagire comunque agli urli, alle provocazioni, alle distruzioni. I fascisti non sentivano più il polso del Paese e avevano visto crollare giorno per giorno il prestigio dell’idolo mussoliniano. Potevano sentire il rammarico per un mondo che crollava e per la fine di tanti sogni, ma ormai i cuori si erano inariditi perché la fede in lui non c’era più e quasi tutti avevano compreso che il motivo principale della debolezza

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del Regime andava ricercato nella instabilità e debolezza del Capo473.

Pertanto, si può immaginare che Mussolini, memore della lezione di Michels, abbia accettato la votazione del Gran Consiglio e la destituzione dal governo come un suo proprio atto di abdicazione per estrema amarezza e ripugnanza, anche se era stato deciso dal re. Secondo il racconto di Nicolò De Cesare, mentre si stavano recando in automobile a Villa Savoia, «il duce aveva tuttavia l’aria di un uomo che si attende qualcosa di molto grave. Però, come sempre, si dominava bene ed era perfettamente padrone di sé», e «teneva in mano il codice e mi spiegò che lo portava per mostrare al re la nullità del voto del Gran Consiglio. Però mi disse anche, a un certo punto: ‘Vado a rimettere tutto nelle mani del sovrano’, il che è in contrasto con quella tesi, mi pare. A me sembrò che avesse deciso di dimettersi, che fosse disposto ad andarsene. Ma sono anche convinto che non aveva sospetto di essere arrestato. Una volta mi aveva detto: ‘Caro De Cesare, io ho una mentalità anticomplottistica. Qui non vedo elementi concreti di complotto. Quindi non me ne importa niente’»474. Se fino all’ultimo si era illuso che, scomparso il suo carisma, gli rimaneva ancora la fiducia nel re e del re in lui per conservare il suo potere, dopo il colloquio a Villa Savoia Mussolini considerò la sua destituzione come l’occasione della propria eutanasia politica, compiuta definitivamente con la lettera al generale Badoglio, la notte stessa del suo arresto. Caduto in rovina, nelle settimane di prigionia, Mussolini giustificò il suo contegno nelle ventiquattro ore del 25 luglio addossando la colpa unicamente alla fortuna, che gli aveva voltato le spalle, o alla fatalità delle cose, prima di escogitare, come duce della Repubblica sociale, la tesi del complotto e del tradimento. Ma in rari momenti di lucidità o di sincerità, traspariva la sua volontà di consapevole 302

accettazione della propria fine, come un atto voluto: «Tutto quello che è accaduto doveva accadere, poiché se non fosse dovuto accadere non sarebbe accaduto», scrisse come primo dei suoi «pensieri» di prigioniero475. Nel quarantesimo «pensiero», Mussolini stesso vergò l’atto definitivo della propria morte politica, per eutanasia: «Quando un uomo crolla col suo sistema, la caduta è definitiva, soprattutto se quest’uomo ha passato i sessant’anni»476. Riesumato dalla prigionia per volontà di Hitler, nei suoi ultimi seicento giorni il duce continuò a considerarsi «un cadavere vivente»477. 395 A. De Marsico, 25 luglio 1943. Memorie per la storia, a cura di M.A.

Stecchi de Bellis, Fratelli Laterza, Bari 1983, p. 100. 396 A. De Stefani, Gran Consiglio ultima seduta. 24-25 luglio 1943, Le Lettere, Firenze 2013, p. 39. 397 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967, p. 195. 398 D. Alfieri, Due dittatori di fronte, Rizzoli, Milano 1948, p. 333. 399 G. Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Cappelli, Rocca San Casciano 1968, pp. 511-512. 400 D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, pp. 263-264. 401 Ivi, p. 265. 402 Ivi, p. 267. 403 De Stefani, Gran Consiglio, cit., p. 49. 404 Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione, cit., pp. 517-518. 405 Cfr. C. Scorza, La notte del Gran Consiglio, Palazzi, Milano 1968, pp. 131 sgg. 406 Cfr. V. Cersosimo, Dall’istruttoria alla fucilazione. Storia del processo di Verona, Garzanti, Milano 1963 (prima ed. 1961). 407 Ivi, p. 64. 408 Ivi, p. 157. 409 Ivi, p. 87. 410 Ivi, pp. 93-94. 411 Ivi, p. 114. 412 Ivi, pp. 118-120. 413 G. Bastianini, Uomini, cose, fatti: memorie di un ambasciatore,

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Vitagliano, Milano 1959, pp. 131-132. 414 E. Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., Editrice Bernabò, Milano 1950, pp. 235-237. 415 B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, 35 voll., La Fenice, Firenze 1951-63, XXXIV, p. 354. 416 Ibid. 417 Scorza, La notte del Gran Consiglio, cit., pp. 183-186. 418 Ivi, pp. 189-192. 419 Ivi, pp. 193-195. 420 Ivi, p. 197. 421 Ivi, p. 201. 422 G. Polverelli, La notte del Gran Consiglio negli appunti dell’unica persona autorizzata a stenografare, in «Il Tempo» (settimanale), 15 novembre 1952. 423 Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., cit., p. 239. 424 E. Boratto, A spasso col duce. Le memorie dell’autista di Benito Mussolini, Castelvecchi, Roma 2014, p. 124. 425 Galbiati, Il 25 luglio e la M.V.S.N., cit., pp. 240-241. 426 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 275. 427 Ivi, pp. 275-276. 428 Ivi, p. 355. 429 Ivi, pp. 355-357. 430 Cfr. R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in guerra 1940-1943, 2. Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 1397-1401. 431 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993, p. 144. 432 Ivi, pp. 145-146. 433 Ivi, p. 146. 434 Cfr. S. Bertoldi, Mussolini tale e quale, Longanesi, Milano 1965, pp. 225-226. 435 Boratto, A spasso col duce, cit., p. 125. 436 Cfr. L. Pesce, Ecco il dossier del 25 luglio, in «Epoca», 10 aprile 1966. La borsa fu consegnata all’ufficio matricola del carcere di Regina Coeli, e De Cesare la riebbe quando fu scarcerato dopo l’8 settembre. Quando De Cesare rivide Mussolini a Monaco, dopo la sua liberazione a opera dei tedeschi, il duce non si curò di chiedergli la cartella che aveva avuto in consegna il 25 luglio. Fra i documenti, oltre lo statuto del Gran Consiglio e l’ordine del giorno Grandi con le firme dei sostenitori e gli altri due ordini del giorno di Farinacci e di Scorza, vi erano, manoscritti da Mussolini, i nominativi dei militari che il duce intendeva nominare come

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capo di Stato maggiore generale e come ministri dei dicasteri della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Poco prima di morire nel 1965, De Cesare affidò i documenti a monsignor Cosimo Bonaldi, che li consegnò allo Stato, per essere poi conservati dall’Archivio Centrale dello Stato. 437 Il generale concludeva la relazione con un commento: «L’uomo, già potente e temuto, va incontro al suo fatale destino anche se ritardato da illusori eventi. Ma anche due dei tre bravi soldati sono predestinati al martirio, vittime purissime del dovere». Il tenente colonnello Giovanni Frignani, che aveva organizzato l’arresto di Mussolini, e il capitano Raffaele Aversa, che l’aveva eseguito, furono arrestati dai tedeschi durante l’occupazione di Roma e trucidati alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. La relazione è riprodotta in De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 15431546. 438 Cfr. De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 1119-1128. 439 Cfr. ivi, pp. 1390 sgg. 440 Grandi, 25 luglio, cit., p. 337. 441 G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 422. 442 Ivi, p. 429. 443 Grandi, 25 luglio, cit., pp. 307-308. 444 Ivi, p. 325. 445 Ivi, p. 336. 446 D. Grandi, Pagine di diario del 1943, in «Storia contemporanea», dicembre 1983, p. 1068. 447 G. Bottai, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 1988, pp. 438-439. 448 Ivi, pp. 441-443. 449 Ivi, pp. 449-450. 450 Cfr. il discorso di Mussolini al Direttorio nazionale del partito fascista il 24 giugno 1943: «bisogna ridicolizzare i fautori e diffusori di romanzi gialli e talora giallissimi, parto di fantasie malate, bisognose di energiche cure ricostituenti», Mussolini, Opera omnia, XXXI, p. 188. 451 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, pp. 343-344. 452 Cfr. R. De Felice, introduzione a Grandi, 25 luglio, cit., pp. 7 sgg. 453 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 344. 454 Ibid. 455 Ivi, p. 345. Anche Clara Petacci, il 20 luglio 1943, aveva scritto a Mussolini scongiurandolo di non convocare il Gran Consiglio: «Ben rifletti… rifletti prima di riunire il Gran Consiglio… io sento che questo è il famoso passo verso la fine… Ricordati che tutti sono contro di te […]

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Casa Reale ti tradisce credimi […] Tu non mi credi quando ti dico che Badoglio lavora […] Io sento questo lavorio di forze contrarie – io sento che si prepara il grosso colpo… io sento che l’inglese Grandi credendo di sostituirti in un domani – ti tradirà…!!! […] Tu sei tradito… sei tradito… e oggi il Gran Consiglio ti mancherà lo sento… […] Oggi ancora ti dico – difenditi – difenditi… […] o adesso o mai più o sei perduto – e con te tutto crolla – il caos la disperazione – la morte…!» (B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci, 1943-1945, a cura di L. Montevecchi, Mondadori, Milano 2011, pp. 124-126n). Anche la moglie Rachele lo aveva sconsigliato di riunire il Gran Consiglio e di diffidare dei traditori, e persino di suo genero (cfr. De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 1345 sgg.). 456 De Marsico, 25 luglio 1943, cit., p. 103. 457 De Stefani, Gran Consiglio, cit., pp. 61-62. 458 Ivi, pp. 55-56. 459 Bottai, Diario 1944-1948, cit., pp. 460-461. 460 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 279. 461 Ivi, p. 286. Il 10 luglio, gli Alleati erano sbarcati sulla costa siciliana e avevano iniziato l’invasione del territorio italiano: un anno prima, il 19 agosto 1942, un analogo tentativo di sbarco sulla costa francese era stato stroncato dai tedeschi. 462 Ivi, p. 289. 463 Ivi, p. 339. 464 Ivi, p. 415. 465 Cfr. S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 393 sgg.; A. Lepre, L’occhio del duce. Gli italiani e la censura di guerra 1940-1943, Mondadori, Milano 1992; A.M. Imbriani, Gli italiani e il duce. Il mito e l’immagine di Mussolini negli ultimi anni del fascismo (1938-1943), Liguori, Napoli 1992, pp. 169 sgg. 466 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati, Polizia Politica (1928-1944), b. 239, fasc. Roma. 467 Cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 259-261. 468 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, pp. 421-425. 469 G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 224 sgg. 470 F. Orlando, Mussolini volle il 25 luglio, Edizioni «S.P.E.S.», Milano 1946. 471 R. Michels, Corso di sociologia politica, Istituto Editoriale Scientifico,

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Milano 1927, p. 102. 472 Ivi, p. 103. 473 Cianetti, Memorie dal carcere, cit., p. 426. 474 Cit. in Bertoldi, Mussolini tale e quale, cit., p. 224. Secondo una intercettazione telefonica della conversazione con Clara Petacci alle 3,45, subito dopo la conclusione della seduta del Gran Consiglio, Mussolini le avrebbe detto: «Siamo giunti all’epilogo… alla più grande svolta della storia… […] La stella s’è oscurata! […] È finito tutto. Occorre che anche tu cerchi di metterti al riparo. […] Fai ciò che ti ho detto, altrimenti potrebbe essere peggio!» (U. Guspini, L’orecchio del regime. Le intercettazioni telefoniche al tempo del fascismo, Mursia, Milano 1973, p. 224). 475 Mussolini, Opera omnia, XXXIV, p. 277. 476 Ivi, p. 285. 477 Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci, 1943-1945, cit., p. 110.

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Ringraziamenti

Quando si conclude un libro di storia, molti sono i debiti di gratitudine che l’autore ha contratto durante la sua preparazione, verso le persone e le istituzioni che hanno agevolato la ricerca. Così hanno fatto, per questo libro, il dott. Gino Famiglietti, direttore della Direzione Generale Archivi; il dott. Mauro Tosti Croce, direttore della Sopraintendenza Archivistica e Bibliografica del Lazio; il dott. Antonio Casu, direttore della Biblioteca della Camera dei Deputati; il dott. Giuseppe Filippetta, direttore della Biblioteca del Senato; il dott. Andrea De Pasquale, direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma; la dott.ssa Patrizia Rusciani, direttrice della Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma; la dott.ssa Gabriella Miggiano, responsabile dell’Archivio dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani; la dott.ssa Stefania Ruggeri, responsabile dell’Archivio Storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri; il dott. Eugenio Semboloni, il dott. Luigi De Angelis, la dott.ssa Raffaella Barbacini. Un ringraziamento particolare a Cristina Mosillo e Franco Nudi per la preziosa collaborazione archivistica, e per oltre tre decenni di amicizia; e grazie a Antonio Blasi per la cordiale ospitalità. Forse le continue richieste di consulenza bibliografica hanno fatto pensare a Maria Fraddosio che era sopraggiunta un’improvvisa sospensione del suo pensionamento: ma 308

l’amicizia non va in pensione, neppure dopo sei lustri. E neppure dopo la fine del giorno: come sanno, nel nostro frammento di storia, Renzo De Felice, George L. Mosse, Niccolò Zapponi.

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INDICE Prologo. Rashōmon a Palazzo Venezia Capitolo primo. Fatti in cronaca Capitolo secondo. Il verbale che non c’è Perché non c’è il verbale Anche il duce prese appunti Mussolini fu il primo Spunta un verbale Il resoconto Federzoni

Capitolo terzo. Il regime del duce Ambiguità di una sfida Dal partito armato al regime totalitario Le esequie del regime parlamentare L’organo supremo del regime Stato monarchico a regime totalitario Duce del fascismo, capo del governo, maresciallo dell’impero Comandante supremo

Capitolo quarto. Ai tuoi ordini, duce Origine di una fede Fedele in umiltà Un «italiano nuovo» Più fede, più fiducia, più fascismo I nostri grandi Capi Viva la guerra totalitaria Il codice della razza italiana 310

7 28 45 45 48 51 54 59

69 70 72 75 77 80 84 88

96 96 98 102 104 109 111 113

Capitolo quinto. I tirannicidi del 25 luglio Grandi l’assente Appello al re Un «piano temerario» Popolazione inerte Il re tace L’amico fedele La demolizione della monarchia «Siamo ai tuoi ordini» Il regime è l’Italia Lode al fondatore dell’impero La ragione dello Stato totalitario Un grande momento storico «Tutti annaspiamo»

Capitolo sesto. Prova di Gran Consiglio Scorza e la mistica del duce Il rifiuto di Grandi Bottai il revisionista Ragioni di una crisi Tutti con Mussolini Il «passo» Preludio al Gran Consiglio

Capitolo settimo. Gioco grosso Versioni in contrasto Apocrifi d’autore Ordine del giorno Grandi: bozza prima Grandi entra in gioco Le versioni di Grandi 311

119 120 124 127 131 134 136 138 140 142 146 149 152 155

161 163 169 171 174 176 179 182

189 190 193 198 201 202

La versione di Bottai Grandi dal duce Quel che Scorza disse. O non disse Ordine del giorno Grandi: seconda stesura Ordine del giorno Grandi-Bottai: definitivo

205 207 210 213 217

Capitolo ottavo. L’incognita del Gran Consiglio

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Alla conta dei voti Per «liberare» Mussolini Massimo riguardo per il duce Il piano di Scorza Pensieri della vigilia A Palazzo Venezia, ore 17 Un duce irresponsabile Le fratture del regime totalitario Non contro il duce né contro il partito

Epilogo. Eutanasia del duce Ringraziamenti

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227 231 235 237 240 243 247 251 253

261 308