1940. Il fascismo sceglie la guerra 9791254691960, 1254691960

Il 1940 è la prova decisiva per la dittatura fascista. Guerra al fianco di Hitler o “non belligeranza”? Per un regime ch

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Indice
Sigle e abbreviazioni
Paul Corner, Introduzione
Tommaso Baris, Il PNF in guerra: tra “fascistizzazione” della societàe militarizzazione del paese (1940-43)
Paul Corner, L’opinione popolare italiana nel 1940
Simone Duranti, «Abolito il libro e imbracciato il moschetto». Il GUF nella Seconda guerra mondiale
Lucia Ceci, I cattolici tra “non belligeranza” e intervento italiano
Valeria Galimi, L’entrata in guerra dell’Italia e le persecuzioni contro gli ebrei
Nicola Labanca, I combattenti del 1940 e della guerra fascista. Appunti di letture per una ricerca da fare
Antonio Bechelloni, Gli antifascisti nel corso del 1940
Francesco Fusi, Matteo Pretelli, I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale
Indice dei nomi
Autrici e autori
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1940. Il fascismo sceglie la guerra
 9791254691960, 1254691960

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1940 Il fascismo sceglie la guerra

a cura di Paul Corner

viella

I libri di Viella 450

1940 Il fascismo sceglie la guerra a cura di Paul Corner

viella

Copyright © 2022 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: dicembre 2022 ISBN 979-12-5469-196-0 ISBN 979-12-5469-266-0 ebook-pdf Pubblicazione promossa dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea e realizzata grazie al contributo concesso per attività culturali dal-la Direzione Generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della cultura.

1940 : il fascismo sceglie la guerra / a cura di Paul Corner. - Roma : Viella, 2022. - 162 p. : ill. ; 21 cm. (I libri di Viella ; 450) Indice dei nomi: p. [153]-159 ISBN 979-12-5469-196-0 1. Italia - Politica militare - Storia - 1940-1945 I. Corner, Paul 355.033545 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler

viella

libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Sigle e abbreviazioni

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Paul Corner Introduzione 9 Tommaso Baris Il PNF in guerra: tra “fascistizzazione” della società e militarizzazione del paese (1940-43) 17 Paul Corner L’opinione popolare italiana nel 1940 33 Simone Duranti «Abolito il libro e imbracciato il moschetto». Il GUF nella Seconda guerra mondiale 47 Lucia Ceci I cattolici tra “non belligeranza” e intervento italiano

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Valeria Galimi L’entrata in guerra dell’Italia e le persecuzioni contro gli ebrei

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Nicola Labanca I combattenti del 1940 e della guerra fascista. Appunti di letture per una ricerca da fare 101

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1940. Il fascismo sceglie la guerra

Antonio Bechelloni Gli antifascisti nel corso del 1940 119 Francesco Fusi, Matteo Pretelli I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale 137 Indice dei nomi

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Autrici e autori

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Sigle e abbreviazioni

AC ACS ADN AGR CO CR DGPS GIL GUF MDRF MI MVSN ONMI ONB OND PNF RSI SCP SPD

Azione cattolica Archivio centrale dallo Stato Archivio diaristico nazionale Affari generali e riservati Carteggio ordinario Carteggio riservato Direzione generale pubblica sicurezza Gioventù italiana del littorio Gruppi universitari fascisti Mostra della rivoluzione fascista Ministro dell’Interno Milizia volontaria sicurezza nazionale Opera Nazionale Maternità e Infanzia Opera Nazionale Balilla Opera Nazionale Dopolavoro Partito nazionale fascista Repubblica sociale italiana Segreteria del capo della polizia Segreteria particolare del duce

Paul Corner Introduzione

Quasi inevitabilmente l’anno 1940 è dominato, nella memoria collettiva, dall’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. Il 10 giugno 1940 – il giorno in cui, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciava a una folla estatica l’intervento dell’Italia al fianco di Hitler – rimane una data indimenticabile. Proclamata con la parola d’ordine «Vincere!», l’entrata in guerra fu l’inizio della tragedia italiana. Che l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale sia stato un avvenimento di grande importanza è fuori dubbio; fu una decisione che avrebbe segnato tutta la storia successiva del Paese. Tuttavia, limitare la nostra analisi di quell’anno a un solo giorno – il 10 giugno – sarebbe, dal punto di vista storico, ovviamente riduttivo. Per questo motivo, nei saggi che seguono, abbiamo voluto allargare la prospettiva a tutto l’anno 1940 – a volte anche oltre – nel tentativo di capire meglio il contesto di quella decisione fatale e di comprendere gli avvenimenti politici e gli umori popolari dei mesi che precedettero e poi seguirono l’aggressione a una Francia già sconfitta. Il contesto dell’intervento – come è noto – è quello della “non-belligeranza”, dichiarata da Mussolini nel settembre 1939 dopo l’invasione della Polonia da parte dei Nazisti. Quella decisione di non combattere, presa con la rabbia e la frustrazione di un Mussolini che temeva l’umiliazione agli occhi di Hitler, testimoniava non solo il grave stato di impreparazione militare delle forze armate italiane ma anche la consapevolezza del fatto che gran parte della popolazione era contro l’ingresso in guerra. Nel 1939, il regime si trovava a un punto critico. Come è stato messo in luce dalla storiografia, gli ultimi anni Trenta avevano visto l’emergere di crescenti crepe nella struttura “totalitaria” del regime. Certo, il fascismo si dimostrava numericamente

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Paul Corner

sempre più forte – gli iscritti alle varie organizzazioni del regime si contavano in milioni – ma allo stesso tempo, le relazioni informative che giungevano al Viminale parlavano sempre più di problemi legati a una evidente “stanchezza” fra la popolazione dopo più di quindici anni di fascismo, e della tendenza, anche da parte degli iscritti, a disertare le iniziative del Partito. Una mobilitazione costante attraverso gli anni aveva avuto il suo costo. Mettere sotto la lente di ingrandimento l’anno 1940 significa indagare fino a che punto la guerra, e, nei mesi prima di giugno, la prospettiva di una guerra, abbia modificato la condizione di relativo stallo nell’evoluzione del regime. Ci si deve chiedere se la guerra abbia prodotto un rilancio del regime stesso, sfruttando la situazione di emergenza nazionale, oppure se l’esperienza della guerra non abbia funzionato come acceleratore di una situazione già compromessa. In breve, guardare il 1940 da vicino permette di misurare la “temperatura” del regime in un momento critico. Nei saggi che seguono – che traggono origine da un convegno dell’Istituto per la Storia della Resistenza in Toscana dell’ottobre 2021 – abbiamo cercato di diversificare l’analisi e di disaggregare gli argomenti, evitando così di parlare esclusivamente dei pochi protagonisti al centro della politica o delle manovre legate alla politica estera. La nostra attenzione si è rivolta prevalentemente verso altre questioni; il funzionamento delle organizzazioni del fascismo, che, con la guerra, devono confrontarsi con nuovi e più stressanti compiti; la posizione della Chiesa cattolica, costretta ad agire fra pressioni e interessi contrastanti; la confusione all’interno delle forze armate, drammaticamente impreparate a combattere una guerra mondiale; le difficoltà dell’antifascismo, in particolar modo dopo la caduta della Francia, e le reazioni delle comunità italiane all’estero di fronte alle ostilità. Altri saggi si concentrano più sulla situazione nel paese, cercando di seguire le oscillazioni negli umori dell’opinione popolare nelle diverse fasi del 1940: dai primi mesi dell’anno al giugno, quando viene annunciato l’attacco alla Francia, e poi i mesi successivi, quando si combatte (disastrosamente) su vari fronti. Anche se il centro dell’interesse verte sulle questioni specifiche che abbiamo ora descritto – questioni che riguardano soprattutto la politica interna e il funzionamento del regime, e tralasciano l’aspetto della politica estera e diplomatica – è d’obbligo premettere qualche parola sulla decisione di intervenire nella guerra – decisione a volte descritta come “l’unico errore del duce”. L’intervento avrebbe potuto essere evitato? Le ipotesi metastoriche spesso lasciano il tempo che trovano, ma in questo caso la domanda ha un valore, perché la risposta non può prescin-

Introduzione

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dere da un giudizio sulle posizioni adottate dal regime negli ultimi anni di pace. Anche se in questo volume la questione dell’intervento non viene affrontata direttamente, un giudizio di questo tipo è implicito in molti dei saggi. Come è evidente, la decisione di intervenire riguarda non solo la frenetica diplomazia dei giorni che precedettero il 10 giugno, ma anche – e ancora di più – l’intero orientamento del regime fascista attraverso gli anni. Vanno valutati pertanto non solo le ambizioni di Mussolini nell’immediato – il desiderio di protagonismo sulla scena internazionale – ma anche e soprattutto la spinta verso la guerra rappresentata da anni di retorica bellicista ed espansionista. La militarizzazione della società civile aveva avuto come obiettivo la trasformazione della popolazione, rendendola pronta per quel conflitto che, secondo un ragionamento pseudo-darwiniano, avrebbe dimostrato al mondo la superiorità degli italiani come popolo e del fascismo come sistema politico. La “non-belligeranza” non significava in nessuna maniera la rinuncia a questo obiettivo. Se è certamente vero, come sostiene Renzo De Felice, che nei primi mesi del 1940 Mussolini cercava in tutti i modi di non dover adempiere ai suoi obblighi verso Hitler per mancanza di mezzi, è anche vero che il leader fascista mordeva il freno ad ogni notizia di successo tedesco. Al tempo, negli ambienti del governo, si parlava di un’Italia che rischiava di essere retrocessa alla “seconda divisione” fra le potenze, un’umiliazione per un regime che aveva sempre mirato all’affermazione del Paese come grande potenza europea – quest’ultimo, a sua volta, un obiettivo che rendeva molto difficile stare alla finestra mentre un’altra potenza stava imponendo la sua egemonia in Europa. Il dilemma di quei mesi è evidente; la risoluzione di Mussolini del 10 giugno doveva molto, certamente, a fattori di semplice opportunismo, ma doveva altrettanto a lunghi anni segnati da una politica di potenza che esaltava le virtù del conflitto. È al contesto specifico della decisione fatale – inteso però in senso ampio – che i saggi qui presentati si riferiscono, prendendo in esame non solo cause e conseguenze, ma anche speranze e paure. In primo luogo, essi affrontano una questione che è centrale per la nostra comprensione dell’efficienza del fascismo, ovvero la capacità delle strutture del regime di gestire i problemi creati dalla condizione di guerra. Si tratta in parte dell’efficienza delle molteplici organizzazioni fasciste – Partito, sindacato, gruppi giovanili e studenteschi, e così via – ma in parte la questione concerne lo spirito pubblico, l’opinione popolare, che – come per qualsiasi regime autoritario in cui la libera espressione è repressa – rimane un fattore di difficile analisi.

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Per molti versi la guerra rappresentava la prova del nove per un regime che aveva sempre predicato gerarchia, disciplina e, se necessario – come ogni scolaro doveva ripetere all’inizio della giornata di scuola – l’ultimo sacrificio. Almeno in teoria, la guerra avrebbe dovuto essere la grande occasione per il fascismo, permettendo di mettere in pratica dell’ideologia del «Credere, obbedire, combattere». In alcuni dei saggi qui presentati, pertanto, è proprio questa la questione di fondo: quanto il regime fosse riuscito a diffondere quei valori nella popolazione, quanto la guerra servisse a stimolare una reazione propriamente “fascista” fra la gente. Non c’è, ovviamente, una risposta univoca a quest’ultima domanda. In effetti, i contributi raccolti in questo volume affrontano il rapporto fra istituzioni fasciste, guerra e popolazione da angolature differenti e forniscono risultati a volte molto simili, a volte diversi. Letti insieme, però, formano un intreccio che illustra molto bene la complessità della situazione per gran parte del 1940. Da un PNF incerto su quale strada seguire dopo gli anni di Starace, a una popolazione sofferente e senza informazione affidabile, dalla Chiesa che oscilla fra la condanna e l’accettazione della guerra, ai “gufini” che non vedono l’ora di poter combattere, l’impressione predominante è quella di una grande confusione. Una confusione cui contribuiscono, ovviamente, le diverse fasi succedutesi nel corso del 1940 – l’attesa dell’intervento, i giorni dell’intervento stesso e dell’armistizio con la Francia, l’autunno della disastrosa invasione della Grecia. I momenti di stimolo e di eccitazione e i momenti di depressione e di disperazione si susseguivano con una frequenza troppo ravvicinata. Ciò che è certo è che, a livello popolare, la guerra non venne accolta con lo stesso entusiasmo che avevano espresso gli interventisti nelle “radiose giornate” del maggio 1915. Uno dei problemi che il governo si trovava a dover affrontare era pertanto quello del morale della popolazione, questione che non poteva spettare che a quella rete capillare di organizzazioni che costituivano il Partito. Ma sul funzionamento del Partito a livello locale non erano mancate forti critiche già alla fine degli anni Trenta anche dall’interno del Partito stesso – critiche che riguardavano le inefficienze della burocrazia, ma anche gli alti livelli di corruzione: la guerra avrebbe potuto rappresentare l’occasione di una nuova mobilitazione, sotto lo stimolo dell’emergenza. Il saggio di Tommaso Baris, che prende in esame le iniziative del Partito seguendo l’andamento della situazione fino al 1943 e illustra i modi in cui si dette da fare per consolidare il fronte interno, giunge alla non sconta-

Introduzione

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ta conclusione che il Partito realizzò una mobilitazione tutt’altro che indifferente. Sempre a detta dei prefetti, dei federali, e degli ispettori di Partito, il sistema di controllo imposto dalla guerra – il razionamento, i calmieri, il regolamento dei prezzi, tutto monitorato da ispezioni – aveva funzionato bene come meccanismo burocratico, suscitando fra la popolazione un appoggio consistente per lo sforzo di guerra. Le relazioni davano una descrizione di grande e riuscita attività, almeno fino al 1942 – forse non sorprendente, dato il genere di fonti – che trova tuttavia riscontro anche per quanto riguarda i rioni di Roma nel volume di Alessandra Staderini e, per altri versi, nel saggio qui presentato di Simone Duranti, che documenta come l’arrivo di una vera guerra combattuta venne accolto con entusiasmo dai giovani studenti dei Gruppi Universitari Fascisti che, avendo mancato il brivido del primo squadrismo per motivi anagrafici, sognavano di abbandonare la teoria dei loro studi per l’azione al fronte, di scambiare il libro con il moschetto. Duranti delinea con efficacia come il volontarismo rivoluzionario degli studenti si scontrò con la dura realtà della burocrazia militare e con la diffidenza dei soldati professionisti verso giovani imbevuti di mistica fascista. Il saggio mostra in maniera eloquente come quella che era effettivamente una interiorizzazione dell’ideologia fascista non fornisse una guida affidabile alla realtà della guerra. Queste osservazioni sollevano degli interrogativi. Se l’entusiasmo dei “gufini” può essere comprensibile, non possiamo infatti non restare dubbiosi riguardo al fatto che l’attività del PNF abbia reso la guerra più accettabile a gran parte della popolazione. Altre fonti – utilizzate nel mio saggio sull’opinione popolare – fanno pensare che, almeno per l’anno 1940, l’entusiasmo per la guerra fosse molto limitato, in parte perché esisteva un grande scetticismo nei confronti di Hitler e della Germania nazista, in parte perché tutti temevano l’inevitabile interruzione della vita quotidiana e le deprivazioni insite nella condizione di guerra. Anche se in molti, fra gli appartenenti ai ceti medi, sentivano il richiamo del patriottismo, non esiste evidenza di un nuovo slancio popolare e fascista generato dalla guerra. Gli informatori del regime raccontavano di una rassegnazione condizionale; frasi come «purché sia guerra breve» e «che sia la guerra per fare la pace» erano le più comuni nelle relazioni, e non erano pochi quelli che si auguravano che la guerra portasse alla fine del fascismo. Sono reazioni che fanno dubitare di una interiorizzazione dell’ideologia fascista fra gli appartenenti a quelle classi sociali che avevano visto un peggioramento delle loro condizioni materiali nella seconda metà degli anni Trenta e capivano fin trop-

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po bene che sarebbero stati loro a sopportare il peso del conflitto. Ai dubbi di questi ceti si univano le esitazioni di altri gruppi, come gli intellettuali, che prima erano stati più propensi a guardare al regime con favore. A questo punto, inevitabilmente, si tocca la questione – molto discussa dopo l’uscita del Mussolini di Renzo De Felice – del «consenso di massa».1 Nei termini della “temperatura” cui abbiamo fatto cenno all’inizio di questa introduzione, i saggi citati fanno pensare che la guerra non giovasse alla salute del regime, nel senso che non fece altro che accentuare quella tendenza, già in atto dal 1936, a uno scollamento sempre maggiore fra i meccanismi del regime intesi a coinvolgere la popolazione e la disponibilità di quest’ultima a farsi coinvolgere. Nonostante le pressioni della “fase totalitaria” del fascismo, o forse proprio a causa di queste, l’atteggiamento popolare veniva spesso riassunto nella parola “stanchezza” – una stanchezza riconosciuta ampiamente dallo stesso De Felice. Va ricordato, comunque, che la formazione dell’opinione popolare non dipendeva esclusivamente dalle attività delle organizzazioni del Partito e dalla macchina propagandistica del regime; un altro grande attore – la Chiesa Cattolica – giocava un ruolo fondamentale: quanto fosse importante e in quale direzione si muovesse la sua opera d’influenza è discusso nel contributo di Lucia Ceci, che, pur illustrando tutte le ambiguità, le ambivalenze, e le divisioni interne di una Chiesa che doveva venire incontro a esigenze diverse e spesso contrastanti, sottolinea come essa riuscì a promuovere iniziative che assunsero i contorni di fenomeni di massa. Talora in grado di mobilitare la popolazione con più successo del Partito, la Chiesa si dimostrò spesso incerta se inneggiare a quel patriottismo derivante dalla forte corrente clerico-fascista al suo interno (padre Gemelli non era solo) oppure pregare per la pace. Una via di uscita dal dilemma viene fornita, come scrive Ceci, dall’evocazione della Provvidenza divina come causa, ma anche come giustificazione del conflitto. Al lettore non sfuggirà il fatto che proprio a quella stessa Provvidenza (si presume) il Papa aveva associato Mussolini dopo i Patti Lateranensi del 1929. Se il 1940 si presenta come momento di decisione, quasi un momento della verità, per la Chiesa cattolica, lo è ancora di più, come è ovvio, per le forze armate, che assumono una posizione centrale negli avvenimenti. A sorpresa e nonostante questa centralità, nell’introduzione al suo sag1. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Vol. 1: Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1974.

Introduzione

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gio storiografico su I combattenti del 1940 e della guerra fascista Nicola Labanca parte dalla constatazione che, dalla letteratura esistente, troppo dipendente dalla memorialistica, «non è facile sapere cosa i combattenti italiani della Seconda guerra mondiale abbiano fatto, detto o pensato». Facendo confronti con la storiografia di altri paesi coinvolti nel conflitto, Labanca dimostra come un’indagine di quel tipo possa dare molte risposte alla questione del “military effectiveness” delle forze militari e aiutare a spiegare i magri risultati conseguiti dalle forze armate italiane – risultati non dovuti esclusivamente alla mancanza di mezzi e di preparazione. Al riguardo, l’autore si lamenta della tendenza presente nella storiografia a presumere una netta divisione, in termini di opinione, fra militari (su cui si sa poco) e società civile (su cui ormai si sa parecchio), osservando che, nelle circostanze del 1940, lo scollamento fra i due doveva essere meno accentuato di quanto spesso si sia pensato. In sostegno di questa affermazione, non possono non venire in mente le parole della giovane recluta che promise: «la prima pallottola la sparo a Mussolini».2 A trovarsi in una posizione di grave difficoltà nel 1940, all’interno della popolazione italiana, era innanzitutto la comunità ebraica che, colpita dalle leggi razziali del 1938, si trovava sempre nella necessità di aggiustare atteggiamenti e comportamenti di fronte a una situazione in costante evoluzione. Come dimostra il saggio di Valeria Galimi, per gli ebrei la guerra rappresentava un grosso problema di identità, che rendeva necessaria una ulteriore definizione della “italianità” della comunità – una definizione particolarmente difficile data l’alleanza fra l’Italia e la Germania e la conoscenza, anche se ancora limitata, della sorte riservata agli ebrei nel Reich. Le posizioni incerte e oscillanti della comunità erano riprodotte nella popolazione in generale, divisa nei confronti degli ebrei fra ciò che veniva definita un simpatizzante “pietismo” e sospetti di trattamento privilegiato, in quanto gli ebrei – considerati dalle autorità fasciste una potenziale quinta colonna – erano esclusi dalle operazioni militari. Portando il discorso oltre il 1940, Valeria Galimi illustra come la guerra portò a una radicalizzazione delle posizioni assunte contro gli ebrei – radicalizzazione che avrebbe avuto delle conseguenze drammatiche durante la Repubblica sociale. Tuttavia, la drammaticità degli eventi del 1940 non riguardava solo gli italiani residenti in Italia. Emigrati ed esuli, fra questi ultimi gli anti2. ACS, MI, DGPS, PS, b. 24, Pistoia, 5 giugno 1939.

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fascisti, dovevano rispondere alla nuova situazione creata dalla guerra. Il saggio di Pretelli e Fusi e quello di Bechelloni affrontano il tema – i primi privilegiando la reazione degli italo-americani, il secondo indagando gli atteggiamenti degli antifascisti che si trovavano in Francia. Come per gli ebrei nella Germania durante la Prima guerra mondiale, per gli americani di origine italiana, ormai spesso di seconda generazione, la guerra offriva l’occasione di dimostrare la loro appartenenza al paese di adozione. Combattere contro altri italiani rappresentava un problema, come è ovvio, ma era un problema risolto in gran parte dei casi dalle autorità militari Usa, che assegnavano i giovani soldati ad altri fronti. La linearità della risposta degli italoamericani (sembra che siano stati pochissimi a pensare di ritornare in Europa per aiutare Mussolini) contrasta con quella degli antifascisti, divisi fra di loro e in costante allarme per la presenza di spie e infiltrati. Bechelloni naviga con abilità fra le correnti di questo mondo confuso, partendo dallo shock inflitto alla sinistra esiliata, in modo particolare a quella comunista, dall’accordo Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, che imponeva una totale revisione di posizione, e arrivando alla caduta della Francia nel giugno del 1940, che, ancora una volta, costringeva gli antifascisti a rivedere le loro alleanze. È una narrazione che comprende delle figure molto note, come Togliatti, Nenni, Amendola, Saragat, Valiani, Treves ed altri, e che fa capire quanto la situazione del 1940 fosse di difficile interpretazione per chi voleva combattere non solo il fascismo ma anche il capitalismo e l’imperialismo. Dall’altro lato, nel contesto della lotta all’antifascismo, è da notare, come fa Bechelloni, la stretta collaborazione fra le autorità italiane e la Gestapo. Come è evidente dalla lettura dei saggi di questo volume, al di là della complessità delle manovre diplomatiche – le ambizioni e le incomprensioni – il 1940 è anche un anno di emozioni complesse, caratterizzato, sul fronte interno, prima da un periodo di grande incertezza (guerra o non guerra?) e poi da mesi di sospensione di giudizio (dove si va a finire? quando arriva la pace?). Dai contributi qui raccolti emerge che il 1940 è senz’altro l’anno dell’inizio della tragedia italiana; per altri versi, però, guardando oltre il momento specifico dell’intervento, si ha l’impressione che la macchina da guerra fosse stata messa in moto già anni prima, che molti non sapessero e altri non volessero fermarla – quella macchina da guerra mussoliniana che alla fine sarebbe costata all’Italia più di mezzo milione di morti (fatto troppo spesso dimenticato).

Tommaso Baris Il PNF in guerra: tra “fascistizzazione” della società e militarizzazione del paese (1940-43)

La storiografia, a partire da Renzo De Felice, ha espresso un duro giudizio sul PNF, considerato, sin dai primi mesi della guerra mondiale, «una delle cause – e non la meno importante – dello scollamento del regime […], del suo progressivo discredito e dell’allontanamento da esso di vasti settori del paese».1 La causa di tale giudizio derivava dalla sua trasformazione in organo “burocratico”, privo di spinta e forza politica, e in effetti, dopo la riforma nel 1926, il PNF aveva accentuato la propria «dimensione burocraticoamministrativa, indispensabile per provvedere quotidianamente ad un corpo di iscritti e di funzionari oramai di proporzioni imponenti».2 Spingeva in tal senso la convinzione che regole e precetti riassumibili nello «stile fascista», una volta diventati «norma totalizzante», fossero capaci di dare «forma a ogni comportamento individuale e comunitario», nel senso di essere in grado di riplasmare abitudini e comportamenti privati. Da qui la battaglia per lo “stile” fascista (saluto romano, camicia nera, salto nel cerchio di fuoco, uso del voi, eccetera) come «strategia di vita», che alla fine sarebbe stata, giocoforza, condivisa da tutti.3 1. Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra 1940-43, tomo 2, Crisi e agonia del regime, Torino, Einaudi, 1990, p. 972. 2. Renzo Martinelli, Il Partito nazionale fascista in Toscana 1939-1943, in «Italia contemporanea», 158 (1985), p. 34. 3. Per una riflessione sullo “stile fascista” come invadente “regola” della vita privata, destinata a trasformarsi in formalismo: Niccolò Zapponi, Stili di vita fascisti: l’arte di sopravvivere, in L’economia domestica (secc. XIX-XX), a cura di Giovanni Aliberti, PisaRoma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1995, p. 171.

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Tommaso Baris

Questo approccio ci aiuta a comprendere il “formalismo” del partito staraciano, con la sua mania per il tesseramento e l’inquadramento degli italiani. Del resto la partecipazione politica nel regime fascista non poteva che concretizzarsi come celebrazione ed organizzazione del rituale; facendo nuovi proseliti e continuando ad organizzarli, si puntava tutto sulla «crescita ipertrofica del partito e delle organizzazioni da esso dipendenti, creandone addirittura di nuove, quasi che la forza del partito e, dunque, del regime dipendesse non dalla qualità e dall’attivismo dei suoi membri, ma dal numero di essi e dalle “categorie inquadrate e controllate”».4 Tale processo si accompagnò però al progressivo allargamento del ruolo del PNF, di cui si prevedeva per legge dal 1941 la consultazione per le «nomine di interesse pubblico o di portata politica, ivi comprese le nomine di podestà, dei componenti delle consulte municipali, dei presidi e dei rettori provinciali, che erano state motivo continuo di conflitti fra prefetti e federali».5 Quale era dunque la situazione del PNF al momento dell’ingresso in guerra e come svolgeva il compito previsto dentro il regime? Il tema della rivitalizzazione politica fu una delle cause della sostituzione di Starace con Ettore Muti, nell’ottobre del 1939. Il cambio di segreteria tuttavia, pur innescando numerose sostituzioni a livello locale, non portò al cambiamento sperato: «Incapace di tenere in pugno il partito come di tentare di rinnovarlo e di imprimergli nuovo slancio, affatto portato al lavoro organizzativo, privo di una propria linea politica» il nuovo segretario fece presto «rimpiangere Starace a molti fascisti che non ne erano stati estimatori, ma che si rendevano conto dell’importanza che avrebbe avuto per il regime disporre in quel momento di un partito unito ed efficiente».6 Muti fu quindi accantonato e sostituito, dal luglio del ’40, dal dirigente sindacale Pietro Capoferri che, da vicesegretario, tentò di imprimere al PNF un indirizzo più radicalmente orientato in senso sindacale, ritenendo che fosse compito e dovere fondamentale del partito operare per la realizzazione dei 4. De Felice, Mussolini l’alleato, pp. 972-973. 5. Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 188. 6. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario (1936-1940), Torino, Einaudi, 1996, p. 705.

Il PNF in guerra

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principi sociali fascisti, esercitando un controllo sul mondo della produzione, senza intaccare il principio dell’iniziativa privata, ma esigendo l’attuazione e il rispetto dei principi sanciti dalla Carta del Lavoro.

Si accentuò dunque la retorica sociale e populista del PNF in concomitanza con i primi mesi di guerra a cui si accompagnò la “destaracizzazione” del partito, smantellando potentati locali e cercando, attraverso lo “snellimento” di iscritti, quadri intermedi e gerarchi, di «rendere più dinamico ed efficiente il ruolo del partito».7 L’impostazione burocratico-amministrativa continuò tuttavia a permeare la struttura del PNF, che alla fine del 1940 appariva in una situazione di chiara difficoltà. A quel punto Mussolini chiamò alla segreteria Adelchi Serena, già vice di Starace negli anni Trenta. Se le difficoltà del partito sono innegabili, l’analisi di alcune situazioni locali del PNF, tra la fine del 1940 e i primi dell’anno successivo, ci mostra però una realtà articolata. Una serie di ispezioni del PNF in federazioni provinciali indicano una certa tenuta dell’apparato organizzativo. A Torino, nella relazione dell’ottobre 1940 del vicesegretario nazionale Pascolato l’organizzazione dei gruppi rionali viene addirittura definita «ottima». Numerosi gerarchi, fascisti e cittadini partecipavano agli incontri tenuti dai gruppi stessi. Il partito aveva poi saputo organizzare squadre per la protezione antiaerea in caso di bombardamento, che secondo quanto riferito dal gerarca, stavano dando buona prova di sé, sia soccorrendo i bombardati che assicurando poi loro assistenza e aiuto economico. Anche per questo la popolazione locale appariva «serena e cosciente», mentre il segretario federale veniva definito un individuo capace, di buona volontà e vicino al popolo.8 Scendendo verso il centro della penisola, nel gennaio del 1941 era l’ispettore Pietro Gazzotti a riferire sulla situazione delle province di Siena e Arezzo. Anche lì le federazioni fasciste sembravano in grado di reggere la situazione. «Ho trovato una federazione solidamente costituita e delle organizzazioni funzionanti secondo le norme impartite dal nostro direttorio», scriveva Gazzotti a Serena, esaltando poi la situazione di Arezzo: ho riportato dalla mia ispezione ad Arezzo la migliore impressione. Il camerata Romualdi che da ben 10 anni dirige con appassionata fatica quella Federazione 7. Emilio Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime italiano, Roma, Carocci, 2008, pp. 231-232. 8. ACS, PNF, Situazione politica ed economica della provincia, b. 25, fasc. Torino, Promemoria per il segretario nazionale del PNF Serena del 27-10-1940.

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Tommaso Baris

è molto amato e stimato dai fascisti e dalla popolazione, e ha attorno a sé, più vibrante che mai, l’elemento squadrista. La collaborazione tra il prefetto e il segretario è ottima e la situazione morale della popolazione è buona.9

Anche della situazione di Siracusa Camillo Pellizzi, importante e noto intellettuale fascista, all’epoca anche ispettore del PNF, faceva un ritratto positivo: «gli uffici della Federazione, in generale, mi sembrano bene organizzati», scriveva al segretario nazionale. «Il Dopolavoro compie opera assai intensa e meritevole, specie presso le Forze Armate», mentre «molto attivi e molto frequentati mi sono parsi il GUF di Siracusa e il NUF di Augusta». Le attività sindacali erano «seguite con molta cura dal Federale e dai suoi collaboratori». Anche sul versante del fronte interno il partito sembrava tenere. Grazie all’azione dei fascisti, in occasione degli allarmi aerei, «grandi masse della popolazione» si erano riunite nei tre principali ricoveri «con perfetta disciplina e in relativa comodità». Pure rispetto all’assistenza bellica il PNF riusciva, in qualche modo, ad andare incontro alle nuove esigenze della popolazione. «La Federazione coadiuva attivamente il Prefetto nell’assistenza ai disoccupati rurali e alle famiglie dei richiamati», scriveva Pellizzi. Dinanzi poi alla riduzione a 70 grammi giornalieri della razione di pasta, e alla mancanza di olio, legno e carbone, il federale Amerigo Pispoli, considerato attivo e popolare, si dimostrava «molto sensibile a questi problemi, sui quali mi assicura di aver più volte riferito al Direttorio del Partito e ad altre autorità centrali», prendendo, spiegava Pellizzi, anche «alcune lodevoli iniziative», come la realizzazione di una colonia permanente per i bimbi della provincia inquadrati nella Gil.10 Certo – ci teneva a precisare – «la massa della popolazione non si può dire perfettamente informata o convinta delle idee della Rivoluzione», né tanto meno aveva afferrato «lo spirito del sindacalismo e del corporativismo»; ciò nonostante «i maggiori centri della provincia» apparivano «bene ordinati e desiderosi di seguire le direttive fasciste» e la stessa guerra era «sentita come un’impresa di interesse immediato per la Sicilia».11 Il quadro delineato è certo parziale e nel riflettere su di esso credo anche si debba tenere conto della natura “interna” della documentazione analizzata. Senza dimenticare poi che, come denunciava un esposto inviato 9. Ivi, b. 21, fasc. Siena. Relazione per il segretario nazionale del PNF Serena del 14-1-1941. 10. Ivi, b. 21, fasc. Siracusa. Relazione per il segretario nazionale del PNF Serena di Camillo Pellizzi sull’ispezione alla federazione provinciale di Siracusa del 12/13-1-1941. 11. Ibidem.

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a Muti nel suo ultimo periodo da segretario, le ispezioni nel PNF non sempre erano inattese e quindi finivano per essere poco efficaci nel registrare la situazione locale: è anche pur vero e risaputo che le “ispezioni” che si dicono improvvisate sono già a conoscenza prima ancora che si effettuino ai rispettivi Federali, quindi con ciò, riterrei più logico che effettivamente esse siano effettuate di sorpresa, e credo che così facendo, esse si renderebbero più “fruttuose” nell’interesse e nella serietà e prestigio del Regime! Inoltre, lo riterrei più logico ed ancora, più utile e fruttuoso, se queste ispezioni fossero fatte da persone sconosciute e non da noti e riconoscibili Gerarchi, ai quali, è inutile nasconderlo, si presta libri contabili, documentazione scritta (che nessuno può effettivamente né controllare né valutare la portata della veridicità di essa) sia dell’assistenza morale, materiale e sostanziale che viene fatta alla povera gente.12

Ferme restando tali considerazioni, le indicazioni che provengono da queste relazioni mostrano la persistenza di una certa vitalità del PNF. Proprio la resistenza dell’apparato burocratico-amministrativo aiuta forse a comprendere le successive scelte di Mussolini intorno al partito negli anni di guerra. Il duce del fascismo infatti «si era convinto, fin dallo scoppio della guerra, che una riorganizzazione del partito fosse ormai indilazionabile. Era arrivato il momento di irrobustirlo, in modo da irrobustire così anche il regime, rendendolo più coeso e meglio attrezzato per affrontare il conflitto».13 In quel frangente il PNF «ad ogni livello, avrebbe dovuto rappresentare un esempio di moralità e compattezza».14 Quali compiti Mussolini intendeva però concretamente riservare al partito allo scoppio del conflitto? Indispettito per le numerose segnalazioni circa le oscillazioni degli italiani sulla guerra e sulla loro sostanziale perplessità rispetto al conflitto, il duce pensava al PNF nei termini di un mezzo per «spingere al massimo l’organizzazione del popolo, risvegliarne lo spirito guerriero e “ripulire gli angolini”, combattere tutte le “filie” pacifiste e quelle favorevoli agli anglo-francesi, che lo spingevano ad una “vita vegetativa”, “borghese”, sorda al “dovere” e agli “slanci eroici”».15 12. Ivi, b. 19, fasc. Roma. Esposto anonimo indirizzato al segretario nazionale del PNF Muti del 30-8-1940. 13. Loreto Di Nucci, Lo Stato-partito del fascismo. Genesi, evoluzione e crisi 19191943, Bologna, il Mulino, p. 563. 14. Ibidem. 15. De Felice, Mussolini il duce, p. 691.

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Il PNF doveva essere la cerniera tra società civile e Stato, l’anello di collegamento con il paese da mobilitare, lasciando la conduzione politica del conflitto al solo Mussolini. La scelta di portare nel dicembre del 1940 alla segreteria del PNF Serena si collocava dentro questo orizzonte e il recupero di un gerarca di “habitus” staraciano ci conferma che il partito era ritenuto capace di rispondere a compiti che si pensavano, ancora, organizzativi. Il PNF accentuò questa sua dimensione, organizzando presso il proprio direttorio nazionale un Centro nazionale di mobilitazione civile e disponendo che strutture analoghe venissero istituite presso tutte le federazioni e presso i Fasci di alcune migliaia di comuni. «Nel primo anno e mezzo di guerra, in effetti, il partito organizzò esperimenti di mobilitazione e corsi di addestramento che furono 734 per il settore industriale e 391 per quello agricolo, con 32.000 e 13.440 allievi rispettivamente», precisando però che «ai fini pratici, tuttavia, tali iniziative si rivelarono sostanzialmente inutili» al pari, «al di là dei numeri trionfalistici», della «lotta agli sprechi» e della «raccolta dei rottami», «che il partito aveva voluto che fossero affidate al controllo diretto dei federali».16 Tali iniziative erano da valutare non solo nei loro risultati ma nel quadro della cornice pensata per il partito. Assumendo questa angolazione le scelte di Serena, e in particolare quella di affidare al partito il controllo dei prezzi e della disciplina annonaria, acquistano un senso più chiaro. Proseguiva quella strategia di acquisizione di funzioni e prerogative voluta da Starace, e rispondente all’idea, in primis di Mussolini, di fare del PNF lo strumento della mobilitazione psicologica e materiale a sostegno della guerra. Qualche segnale positivo in questa direzione giunse anche nel corso del 1941. Nel Friuli Venezia Giulia, al momento dell’invasione della Jugoslavia, «tutte le gerarchie e tutti i gregari – fisicamente idonei – delle organizzazioni fasciste maschili e femminili, ivi compresi i giovani», si erano «civilmente mobilitati», prestando, secondo Scorza, allora ispettore del PNF «servizio con entusiasmo e assoluto spirito di dedizione». Le federazioni fasciste di Fiume e Trieste erano riuscite in quella occasione a gestire con efficacia la questione dello sgombero dei profughi dalle zone di guerra, nonché della loro assistenza.17 Anche per la Sicilia, la relazione dell’ispettore fascista Asvero Gravelli delinea un quadro fortemente positivo. 16. Di Nucci, Lo Stato-partito, p. 573. 17. SPD, CR, b. 49, fasc. 242/R, sfasc. Carlo Scorza, Appunto per il duce del 10-4-1941.

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Il popolo siciliano è fervido e fermo nella sua fede fascista e nella sua devozione al Duce del quale si parla con fiducia e con religioso amore. Non si discute del Capo: l’opera del Partito che ovunque agisce con prontezza e fermezza nella lotta contro l’accaparramento dei generi alimentari è benedetta ed elogiata da tutti. In questo settore gli squadristi operano ottimamente, tanto che sovente (vedi Ragusa e Palermo) hanno frustrato accaparramenti da parte anche di funzionari pubblici

spiegava il gerarca nella sua relazione. Anche il disfattismo che aveva «vita in altre località del continente, nel popolo è pressoché ignoto. Esso alligna in qualche limitato settore di borghesia o di pseudo culturale. Gente del vecchio mondo antifascista. Nei giovani e tra gli squadristi c’è la smania (è la vera parola) di essere richiamati o di combattere», proseguiva Gravelli. A impressionare l’ispettore era soprattutto l’identificazione che sembrava esserci tra la popolazione e le sorti del regime. Scriveva infatti: A Siracusa ed a Ragusa ho ricevuto il pubblico: molta miseria ma dignità e fiducia nell’azione dei dirigenti il Partito. Molte famiglie chiedevano di parlare con il Federale per avere notizie di famigliari combattenti in Africa: altre erano profughe dalla Cirenaica, ho avuto occasione di constatare lo spirito elevato di tutti e particolarmente di queste ultime, due delle quali hanno dichiarato che non importava loro di perdere quanto avevano laggiù, purché la vittoria arrida al duce. Le masse fasciste sono certe della vittoria.18

La stessa propaganda del PNF sembrava non priva di efficacia, nonostante le preoccupazioni per i primi rovesci militari. Riferendo di un comizio del consigliere nazionale Attilio Di Cicco, tenuto nell’ottobre del 1940 a Roma, l’anonimo fiduciario della polizia ne segnalava la positiva ricezione da parte dei 10.000 intervenuti. Benché fosse stato ricordato che la guerra aveva imposto «sacrifici di sangue, limitazioni alla vita civile» e che «altre privazioni maggiori» potevano arrivare da un conflitto destinato a durare «oltre le ottimistiche previsioni di parte dell’opinione pubbliche», dalle approvazioni rivolte dal pubblico alle frasi più salienti e significative dell’oratore, dall’entusiasmo manifestatosi soprattutto nei gruppi dei giovani fascisti e di gruppi di operai convenuti in Piazza Colonna, si desume – spiegava il confidente – che lo spirito pubblico è preparato ad altri sacrifici e a 18. ACS, PNF. Situazione politica ed economica delle province, b. 12, fasc. Palermo, sfasc. Situazione politica. Rapporto sulle ispezioni in Sicilia di Asvero Gravelli del 30-1-1941.

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dare ulteriormente il suo contributo fattivo in qualsiasi settore della vita nazionale per la creazione del nuovo ordine sociale che il Duce ha proclamato.19

A un anno dall’ingresso in guerra era il discorso di Mussolini alla Camera dei fasci e delle corporazioni a rinsaldare l’opinione pubblica. A Bologna il suo discorso suscitava «il più vivo entusiasmo ed è stato calorosamente applaudito nei punti salienti, fra vibranti acclamazioni al Condottiero ed alle gloriose Forze Armate» – scriveva la locale Questura, così come a Firenze e a Bari.20 A Roma la folla si riversava «nei pressi della Camera, specie in Piazza Colonna, come pure in molte altre piazze e località centrali e periferiche della città, particolarmente in Piazza Venezia gremita sino all’inverosimile di popolazione». La chiara sintesi che il Duce ha fatto della azione politico-militare nel settore ellenico e particolarmente la enunciazione delle dure fasi della lotta fino alla superba vittoria ha suscitato ovunque profonda impressione; e l’entusiasmo, con cui la parola del Capo è stata accolta nell’interno dell’Aula di Montecitorio, ha avuto vivissima risonanza nel pubblico in ascolto nelle vie e nelle piazze dell’Urbe

spiegava il Questore capitolino, che poi aggiungeva: Una evidente dimostrazione della profonda entusiastica impressione che la parola del Duce ha avuto sull’anima popolare è stata la grandiosa, travolgente manifestazione che, subito dopo il discorso, la cittadinanza ha tributato al Duce in piazza Venezia. La impressione del discorso perdura vivissima anche a molte ore di distanza dallo storico evento; i commenti in ogni ambiente sono intonati, in genere, a schietto consenso.21

Nel giugno del 1941 l’intervento di Mussolini alla Camera parve riuscire, secondo le fonti di polizia, a ricompattare il Paese. Le sue promesse poi in materia di repressione dei profittatori suscitavano il generale consenso. Se il PNF doveva essere lo strumento della tenuta del fronte interno era logico che supervisionasse la disciplina annonaria e la lotta al mercato nero. In questo senso Serena pensava a «nuove strutture per rendere più articolata e capillare la presenza del PNF nella società». Nel giugno del 1941 il partito istituì il Servizio organizzazione capillare, che prevedeva per ogni 19. Ivi, b. 19, fasc. Roma, Nota del 6-10-1940. 20. ACS, MI, SCP Senise 1940-43, b. 2, sfasc. Bologna, Nota del 10-6-1941; sfasc. Firenze, Nota del 11-6-1941, sfasc. Bari, Nota del 10-6-1941. 21. Ivi, sfasc. Roma. Relazione del questore dell’11-6-1941.

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federazione, fascio e gruppo rionale la creazione di un ufficio delegato alla penetrazione nelle masse popolari. Come è stato sottolineato, attraverso l’organizzazione capillare, tutta la popolazione, come massa e come individui, sarebbe stata praticamente irretita dal partito, che avrebbe potuto estendere il suo controllo, la sua influenza e il suo intervento su ogni aspetto della vita individuale e collettiva, realizzando così quel contatto permanente con il popolo ritenuto fondamentale per l’attuazione dello Stato totalitario.22

Difficile giudicarne l’efficacia, ma nel caso di Parma, dove fu costituita, l’Oc pare essere stata di qualche utilità, se prendiamo per buono il rapporto del settembre del 1941 del federale Vittorino Ortalli che così riassumeva la situazione della provincia: a) lo stato d’animo della popolazione è buono. Poche sono le voci disfattiste subito taciute dall’evidente superiorità delle forze dell’Asse e delle vittorie riportate sul nemico. Ottima ed efficacissima è la propaganda a mezzo di opuscoli anche se ancora troppo ristretta specialmente pei paesi più lontani dal centro. b) il popolo segue con acuta penetrazione i fatti di politica interna ed è fiducioso nel Partito il quale si è attirato ancor più simpatia da che ha assunto la vigilanza anche sul campo economico-commerciale, ed approva con entusiasmo le repressioni in materia annonaria c) altro, esemplare è lo spirito dei soldati che ritornano in licenza dal fronte – essi hanno la certezza della vittoria, vittoria che non può mancare per l’imbattibilità dei nostri eserciti. d) come detto nella precedente relazione, il Partito si è procurato il favore del clero in seguito all’inizio delle ostilità con la Russia. Sebbene nei centri più lontani ‘‘unica pressione esercitata sul popolo sia quella del clero, questa, è continuamente controllata e non dà alcuna preoccupazione e nessun sintomo di allarme. e) la situazione economica delle classi lavoratrici non si può definire ottima, giacché ancora persistono stonature e lacune delle quali il Partito ha potuto riempire, sino ad oggi, solo una parte. Vi sono ancora ritardi nella corresponsione degli assegni familiari, ritardi assai prolungati, specie nei paesi più lontani dal centro, il che provoca nel popolo una certa insoddisfazione.23 22. Gentile, La via italiana al totalitarismo, p. 245. 23. ACS, PNF, Situazione politica ed economica delle province, b. 12, fasc. Parma, sfasc. 1940-1941. Relazione per il segretario del PNF Serena dell’ufficio organizzazione capillare dell’11-9-1941.

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La federazione parmense del PNF, pur segnalando l’influenza del clero e le difficoltà materiali dei lavoratori più umili, vantava l’efficacia della sua azione, spiegando come una delle chiavi della tenuta del fronte interno fosse appunto assicurata dalla sua assunzione del controllo della questione annonaria nonché dell’assistenza. Anche nella provincia napoletana, secondo le segnalazioni del federale Fabio Milone, il regime, sul finire del 1941, continuava a godere di un certo consenso. Recatosi allo stabilimento Ansaldo di Pozzuoli dove parlò di fronte a 1.500 operai, il federale spiegava che dal contegno entusiastico che essi hanno serbato […] ho potuto trarne la convinzione che in questo importante centro della nostra provincia fra massa, operai e popolo vi è reciprocità di entusiasmo nel servire scrupolosamente il Regime ed essere soprattutto vicini spiritualmente a coloro che combattono.

Anche a Cesa ed Aversa, sempre nel napoletano, le masse sembrano compatte attorno alla dittatura, anche perché in quei luoghi «l’Istituto di cultura fascista ed i dirigenti culturali della GIL provvedono ad un’intesa propaganda capillare tenendomi al corrente di ciò che si può osservare nei vari settori, specie i più modesti».24 L’ispezione, senza preavviso, realizzata alla fine del 1941 nella federazione di Napoli veniva accompagnata da un giudizio positivo sull’operato e le capacità del segretario federale, definito «equilibrato, attivo, colto, largamente stimato» e «l’azione del partito» veniva definita «efficace» e la situazione politica «buona».25 Ovviamente tali dati non inficiano il giudizio di fondo sulle difficoltà del PNF. La scelta di Serena di controllare la disciplina annonaria si rivelò un boomerang, gettando sul partito il discredito legato al fiorire della borsa nera. Lo stesso avvicendamento, nel dicembre del 1941, di Serena prima con il reggente Carlo Rovasio e poi con il giovane Aldo Vidussoni stava a confermare che il suo dinamismo non si era tradotto in una maggiore efficienza del PNF. Vi erano però aree di relativa efficienza del partito, il che spiega perché ancora nel corso del 1942 si puntasse sulla sua struttura organizzativa come fulcro del fronte interno. Come ricordato da Renzo De Felice, appena nominato segretario, Vidussoni avviò una serie di provvedimenti miranti a «selezionare» mo24. Ivi, b. 9, sfasc. Napoli, Relazione del segretario federale di Napoli Milone del 25-11-1941. 25. Ibidem. Relazione per il segretario nazionale del PNF del 9-12-1941.

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ralmente e quantitativamente il partito, «sburocratizzarlo» e liberarlo da numerose competenze «che esorbitavano dai suoi compiti», e che ora ne assorbivano in larga parte le energie a danno dell’attività più propriamente intesa.26 Proseguiva quindi sulla scia di Serena, che aveva pensato ad un rilancio “politico” del PNF, anche se per Mussolini la sua nomina significava operare un controllo più stretto del PNF, portando al suo vertice un gerarca interamente formatosi sotto il regime. Anche lui però, al di là di una serie di provvedimenti contro profittatori ed accaparratori, finì per ampliare la presa del partito sulla società. Carlo Scorza, all’epoca vicesegretario del PNF, nel novembre del 1942, in una nota a Mussolini ribadiva il corretto comportamento delle squadre di vigilanza annonaria create dal Partito. In risposta alle lamentele degli organi statali, segnalava che «i fascisti e le fasciste, […] non esercitano un’azione repressiva ma si limitano a segnalare gli eventuali inconvenienti o trasgressioni agli organi di polizia. Collaborazione – perciò – con pieno rispetto delle competenze altrui». Qualche mese prima era stato rilanciato l’impegno diretto del PNF, con una nota a tutti i federali, che rilanciava i compiti in materia di consegna del grano agli ammassi: esigo che i quattro milioni di fascisti regolarmente iscritti al partito, si considerino dal primo all’ultimo tutti mobilitati in ogni paese e in ogni villaggio, sino al più lontano casolare, per ottenere la consegna rapida e totalitaria delle granaglie agli ammassi. Coloro che tenteranno di evadere dalla legge, saranno duramente puniti; le camicie nere che non sentiranno il dovere di fare tutto il possibile in vista di questa esigenza suprema saranno considerate di scarsa fede e come tali escluse dal partito.27

Poco dopo, nel gennaio del 1943, in un rapporto a Mussolini sul recupero dei cereali dagli agricoltori, Vidussoni segnalava la nascita di oltre 8.357 Comitati comunali, costituiti con il foglio di disposizioni 136 bis del 31 ottobre 1942 del PNF. Il partito «si era impegnato» in «una proficua azione di propaganda» e i suoi ispettori avevano compiuto numerose verifiche in questi nuovi organi a cui era affidato il compito di fissare «i quantitativi di cereali che si presume possano essere ancora recuperati». Il tentativo di recupero del grano che i produttori si rifiutavano di portare agli ammassi obbligatori si stava realizzando, scriveva Vidussoni a Mussolini 26. De Felice, Mussolini l’alleato, p. 899. 27. ACS, SPD, CR, b. 50, fasc. Aldo Vidussoni, Nota per i segretari federali del PNF del 21-6-1942.

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«secondo le Vostre direttive, con molto tatto e discrezione e senza vessazioni nei confronti dei produttori, con un lavoro metodico di controllo che assicurerà il raggiungimento dei risultati previsti». Il giovane segretario difendeva con convinzione il modello ereditato da Serena. La ramificazione del partito sembrava anche a lui il modo migliore per realizzare il controllo “totalitario” della società e quindi cementare il fronte interno. Significative le considerazioni sui Comitati comunali imperniati sui fasci di combattimento locali e la direzione delle federazioni del PNF: Le decine di migliaia di Comitati comunali istituiti in altrettante Sedi di Fascio, presso le quali debbono affluire per questi controlli circa 3.900.000 agricoltori (che a tanto ammontano le denuncie del grano) costituiscono, ritengo, la intelaiatura organizzativa più efficiente, per poter svolgere speditamente e fruttuosamente quell’azione di propaganda e di impulso che potrà portare ad un progressivo miglioramento della produzione agricola, della raccolta dei prodotti e della conseguente distribuzione, consentendo di raggiungere gli obiettivi, da Voi, DUCE, chiaramente indicatici.28

Vidussoni insomma proseguì sulla strada dell’allargamento delle competenze del partito rispetto alla società mobilitata per la guerra già tracciata da Serena. Sull’efficacia di tale azione il giudizio è controverso. Per Renzo De Felice, l’intervento del partito e le sue interferenze invece di contenere i prezzi e di assicurare una maggiore disponibilità di generi, contribuirono non poco alla flessione di questa e all’aumento della “borsa nera” in genere. Sicché, in ultima analisi, l’effettivo risultato conseguito dal partito fu quello di suscitare attorno a sé e al regime nuovi motivi di discredito e una serie di ostilità e di accuse di inefficienza, di velleitarismo e, dulcis in fundo, di voler estendere il proprio controllo su tutta la vita nazionale ricorrendo a tutti i mezzi.29

Si tratta di rilievi reali ma la strategia del PNF andrebbe valutata, per essere compresa appieno, dentro quel ruolo di “cemento” del fronte interno voluto da Mussolini. Per quest’ultimo il partito doveva essere infatti «la forza attiva per realizzare l’adesione spirituale, l’identificazione più vasta possibile, del popolo alla nazione e, dunque, alla guerra». Concretamente, con il crescere dei segnali di crisi nel corso del 1942, tale indirizzo per Mussolini si riassumeva in due compiti precisi: «una maggiore presenza 28. Ivi, Appunto per il duce del 30-1-1943. 29. De Felice, Mussolini l’alleato, p. 971.

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nel Paese attraverso i fasci locali» e «un’attiva vigilanza del disfattismo, dell’antifascismo e di certe abitudini e forme di vita “incoscienti” e “immorali”, alle quali si abbandonava una parte della borghesia e che turbavano e corrompevano i “buoni” italiani».30 Da qui il rafforzamento organizzativo del PNF, che arrivò a tesserare a poco più di un mese dal crollo del regime 4.770.770 persone.31 Stando ai dati del 1942, gli italiani inquadrati nelle organizzazioni fasciste assommavano invece a 24.500.000, il 33% dei quali giovani organizzati nella Gil. 4.147.000 invece risultavano gli iscritti al Dopolavoro e un 1. 969.000 le donne organizzate nelle “massaie rurali”.32 Tale complessa e ingolfata macchina però, in alcuni contesti sembrò funzionare per tutto il 1942. Alessandra Staderini, studiando la federazione fascista di Roma e provincia, ha notato come nella capitale, il PNF retto da Mario Colesanti dal 1940 fino al novembre del 1942 si prodigasse con abnegazione non solo nella vigilanza annonaria ma anche e soprattutto nell’assistenza alle famiglie dei combattenti e nella propaganda politica. Se quest’ultima inizialmente fu affidata specialmente alla realizzazione di grandi manifestazioni in occasione delle festività del regime, più tardi si tradusse in un più forte tentativo di “andare verso il popolo”, convincendo le masse popolari della giustezza della guerra fascista. A tale scopo furono prodotti dal PNF, a livello di quartiere, molti fogli e giornali rionali per richiamare alla necessaria coesione interna per arrivare alla vittoria finale, senza nascondere i rovesci subiti. Pure sul versante dell’assistenza e della propaganda, stando alle pubblicazioni interne, i risultati della federazione romana non sembrano trascurabili. Come scrive Staderini, sembra, quasi naturalmente nell’ottica del solo partito, e della sola realtà della capitale, che le strutture fasciste periferiche, ben insediate nel territorio e consapevoli delle necessità della popolazione, basandosi su di una presenza continua e assidua nell’assistenza mantengano una certa forza, facilitate da una visibilità quotidiana e dal sostegno che si continuava ad offrire a chi aveva più bisogno.33 30. Ivi, p. 1037. 31. Dante Lee Germino, Il partito fascista italiano al potere. Uno studio sul governo totalitario, Bologna, il Mulino, 2007, p. 115. 32. Niccolò Zapponi, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 1926-1943, in «Storia contemporanea», 3-4 (1982), pp. 629-630. 33. Alessandra Staderini, La federazione romana del Pnf (1940-43), in Roma in guerra 1940-1943, a cura di Lidia Piccioni, in «Roma moderna e contemporanea», 3 (2003), pp. 454-455.

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Ovviamente il caso romano non è generalizzabile e si rischia una lettura eccessivamente “simpatetica” delle fonti fasciste, da mettere invece a confronto con la documentazione prefettizia. Nel dicembre del 1942 tuttavia Vidussoni, in un appunto per Mussolini, rivendicava il recupero di “tono” politico del PNF: l’azione sburocratizzatrice, iniziata secondo il vostro ordine, lo snellimento delle Organizzazioni, l’accantonamento – almeno per ora – di attività tecniche che esorbitavano dai suoi compiti, il massimo sforzo di adesione spirituale e materiale alla realtà dell’ora ed in rapporto alla durezza del momento, hanno restituito al Partito quelle caratteristiche di politicità che ne fanno un organismo morale, sociale, rivoluzionario che agisce, all’avanguardia della Nazione, sorvegliando, controllando, intervenendo in tutti i settori della vita nazionale.34

Vidussoni rivendicava quindi i successi della sua azione, senza rinnegare l’importanza del “formalismo” fascista, a cui i giovani del regime erano stati educati convincendosi che effettivamente lo stile bastasse a creare la “mentalità” fascista. Spiegava infatti dopo che lo snellimento necessario ha prodotto uno spostamento di interesse a favore di un lavoro sostanziale e più profondo in rapporto a quello che si svolgeva in superficie e che – ne sono convinto – in determinati momenti aveva ed ha la sua notevole importanza.35

In realtà, a quel punto della situazione, il PNF aveva fatto il possibile in termini di “politica” intesa come organizzazione e inquadramento. Se questo era sufficiente con il regime in salute, ora non bastava più. Quando infatti nell’autunno inverno del 1942-43 le sconfitte militari dell’Asse, e primariamente dell’Italia in Africa, fecero tramontare le speranze di una vittoria, allora le contraddizioni esplosero. Sul partito si concentrarono allora gli strali d’odio della popolazione, che investivano oramai anche Mussolini. Mentre andava accentuandosi «nella massa un senso di apatia e di disinteresse per gli ulteriori sviluppi delle operazioni belliche, forse per l’estendersi della preoccupazione che l’Asse possa perdere la guerra» – spiegava nel febbraio del 1943 il questore di Milano – «l’ostilità contro il Fascismo» diventava «sempre più accentuata dalla maggioranza dei cittadini», che lamentavano «l’assenza del partito» e «il contegno negativo o dimesso di alcuni gerarchi e squadristi, attivissimi in tempo di calma e di 34. SPD, CR, b. 50, sfasc. Aldo Vidussoni. Nota per Mussolini del 5-12-1942. 35. Ibidem.

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pace». Anche a Torino «la popolazione, sentendosi ogni giorno più esaurita dallo sforzo immane, imposto dalle necessità belliche, e dimenticando di valori ideali, la cui difesa rese necessario il conflitto aspira oramai ad una pace qualsiasi, con il ritorno alle vecchie pacifiche abitudini di vita, senza aspirazioni di grandezza».36 Si era insomma al crollo del fronte interno. A questo punto, nel febbraio del ’43, Mussolini elevò alla guida del PNF il vicesegretario Carlo Scorza, uno dei ras della prima ora del fascismo, a lungo tenuto ai margini dal potere negli anni del regime. La scelta pareva accogliere l’indicazione di Vidussoni di recuperare, nel partito dei giovani formatisi sotto il regime, il vecchio fascismo “politico” e non personalistico. In verità il segretario defenestrato aveva chiesto anche un impegno chiaro ed univoco di Mussolini sul partito ma questo non c’era stato. Né la scelta di Scorza fu un elemento chiarificatore. Secondo De Felice fu dettata dalla volontà di usare il partito come minaccia verso i critici della leadership mussoliniana. Si trattava per Mussolini di presentarsi come l’anello di congiunzione tra il “vero” fascismo e la parte autoritaria del regime, per ancorarle alla sua mediazione.37 L’arrivo, però, della guerra combattuta sul territorio nazionale stravolse tali prospettive, innescando un meccanismo in cui scarsa credibilità del regime e disfacimento del PNF si alimentarono a vicenda. In questo clima crebbe nel partito una retorica estremistica che finì per isolarlo ancor di più dal resto del Paese, mentre molti si allontanavano o ripensavano le loro scelte politiche, in un quadro di emorragia continua di forze ed energie che avrebbe di fatto portato il PNF a restare passivo e inerte persino dinanzi alla giubilazione di Mussolini da parte del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio del ’43.38

36. ACS, MI, SCP Senise 1940-1943, b. 3, fasc. Milano, Nota del Questore del 27-21943; sfasc. Torino, Nota del Questore del 28-2-1943. 37. De Felice, Mussolini l’alleato, pp. 1033-1034. 38. Ivi, pp. 1068-1069.

Paul Corner L’opinione popolare italiana nel 1940

Qualsiasi tentativo di descrivere o di analizzare l’opinione popolare – il “mood” popolare come viene chiamato in alcuni testi anglosassoni, lo “spirito pubblico” come viene definito dalle autorità in Italia – si scontra subito con alcuni problemi. Bisogna chiedersi: esiste veramente un’opinione popolare? Si può identificare un “mood” collettivo? E poi: in che cosa consisterebbe questo “popolo” che avrebbe un’“opinione”? La risposta a domande di questo tipo è spesso formulata intorno alla categoria di “gente comune’”, ma anche qui sorgono dei problemi. Il concetto di “gente comune” (“ordinary people”) è molto vago e, per molti versi, abbastanza inutile. Chi è “comune”? Chi è “ordinary”? Tutti? O nessuno? Sarà evidente che non esiste un’unica risposta, valida per tutti. Qualsiasi stima dipende in primo luogo da dove si sceglie di guardare – a quale gruppo, classe, o categoria sociale – e anche, come vedremo, dai criteri di analisi adoperati da chi cerca di realizzare quella stima. È necessario disaggregare, distinguere fra gruppi, analizzare più da vicino i diversi segmenti della società e poi, riguardo ai regimi autoritari che cercano di reprimere l’espressione di ogni opinione ostile, saper interpretare quelle espressioni che, nonostante tutto, riescono a emergere.1 Nel contesto dell’opinione popolare, l’interesse per il 1940 nasce non solo dagli avvenimenti drammatici di quell’anno, ma anche – e forse so1. Sui problemi di identificazione e interpretazione dell’opinione si veda Kate Ferris, Introduction, in Ead., Everyday Life in Fascist Venice, 1929-40, New York, Palgrave Macmillan, 2011; per l’uso della parola “mood”, si veda, ad esempio, Sheila Fitzpatrick sull’opinione popolare nell’URSS nel suo L’opinione popolare nella Russia stalinista prima della seconda guerra mondiale, in Il consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo, comunismo, a cura di Paul Corner, Roma-Bari, Laterza, pp. 4-22.

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prattutto – da ciò che il 1940 può dirci sulla “condizione” del regime in quel momento. L’anno 1940, proprio perché è l’anno di scelte determinanti, è la cartina di tornasole, la prova del nove, di ciò che il regime è riuscito a realizzare fin lì. Di fronte alla prospettiva di una guerra europea prima e alla realtà di una guerra dichiarata poi, le reazioni della gente possono dire molto del livello di “fascistizzazione” della società raggiunto dal regime negli anni precedenti. Al riguardo è essenziale ricordare che l’obiettivo del regime fascista, con le sue pretese totalitarie, era sempre stato di plasmare un popolo che avesse interiorizzato i valori rappresentati dallo slogan «credere, obbedire, combattere». Ma l’obiettivo della pedagogia fascista andava oltre la formazione del popolo; il fascismo mirava anche alla trasformazione del singolo individuo, alla creazione del “uomo nuovo fascista”. Pertanto, in un’indagine sull’opinione popolare, è lecito chiedersi, in un regime che aveva sempre lavorato in vista della militarizzazione della società civile, quanto sia palese la condivisione da parte della popolazione dei valori militari quando arriva veramente il momento della guerra; cioè se e quanto emerga l’esistenza di quell’“uomo nuovo”? In un’indagine di questo tipo si lavora soprattutto sulle linee di continuità e di cesura, cercando di capire quanto il 1940 veda, in effetti, una continuità nell’opinione formatasi negli anni precedenti, o quanto invece quell’opinione, confrontata con lo shock di una guerra europea, abbia mutato radicalmente orientamento. Qui si tocca inevitabilmente la questione del consenso per il regime, anche se – come è ovvio – non c’è nessun nesso automatico fra consenso per il regime e consenso per la guerra. Per quanto riguarda gli ultimi anni Trenta – essenzialmente dal 1936 in poi – sono pochi gli storici che non riconoscono l’esistenza di un qualche tipo di crisi di regime. Ma, se l’esistenza di una crisi non è contestata, ciò che invece viene dibattuto è la natura e la gravità di quella crisi. Esistono certamente delle considerazioni che sembrerebbero contraddire la lettura di una crisi. La seconda metà degli anni Trenta è il periodo dell’Impero, della guerra di Spagna, è il periodo della cosiddetta fase totalitaria, di una nuova radicalizzazione, che vede una notevole riorganizzazione nelle istituzioni del regime e un aumento, sotto la direzione di Achille Starace, della irreggimentazione e della mobilitazione della popolazione; sono gli anni in cui Mussolini compare di più sulla scena internazionale, a volte in maniera che sembra determinante per i rapporti fra le grandi potenze. Per molti versi il regime potrebbe sembrare consolidato, forte, addirittura in espansione.

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Tuttavia, non era esattamente così; la facciata mostrava delle crepe, in modo particolare per quanto riguarda il rapporto fra classe politica e paese. In effetti, come numerosi storici hanno notato, negli anni dopo il 1936 avviene un progressivo distacco della popolazione dal fascismo, con un rapido calo dei consensi ottenuti subito dopo il successo della guerra contro l’Etiopia e la proclamazione dell’Impero. Ci sono molti motivi per quel calo. Alcuni sono legati ad un peggioramento della situazione economica dei gruppi sociali più modesti. Come è noto, i piccoli produttori agricoli, ad esempio, si lamentavano molto dell’andamento dei prezzi, in quanto quelli determinati dagli ammassi erano fissati per favorire i grandi proprietari. Inoltre, i piccoli produttori sentivano l’effetto negativo della forbice dei prezzi. Ma chi soffriva di più era la classe operaia, colpita sia da un’inflazione che vedeva un aumento dei prezzi superiore all’aumento dei salari sia dalle difficoltà di trovare molti prodotti che scarseggiavano. Dalle statistiche è evidente che, per molti italiani, ci fu un sensibile calo nei consumi. Secondo le cifre dell’Istat, le contrazioni si sono viste in particolare nei consumi alimentari e relativi al vestiario – consumi essenziali – e, verso la fine del decennio, mancavano nei negozi il caffè, lo zucchero, e anche alcuni grassi. Le proteste a causa delle scarsità dei generi di consumo erano comuni.2 Ciò che colpiva delle proteste, almeno secondo gli informatori fascisti, era che la responsabilità veniva attribuita non ai grossisti, non ai commercianti, ma direttamente alla gestione politica del regime. Come scriveva un informatore: «È sorprendente come la mancanza di caffè è diventata rapidamente un fatto politico. Se si pensa alla mancanza di caffè, si ragiona sempre più […] dell’impoverimento a cui ha portato la grande politica».3 I termini delle proteste sono importanti perché indicano che, fra certi segmenti della popolazione, esisteva la percezione di un peggioramento senza limiti delle condizioni materiali. Ciò che raccontò una donna è significativo: «[…] prima del fascismo […] il caffè c’era, il pane era di grano, il latte era genuino, la stoffa era di lana, si trovava tutto […]».4 Qui viene espressa la percezione di un mondo senza speranza per il futuro, un mondo 2. Per il crollo nel consumo di alcune categorie si veda ISTAT, Sommario di statistiche storiche, 1861-1965, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato 1968, p. 131 e sgg., Consumi e Disponibilità Alimentari. 3. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), Roma, 19 maggio 1939. 4. Ivi, Torino, 6 maggio 1939.

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in cui si stava meglio prima, in cui è implicito il desiderio di tornare ai tempi prima del fascismo. Per il regime fascista che, come tutti i regimi totalitari, si era sempre presentato come veicolo che portava verso un futuro migliore, espressioni di scontento di questo tipo costituivano un forte campanello di allarme. È forse utile, a questo punto, confrontare le condizioni in Italia con la situazione della Germania – condizioni che determinarono, almeno in parte, le caratteristiche dell’opinione popolare nei due paesi di fronte alla guerra. Come è largamente riconosciuto, nei confronti delle classi popolari Hitler agì con un certo rispetto, quasi timore, indotto dal mito della “pugnalata alla schiena” che la classe operaia tedesca avrebbe inflitto alla Germania durante la Prima guerra mondiale. Di conseguenza – come ha testimoniato Tim Mason5 – durante gli ultimi anni Trenta, attraverso una accorta politica dei salari da parte del governo, si verificò un aumento nei consumi di alcuni gruppi di operai mentre altri non stavano peggio rispetto agli ultimi anni Venti. Anche se è un argomento ancora dibattuto fra gli storici, sembra che Hitler resistesse alle pressioni per dirottare una maggiore quantità di risorse verso gli armamenti prima dell’inizio della guerra, una resistenza che non era affatto gradita alle forze armate. Eloquente, riguardo alle scelte fatte da Hitler, fu la vigorosa protesta del generale Georg Thomas riguardo all’allocazione delle risorse: «Non vinceremo mai la Gran Bretagna con le radio, gli aspirapolveri, e i frigoriferi».6 È sufficiente consultare le statistiche per capire che in Italia la situazione era molto diversa. Nella divisione delle risorse fra consumi pubblici e privati nella seconda metà degli anni Trenta, i primi (i consumi pubblici) aumentarono, mentre i secondi (i consumi privati) videro una notevole contrazione. Le guerre (Etiopia, Spagna) avevano avuto costi molto pesanti. Il che vuol dire – andando avanti con il confronto – che in Germania la popolazione aveva potuto affrontare la guerra in condizioni di relativo benessere (negli anni Cinquanta non pochi tedeschi si ricordavano degli anni 5. Tim Mason, La politica sociale del Terzo Reich, Milano, Bruno Mondadori, 1977. 6. Paul Corner, Consenso e coercizione. L’opinione popolare nella Germania nazista e nell’Italia fascista, in «Contemporanea», 3 (2003), pp. 127-138. L’articolo riprende l’interpretazione, espressa subito dopo la fine della guerra, del noto economista americano J.K. Galbraith. Per una revisione di questa interpretazione, che parla piuttosto di “un conflitto di distribuzione di risorse” che comunque non sacrifica la produzione di armamenti a favore dei consumi civili, si veda Adam Tooze, Il prezzo dello sterminio. Ascesa e caduta dell’economia nazista, Milano, Garzanti, cap. 13.

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Trenta come degli “anni d’oro”), mentre gli italiani si trovavano di fronte alla guerra in una situazione già molto difficile e – questo è il punto importante, con poche speranze in un miglioramento delle loro condizioni. Come riportato da tanti informatori della polizia e del Partito fascista, lo spirito pubblico era caratterizzato da delusione e sconforto. Certo, quell’uomo (o donna) che, riferendosi alla grande lettera M visibile dappertutto sugli edifici, scrisse al muro che non stava per Mussolini ma per “Miseria” non può essere considerato rappresentativo di tutti gli italiani, ma l’atto (che esponeva a rischi non trascurabili) è nondimeno indicativo di un sentimento di disperazione provocato dalla situazione economica.7 Nonostante le difficoltà, negli ultimi anni Trenta il regime continuò a battere il tamburo della mobilitazione, sempre più forte. Si ha l’impressione che, più veniva avvertito dalle autorità il senso di un popolo in difficoltà, più il Partito spingeva sull’acceleratore della propaganda e della costante mobilitazione, nel tentativo di coprire gli evidenti problemi di consenso fra la popolazione. C’è da chiedersi se tale politica di attivismo abbia funzionato. L’accentuazione del discorso ideologico, attraverso la stampa e altri media, è stata in grado di convincere l’opinione popolare della saggezza della politica fascista? Non sembra. A parte i problemi legati alle condizioni materiali (soprattutto economiche), bisogna ricordare che, negli anni ’38 e ’39, la popolazione ha dovuto reagire a diversi traumi che hanno creato confusione e disorientamento. Le leggi razziali sono state accolte da molti con perplessità, ma sempre più impopolare era l’alleanza con la Germania. La prospettiva di un appoggio alla Germania nella guerra lasciò il pubblico, nelle parole di un informatore, «perplesso, deluso, angosciato».8 Da quello che si legge nelle informative, il timore della guerra era un sentimento espresso sia da quelli che paventavano un eventuale dominio tedesco sia da quelli che, memori della Grande guerra, non volevano vedere la ripetizione di un simile conflitto. Nel 1939, intorno alla possibilità di un intervento italiano, le opinioni raccolte dagli informatori sono nettamente contro una guerra a fianco dei nazisti (tanto è vero che, più tardi, nell’aprile del 1940, si raccontava in certi ambienti torinesi di proposte di andare in soccorso ai norvegesi).9 7. ACS, MI, DGPS, Pubblica sicurezza, b. 24, Reggio Emilia, 29 settembre 1939. 8. ACS, Partito nazionale fascista, Situazione politica ed economica delle province, b. 18, Reggio Emilia, 18 ottobre 1939. 9. Ivi, b. 25, Torino, 11 aprile 1940.

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Impressionante al riguardo l’avvertimento, riportato da De Felice, del capo della Polizia, Arturo Bocchini, dell’agosto 1939, secondo cui non bisognava escludere che «in caso di sommossa neutralista [cioè una sommossa contro una decisione di intervenire] la polizia e i carabinieri avrebbero preso la parte del popolo».10 Il quadro disegnato finora lascia pochi dubbi sul fatto che l’Italia sia arrivata al 1940 in condizioni tutt’altro che ideali per combattere una guerra. Se si aggiunge ai problemi e alle difficoltà riassunti qui sopra anche il disagio del PNF – in questo volume trattato da Tommaso Baris – è difficile evitare la conclusione che il regime stesse affrontando una grave crisi. Ora, come abbiamo detto, la gravità della crisi è questione dibattuta. Certamente il fascismo non stava per finire; il regime aveva indubbiamente i mezzi, soprattutto i mezzi repressivi, per affrontare le difficoltà del momento. Tuttavia, che il regime fosse in evidente declino, questo è vero, almeno dal punto di vista dei consensi popolari. Nelle relazioni informative dalle province ci sono numerose testimonianze in questo senso. Anche all’inizio del ’38 un convinto fascista si lamentò del fatto che la gente andasse alle manifestazioni convocate dal Partito solo «perché c’è un obbligo. […] Questa è l’unica ragione per la quale la maggioranza interviene obtorto collo; se un obbligo materiale non esistesse, l’intervento alle riunioni pubbliche sarebbe limitato a coloro che hanno onorificenze da esibire».11 Altri informatori riprendevano lo stesso tema, descrivendo le adunate locali come «inutili sfilate di medaglie e di uniformi». Nonostante la minaccia di ritorsioni, molti iscritti al PNF cominciarono ad abbandonare le riunioni e le altre iniziative del Partito. Sulla stagnazione del Partito un “Pro-memoria” mandato da Modena a Roma da un esponente fascista diceva tutto: Si nota nella Provincia […] un netto distacco da tutto ciò che è vita del Partito […] I gerarchi lavorano a vuoto, non trovano più o quasi più l’aderenza della massa, anche la massa dei giovani del modenese vive a parte del Partito, pervaso da scetticismo e da noncuranza. […] ci si iscrive [al Partito] perché è bene essere iscritto, ecco tutto!

Ugualmente indicativa della situazione di tensione è la relazione di un confidente fascista che, nel settembre del 1939, aveva visitato alcune delle 10. Renzo De Felice, Mussolini il duce: II. Lo stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, p. 713. 11. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 109, 14 novembre 1938.

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zone più sperdute delle province di Pavia, Milano e Cremona e aveva parlato con molti «autentici lavoratori della terra», piccoli affittuari e piccoli proprietari, scoprendo che la popolazione rurale la pensava esattamente come quella della città. Scoprì che «il Fascismo non è penetrato né in profondità né alla superficie per la colpevole insufficienza e disonestà di tanti Gerarchi, grandi e piccoli».12 C’è una parola che, fra il ’39 e il ’40, si trova in tantissime relazioni informative ed è anche riprodotta in alcuni lavori di memorialistica: la parola è “stanchezza”. Secondo gli informatori la popolazione era stanca delle attività del Partito, considerate una perdita di tempo, stanca delle difficoltà che doveva affrontare nella vita quotidiana, stanca di una sfacciata corruzione da parte dei gerarchi e dei gerarchetti, stanca delle tensioni internazionali, stanca di «vivere pericolosamente». Non a caso, come dicevano gli informatori ripetutamente nel ’38 e nel ’39, molti fascisti avevano cominciato a levare il distintivo fascista dalla giacca; «In tutta l’Italia settentrionale si nota una rarefazione di distintivi fascisti», scrisse un informatore, aggiungendo che l’atmosfera fra la gente gli faceva ricordare i giorni dopo la scoperta dell’assassinio di Matteotti.13 Il 1940 vede un’inversione di tendenza? Nei primi mesi, no. Anzi, gli atteggiamenti ricordati dalla polizia e dagli informatori restano quelli di prima; se mai, sono accentuati dagli avvenimenti. Pochissimi sembravano desiderare la guerra; quasi tutti capivano i pericoli insiti nell’alleanza con la Germania. Non mancarono quanti erano disposti ad esprimere un’ammirazione per le vittorie della Germania, ma era un’ammirazione sempre mescolata con la preoccupazione che, prima o poi, quella stessa potenza tedesca sarebbe stata utilizzata contro l’Italia. Vi era una diffusa consapevolezza che l’Italia fosse impreparata per un conflitto europeo. In particolare, la prospettiva di bombardamenti aerei destava grande apprensione, perché tutti sapevano che nessuno aveva pensato a costruire rifugi. Ma per alcuni – paradossalmente – la guerra era fonte di speranze. Ogni tanto nelle relazioni di informazione si legge che c’era chi voleva la guerra perché prevedeva che, con essa, sarebbe finito il fascismo. Scriveva un informatore da Napoli: «c’è chi implora la guerra come una soluzione 12. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 214, 28 settembre 1939. Va notato che all’inizio di settembre, a Milano, il PNF proibì ogni discussione politica nei luoghi pubblici per cercare di reprimere i “disfattisti”. 13. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 219, 25 aprile 1940.

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qualsiasi che liberi questo popolo di poveri da un’egemonia che da tanto tempo si protrae. C’è […] chi arriva a dire che se verrà una guerra sarà la fine del Fascismo ed è quindi meglio che venga e presto».14 L’auspicio era riprodotto in un altro scritto, riferito ai minatori del Grossetano, «Non fa timore la guerra perché si spera nel rovesciamento dell’attuale “stato di schiavitù”».15 Più tardi, nel 1941, un fascista dissidente auspicò addirittura che la guerra potesse portare alla rivoluzione contro il fascismo – una strana rivoluzione in quanto chi scriveva prevedeva che, insieme agli operai, ci sarebbero stati fra i rivoltosi anche tanti fascisti scontenti.16 Erano sentimenti che si traducevano persino in atteggiamenti filo-inglesi. In un diario personale dell’aprile del 1940 si legge, «Troppa gente, pur di vedere attraverso una sconfitta del fascismo, la fine di tante camorre e [di non vedere] la ricomparsa di tanti personaggi odiosi, non esita nemmeno ad allearsi ai nemici della Patria».17 Per altri, in grande difficoltà economica, la guerra sembrava promettere quasi un’apocalisse. «Nel 1940 i russi verranno in Italia. Fra non molto vi sarà una Germania rivoluzionaria. La Russia sta molto bene mentre in Italia vi è la miseria, tanto che non abbiamo neppure il sapone per lavarci la faccia». Chi parlava aggiungeva un commento sulla politica imperiale che si trova di frequente fra le informative: «L’Italia va a civilizzare l’Africa mentre dovrebbe civilizzare gli italiani».18 Nelle relazioni degli informatori si legge di una crescente disperazione fra la gente, segnalata anche dal fatto che, per le strade, chi prima taceva in pubblico per paura di ritorsioni, ora dava voce apertamente alle sue critiche al regime. Peraltro il Partito, indebolito da problemi di direzione, offriva poco conforto a queste persone. Fino al giugno 1940 l’ex-squadrista Ettore Muti era segretario del Partito e, come ha ricordato il sindacalista fascista Tullio Cianetti, si è assistito, sotto la direzione di Muti, a «una vera devastazione del PNF».19 14. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 220, Napoli, 29 agosto 1939. 15. Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-43, Roma-Bari, 2011 (nuova edizione), p. 301. 16. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 219, 12 agosto 1941. 17. Archivio diaristico nazionale, DP/Adn2, Bruna Talluri, 2 marzo 1940. 18. ACS, MI, DGPS, Affari Generali e Riservati, Conflitto Germano-Polacco, b. 4, denuncia contro il proprietario Giuseppe Di Santo, Legione Carabinieri di Ancona, 9 gennaio 1940. 19. Tullio Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di Renzo De Felice, Rizzoli, Milano, 1982, p. 307.

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L’annuncio della partecipazione dell’Italia nella guerra interruppe momentaneamente questo andamento. Si nota, certamente, dispiacere e, a volte, vergogna, per l’attacco alla Francia, ma soprattutto si percepisce sollievo per una situazione di incertezza finalmente risolta; per un momento la gente si affidò alla speranza che, in fin dei conti, Mussolini avesse preso la decisione giusta. Si sperava in una guerra breve, capace di inaugurare un lungo periodo di stabilità e di pace (come promesso da Mussolini nella stessa dichiarazione di guerra). Nelle relazioni informative, che raccontavano ciò che veniva detto nei mercati, nei bar, e sui trasporti pubblici, la speranza della pace è un tema costante, ma la popolazione appare rassegnata, disposta ad accettare la guerra solo in quanto vista come preludio di pace. Tuttavia, nei giorni dopo la dichiarazione di guerra qualsiasi forma di entusiasmo sparì velocemente. Già il 15 giugno – solo cinque giorni dopo – il “mood” di Firenze veniva descritto come «molto depresso» («Si ripete tuttora che la guerra non era necessaria e che si poteva e si doveva evitare»).20 Le relazioni riferiscono che esiste pochissimo senso di una popolazione che si unisce, che si compatta intorno alla bandiera nazionale, di una popolazione che si ritrova di nuovo entusiasticamente fascista.21 Non succede nemmeno fra i giovani cresciuti sotto il regime, a parte quella piccola minoranza molto ideologizzata rappresentata dai gufini. Al riguardo, è da notare che le iscrizioni all’università per l’anno accademico 1940-41 – cioè giovani che si iscrissero nell’estate del ’40 – aumentarono di quasi il 50% rispetto al ’39.22 Esiste all’università in quel momento uno strano traffico in due sensi – i gufini che spingevano per andare a combattere, le matricole che si iscrivevano proprio per evitare quella sorte. Come è ovvio, la decisione di partecipare alla guerra iniettò nella situazione un nuovo elemento, che era il patriottismo. Per molti di coloro che non erano convinti delle virtù del regime, la guerra pose la necessità di conciliare in qualche modo quello che si potrebbe definire un patriottismo “sano” o normale con un nazionalismo fascista. Tale intreccio risultava molto problematico, ed era un intreccio che avrebbe mandato in crisi diver20. Il fronte interno a Firenze 1940-1943, a cura di Renzo Martinelli, Firenze, Università degli Studi di Firenze, 1989, p. 74, 15 giugno 1940. 21. ADN, DP/Adn2, Bruna Talluri, Il giorno dopo la dichiarazione di guerra, Talluri scriveva «Con muta rassegnazione il popolo italiano segue gli eventi [...]». 22. Fra il 1939 e il 1940 il numero totale degli iscritti a corsi di laurea aumentò da 85.535 a 127.058, il numero di soli maschi da 67.361 a 101.052. ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane (1861-1955), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1958, tav. 29.

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se persone, come, ad esempio, molti intellettuali, alcuni dei quali finirono per augurarsi la sconfitta dell’Italia. Al livello popolare, l’idea di un appoggio incondizionato – secondo lo slogan «il mio paese nel nel bene e nel male» – sembra aver avuto poca presa; non si percepisce un nuovo dinamismo indotto dal conflitto. Alcuni informatori notarono addirittura una strana indifferenza rispetto all’esito del conflitto durante gran parte del 1940; di fronte a un’apparente vita normale nelle strade nell’autunno del ’40, un informatore scrisse che la gente non sembrava partecipare, che non aveva ancora capito che cosa voleva dire la guerra.23 Ma l’apparente indifferenza è da spiegare non solo con i grossi problemi di sopravvivenza quotidiana, ma anche con la consapevolezza – ed era una consapevolezza molto diffusa – che l’Italia sarebbe uscita in ogni caso male dalla guerra: «vinca o perda – le conseguenze della guerra saranno sempre catastrofiche era l’opinione di una donna di Firenze».24 Era una constatazione condivisa da molti. Quasi un anno prima un informatore aveva riassunto lo stesso dilemma, «Il popolo si è ridotto a calcolare se sia migliore una egemonia tedesca oppure inglese ed una forte percentuale simpatizza per quest’ultima».25 L’odio per l’alleato tedesco generava una certa simpatia per le sfortune degli inglesi nella prima metà del ’40. E, in effetti, quando gli aerei inglesi lanciarono volantini su Firenze nell’agosto del ’40, si diceva che i volantini avevano avuto «un’accoglienza favorevole come già quelli che furono lanciati su Roma, poiché tutti sono convinti che l’Italia combatte per la Germania, la quale […] ci metterà i piedi sul collo».26 Le difficoltà sperimentate in Grecia e poi gli avvenimenti disastrosi nel Nord Africa non facevano che confermare lo scetticismo popolare verso la guerra e accentuare i problemi di consenso. Va notato, per inciso, che una delle difficoltà che il regime ha dovuto affrontare nel suo tentativo di convincere la popolazione della giustizia della guerra era la totale diffidenza delle classi popolari verso l’informazione proveniente dalla stampa e dalla radio. Anni di propaganda e di reto23. Martinelli, Il fronte interno, 9 ottobre 1940, p. 107. «Specialmente in questa città [Firenze] si dimentica troppo facilmente di essere in guerra. La gente ha l’aria di non credervi anche quando lo dice; ha l’aria di concepire questa guerra come un affare che riguarda i tedeschi, i libici, gli abissini e i somali, ma molto indirettamente gli italiani». 24. Ivi, 15 giugno 1940, p. 74. 25. ACS, MI, DGPS, Polizia Politica, Materia (1927-44), b. 220, Napoli, 29 agosto 1939. 26. Ivi, 21 agosto 1940, p. 94.

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rica avevano reso scettica la popolazione. Come scriveva un informatore, illustrando l’insicurezza dovuta alla mancanza di notizie affidabili, «non è possibile […] che l’Italia debba accontentarsi di leggere sui giornali una serie di chiacchiere, che ormai non convincono più nessuno».27 Dopo i primi giorni del conflitto, molti informatori notarono che era proprio la mancanza di notizie credibili che intaccava il morale della popolazione che, chiaramente, non si fidava del regime. La fragilità della fiducia nella retorica del regime era esemplificata in un diario di una giovane studentessa che scrisse, nell’aprile del 1940: «nelle scuole si insegna la cultura fascista come fosse una religione ma noi avvertiamo tutta la falsità di questa identificazione. […] osservo che gli ideali di cui hanno imbottito la testa sono soltanto fumo…».28 Se il quadro illustrato finora è senz’altro veritiero, i dubbi emergono quando prendiamo in considerazione l’opinione popolare rispetto a Mussolini. Era quasi un rituale fra gli informatori fornire delle relazioni in cui venivano descritti tutti i problemi legati al crollo dei consensi per poi finire con l’affermazione che, comunque, la popolazione rimaneva sempre fedele al duce. Alcuni osservavano che gli italiani erano più “mussoliniani” che fascisti. Quanto questo tipo di affermazione fosse determinata dalla necessità di essere fascisticamente politically correct, cioè dalla convenienza, è difficile capire, come è difficile capire quanto la popolazione tenesse a Mussolini per mancanza di alternative – indubbiamente una considerazione importante. È anche difficile capire quanto di sincero ci fosse nell’adulazione nei confronti del duce. Come scriveva nel suo diario un fascista (ex dirigente), il costume era di «Esaltare in tutto e per tutto in Fascismo e il Duce e poi fare tutto il contrario».29 In ogni caso sembra chiaro che sia passato un certo lasso di tempo fra il crollo dei consensi per il regime e la perdita di fiducia nel suo capo. Non mancarono dichiarazioni nel senso di “fascismo no, Mussolini sì”. Ad esempio, nel giugno del ’39 un informatore aveva scritto che «per la stragrande maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, mentre sarebbe magari comprensibile un Mussolini senza fascismo».30 Le implicazioni di questa frase – che il fascismo, che sarebbe 27. ACS, PNF, Situazione politica ed economica delle province, b. 18, Reggio Emilia, 18 ottobre 1939. 28. ADN, DP/Adn2, Bruna Talluri, 2 marzo 1940. 29. ADN, DG/89, Paolino Ferrari, 6 settembre 1939. 30. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 109, “Fascismo e Nazione”, 27 luglio 1937.

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dovuto durare un secolo, sarebbe morto con Mussolini, se non prima – sembrano essere sfuggite al relatore. Ma, se esistono pochi dubbi sulla persistente popolarità di Mussolini, soprattutto fra i ceti medi, ci sono anche degli indizi che puntano in una direzione diversa. Nel ’39 e, ancora di più durante i primi mesi del ’40, alcuni confidenti fascisti osservarono che la convinzione, molto diffusa, che Mussolini fosse all’oscuro del comportamento di molti gerarchi – l’idea riassunta nella frase «Se lo sapesse il Duce…» – era meno forte di prima; stava crescendo la consapevolezza che Mussolini aveva le sue responsabilità, che non poteva non sapere molto bene dei problemi che il regime implicava per la popolazione, ma che sceglieva di non intervenire. Era una conclusione quasi inevitabile dopo tanti anni di un regime corrotto e clientelare. In più, si speculava sulla salute del duce e – fatto assai indicativo – sulla persona del suo eventuale successore. Tuttavia, più che la situazione interna, ciò che nuoceva maggiormente al prestigio personale di Mussolini era indubbiamente la sua politica estera – l’alleanza con la Germania, che gli italiani non approvavano e, soprattutto, non capivano. Così, con la sempre più diffusa impressione che Mussolini avesse perso il controllo del gioco, veniva messo in dubbio il famoso “intuito” del duce e i successi dei tedeschi non fecero altro che aumentare la diffusa sensazione che Mussolini fosse dominato da Hitler. «Ecco il Führer, duce del duce», scrisse su un muro di Roma sotto il disegno di una faccina coi baffi.31 Come notavano astutamente alcuni degli stessi informatori, la fiducia in Mussolini era diventata sempre più condizionata; il duce doveva evitare la guerra per meritare ancora l’appoggio popolare, il che rendeva evidente un corto circuito – da una parte un Mussolini che aveva sempre predicato la necessità e le virtù della guerra allo scopo di creare una razza guerriera e, dall’altra, un popolo che teneva al duce soprattutto nella speranza che lui potesse evitare la guerra. «Tutti sperano nella saggezza del Duce, il quale, se non riuscisse ad evitare il disastro perderebbe immensamente nella fiducia popolare».32 Che è esattamente ciò che avvenne – non subito, il 10 giugno, ma molto presto, in seguito all’intervento. Con il prolungarsi del conflitto troviamo, all’inizio del novembre del ’40, una relazione da Firenze in cui si racconta che «[si rafforza] in tutti 31. ACS, MI, DGPS, AGR, b. 7F, Torino, Informatore “Peste-Bruna”, s.d. (ma 1939). 32. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, Materia (1927-44), b. 220, 25 agosto 1939.

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uno stato di animo di vivo malcontento», determinando «sentimenti di odio contro il duce e contro il regime, odio che si va ogni giorno accumulando…».33 In altre relazioni informative veniva descritto, non senza allarme, il modo in cui la gente aveva cominciato a puntare il dito contro quanti erano ritenuti responsabili dei disagi economici e delle disfatte militari, spesso sottolineando l’incompetenza e la corruzione della “nuova casta” fascista. È significativo che molti confidenti della polizia notassero che i sentimenti di ostilità verso il regime erano ora condivisi da ampi strati della borghesia e non più limitati alla classe operaia.34 Il lettore avrà forse notato che quanto detto finora si riferisce più al ’39 che al ’40. Il fatto è che, dal punto di vista dell’opinione popolare, l’anno 1940 non fa altro che confermare e accentuare le tendenze dell’anno precedente. Esiste una chiara continuità, non interrotta se non momentaneamente dalla dichiarazione di guerra, un andamento che conferma l’impressione che i consensi per il regime siano in declino dal 1936-37 in poi. Ci sono delle oscillazioni verso l’alto ogni tanto – Monaco è quella più ovvia – ma sono oscillazioni che non cambiano la tendenza generale. È un andamento che prosegue con la dichiarazione di guerra e anche dopo la dichiarazione, quando, sempre di più, i commenti sulla guerra contengono le parole “disastro” e “catastrofe”. Nonostante gli enormi sforzi della propaganda, la guerra non portò nuova vitalità al regime. Anche se molti fascisti pensarono di vedere nella guerra l’opportunità di una rinnovata mobilitazione della popolazione e si diedero da fare (soprattutto a livello rionale, come la Staderini documenta per Roma)35 per coinvolgere la popolazione in iniziative di appoggio alla guerra, i risultati furono deludenti. L’espressione “guerra fascista”, sempre più comune, rendeva più evidente lo scollamento, quello spazio che si era creato, fra una parte degli italiani che non sopportavano più il regime (quelli che, secondo De Felice, sono “disgustati” dalla politica fascista)36 e una classe dirigente che continuava a vivere all’interno di un mondo che era in gran parte solo di facciata e che – da ciò che si legge nei diari e nella memorialistica – sembrava essersi stranamente isolato dalla realtà. Forse 33. Martinelli, Il fronte interno, 10 novembre 1940, p. 112. 34. Si veda, per numerose citazioni in questo senso, Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione sotto la dittatura, Roma, Carocci, 2015, cap. 9. 35. Alessandra Staderini, Fascisti a Roma. Il Partito nazionale fascista nella capitale (1921-1943), Roma, Carocci, 2014, cap. 9. 36. De Felice, Mussolini il duce, II, p. 221.

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proprio a causa di questo scollamento, l’opinione popolare non sembra abbia inciso molto sulle decisioni dei capi – il che non è sorprendente in una dittatura. Erano in effetti pochi i canali di vera comunicazione – di mediazione – fra i gerarchi e il popolo. Un tentativo fu fatto da Giuseppe Bottai, dopo una visita Firenze nel marzo del 1940, quando fece presente a Mussolini che il popolo non appoggiava la sua politica estera e temeva la guerra; ma la risposta di Mussolini fu un secco «A nessun popolo piace la guerra» e la conversazione finì lì.37 Questa frase, detta proprio da Mussolini, era il riconoscimento di quanto fosse fallita la militarizzazione “mentale” di gran parte della società italiana. Come si legge in un diario – di un fascista deluso – a proposito della mancanza di entusiasmo per la guerra, «Fallimento più palese della verbosa e insincera mistica guerriera del Partito fascista non poteva dimostrarsi».38 Il 1940, in tutte le sue fasi, rende evidente che il progetto fascista non era stato realizzato, che quella missione che mirava alla trasformazione della società italiana non aveva raggiunto i suoi obiettivi – almeno non nel senso che avrebbe voluto il regime. Fu da allora, con il riconoscimento del fallimento del progetto di trasformazione, che iniziò la sequenza delle celebri frasi di disprezzo per il popolo italiano che pronunciò Mussolini.

37. Giuseppe Bottai, Vent’anni e un giorno, Milano, Garzanti, 1949, 30 marzo 1940. 38. ADN, AG/DG89, Paolino Ferrari, 26 maggio 1940.

Simone Duranti «Abolito il libro e imbracciato il moschetto». Il GUF nella Seconda guerra mondiale

DUCE, i fascisti universitari, abolito il libro e imbracciato il moschetto, combatteranno gomito a gomito col fante, col marinaio, con l’aviere. DUCE, gli universitari vinceranno per la tua grandezza. Ti daranno la vittoria. DUCE, come in Affrica, come in Spagna, i giovani di tutti atenei, combatteranno. A prezzo del loro sangue, della vita, vinceranno. DUCE, le aule di tutti atenei si sono sfollate, le prime linee ansimano della fede dei volontari: attendono il tuo ordine per far saltare i catenacci del Mediterraneo.1

Il GUF è stata la struttura dipendente dal partito che inquadrava, su base volontaria, gli studenti universitari, i laureati e i diplomati, fino al loro passaggio al PNF.2 Agli esordi della dittatura il GUF operò per la fascistizzazione degli atenei e per contrastare il resto dell’associazionismo universitario, diventando presto un soggetto politico-assistenziale assai capillare: un GUF per provincia e la possibilità di creare un NUF (Nucleo dei fascisti universitari) in ogni luogo dove fossero disponibili almeno 25 iscritti. Ogni membro si iscriveva al gruppo della città di provenienza ed era tenuto a frequentare il GUF della città sede universitaria nel periodo di attività didattica. Esaurita nel 1937, con intervento staraciano,3 la polemica condotta dagli universitari che chiedevano spazio nella società fascista (come visibilità politica e sbocco occupazionale), rifacendosi allo slogan molto diffuso di «largo ai giovani!», i GUF, dagli anni Trenta, ebbero col1. Non firmato, in «Libro e Moschetto», 34 (10 giugno 1940), p. 2. 2. Il segretario del PNF pertanto era anche segretario dei Gruppi universitari fascisti. 3. La fine delle spinte rivendicative degli universitari venne decretata dal segretario del PNF in un articolo dove ricordava che ormai il ruolo dei giovani nel partito era talmente importante da rendere inconsistente ogni ulteriore polemica. Cfr. Achille Starace, Per l’Impero, in «Libro e Moschetto», 11 (2 gennaio 1937), p. 1.

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locazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dei Dopolavoro e delle federazioni fasciste locali. La presenza degli studenti in queste strutture va intesa come addestramento alla direzione politico-amministrativa attraverso il partito ma anche come terreno di contatto con quei tesserati del PNF lontani dal mondo della scuola. I gruppi universitari pertanto ebbero non solo il compito di studiare la dottrina fascista ma di farsene riproduttori nel Paese.4 Ma il GUF per la maggioranza degli iscritti fu importante soprattutto per la dimensione assistenziale e quella sportiva, giacché gestiva ogni attività connessa alla vita universitaria: dalle mense, alle dispense per i corsi, agli aspetti sportivi, ricreativi ed artistici. Concerti, teatro, cinema, mostre di pittura, scultura e fotografia (oltre ai celebri Littoriali) furono organizzati dai GUF che, soprattutto nei piccoli centri, detenevano una sorta di primato culturale. Il giornalismo fu poi l’ambito per eccellenza dei gruppi universitari che, oltre ad avere periodici autonomi, scrivevano sulla stampa nazionale, quella politica federale e sulle principali riviste del regime come «Gerarchia».5 A fare del GUF un protagonista della dimensione politico-ideologica della società fascista fu la condizione culturale di un Paese che vedeva negli studenti non soltanto la possibile classe dirigente futura ma, nell’immediato, un bacino di competenze alle quali attingere. Fu quindi necessario provvedere, da una parte alla formazione ideologica degli studenti, dall’altra alla loro responsabilizzazione affinché fossero disposti all’agitazione e a diffondere la propaganda in provincia. L’importanza dei compiti del GUF e la capillarità delle sue iniziative ne fecero l’organo dipendente dal partito più finanziato: al 1940 più della metà del bilancio del PNF era destinato ai gruppi universitari.6 Ma il clima bellicista del fascismo determinò anche il disagio di quei ventenni degli anni Trenta privi di una campagna militare per la quale par4. Sulla storia dei GUF si vedano: Luca La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Simone Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Roma, Donzelli, 2008. 5. Rivista fondata dallo stesso Mussolini nel gennaio 1922, mantenne sempre carattere di autorevolezza e ufficialità, ospitando contributi politico-culturali anche di personalità eminenti dell’intellettualità italiana disposta alla collaborazione col regime come Gioacchino Volpe. Il GUF ricevette uno spazio fisso nella rivista e uno dei suoi più noti dirigenti, fondatore della Scuola di Mistica fascista, Niccolò Giani, vi pubblicò nel 1939 il suo atto di fede Perché siamo dei mistici. 6. La Rovere, Storia dei Guf.

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tire volontari, che conoscevano le gesta squadriste solo attraverso il discorso pubblico. Per questo motivo la guerra di Spagna e soprattutto l’Etiopia, furono il palcoscenico del volontarismo goliardico. La guerra mondiale non vide l’organizzazione trionfalistica realizzata dal GUF coi suoi due contingenti approntati per la guerra d’Africa, ma gli universitari vi parteciparono comunque in grande numero, volontari o meno (al 28 ottobre 1942 i gufini alle armi erano 72.455 su un totale di iscritti maschi di 122.383).7 Furono gli studenti già partiti volontari nelle precedenti guerre del fascismo, oppure coloro che per motivi di età non avevano potuto prendere parte alla spedizione africana, a riproporre sulla stampa universitaria il proprio sacrificio per la patria. Il linguaggio era ancora più estremizzato, tanto sul fronte dell’offerta personale, quanto sul piano della spiegazione delle ragioni di una guerra come scontro di civiltà, fra le potenze giovani e progressive e quelle corrotte e giudaiche. Con la guerra mondiale assistiamo di nuovo alle ansie per la partenza, ma in un clima mutato, dove numerosi furono i giovani già in posti di responsabilità politico-amministrativa a partire sapendo di dover conquistare sul campo il diritto ad avere, al ritorno, voce in capitolo nelle decisioni del regime. Disillusione e stanchezza per l’immobilismo sociale del regime spinsero molti ad arruolarsi, accettando lo schema comportamentale promosso dal GUF negli anni Trenta: l’offerta del sacrificio personale in nome di quello “spirito gregario” che caratterizzò le scelte individuali e di gruppo negli anni di militanza nelle strutture del partito. La guerra riuscì addirittura ad apparire sprovincializzante per una parte di giovani che avvertivano il grigiore di una vita ordinaria, lontana dall’eroismo propagandato dal regime.8 La prosa adottata da molti commentatori del conflitto fu conseguenza di una educazione razzista, bellicista con frequenti cadute nell’irrazionalismo. Le profferte di fede furono generalizzate e spiccarono quelle dei mistici,9 che durante la guerra gestirono anche la memoria dei propri cadu7. ACS, SPD, CR (1922-1943), b. 50, fasc. Vidussoni Aldo. Ministro segretario del PNF. 8. Così Davide Lajolo, Viva la guerra, in «Libro e Moschetto», 24-25 (6 aprile 1940), p. 1: «Abbiamo ancora, abbiamo sempre vent’anni, i muscoli duri, non vogliamo invecchiare a tavolino, o curvi nei solchi, o condannati ai magli, vogliamo giocare questa pellaccia in combattimento». Sulla guerra che spezza la monotonia del vivere e sul senso di inferiorità dei gufini verso la generazione precedente, vedi Marina Addis Saba, Gioventù Italiana del Littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 175-180. 9. Sul ruolo della Mistica Fascista come élite all’interno di una già ristretta cerchia di giovani come avanguardia morale del regime, Claudio Pavone mi fornì la seguente lettura

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ti, anticipando il linguaggio lugubre dei fogli della RSI. Appartennero alla Mistica Fascista due personaggi importanti del fascismo giovanile: Guido Pallotta e Niccolò Giani, morti in guerra rispettivamente nel dicembre 1940 (in Cirenaica) e nel marzo 1941 (fronte greco-albanese), e celebrati dalla pubblicistica fascista come esempio per la gioventù. La morte di Giani ricevette, per gli anni restanti di guerra, attenzione celebrativa e quasi esegetica, con la pubblicazione del suo testamento spirituale dedicato al combattentismo fascista,10 e della lettera da lui indirizzata al figlio, utilizzata da Mezzasoma, fin nel 1945, per dimostrare le qualità del giovane soldato fascista.11 Ma è a Pallotta che si riservò una celebrazione superiore a qualunque altro “mito” della gioventù, Arnaldo Mussolini compreso. Raggiunta nel 1939 la vicesegreteria nazionale dei GUF, Guido Pallotta stesso aveva promosso l’utilizzo politico dei morti per la rivoluzione e dei volontari caduti. Il giornale del GUF di Torino «Vent’anni», da lui fondato, mantenne lo stile del suo animatore, a partire dalle suggestioni dannunziane e dal mito delle terre irredente. Quando Pallotta morì nel conflitto in Africa,12 «Vent’anni» lo salutò non con il «Presente!» dovuto ai fascisti caduti, ma col motto caro ai legionari fiumani: «Traù, Traù, Traù, Spalato!». Si ricordò che era stato volontario di quattro guerre e simbolo della gioventù del dovere, della dedizione alla causa, autore di un decalogo sulle virtù e sul dovere del giovane fascista che «Vent’anni» pubblicò e commentò ripetutamente dopo la sua morte. Il GUF lo trattò come il vero mito della gioventù che con i suoi quarant’anni era stato veicolo di trasmissione del combattentismo fascista da Fiume, attraverso lo squadrismo e la marcia su Roma fino all’Africa nella nostra intervista (rimasta inedita) del 14 marzo 2002: «C’è l’idea e la vera e propria teoria di una “aristocrazia di massa”, diciamo. C’è una scuola di Mistica Fascista e io mi ricordo che, oltre gli slogan, i giovani del partito apparivano come una aristocrazia che era poi una trasposizione militaristica nell’ambito di una concezione di massa. Questo è poi il problema più generale di tutti i regimi di massa che inevitabilmente finiscono con dei militarismi esasperati e nella sua variante fascista italiana l’avevano individuato con questa formula che per i giovani era di esaltazione, di propaganda. In fondo avevano individuato il problema reale…». 10. Testamento di Giani, in «Libro e Moschetto», 5 (22 novembre 1941), p. 3. 11. Fernando Mezzasoma, Niccolò Giani soldato di Mussolini, in «Corriere della Sera», 15 marzo 1945, p. 1. 12. Pallotta, appartenente al raggruppamento Maletti, risultò disperso in Africa e ancora nel febbraio 1941 la redazione di «Vent’anni» ne chiedeva notizie. Cfr. ACS, SPD, CO (1922-1943), b. 1277, fasc. 510.101 Pallotta Guido, già Segretario del GUF di Torino.

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orientale, a capo di un battaglione universitario da lui voluto. Pallotta piaceva perché fu un gerarca con atteggiamenti giovanili, mistico e concreto, che incarnava con la propria ascesa la possibilità di successo per i propugnatori della purezza di ideali nel fascismo. A questa conclusione giunse l’opuscolo celebrativo realizzato dalla «Gazzetta del popolo» di Amicucci, che ricordava ai lettori che con Pallotta non è morto soltanto il campione della gioventù gufina, ma un gregario alla fine assurto ai vertici della struttura fascista. Ed è proprio con il conflitto che Mussolini e il suo entourage scelsero di promuovere ai vertici del partito i giovani combattenti, come Muti e Vidussoni. Giunsero quindi alla ribalta i reduci dal fronte spagnolo e i mutilati: figure omogenee al clima guerresco, alle immagini di morte e di sacrificio per la patria. Con l’inizio dell’arruolamento il partito chiese ai segretari dei GUF provinciali di segnalare «il nominativo di un fascista universitario inabile alle fatiche di guerra, possibilmente mutilato, che possa sostituirti in caso di richiamo alle armi».13 Si stabilì inoltre l’utilizzo dei “reggenti” (figura ricavata dai vicesegretari o membri del direttorio) piuttosto che rinnovare le cariche di segreteria centrale e provinciale dei GUF durante l’assenza dei titolari volontari di guerra. In questo modo si poteva ricordare, ad ogni citazione di stampa, al resto del Paese la scelta di eroismo dei leaders universitari.14 La figura del mutilato (come Ettore Muti, segretario del partito, reduce dalla Spagna) apparse al partito un importante elemento propagandistico e pedagogico nell’imminenza di guerra, anche se, dalla memorialistica e dai fasciscoli personali dei protagonisti, tale scelta venne giudicata poco seria e di pura facciata. Ma i mutilati rispondevano anche alla retorica dei “crociati dell’idea” tipica dei mistici e di quei settori dei GUF che si nutrivano di bellicismo esasperato. Per i littoriali della cultura del 1940 i concorsi e i convegni furono preceduti da prove individuali di tiro col fucile.15 Alcuni giornali goliardici 13. Circolare n. 8/8 del 21 maggio 1940 del Segretario del PNF ai segretari dei GUF in ACS, PNF, Direttorio Nazionale, Servizi Vari (serie I), b. 358. 14. Il foglio di disposizioni n. 70 del 3 marzo 1941 ricordava i segretari dei GUF partiti volontari per la guerra mondiale: «Ottantaquattro Segretari di GUF hanno a tutt’oggi chiesto e ottenuto l’arruolamento volontario in reparti operanti. Il Segretario del Partito ha disposto che i Reggenti e gli attuali Segretari di GUF rimangano in carica fino a partenza ultimata dei Fascisti universitari volontari, il cui inquadramento sarà gradualmente ordinato». 15. Circolare n. 8/60 dell’8 aprile 1940. Cfr. Saper sparare, in «Libro e Moschetto», 14 (27 gennaio 1940), p. 4, a commento della introduzione della prova di tiro a segno

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mutarono titolo per esplicitare il riferimento alla guerra: con una croce si cancellava la prima parola da «Libro e Moschetto», a ricordare che, con la fine del tempo dello studio, rimaneva solo spazio per il combattimento, e «Vent’anni», il principale suscitatore del bellicismo universitario, tornò a chiamarsi «Vent’anni in armi» stabilendo un ponte ideale con l’Africa orientale.16 La preparazione del conflitto non passò soltanto attraverso gli scritti sulle virtù guerriere presenti e passate d’Italia e l’esecrazione del nemico, ma riproponendo il martirologio della gioventù universitaria. Un sacrificio osservato dall’angolo visuale di studenti che recuperano i valori ottocenteschi e dell’antichità purché esemplificati dai giovani. Il coinvolgimento italiano nel conflitto condizionò le scelte lessicali e in ogni giornale dal 1940 venne esaltata la morte come sinonimo di purezza e spirito di missione. Il ristretto settore della mistica fascista ebbe un ruolo privilegiato in questo terreno,17 con racconti sul sacrificio eroico nelle guerre d’indipendenza, nel primo conflitto mondiale e durante lo squadrismo. «Libro e Moschetto» pubblicò frequentemente il motto: «La goliardia combatte. La goliardia muore. La goliardia trionfa». Il GUF si propagandava quindi compatto di fronte al nuovo appuntamento militare, con in testa Vidussoni, mutilato del fronte spagnolo, futuro segretario del PNF proveniente dai vertici dei gruppi universitari e comandante della «Legione degli Atenei»: l’uomo giusto per interpretare l’anima gufina che prendeva parte all’ultima guerra del fascismo.18 «senza la quale non potrà essere convalidata la eventuale classifica conseguita nei concorsi e nei convegni». Il brano si concentrava sul significato emotivo-spirituale della prova, sull’impressione che lasciava nello studente l’aver sparato prima di mettersi a discutere di arte e letteratura. 16. «Vent’anni in armi. Quindicinale di combattimento», A. VII, 16 (15 giugno 1940), presentava il motto accanto al titolo: «Vincere! E vinceremo». Cfr. a p. 1, Cambio del direttore: «Giuseppe Castelli, già volontario in Africa, che aveva sostituito Guido Pallotta nella direzione del suo Vent’anni, si è arruolato. Il plotone di Vent’anni con alla testa Pallotta, ritorna al fuoco. La direzione di Vent’anni in armi è stata assunta da Paolo Cesarini, decorato al V.M., mutilato di guerra in AOI». 17. All’inizio del 1940 la Scuola di Mistica fascista tenne a Milano il convegno «Perché siamo mistici» dove spiccavano le relazioni di Niccolò Giani, Guido Pallotta e di Fernando Mezzasoma, riproposte e commentate dalla stampa nazionale. Il testo integrale di Pallotta, Valore e funzione della mistica nella dinamica della rivoluzione fascista, in «Libro e Moschetto», 18 (24 febbraio 1940). 18. La medaglia d’oro Vidussoni alla reggenza dei GUF, in «Libro e Moschetto», 3 (8 novembre 1941), p. 1. Si veda anche ACS, SPD, CR (1922-1943), b. 73, fasc. Vidussoni Aldo, medaglia d’oro.

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Essere mobilitati però non garantiva l’immediato raggiungimento del fronte giacché il regolamento approntato dal partito e dal ministero della guerra prevedeva la partenza per zone di guerra dopo un addestramento di tre mesi. Gli universitari quindi non placarono la loro ansia di protagonismo e scrissero lettere di protesta perché stanchi di aspettare a conclusione del trimestre necessario.19 La classe del 1920 si sentiva inspiegabilmente trascurata: così si espresse uno studente del GUF di Agrigento, osservando che, tranne la sua, tutte le classi dal 1916 al 1921 erano state mobilitate.20 Ma le aspirazioni ideali dei singoli erano contigue a quelle più prosaiche di sistemazione degli affari personali, di un corso di laurea da concludere, per il quale si chiedeva una licenza che tardava ormai da troppi mesi.21 Esigenze belliche, protagonismo militare e vita accademica inevitabilmente si scontrarono, nonostante il libro avesse lasciato posto al moschetto. Il progetto di legge del ministero dell’Educazione nazionale per l’introduzione del numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza, Scienze politiche ed Economia e commercio, fu malvisto dal PNF, che in pieno 1942 riteneva controproducente porre dei vincoli a un settore politicizzato e centrale per il consenso come quello degli universitari. Il segretario Vidussoni infatti ricordava che «a prescindere da ogni considerazione di natura economico-sociale, l’attuazione della legge proposta da codesto ministero verrebbe ad incidere in un settore della nazione particolarmente delicato sotto l’aspetto politico».22 Mentre il regime utilizzava l’immagine dei volontari che lasciavano le proprie occupazioni di studenti e gli eventuali incarichi politici come esempio per il resto di un Paese tiepido nei confronti della guerra, affidò 19. Alcune suppliche e proteste al duce vennero introdotte da Farinacci, in ACS, SPD, CO (1922-1943), b. 1471, fasc. 515.141 Studenti Universitari Volontari. Nel fascicolo è interessante il carteggio fra il segretario di Mussolini, Osvaldo Sebastiani e suo figlio Paolo, del 19° reggimento artiglieria divisionale di Firenze. Il 19 maggio 1941 il giovane laureato si fece latore della richiesta sua e di altri 40 volontari universitari «di essere assegnati subito ad un reparto mobilitato, possibilmente dislocato in Libia». 20. ACS, SPD, CO (1922-1943), b. 1813, fasc. 526.685 «Universitari chiamati alle armi». 21. «I padri degli universitari classe 1921», in una lettera indirizzata al «Popolo d’Italia» e girata al duce dal direttore Giorgio Pini, chiesero il congedo provvisorio per i propri figli, classe 1921 (partiti il 1o marzo 1941 e al maggio 1942 ancora in servizio) e la sostituzione con quella del ’20 mai chiamata alle armi e quella del ’22 differita al 1943. Cfr. ACS, SPD, CO (1922-1943), b. 1471, fasc. 515.141 «Studenti Universitari Volontari». 22. Vidussoni, il 12 agosto 1942, in ACS, SPD, CO (1922-1943), b. 1813, fasc. 526.685 Universitari chiamati alle armi.

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a Mezzasoma il compito di consolare i gufini che non avevano ottenuto il battesimo del fuoco. Il brano, sottoforma di lettera dal fronte, era una sintesi delle suggestioni e dei valori che erano circolati nel GUF, sulla sua stampa e nelle celebrazioni universitarie per un decennio. Inoltre, l’estensore del messaggio del partito ai giovani era quel vicesegretario che per buona parte degli anni Trenta era stato la guida del GUF. Mezzasoma fu esplicito nello «spiegare ai fascisti universitari che coloro i quali hanno avuto il privilegio di impugnare le armi non sono migliori di loro, ma soltanto più fortunati, e stanno a rappresentare in questa guerra rivoluzionaria tutta la nuova generazione», e che l’ordine nuovo determinato dal conflitto avrebbe significato «civiltà nuova e avvento di giovani classi dirigenti».23 L’addestramento militare dei volontari non passò soltanto attraverso l’esercito: fu la Milizia, con la sua divisione per universitari, a rappresentare il collegamento fra le varie istituzioni. Da una parte il GUF, l’università e il PNF, dall’altra il ministero della Guerra e lo stato maggiore dell’esercito. La Milizia Universitaria fin dalle origini del fascismo gestì le esercitazioni militari e organizzò i corsi per allievi ufficiali, frequentati, fra il 1919 e il 1943 da circa cinquantamila studenti.24 Tradizionalmente il ricordo della frequentazione della Milizia serbato dai testimoni si concentra sul senso d’obbligo e di fastidio per una attività dal sapore farsesco. Un atto dovuto al militarismo del regime che però ebbe il vantaggio di togliere la preoccupazione della leva, frequentando i corsi allievi ufficiali durante il corso di laurea. Solamente per chi fece proprie le istanze volontaristiche la Milizia fu un’esperienza necessaria, perché rappresentava una delle possibilità di arruolamento. Battaglioni universitari veri e propri infatti vennero costituiti soltanto per l’Africa orientale e se ne propose l’allestimento nel 1943 con l’imbarazzata motivazione di togliere bocche da sfamare a famiglie già in difficoltà per gli sfollamenti. La Milizia avrebbe rappresentato un ulteriore concentramento di forze nell’Italia centrale con funzioni di difesa del territorio e di ordine pubblico, raccogliendo universitari che trovavano le proprie sedi sfollate per esigenze belliche.25 Ma, al di là dell’impegno materiale nel conflitto, la Milizia universitaria fu un altro tassello predisposto dal regime per la militariz23. Fernando Mezzasoma, I giovani e la loro guerra, in «Libro e Moschetto», 3 (9 novembre 1940). p. 1. 24. MVSN - Comando Generale - Ispettorato Generale della Milizia Universitaria, XIX Annuale della Milizia Universitaria, Roma 29 maggio 1943, p. 31. 25. Ivi, pp. 16-17.

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zazione della società, inserendo l’attitudine guerriera fra i valori e i doveri degli studenti. Si trattava del coronamento di un percorso iniziato con i fucili di legno per i giovanissimi in divisa, perpetuato attraverso i rituali della leva fascista fino alla fine di un iter che portava al partito attraverso una militanza all’insegna di libro e moschetto. Con la partecipazione alla guerra la goliardia spariva lasciando spazio alla militarizzazione, consentendo ai rettori di elogiare la serietà di chi aveva tramutato la tradizionale esuberanza giovanile in cameratismo. L’attività militare, il volontarismo e almeno la partecipazione alle adunate della Milizia riportavano in auge negli studenti il mito risorgimentale e soprattutto quello dei giovani ufficiali durante la Prima guerra mondiale.26 I caduti, feriti e dispersi sui fronti di guerra vennero conteggiati assieme a quelli dell’Africa orientale e della Spagna e un appunto per il duce del 1943 ricordava il «contributo di sangue dato dai fascisti universitari nelle tre guerre della Rivoluzione», con 135 medaglie d’oro, 1580 decorati, 1340 caduti (fra i quali 12 gerarchi e 10 littori).27 Gli atenei assegnarono medaglie ai reduci e a quei caduti ai quali la stampa universitaria dedicava sempre omaggi biografici. In alcuni casi, come a Pavia si andò oltre la visione d’insieme delle guerre fasciste collegandosi al volontarismo degli universitari dal Risorgimento e riportando nomi e motivazioni delle medaglie assegnate. Al di là della dimensione celebrativa e propagandistica, il conflitto determinò una sorta di resa dei conti fra le gerarchie militari e del partito e quei gufini che non nascondevano un malumore diffuso per le ambiguità amministrative del regime. Si tratta di una posa giustizialista che è stata utilizzata per diffondere nel dopoguerra il concetto di “fascismo di sinistra”, sintetizzato dagli sfoghi di Berto Ricci a Guido Pallotta e di quest’ultimo a Lajolo, fin dai tempi della guerra di Spagna.28 Ma l’autoproclamata purezza rivoluzionaria venne contestata persino dagli ispettori del partito 26. Sulla gioventù colta imbevuta di nazionalismo che volle e ottenne la partecipazione al primo conflitto mondiale, si veda Catia Papa, L’Italia giovane. Dall’Unità al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2013. 27. ACS, SPD, CR (1922-1943), b. 50 Vidussoni Aldo. Ministro segretario del PNF. 28. Ne Il Voltagabbana di Davide Lajolo (Milano, Il Saggiatore, 1963) sono ricordate le lettere ricevute da Pallotta e da Ricci. Delmo Maestri (in Resistenza italiana e impegno letterario, Torino, Paravia, 1975) le cita come esempi della fine del lungo viaggio di quei giovani che attraverso il “fascismo di sinistra” si sarebbero apprestati alla resa dei conti col regime. In realtà, operazioni editoriali di questo tipo, pur promuovendo un senso civico resistenziale a livello pedagogico, contribuiscono a consolidare immagini fuorvianti di biografie che, come quella di Pallotta, rimangono a pieno titolo nel versante fascista e non nel suo opposto.

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che denunciarono l’inadeguatezza delle spese e dei lussi che gli universitari si permettevano in pieno clima bellico e in netta discrepanza con la condizione della popolazione.29 Aumentava la distanza fra le spinte ideali del volontarismo universitario e le ragioni concrete dei vertici militari: la Milizia e l’esercito invitavano a maggiore coordinamento il GUF e gli studenti mentre continuava la supplica per la partenza degli universitari.30 Il carteggio fra centro e periferia mostra l’incomprensione fra mondi che appaiono, al di là dei codici ufficiali, sempre più inconciliabili. Dal fronte giunsero anche gli sfoghi di quegli universitari che denunciavano nei loro confronti ostilità e sospetto da parte dei militi che non avevano lo status dei gufini. Si trattava di una cesura importante: la fine di quel percorso di avvicinamento degli operai e dei contadini da parte degli studenti praticato per un decennio. La loro leadership garantita dal “largo ai giovani” produsse nel tempo il fastidio verso i primi della classe da parte della truppa non certo coinvolta nei ragionamenti sul protagonismo guerriero giovanile. Uno studente sottufficiale con amarezza denunciò il clima di sospetto verso i militi provenienti dal GUF, accusati di essere «una specie di informatori del partito, di “Commissari del Popolo”. […] Vengono ora trattati come dei reprobi, degli elementi esaltati. Ciò solo per aver voluto veramente fare la guerra».31 Su Vidussoni poi, non si contavano le relazioni e le lettere anonime centrate sulla vuotezza della sua figura di giovane sprovveduto e incapace a tenere le redini del partito nelle difficoltà del tempo di guerra. Alcuni si concentrarono con fastidio sulla sua figura, non solo inadeguata alle esigenze politiche contingenti, ma soprattutto perché frutto di quel clima abusato di ricerca di protagonismo giovanile.32 Ma la disillusione e la messa in discussione del ruolo di servitori disinteressati del regime giunsero ad una parte dei gufini soprattutto dal duro 29. Relazione di una ispezione amministrativa in ACS, PNF, DN, SV (Serie II), Carteggio del Direttorio (1922-1943), b. 225, fasc. GUF 1940-1941. 30. Appunto per il Capo di Stato Maggiore Ugo Cavallero sulla necessità di collegamento fra la segreteria dei GUF e gli universitari combattenti, in ACS, SPD, CR (19221943), b. 50, fasc. Vidussoni Aldo. Ministro segretario del PNF. 31. Nel memoriale Come furono trattati i volontari universitari a firma di Giulio Gasparini dell’11 giugno 1942, in ACS, SPD, CO (1922-43), b. 1741, fasc. 515.141 Studenti universitari volontari. Il documento dovette apparire interessante anche al duce che ricevutolo in visione lo trattenne (come riporta un appunto a matita). 32. Si veda la relazione sul malcontento creatosi per l’operato di Vidussoni in ACS, SPD, CR (1922-1943), b. 50, fasc. Vidussoni Aldo. Ministro segretario del PNF.

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confronto con la guerra vera: una dinamica analizzata bene da Nuto Revelli, che centrava proprio nel disastro bellico la fine dell’entusiasmo per il fascismo e i suoi miti.33 Si trattava di una svolta evidente nelle biografie di vari militanti fascisti provenienti dalle avanguardie giovanili. Il tema ha alimentato dal dopoguerra la annosa querelle fra chi tendeva a ridimensionare il valore delle “conversioni” dell’ultim’ora e la vulgata zangrandiana interessata a retrodatare l’inizio di quel “lungo viaggio” che avrebbe portato molti gufini puri di ideali verso l’antifascismo.34 Sulle biografie degli interpreti più intraprendenti della stagione gufina, fra fascismo e crollo del regime, agirono quindi tendenze politiche opposte: il neofascismo li definiva con disprezzo traditori e opportunisti mentre i seguaci di Zangrandi leggevano azioni e scelte secondo il «calvinismo dei vent’anni».35 In entrambi i casi si perdeva l’occasione di riflettere con complessità sulle dinamiche del distacco dal fascismo, spesso originato dalla scoperta degli orrori della guerra e delle responsabilità del regime. L’occasione di un focus sul ruolo degli universitari nella Seconda guerra mondiale mi permette di ricordare l’esistenza di un percorso di maturazione antifacista che fu successivo alla Spagna o alle leggi razziali. Ci furono infatti quei giovani che dopo l’8 settembre fecero la scelta partigiana, o come reazione riparatoria dopo aver compreso gli “inganni” del fascismo, o per patriottismo di fronte all’occupazione del paese da parte dell’ex alleato tedesco. Si osservi in conclusione la vicenda esemplare di Renato Molinari, classe 1910, ex segretario del GUF di Teramo e volontario di guerra. Apparteneva alla Scuola di Mistica fascista e con questa struttura mentale scrisse come corrispondente di guerra su «Vent’anni» per tutto il 33. Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2003. 34. L’espressione “lungo viaggio” deriva da Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio. Contributo alla storia di una generazione, Torino, Einaudi, 1947. L’edizione alla quale si fa correntemente riferimento è però quella del 1962, pubblicata da Feltrinelli, contenente un’appendice documentaria di grande importanza che porta il volume dalle originarie 167 pagine a 741. Il titolo stesso si completa, diventando quel Lungo viaggio attraverso il fascismo divenuto un nodo storiografico-concettuale. Su questo tema si veda Simone Duranti, Il confronto con Zangrandi e Spinetti, in Id., Lo spirito gregario, Roma, Donzelli, 2008, pp. 5-27. 35. Questa espressione fu impiegata da Franco Fortini, a conclusione della sua recensione del volume di Zangrandi, riferendosi all’insofferenza di parte dei giovani del GUF nei confronti dei vertici di un fascismo che aveva tradito quegli ideali di purezza e sacrificio che aveva propagandato. La recensione di Fortini, Un viaggio non finito, in «l’Avanti!», 13 gennaio 1948, è riprodotta in Zangrandi, Il lungo viaggio, pp. 504-506.

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1941 dal fronte greco-albanese, inviando commemorazioni di compagni caduti e analisi politico-militari del conflitto. Si era ancora molto distanti dalla disillusione che lo portò alla scelta partigiana dopo l’8 settembre. Il registro di Molinari era quello della fede dei mistici nella missione dei giovani di Mussolini che si mettono alla prova dei fatti al fronte. Il suo linguaggio risultava perfettamente in linea con quello di «Vent’anni», il più risoluto fra i fogli universitari, che si oppose sempre a visioni strumentali e carrieristiche del largo ai giovani ricordando che l’unico diritto della gioventù fascista era quello di servire la causa, a casa come al fronte. Per questo è sbagliato leggere oggi come antisistemica la sua deprecazione del fascismo corrotto dei gerarchi e non conseguente con gli assunti rivoluzionari delle origini. Molinari non criticava il regime secondo la tattica dell’“entrismo” portata avanti da Curiel, ma operava per la fortificazione e la perfettibilità del sistema fascista. Per comprendere la parabola di Molinari vale la pena soffermarsi su una sua poesia del 1940 e su una lettera scritta dal fronte intercettata dalla censura. Il componimento per Mussolini è interessante perché tipico dell’approccio dei mistici e perché consente di individuare lo stile e le convinzioni dell’autore al momento dell’entrata in guerra, col sacrificio della gioventù espresso come prorompente volontà: O DUCE, […] portaci ad ogni ventura, su tutto ch’è vecchio su tutto che vive, crociati del Fascio Littorio, nel nome Tuo cavalieri! E fa che nell’ultimo assalto – il vertice estremo, il più alto, conquiso – possiamo cadere: pria che Tu, sceso di sella, riponga la spada Tua bella: ché vivere noi non vogliamo la pace tranquilla ed uguale, ma noi vogliamo morire ne l’attimo estremo di guerra, ma per ascendere ancora, armati e frementi de l’ultimo assalto trionfante e vincer nell’alto dei cieli: perché noi vogliamo combattere per Te oltre l’ultimo assalto!36

Il 24 agosto 1941, dal Montenegro, Molinari scrisse ad un amico comunicando la delusione per le difficoltà di guerra imputabili a carenze strutturali che denotavano l’abbandono, l’incapacità, e il “tradimento” dei vertici militari e politici. Ma rimaneva intatta la fede in Mussolini e nella gioventù fascista, autenticamente devota al suo capo. Emergevano le spinte di giustizia sociale tradite dalla prassi fascista, e soprattutto era forte 36. Renato Molinari, Invocazione al Duce, in Id., Trilogia al Duce, Teramo, tip. “Il progresso”, 1940, raccolta di tre poesie dedicate «Al nostro mito eterno: ROMA. All’eroe del nostro mito: IL DUCE».

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l’insofferenza per lo spettacolo indecoroso di un Paese amorfo, distante dal clima ideale, dalla tensione eroica propugnata dai mistici: Dobbiamo vincere, per riprendere la lotta e riaffermare la vittoria sui vigliacchi, sugli imboscati, sui profittatori, sui sorpassati del sistema. Il Fascismo di domani vorrà il CREDO di Giani, caduto sul Golico: ‘Credo in DIO, in MUSSOLINI, nei GIOVANI. Il mio mito è un Impero Fascista con degli Italiani CONSAPEVOLI [scritto maiuscolo a tutto rigo e sottolineato tre volte] (quanti volumi richiederebbe questa parola!…) della DIGNITÀ e della RESPONSABILITÀ di governare il mondo’. Giustizia sociale e Imperialismo Fascista. Potremmo dire Socialimperialismo – non Socialnazionalismo ormai superato per noi. Sarà Rinascita. Riprenderà la Rivoluzione. Ai cadreghisti e ai tesserati, a quei marciatori della 1a ora (per fortuna non tutti) che non hanno sentito il dovere di marciare ancora [sottolineato due volte] e sempre, chiederemo ragione del loro sangue non versato. Dei deboli, degli ascoltatori creduli, dei supini, dei vociferatori, dei profittatori, nessuna pietà. Si tradisce egualmente la Patria vendendo suole di cartone o incettando pasta o sapone, dando per insipienza o per massoneria ordini sbagliati a battaglioni e divisioni, facendo per deficenza cerebrale o per piani preordinati mancar viveri materiali munizioni corrispondenza alla truppa in linea. Ma il Popolo, tradito come Cristo e come il DUCE ha retto alla prova – non ha creduto all’osceno giuoco che voleva addossare a LUI la colpa sulla disorganizzazione. MUSSOLINI HA SEMPRE RAGIONE. Perciò VINCEREMO! W il Duce! W i Giovani! W l’Impero! Tuo Renato.37

Nella lettera sono chiari i sintomi di quella crisi che esplose col crollo del fascismo. Da quel momento Molinari si unì ai partigiani, combattendo i tedeschi in Francia, e venne torturato e fucilato dai nazisti a Rivoli il 10 marzo 1945. Il suo percorso fu certamente comune ad altri giovani di ritorno dal fronte dopo l’8 settembre e in una lettera alla moglie del 12 37. ACS, MI, Divisione Polizia Politica, b. 850, fasc. Renato Molinari. I contenuti della lettera intercettata dalla censura mossero la richiesta di informazioni su Molinari alla prefettura di Teramo che così si espresse il 23 settembre 1941: «Si tratta di giovane entusiasta del Regime, che ha ricoperto numerose cariche pubbliche, fra cui quella di Segretario del GUF di Teramo e Comandante del Fascio Giovanile. Colto e intelligente, è […] autore di varie pubblicazioni apologetiche del Fascismo e del DUCE, ha vinto anche il concorso nazionale sul tema “Mistica del Razzismo Fascista”, indetto dalla Scuola Mistica Fascista di Milano. Il Molinari, che è insignito di Sciarpa Littorio ed è stimato come professionista, come gerarca e come cittadino, partecipò a tutta la campagna di Grecia, compiendo entusiasticamente il proprio dovere ed esaltando, nei suoi scritti la bellezza del sacrificio per l’Ideale della patria e del Fascismo».

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novembre 1944 assistiamo al ripensamento del passato di Molinari, mentre si faceva evidente la conversione politica: «occorre che io dimostri coi fatti la mia comprensione per la nuova Italia e di essere guarito dalle illusioni della mia gioventù. Occorre che alle parole e agli scritti della mia inesperienza io contrapponga i fatti della mia piena maturità».38 Ancora negli anni Sessanta i commentatori di queste vicende si esprimevano con una retorica che, pur ribadendo il valore fondativo della Resistenza per il Paese, si limitava ad esaltare concetti vaghi di coerenza, sacrificio, onestà e coraggio del combattente. Il linguaggio adottato colpisce per la vicinanza con quello del fascismo giovanile e solamente contestualizzando si comprende che si tratta di una orazione per il Ventennale della Liberazione: La Patria brillò in cima ai Suoi pensieri, come il sole mattutino sulle vette dei faggi. Le lusinghe dei successi del Foro, la dolce quiete familiare, il sorriso delle bimbe, l’amore stesso, nulla lo fermò sulla soglia. Ed errò per anni ed anni come un cavaliere antico dove lo trassero il dovere militare e la guerra sotto tutti i cieli e per tutte le alpi, dalle Giulie al Montenegro, dall’Epiro ai Vosgi. Dovunque occorse si batté entusiasta, senza risparmio e la notte poetò serenamente al chiaro della lampada della Morte.39

38. Ibidem. 39. Carino Gambacorta, Alberto Pepe e Renato Molinari martiri della Resistenza, Teramo, Edizioni ECO, 1971, opuscolo celebrativo dei due martiri medaglia d’argento della Resistenza, pubblicava l’orazione pronunciata il 14 giugno 1964 dal prof. Gambacorta presso il comune di Teramo per il Ventesimo della Liberazione. Su Molinari si veda il profilo e le lettere ai familiari prima dell’esecuzione in www.isrn.it/lettere-dei-condannatia-morte-della-resistenza-novarese/molinari-renato/.

Lucia Ceci I cattolici tra “non belligeranza” e intervento italiano

La storiografia che negli ultimi trent’anni ha indagato i rapporti tra chiesa e guerra in età contemporanea ha delineato, per quel che riguarda l’Italia, una ricca stagione di studi. Al suo interno, tuttavia, non hanno ancora ricevuto un’attenzione adeguata le posizioni della Chiesa italiana nel secondo conflitto mondiale, pur potendo la storiografia contare su una solida letteratura in relazione ai temi della legittimazione religiosa della guerra e sulla linea assunta da Pio XII,1 figura quest’ultima che potrà essere ulteriormente illuminata dallo scavo sulle nuove fonti archivistiche vaticane.2 I dilemmi e i silenzi di Pacelli, i precedenti delle guerre di Etiopia e di Spagna sono aspetti noti e studiati, non li ripercorreremo. Dando ciò per acquisito, la ricerca alla base di questo contributo è partita da un interrogativo: quali sono i principali fenomeni ad attrarre l’attenzione dei cattolici nelle settimane che precedono l’intervento? Tale domanda è strettamente connessa alla successiva: attraverso quali categorie essi guardano alle vicende internazionali e alla guerra? 1. Italo Garzia, Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, Brescia, Morcelliana, 1988; Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Milano, Rizzoli, 2000; Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 131-168; Lucia Ceci, La Chiesa cattolica e la politica armata, in 1914-1945. L’Italia nella guerra europea dei trent’anni, a cura di Simone Neri Serneri, Roma, Viella, 2016, pp. 223-236; Renato Moro, Il mito dell’Italia cattolica. Nazione, religione e cattolicesimo negli anni del fascismo, Roma, Studium, 2020. In ambito regionale Giorgio Vecchio, Lombardia. 1940-1945. Vescovi, clero e società alla prova della guerra, Brescia, Morcelliana, 2005. 2. L’apertura alla consultazione degli studiosi delle carte relative al pontificato di Pio XII, prevista per il 2 marzo 2020, è stata bloccata per diversi mesi e poi molto ridotta a causa dell’epidemia di Covid-19. Tra i primi volumi che hanno utilizzato alcune di queste fonti in relazione al secondo conflitto mondiale: David I. Kertzer, The Pope at War. The Secret History of Pius XII, Mussolini, and Hitler, New York, Random House, 2022.

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Sul piano metodologico, corre l’obbligo di ribadire che il “mondo cattolico”, anche dopo il 1938, rappresenta una realtà articolata al cui interno si esprimono posizioni ideali e opzioni politiche non univoche. In questa sede si è scelto, programmaticamente, di mettere a fuoco soggetti e iniziative che assunsero i contorni di fenomeni di massa. L’analisi non si concentra dunque sull’antifascismo cattolico e accenna solo marginalmente alla Santa Sede. Vale comunque la pena ricordare che il pontefice, allo scoppio della guerra, evitò di nominare l’aggressione della Germania; che sospese, almeno negli interventi pubblici, il giudizio sulle responsabilità della guerra; che intervenne duramente, anche su pressione della diplomazia tedesca, contro l’attacco russo alla Finlandia. È una linea questa che risulta dagli interventi di Pio XII, resa pubblica tramite «L’Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica»,3 ma anche attraverso Radio Vaticana, emittente riorganizzata da Pacelli anche in funzione delle vicende belliche, che dal 1939 proponeva palinsesti diretti verso Europa, Americhe, Filippine, India e Africa.4 Analogamente si può richiamare il fatto, anch’esso noto e studiato, che nei mesi successivi allo scoppio della guerra il pontefice si mosse perché l’Italia restasse fuori dal conflitto, con l’aspirazione che la «non belligeranza» dichiarata da Mussolini potesse rappresentare lo spazio favorevole a svolgere un’opera di mediazione tra le parti. Patroni d’Italia Durante gli ultimi mesi del 1939 i riflettori della stampa quotidiana e settimanale, del cinema e della radio, le iniziative devozionali mobilitanti apparvero concentrati sull’omaggio da dare a san Francesco e a santa Caterina, proclamati patroni primari d’Italia il 18 giugno 1939. Si trattava di un tema neutrale solo in apparenza. A partire dagli anni Venti, ma soprattutto dopo i Patti lateranensi, il culto tradizionalmente dedicato a Francesco e Caterina era stato trasformato in culto politico a supporto dello Stato che si considerava finalmente affrancato dal laicismo della classe dirigente liberale e per questo dotato di due protettori celesti. La 3. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, pp. 51-63. 4. Raffaella Perin, La radio del papa. Propaganda e diplomazia nella seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 49-99.

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trasformazione del culto era passata attraverso la pubblicistica, la radio, la letteratura per l’infanzia.5 Dall’autunno del 1939 in avanti, le manifestazioni religiose e gli approfondimenti sui patroni d’Italia paiono onnipresenti. Nell’aprile 1940, a Siena, il cardinale Carlo Salotti invocava la benedizione della santa con accenti militareschi: «Benedici l’Italia, benedici le sue genti, le nostre case, le nostre milizie».6 Nella Curia Salotti rappresentava una figura centrale per le questioni dei santi e dei patroni in quanto prefetto della congregazione dei riti che presentò a Pio XI prima e a Pio XII poi la richiesta di proclamazione di san Francesco e santa Caterina patroni d’Italia, con un ruolo attivo nella modulazione in senso marziale, romano e fascista del rito. Le celebrazioni annuali di santa Caterina (che si tenevano a Siena il 29-30 aprile) vedevano la partecipazione costante dell’Opera nazionale balilla, i cui cappellani dipendevano dall’Ordinariato militare, che aveva sede a Roma presso la chiesa di Santa Caterina da Siena a Magnanapoli, si svolgevano con saluti romani e cantando Giovinezza. Dal 1931 inoltre le organizzazioni giovanili femminili fasciste avevano nella santa la propria patrona. Si trattava insomma di un culto già innestato nella pedagogia guerriera del regime. Non mancarono tuttavia le associazioni tra la devozione alla santa e l’invocazione della pace. Il 28 aprile del 1940 «Squilli di risurrezione», il giornale della Gioventù femminile di Azione cattolica, definì Caterina la santa della Patria, ma «nell’ora grave della storia» insistette su alcune virtù esemplari della senese: la verginità naturalmente, ma anche la missione «diplomatica» ad Avignone per il ritorno a Roma del pontefice e la ricostituzione dell’unità della Chiesa. Nella stessa pagina, inoltre, si riportò l’appello di Pio XII a pregare per la pace (la «nuova crociata di preghiere»).7 Il 4 maggio 1940 «L’Osservatore Romano» segnalò che Francescani e Caterinati, uniti nella preghiera, invocavano dal cielo la pace sulle nazioni; nello stesso articolo si parlava di «due eserciti di pace».8 5. Matteo Caponi, Santi d’Italia: dal Risorgimento alla Repubblica, in L’Italia e i santi. Agiografie, riti e devozioni nella costruzione dell’identità nazionale, a cura di Tommaso Caliò e Daniele Menozzi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 577-601. 6. L’omaggio di tutta l’Italia a Santa Caterina da Siena, in «L’Osservatore Romano», 28 aprile 1940, p. 4. 7. I due articoli La Santa della Patria e L’accorata parola del Papa, in «Squilli di risurrezione», 28 aprile 1940. 8. Francescani e Caterinati uniti nella preghiera invocano dal cielo la pace sulle nazioni, in «L’Osservatore romano», 3-4 maggio 1940, p. 5.

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Anche il culto di san Francesco era stato rimodellato in chiave clerico fascista, a partire almeno dalle celebrazioni del 1926 ad Assisi, in cui si era realizzata una prima sintesi tra visioni nazional cattoliche e prospettive politiche del regime in vista della Conciliazione.9 Nell’ottobre 1939 la Celebrazione nazionale di san Francesco Patrono d’Italia introdusse un nuovo momento rituale: l’accensione da parte di un podestà proveniente ogni anno da una regione diversa della “Lampada votiva dei Comuni italiani”, collocata all’ingresso della tomba del santo. L’impianto pensato in un primo momento per il rito prevedeva l’invocazione al santo affinché preservasse l’Italia dal coinvolgimento nel conflitto. Fu invece preferita una formula che faceva riferimento a Roma come «madre della civiltà latina, centro e sede della fede cattolica», e chiedeva l’intercessione dell’assisiate affinché i suoi compatrioti ricevessero la forza per affrontare i sacrifici richiesti dai doveri verso la famiglia e la patria. Nel 1940 la benedizione impartita dalla loggetta esterna della basilica superiore terminò con questa invocazione: «Discenda dunque dal Dio degli eserciti e delle vittorie, ogni benedizione propiziatrice sull’Italia tutta e su tutto il popolo Italiano».10 Nella trascrizione filofascista delle letture di san Francesco patrono d’Italia si distinse padre Agostino Gemelli. Nel gennaio 1940, sulle pagine della «Rivista del clero italiano», il francescano rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore fornì indicazioni su come si dovesse parlare del santo di Assisi in un tempo dominato da ideali di forza e di potenza, con una allusione molto sfumata alla guerra che da alcuni mesi si combatteva in Europa: Il fatto che San Francesco sia stato nominato Patrono e custode d’Italia in un periodo come questo, in cui tutte le Nazioni civili sembrano dominate dall’ideale della forza e della potenza, può essere per l’Italia stessa un richiamo alla sua vocazione cattolica e alle sorgive più pure della sua grandezza morale.

Gemelli presentava ai suoi lettori, i sacerdoti, riferimenti bibliografici e alcuni filoni tematici da sviluppare a seconda degli ambienti e delle età: «apostolato nella preghiera, nella penitenza, nel sacerdozio, nel martirio»; «obbedienza», «umiltà». Affermava quindi che in tutto il 9. San Francesco d’Italia. Santità e identità nazionale, a cura di Tommaso Caliò e Roberto Rusconi, Roma, Viella, 2011. 10. Caponi, Santi d’Italia, p. 586.

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suo apostolato san Francesco rivelava «qualità romane di equilibrio e di ardimento, di disciplina e di slancio». Il passaggio più significativo era quello in cui si citava Mussolini come testimonial d’eccezione della «italianità» del santo: Infine c’è uno scritto che mette magistralmente in luce l’italianità di Francesco d’Assisi, ed è il messaggio di Benito Mussolini per il centenario della morte del grande Santo. Il Duce segnala con precisione inconfondibile i lineamenti italiani del santo universale: l’altezza dell’ingegno e del carattere, la semplicità dello spirito, l’ardore delle conquiste ideali, la virtù della rinuncia e del sacrificio. Questi lineamenti devono essere ricordati quando si vuole spiegare la nota frase: San Francesco è il più italiano dei santi ed il più santo degli italiani, ed anche quando si vuole aggiungere ai motivi religiosi per cui la Chiesa lo ha eletto patrono della Patria nostra, una ragione umana e storica nobilissima.

Solo di passaggio Gemelli ammetteva che quello di Francesco «fu apostolato di pace. Nella sua città riconciliò il Podestà e il Vescovo, influì sull’accordo tra maiores et minores».11 Se il Centro cattolico cinematografico dedicò ai patroni un film non fiction, documentando la cerimonia religiosa celebrata da Pio XII in Santa Maria sopra Minerva,12 sulle trasmissioni italiane di Radio Vaticana fu padre Francesco Pellegrino ad occuparsi di san Francesco con una conversazione andata in onda il 5 ottobre 1939. Secondo Pellegrino, nel guardare al santo di Assisi occorreva andare oltre la poesia e comprendere la centralità della «volontà organizzativa ed attività per il bene e per la pace»: «immediatamente e sommamente – concludeva – gli uomini desiderano il ritorno d’un epoca di amore e di pace».13 Pellegrino recepiva in questa sua lettura gli indirizzi di Pio XII, che nel proclamare Francesco patrono d’Italia ne aveva lodato le virtù di pacificatore, quasi per incoraggiare Mussolini e il governo italiano a farsi promotore di un percorso diplomatico per la fine del conflitto.14 In tal senso aveva scritto 11. Agostino Gemelli, Come si deve parlare di S. Francesco, 21, 1 (1940), pp. 16-21. 12. Si può visionare il filmato sul sito dell’Archivio Luce: patrimonio.archivioluce. com/luce-web/detail/IL3000090686/1/una-documentazione-vaticana-realizzata-dal-c-c-ccentro-cattolico-cinematografico.html?startPage=0. 13. Perin, La radio del papa, p. 60. 14. Daniele Menozzi, «Il più italiano dei santi, il più santo degli italiani»: la nazionalizzazione di san Francesco tra le due guerre, in Cattolicesimo, Nazione e Nazionalismo, a cura di Daniele Menozzi, Pisa, Edizioni della Normale, 2015, pp. 87-109, qui pp. 108-109.

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al capo del governo il 24 aprile 1940, ma, stando alle note del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, aveva ricevuto un’accoglienza «scettica, fredda, sarcastica».15 Il maggio mariano La scarsa propensione dei cattolici italiani a fare propri i toni bellicisti della propaganda fascista e ad abbracciare la prospettiva di un coinvolgimento del Paese nella guerra emerge nei toni e nei linguaggi usati all’interno delle manifestazioni religiose incentrate sul culto mariano durante le settimane di maggio, il mese che da secoli la Chiesa dedicava alla Vergine. Pellegrinaggi, processioni, rosari – vale a dire momenti che assumevano sovente i contorni di manifestazioni di massa – si connotarono, nel maggio 1940, per le ricorrenti implorazioni della pace. Il 15 aprile 1940, con una lettera al cardinale segretario di Stato Luigi Maglione, Pio XII aveva espresso «profonda mestizia, non solo per le spaventose sciagure» che tormentavano i popoli belligeranti, ma «altresì per i pericoli che, ogni giorno più minaccianti incombono anche sulle altre Nazioni». Per mezzo del suo segretario di Stato aveva invitato tutto il popolo cristiano, ma soprattutto le madri, le fanciulle e i fanciulli, a rivolgere a Maria le loro preghiere per impetrare la pace tra le genti: un impegno quotidiano per il mese di maggio una vera e propria «crociata di preghiere» (precum contentione).16 L’invito del pontefice a pregare per la pace giunse forte e chiaro. Lo stesso Gemelli aprì il numero di maggio della rivista «Vita e pensiero» con un editoriale dal titolo Pio XII: apostolo di pace.17 L’adesione all’appello del papa fu in Italia molto estesa e di essa si diede risalto sulla stampa cattolica. Parrocchie e associazioni cattoliche si attivarono per promuovere iniziative di preghiere alla Vergine che avevano lo scopo specifico di implorare per l’Italia e per il mondo la pace. Le socie della Gioventù femminile di Azione cattolica furono invitate a rivolgere ogni giorno del mese di maggio una preghiera a Maria «per ottenere il 15. Galeazzo Ciano, Diario. 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 2010, nota del 28 aprile 1940, p. 422. 16. «Acta Apostolicae Sedis», 32, 1940, pp. 144-146. 17. Agostino Gemelli, Pio XII: apostolo di pace, in «Vita e Pensiero», 26, 5 (1940), pp. 195-197.

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dono della pace». Le Donne di Azione cattolica si unirono alla «offensiva per la pace» tramite la preghiera a Maria, Regina della pace.18 «L’Osservatore Romano» riportò, quasi quotidianamente, iniziative di preghiere mariane per la pace promosse in tutti gli angoli del Paese: da Napoli a Torino, da Oropa a Bari.19 Uno speciale dettaglio fu riservato alla diocesi di Roma. L’8 maggio 1940 un titolo recitava che In tutte le parrocchie di Roma si invoca la pace sul mondo. Il primo riferimento era al pellegrinaggio al Divino Amore di cento parrocchie romane, ma ad esso seguiva l’elencazione di altre iniziative. A Santa Maria Liberatrice, parrocchia salesiana di Testaccio, un centinaio di bambini erano stati coinvolti, insieme agli adulti, nella preghiera per la pace. A Santa Elena, «popolosa parrocchia di via Casilina», i soci di Azione cattolica avevano organizzato attività spirituali per la pace. A Sant’Ippolito, «moderna parrocchia del quartiere dei grattacieli», a Santa Maria del Buon Consiglio, «parrocchia del Quadraro» e in molte altre parrocchie si era pregato per la pace. Nella parrocchia di San Callisto il suffragio di preghiere per la pace era stato officiato nelle catacombe. Anche i santuari locali, come la Basilica della Madre del Buon Consiglio a Genazzano, erano meta di pellegrinaggi per la pace.20 Quattro giorni dopo, il 12 maggio 1940, il quotidiano riportava la notizia di «un grandioso pellegrinaggio diretto alla Madonna del Divino Amore» che avrebbe invocato «la pace fra le nazioni»: ventimila fedeli che sarebbero partiti a mezzanotte. Seguiva l’annuncio di altre iniziative spirituali per la pace a Santa Dorotea, al Sacro Cuore di via Marsala, nella chiesa di San Giuseppe nel quartiere Trionfale:21 la pace era implorata con «crescente fervore di preci».22 Le cronache di quei mesi registrano inoltre la dimensione di massa di alcune iniziative religiose, soprattutto di quelle promosse a Roma, quasi a voler competere con il governo nella capacità di organizzare e portare nella capitale, nelle piazze, nelle strade o nei sagrati, migliaia di

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18. Presenti!, in «In alto», maggio 1940, p. 1. 19. Giornate di preghiere per la pace, in «L’Osservatore Romano», 6-7 maggio 1940,

20. In tutte le parrocchie di Roma si invoca la pace sul mondo, in «L’Osservatore Romano», 8 maggio 1940, p. 3. 21. Stanotte un grandioso pellegrinaggio diretto alla Madonna del Divino Amore invocherà la pace fra le nazioni, in «L’Osservatore Romano», 12 maggio 1940, p. 5. 22. Crescente fervore di preci per implorare la pace, in «L’Osservatore Romano», 13-14 maggio 1940, p. 5.

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persone, nella logica, consolidata anche nella tradizione cattolica, per cui l’occupazione degli spazi rappresentava la dimostrazione della capacità mobilitante e della forza organizzativa. In questo senso vanno intese, ad esempio, le cronache, corredate da numerose foto, dei «grandiosi» cortei, con migliaia di persone che erano giunte a Roma il 2 maggio 1940 per la canonizzazione di Maria Pelletier e Gemma Galgani.23 Dopo il 10 giugno: la guerra flagello e i multiformi disegni della Provvidenza Con l’ingresso del Paese nel conflitto, le vicende militari italiane furono rimosse da «L’Osservatore Romano». Se si eccettua, nell’ultima pagina, una rassicurante sezione dal titolo Cronache italiane (scelta che estrometteva la parola guerra) il lettore poteva ricavare quasi l’impressione che l’Italia non fosse coinvolta nel conflitto. Le pagine della cronaca, sino a pochi giorni prima ricche di iniziative delle parrocchie per la pace, vennero quindi dedicate a vicende intra-ecclesiastiche. L’interpretazione istituzionale della guerra fu offerta da «La Civiltà Cattolica» nell’editoriale Pregare e operare che apriva il fascicolo del 6 luglio 1940, il primo numero dopo la dichiarazione di guerra per la periodicità, quindicinale, della rivista. Il testo forniva chiavi di lettura generali e un appello specifico ai cattolici italiani. Della guerra si presentavano una definizione e una spiegazione oscillanti. Si scriveva in apertura che dall’11 giugno la «non belligeranza» italiana aveva ceduto il posto nella nazione alla «severa disciplina di guerra, mentre le forze di terra, di mare e di cielo» partecipavano attivamente alla «lotta gigantesca, con cui si intendeva dare un nuovo ordine al mondo». Non ci si riferiva dunque in modo esplicito all’alleanza con la Germania, non si citava nessuna nazione nemica, ma si menzionava la prospettiva della guerra dell’Asse: «dare un nuovo ordine al mondo». Seguiva l’appello, tradizionale nella dottrina cattolica che disciplinava il rapporto tra i cittadini/soldati e lo Stato, a compiere «lealmente e animosamente» il proprio dovere di obbedienza. Esplicito era invece il riferimento al carattere di «guerra totale» del conflitto, per cui l’appello alla «compattezza», ai «sacrifici» e alla «preghiera» 23. Maria Pelletier e Gemma Galgani proclamate sante dal Supremo Pastore, in «L’Osservatore Romano», 3-4 maggio 1940.

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era esteso a quanti lavoravano nelle officine e nei campi, nei laboratori e negli uffici, ai «focolari» domestici (donne, anziani e bambini). Le preghiere per la pace che, come si è visto, avevano circolato nelle settimane precedenti, cedevano il posto all’invito a innalzare gli «animi e i cuori» al «Dio delle vittorie». Si delineava infine un’ultima chiave di lettura, anche questa tradizionale nella dottrina cattolica: la guerra, il «sangue versato dai nostri giovani» rappresentavano uno strumento della Provvidenza divina «per il rinnovamento interiore della vita cristiana e per il trionfo spirituale della Chiesa».24 Si prospettava insomma una guerra da combattere con lealtà, spirito di sacrificio, rassegnazione e speranza nella Provvidenza, una guerra di cui non si menzionavano nemici o alleati, né i contenuti ideologici. Si potrebbe dire un patriottismo tiepido, rassegnato che, se scioglieva i dubbi delle coscienze cattoliche, risultava inadeguato alle esigenze di mobilitazione necessarie alla guerra dell’Asse e alle aspettative che Mussolini assegnava all’impegno militare dell’Italia fascista e guerriera. Da queste premesse, tuttavia, potevano discendere posizioni anche molto diverse tra loro. Per questo risulta inadeguato definire una posizione univoca dei cattolici nelle settimane e nei mesi successivi all’intervento. Si possono piuttosto individuare alcune linee e passaggi. L’interpretazione della guerra come castigo/condanna per il «gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani» aveva rappresentato un tema qualificante della riflessione di Joseph de Maistre,25 era stata largamente recepita dal pensiero cattolico ottocentesco,26 riproposta da Pio XII nell’enciclica programmatica Summi pontificatus del 20 ottobre 1939, accolta dall’episcopato italiano.27 Il conflitto venne presentato come castigo divino, necessaria espiazione del rifiuto dei principi cristiani, anche prima dell’intervento italiano. Il 2 marzo 1940 «Gioventù Nova», il settimanale della Gioventù italiana di Azione cattolica, aveva pubblicato la foto di una chiesa bombardata dai russi in Finlandia. Essa accompagnava un articolo, dal titolo Finlandia barriera cristiana, che riportava le dichiarazioni di padre Luigi Bosio, su24. Pregare e operare, in «La Civiltà Cattolica», 91/3 (1940), pp. 3-4. 25. Joseph de Maistre, Le serate di Pietroburgo (1815), a cura di Alfredo Cattabiani, Milano, Rusconi, 1986, pp. 388-404. 26. Giovanni Miccoli, La guerra nella storia e nella teologia cristiana. Un problema a molteplici facce, in Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano, a cura di Piero Stefani e Giovanni Menestrina, Brescia, Morcelliana, 2002, pp. 103-141. 27. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, pp. 149-151.

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periore generale di monsignor Willem Cobben, dal 1933 vicario apostolico della Finlandia. Vi affermava padre Bosio: La guerra sarà nelle mani della Provvidenza un mezzo per far sentire maggiormente l’aridità del luteranesimo privato di ogni forza soprannaturale. […] Inutile dire che i cattolici sono un’anima sola con l’intera nazione e partecipano con eroico slancio alla resistenza contro l’invasione bolscevica.28

Anche Gemelli offrì una declinazione politica della visione provvidenziale della guerra: la guerra, non voluta dall’Italia ma dal Patto a quattro, rappresentava un’occasione provvidenziale non in termini passivi di espiazione, ma in quanto opportunità grazie alla quale l’Italia avrebbe potuto «compiere la sua missione di incivilimento»: Guai al cristiano che, costatando di essere stato dalla Provvidenza chiamato a vivere in un’epoca di sofferenza, si limita a lagnarsi e a piagnucolare, e non ha consapevolezza che egli deve considerare il tempo che vive come quello che la Provvidenza gli ha assegnato per il suo operare!

Quali fossero le finalità della Provvidenza Gemelli lo spiegava più avanti attingendo ai topoi classici del discorso nazionalcattolico: i cattolici, soldati fedeli, figli generosi della Madre Italia sarebbero stati «strumento della Provvidenza nella ricostruzione del mondo». Benché non fosse esplicitamente menzionato, piuttosto chiaro suonava il riferimento al nuovo ordine europeo di Hitler e Mussolini.29 Nello stesso numero Mario Turla definiva «la guerra un male benefico» che poteva «destare salutari reazioni di bene», «mezzo efficace per difendere un diritto misconosciuto e conculcato». La tradizione cattolica contemplava la liceità tanto della guerra difensiva, quanto di quella offensiva nel caso in cui si trattasse di «riparare un torto» o ripristinare – scriveva Turla citando Sant’Agostino – una «tranquillità ordinata». Il pacifismo, al contrario, rappresentava una «dottrina antistorica e antisociale».30 Tesi di questo tipo furono sostenute, nelle stesse settimane, da altri autorevoli esponenti del cattolicesimo italiano. Lo scrittore della «Civiltà Cattolica» Angelo Brucculeri nell’opuscolo La moralità della guerra, che uscì nel luglio 1940, difese il valore morale della guerra come via 28. L. Belotti, Finlandia barriera cristiana, in «Gioventù Nova», 17, 1 (1940), p. 1. 29. Agostino Gemelli, Italia, Madre Nostra, in «Vita e Pensiero», 25, 7-8 (1940), pp. 291-295. 30. Mario Turla, La dottrina cattolica e la guerra, ivi, pp. 296-301.

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privilegiata per forgiare la coscienza nazionale.31 Il teologo milanese Carlo Colombo, che dal 1938 insegnava teologia dogmatica nella ripristinata Facoltà teologica del Seminario di Milano, sostenne che la giustizia era un bene più grande della pace in un saggio scritto a seguito di alcuni incontri promossi da Gemelli per analizzare i problemi che la guerra avrebbe posto alla coscienza cristiana.32 Sull’onda dello choc provocato dalla caduta della Francia, con l’Inghilterra isolata e la Germania padrona dell’Europa, diversi cattolici, come la maggioranza degli italiani, si convinsero che la guerra stesse agli sgoccioli e che Mussolini avesse individuato con anticipo – segno della Provvidenza – il percorso che avrebbe condotto alla costruzione di una nuova civiltà. Se la lettura provvidenzialistica della guerra fu estranea a un fine intellettuale come don Giuseppe De Luca, che sulle pagine del «Primato» ricondusse la catastrofe bellica all’incapacità di Francia e Gran Bretagna di contemplare, all’interno dei rispettivi Paesi e in Europa, concezioni plurali della civiltà,33 Angelo Roncalli, delegato apostolico in Turchia, il 21 giugno 1940, all’indomani della caduta della Francia, scrisse da Istanbul ai suoi familiari: Vedete anche la guerra per parte dell’Italia. C’è proprio una Provvidenza e bisogna ringraziare Mussolini che ne è stato l’istrumento. Ha tenuto fuori l’Italia dal conflitto: ha preservato con ciò la vita di tanti giovani e di tante famiglie: e dopo che è entrato in guerra ecco che ci siamo, dopo solo dieci giorni, all’armistizio.34

La lettura provvidenzialistica degli eventi in corso poteva condurre a esiti diversi. Primo Mazzolari, nel luglio 1940, affermava ad esempio che la guerra per il cristiano era una «calamità permessa da Dio, ma preparata 31. Angelo Brucculeri, La moralità della guerra, Roma, La Civiltà Cattolica, 1940. 32. Carlo Colombo, Guerra e pace nel pensiero cristiano, in «La scuola cattolica», 91, 3 (1940), pp. 401-413. 33. Disma [Giuseppe De Luca], Un sogno svanito, in «Primato», 1o agosto 1940, pp. 2-3. Sui giudizi di De Luca su Francia e Gran Bretagna si vedano, all’interno della lunga introduzione di Renzo De Felice e Renato Moro a Giuseppe Bottai, Don Giuseppe De Luca, Carteggio 1940-1957, a cura di Renzo De Felice e Renato Moro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1989, pp. LX-LXV. 34. Giovanni XXIII, Lettere familiari. 152 inediti dal 1911 al 1952, a cura di Giustino Farnedi, Casale Monferrato, Piemme, 1993, p. 11. Sull’atteggiamento di Roncalli verso il fascismo si veda Stefano Trinchese, «Servire, obbedire e tacere». L’immagine dell’Italia fascista nell’opinione di Angelo Roncalli, in «Storia contemporanea», 20 (1989), pp. 211-258.

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dagli uomini»35 e richiamava alla necessità di concentrarsi sulla propria dimensione personale e interiore. Il domenicano torinese Filippo Robotti, nel volumetto Perché ci sono le guerre giunse ad assegnare un significato provvidenziale al potenziale distruttivo dei moderni armamenti: gli effetti micidiali dell’aviazione moderna erano a suo dire un «regalo» della Provvidenza alle nazioni povere dinanzi alla loro impossibilità di procurarsi le potenti flotte delle nazioni ricche.36 Per Giulio de’ Rossi dell’Arno, figura di riferimento dei parroci della Battaglia del grano, anche la firma del Patto Molotov-Ribbentrop rientrava in un disegno provvidenziale perché aveva consentito a Stalin di epurare il bolscevismo dagli ebrei e a Hitler e Mussolini di individuare in questi ultimi il nemico comune dell’Italia e della Germania.37 Da un’altra prospettiva, la lettura provvidenzialistica della guerra, ponendosi su un piano metastorico, consentiva di glissare sulle responsabilità dei governi e della distinzione tra aggrediti e aggressori.38 Non stupisce dunque che, nonostante non si registrassero forti levate di scudi contro l’intervento o contro la guerra, le relazioni trimestrali dei questori, in diverse città italiane, segnalassero riferimenti alla pace e contro la propaganda dell’odio di alcuni esponenti del clero che scontentavano prefetti e fiduciari. In molte città si rilevava la prudenza del clero, che limitava la propria azione al campo spirituale (Varese, Trapani, Terni, Treviso). A Savona si sottolineava che il clero si mostrava «ossequiente al regime e aderente allo stato di guerra», ma per principio di universalità incline al pietismo e a offrire allusioni alla pace. A Venezia, a Bergamo i questori segnalarono sequestri di opuscoli, libricini di preghiera di associazioni cattoliche fatti circolare da parroci e associazioni cattoliche.39 La prevalenza 35. L’articolo, preparato per il periodico cattolico «Segni dei tempi», luglio 1940, non fu pubblicato. Ora in Primo Mazzolari, Scritti sulla pace e sulla guerra, edizione critica a cura di Massimo De Giuseppe e Guido Formigoni, Bologna, EDB, 2009, pp. 219-223, p. 221. 36. Filippo Robotti, Perché ci sono le guerre: sono esse evitabili?, Torino, Lice, 1940. 37. Così Giulio de’ Rossi dell’Arno nel volume L’ebraismo contro l’Europa (Roma, P. Maglione, 1940, p. 10). Sul percorso di sacerdote si veda Takashi Araya, Cattolicesimo, razzismo e fascismo. L’attività propagandistica di Giulio de’ Rossi Dell’Arno (1938-1943), in «Società e storia», 143 (2014), pp. 69-96. 38. Lucia Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 269-270. 39. Si vedano Francesco Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma, Studium, 1980, p. 25 e sgg., e, in questo volume, il saggio di Paul Corner.

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di queste tendenze tra i cattolici italiani fu rilevata in modo critico anche da Giovanni Papini, che sulle pagine del «Frontespizio» aveva definito nel settembre 1939 «le filippiche dei moralisti e le querimonie dei piagnoni» una forma di esercizio letterario che diveniva «alibi di carenze, di assenze e di pigrizie». Ben altro occorreva, a suo dire, ai cattolici: «meno teoria e più fuoco, meno lamenti e più fatica, meno esegesi e più amore, meno mistica e più carità».40 Il patriottismo tiepido del cattolicesimo organizzato Su indicazione della Santa Sede, i vescovi e i vertici dell’Azione cattolica si limitarono a richiamare i fedeli all’obbedienza all’autorità, alla comprensione dello spirito del momento, e a mostrarsi disponibili a un senso di solidarietà spirituale con tutto il Paese, ma cauti, allo stesso tempo, nell’uscire dall’ambito religioso e nell’offrire una lettura politica della guerra.41 Le riviste dei diversi rami organizzativi dell’Azione cattolica, compreso «L’assistente ecclesiastico», nel primo numero che usciva dopo il 10 giugno, pubblicarono l’Appello del direttore centrale dell’associazione, monsignor Evasio Colli, datato 12 giugno 1940. Nella visualizzazione del quindicinale «In Alto!», uno strano effetto visivo suscitava l’accostamento tra la «parola d’ordine di Mussolini», scritta in maiuscolo («la parola d’ordine è una sola:… VINCERE!») e, sempre in maiuscolo, il binomio che compendiava i doveri cattolici nell’ora grave e solenne, secondo la linea istituzionale, indicata, come si è visto, sulle pagine della «Civiltà Cattolica»: «PREGARE E OPERARE».42 Sulle pagine di «Gioventù Nova» al comunicato del direttore centrale di Azione cattolica si affiancò l’appello del presidente nazionale della GIAC Luigi Gedda, Quando la Patria chiama. I giovani soci mobilitati erano invitati a dimostrarsi leali e a «difendere» la patria, i più giovani aspiranti a pregare per loro. Seguiva l’appello a dare «esempio di purezza, di bontà e di letizia» e soprattutto a pregare affinché, dopo una prova 40. Giovanni Papini, Quattro sguardi sulla guerra, in «Il Frontespizio», 9 (1939), pp. 363-376. 41. Renato Moro, I cattolici italiani di fronte alla guerra fascista, in La cultura della pace dalla Resistenza al Patto Atlantico, a cura di Massimo Pacetti, Massimo Papini e Marisa Saracinelli, Bologna, Il Lavoro Editoriale, 1988, pp. 75-126. 42. Evasio Colli, Appello, in «In Alto!», 15 giugno 1940, p. 1.

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breve e gloriosa, Iddio concedesse all’Italia, all’Europa e al mondo «un lungo periodo di pace con la giustizia».43 Ora, se da un lato la dichiarazione rimuoveva completamente il fatto che l’Italia fosse un Paese aggressore, dall’altro lato presentava una visione della guerra molto distante dalla fisionomia ad essa assegnata dal regime. La GIAC tra il 1939 e il 1940 aveva aumentato i propri iscritti arrivando a superare i 382.000 soci.44 Con l’inizio delle operazioni militari i dirigenti si attivarono immediatamente per preparare libricini per i soldati (Quando la patria chiama, Gesù e i soldati, Il libro della Fede, Il piccolo catechismo del soldato, I soldati del Vangelo) dandone informazione sulle pagine delle riviste. In alcuni casi si trattava di ristampe di opuscoli preparati per i conflitti precedenti, con spunti religiosi, medaglioni e brani degli eroi cattolici della Grande guerra, la cui distribuzione, molto più complicata rispetto alla guerra di trincea, era coordinata da monsignor Bartolomasi. Il 20 luglio 1940 si pubblicò il Primo elenco caduti della Gioventù di A.C. corredato dai volti dei giovani soci già morti in guerra.45 Occasionalmente apparve sulla rivista la voce di Fra’ Galdino, che dopo l’8 settembre sarebbe passato tra le fila della Repubblica Sociale Italiana. Citando in modo quasi letterale Mussolini, nel luglio del 1940, scriveva: «Una cosa sola è importante in questo momento: vincere! Un solo sforzo devono fare quelli che sono rimasti a casa: aiutare i combattenti». Seguiva il richiamo alla necessità di bandire note, discussioni e disquisizioni che non riguardassero strettamente «i supremi interessi della Patria».46 Per sostenere i soldati che combattevano al fronte furono mobilitati anche i ragazzi e gli adolescenti di Azione cattolica, organizzati nella sezione degli Aspiranti. Il loro coinvolgimento venne proposto come una forma di arruolamento militare sintetizzato nel motto «Ogni soldato, un Aspirante che prega».47 Aiutato dal suo parroco il giovanissimo militante era invitato a scegliere un soldato della sua parrocchia per diventare il suo «secondo angelo custode».48 Sin dal mese di luglio 1940 43. Luigi Gedda, Quando la Patria chiama, in «Gioventù Nova», 22 giugno 1940, p. 1. 44. Francesco Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana (1868-1943), Milano, FrancoAngeli, 2015, p. 274. 45. Primo elenco dei caduti della Gioventù di A.C., in «Gioventù Nova», 20 luglio 1940, p. 2. 46. Fra’ Galdino, L’età del senno, in «Gioventù Nova», 6 luglio 1940, p. 3. 47. Ogni soldato un Aspirante che prega, in «L’Aspirante», 27 luglio 1940. 48. La Fiamma, in «L’Aspirante», 7 giugno 1940.

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il periodico «L’Aspirante» pubblicò lettere e preghiere di ragazzi per i soldati al fronte: testi ispirati ad afflati nazionalpatriottici convenzionali, cui fu estranea la trascrizione in termini religiosi e imperialistici della guerra.49 Più difficile risultava la posizione delle organizzazioni universitarie cattoliche e della Gioventù italiana di Azione cattolica che videro molti dei loro soci mobilitati per la guerra. Il primo numero della rivista delle organizzazioni universitarie di Azione cattolica, «Azione Fucina», pubblicato dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini diede spazio in prima pagina a tre voci: l’annuncio di Mussolini, il proclama del re Vittorio Emanuele III, l’appello del direttore centrale di Azione cattolica.50 Nelle settimane successive la rivista accompagnò e orientò i suoi lettori dinanzi all’estendersi delle vicende belliche con accenti del tutto privi di aggressività nazionalistica, concentrandosi piuttosto sugli aspetti etico-religiosi del vissuto del cristiano dinanzi alla realtà della guerra, sull’estendersi dell’esperienza della sofferenza, sulle difficoltà di chi restava a casa. Il numero del 20 agosto 1940, ad esempio, si apriva con due interventi, entrambi in prima pagina, di don Primo Mazzolari e Giorgio La Pira. Il parroco di Bozzolo firmava un articolo dal titolo Tempo d’amare in cui scriveva tra l’altro: Eccoci di fronte alla guerra. Un cumulo di pregiudizi approvati dal buon senso di molti cristiani benpensanti, me la fa accettare quasi paganamente. Passa un ferito, un prigioniero, un profugo… Se gli tendo un bicchier d’acqua, se gli curo le ferite, se spezzo con lui il pane, se non mi sento in diritto di finirlo, io sono al di là del mio animo di prima. Il mio “piccolo gesto” di carità ha un significato rivoluzionario.51

Giorgio La Pira, che nella fase della «non belligeranza» aveva negato il carattere di «guerra giusta» all’offensiva nazista,52 spiegava invece Il problema della sofferenza, con argomentazioni di natura spirituale che si

49. Piva, Uccidere senza odio, p. 285. 50. Un’ora decisiva nella storia d’Italia, in «Azione Fucina», 16 giugno 1940, p. 1. 51. Primo Mazzolari, Tempo di amare, in «Azione Fucina», 23 agosto 1940, p. 1. Un’articolata disamina delle posizioni interne, in questo frangente, alla FUCI in Moro, Il mito dell’Italia cattolica, pp. 501-506. 52. Giorgio La Pira, Liceità della guerra giusta, in «Principi», 11/12 (1939), pp. 216-221.

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concludevano con l’invito ad associare la sofferenza del giusto a quella di Cristo come strumento di purificazione.53 Un’attenzione specifica merita il «Vittorioso», il settimanale illustrato per ragazzi voluto da Luigi Gedda, stampato a partire dal 1937 dalla casa editrice AVE e noto al grande pubblico soprattutto per la matita di Benito Franco Jacovitti, che disegnò con piglio patriottico la sua prima storia, Pippo e gli inglesi, il 5 ottobre 1940. Erano i mesi in cui i giovani lettori si appassionavano a Il terrore del Colorado di Gianluigi Bonelli, a Zoolandia di Sebastiano Craveri. Il personaggio che più di tutti assunse un tratto politico è però Romano, del disegnatore tedesco trapiantato in Italia Kurt Caesar.54 Nelle settimane che precedettero l’intervento, accanto a una crescente attenzione verso gli eroi dello sport (Primo Carnera, Gino Bartali, Silvio Piola, Tazio Nuvolari), si introdusse una rubrica a vignette sulle Armi delle nazioni d’Europa attualmente in guerra, dedicata di volta in volta a carri armati, lanciabombe, bombardieri d’assalto. Furono anche disegnate le bombe lanciate da aerei italiani nello scenario etiopico per «difendere» i confini somali e liberare gli schiavi.55 All’entrata in guerra dell’Italia il «Vittorioso» reagì facendo propria la parola d’ordine di Mussolini «Vincere!» e presentando l’adesione alla guerra in termini di dovere patriottico. Anche in questo caso si riscontra la mancanza di riferimenti alle prospettive imperialistiche della guerra fascista e ai richiami all’odio. Nel primo numero pubblicato dopo l’intervento italiano, si affermò, in un ordine degno di nota, che «i vittoriosi», cioè i lettori del «Vittorioso», avrebbero fatto il loro dovere indirizzando le loro preghiere al Signore affinché proteggesse «i nostri soldati, le nostre case, la nostra Patria». Un cambiamento visibile riguardò la prima pagina, con l’introduzione, nella testata, del tricolore e dei fasci littori. Iniziò anche un nuovo cineromanzo di Caesar: Romano, invitto eroe italiano già protagonista di combattimenti contro i rossi in Spagna, aviatore dei ghiacci in Groenlandia ed impavido esploratore in una spedizione in Sudamerica, rientrava in Italia dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini e iniziava 53. Giorgio La Pira, Il problema della sofferenza, in «Azione Fucina», 23 agosto 1940, p. 1. 54. Giorgio Vecchio, L’Italia del Vittorioso, prefazione di Marco Tarquinio, Roma, Ave, 2011, pp. 9-20. 55. Sul ruolo della stampa per ragazzi durante la Seconda guerra mondiale si veda Juri Meda, È arrivata la bufera. L’infanzia italiana e l’esperienza della guerra (1940-1950), Macerata, Edizioni Università di Macerata, 2007.

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Fig. 1. «Il Vittorioso», agosto 1940.

a combattere contro gli inglesi in diversi scenari di mare e di terra. Più volte, nelle strisce, tornò il motivo dell’Italia che si difendeva perché era aggredita. I veri protagonisti di queste strisce erano però i mezzi militari moderni, disegnati con una precisione brillante: aerei, sommergibili, carri armati, dirigibili. La figura femminile assunse nel frattempo le sembianze, anche molto sensuali, della crocerossina con una declinazione di genere ormai acquisita. Entrarono nella scena, di conseguenza, soldati feriti, ma mai morti (fig. 1).56 56. Il «Vittorioso» è stato consultato ed è consultabile presso l’Archivio dell’Istituto per la storia dell’Azione cattolica e del movimento cattolico in Italia Paolo VI - ISACEM. Purtroppo la rilegatura delle copie del settimanale, per gli anni 1939 e 1940, ha tagliato la parte della testata in cui è inserita la data di pubblicazione.

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Lucia Ceci Fig. 2. «Il Vittorioso», dicembre 1940.

L’ultimo numero del 1940, come ogni anno, fu dedicato al Natale. Nella copertina si ritraevano una scena familiare, alcuni animali, mentre il richiamo alla guerra in corso era assegnato, oltre che ai colori plumbei del cielo, alla presenza, sullo sfondo di un soldato che dalla divisa sembra appartenere all’esercito francese, ma che è privo di particolari segni distintivi in senso nazionalistico (fig. 2). Il racconto edificante, dal titolo Presepe di guerra, venne pubblicato in una delle ultime pagine del numero. Narrava di un bambino, Gigi, che per due mesi, nascosto in una stanza, aveva realizzato un presepe senza mostrarlo a nessuno. La sorpresa si svelava quando, per il Natale tornava a casa senza preavviso Fausto, suo fratello maggiore, partito militare per la guerra. Dopo i saluti commossi, Gigi mostrava a tutti il suo presepe: invece dei pastori, alla grotta di Betlemme accorrevano soldati disarmati. Dinanzi al presepe di guerra tutti i presenti piangevano commossi e il parroco, che era in casa, concludeva: «A Oriente e a Occidente tutti i soldati depongano le armi nel giorno in cui il Signore è nato; Lui che è nato per tutti!...» (fig. 3).

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Fig. 3. «Il Vittorioso», dicembre 1940.

Il «Vittorioso» concludeva il 1940 con un messaggio e una prospettiva pedagogica lontani dall’aggressività imperialistica che nelle stesse settimane il regime era impegnato ad alimentare nei vari scenari del conflitto e nel fronte interno. Un ultimo accenno meritano le preghiere di guerra, tema su cui sarebbero necessarie ulteriori indagini. Nel settembre 1939 l’autorità ecclesiastica censurò una preghiera pubblicata da Giulio de’ Rossi dell’Arno su «Italia e Fede». Essa recitava: Nell’ora del pericolo per la Polonia e per l’Europa noi italiani, cattolici e fascisti, innalziamo all’Onnipotente questa preghiera: Dio, illumina i governanti della Polonia; libera il nobile popolo polacco dai lacci demoniaci della massoneria franco-inglese, sicché esso veda e segua la verità, che in un Fascio di luci verso di lui si proietta da Roma mussoliniana.57 57. Giulio de’ Rossi dell’Arno, Traviamento della Polonia, in «Italia e Fede», 13, 35-36 (1939), p. 1.

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Nel mese di novembre Gemelli pubblicò le Invocazioni ai santi protettori d’Italia perché presto suoni l’ora della vittoria che rovesciavano la richiesta di intercessione che nel mese di maggio Pio XII aveva rivolto ai santi patroni per garantire al Paese la pace:58 san Francesco, santa Caterina da Siena e altri santi venivano invocati per impetrare il successo delle armi italiane con riferimenti che realizzavano una totale distorsione dei dati storici sui singoli personaggi per dare un referente devozionale al bellicismo fascista. Rispondendo a ogni invocazione «prega per noi», i fedeli avrebbero dovuto invocare la vittoria italiana: San Francesco d’Assisi, patrono primario d’Italia, restauratore della vita cristiana, tu che ricalcasti e oltrepassasti col tuo ordine le vie segnate dalle legioni romane, portando ai barbari la civiltà cristiana, dando ai lupi selvaggi dignità di uomini; (Prega per noi) Santa Caterina da Siena, patrona primaria d’Italia, che sostenesti con la preghiera, con l’ingegno, con il coraggio la chiesa di Roma, meritando il suo riscatto dalla servitù straniera; (Prega per noi).

D’altra parte, i prefetti segnalarono la circolazione di preghiere, generalmente stampate sul retro di santini raffiguranti immagini della Madonna, che invocavano il ritorno della pace, sia pure all’interno della tradizionale visione della guerra come castigo divino. La più diffusa, sin dal 1940, fu la Preghiera per la pace composta nel 1915 da Benedetto XV e ristampata in diversi esemplari su iniziativa di vescovi e parroci, che implorava «la cessazione dell’immane flagello» e l’avvento della «sospirata pace».59 In conclusione, si può osservare che nel mondo cattolico, come nel resto della società italiana, non vi fu un dibattito sull’intervento paragonabile a quello del 1914-15, per la diversità del contesto politico e dei significati attribuiti alle due guerre. La differenza di posizioni tra il periodo della «non belligeranza» e quello successivo alla dichiarazione di guerra non giunse a tradursi in un sostegno alla fisionomia rivoluzionaria attribuita dal regime alla guerra. Non mancarono casi di aperto sostegno alla guerra fascista, ma i concetti prevalenti risultarono la lealtà dei cattolici verso le ragioni italiane e l’obbedienza alle autorità in carica: principi troppo tiepidi per l’ideale di Italia guerriera, su cui tanto avevano investito la pedagogia delle 58. Discorso di Sua Santità Pio XII sui patroni d’Italia santa Caterina da Siena e san Francesco d’Assisi, 5 maggio 1940, www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1940/ documents/hf_p-xii_spe_19400505_ammirevole-spettacolo_it.html. 59. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra, pp. 77-78.

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Fig. 4. «Squilli di risurrezione», 20 ottobre 1940.

organizzazioni di massa e la propaganda del regime, e troppo deboli per la mobilitazione totale richiesta dal conflitto. Il 4 settembre 1940, a quasi tre mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, Pio XII tenne ai dirigenti diocesani dell’Azione cattolica un lungo discorso, reso particolarmente importante dall’occasione. Assieme ai dirigenti centrali dei vari rami dell’associazione erano riuniti a Roma i membri più autorevoli del Sacro collegio, un centinaio di vescovi e numerose rappresentanze provenienti da tutta la penisola per celebrare il settantacinquesimo anniversario della fondazione della Gioventù cattolica: era dunque evidente che il pontefice si sarebbe rivolto, nel suo messaggio, alla Chiesa italiana. Il discorso era incentrato sull’Azione cattolica, i cui nuovi statuti erano stati promulgati nel mese di giugno. Pio XII ne ribadiva l’aspetto essenziale, la piena subordinazione degli iscritti alla gerarchia ecclesiastica, per toccare poi il tema del rapporto con il potere politico, rispetto al quale riaffermava il principio tradizionale della sottomissione alle prescrizioni delle autorità civili. Con un chiaro riferimento alla

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guerra in corso, Pacelli richiamò quindi il dovere dei cattolici di amare la patria sino al sacrificio della vita, quando lo richiedeva «il legittimo bene del Paese».60 Era una direttiva di principio, che si prestava, almeno in prospettiva, a essere declinata in modo diverso a seconda delle circostanze storiche (fig. 4).

60. Discorso di Sua Santità Pio XII ai dirigenti diocesani dell’Azione Cattolica Italiana, 4 settembre 1940, in www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1940/documents/ hf_p-xii_spe_19400904_a-temperare_it.html.

Valeria Galimi L’entrata in guerra dell’Italia e le persecuzioni contro gli ebrei

Introduzione Il 1940 e l’entrata in guerra giunsero dopo quasi due anni dalla “svolta antisemita” avviata da Mussolini con la promulgazione dei Provvedimenti per la difesa della razza italiana emanati nel settembre e nel novembre 1938, che andarono a colpire nei loro diritti (lavoro, istruzione, proprietà) gli ebrei d’Italia e quelli stranieri residenti nella penisola. In quell’anno l’allontanamento della comunità ebraica da tutti i comparti della vita civile e politica italiana era sostanzialmente compiuto, anche se la macchina amministrativa e gli uffici delle questure e delle prefetture continuavano ad operarsi per aggiornare gli elenchi del censimento dell’agosto del 1938, a valutare le possibilità di attenuazioni delle misure per “benemerenze fasciste” (le richieste delle cosiddette “discriminazioni”, ancora dopo vari mesi inevase), a rispondere a quesiti circa gli accertamenti di “razza”. Le note fiduciarie sullo “spirito pubblico” degli italiani attestano, a partire dal 1939, che le leggi antiebraiche non rappresentavano più un motivo di discussione; sembrano di fatto accettate e applicate senza muovere reazioni e commenti nella società. Come si legge in un rapporto inviato da Torino nel dicembre del 1939, «passata l’impressione dei primi provvedimenti e intervenuto il ritmo metodico delle disposizioni che si susseguono e precisano le prime enunciazioni il problema ebraico è passato in ultimissimo ordine».1 Con l’entrata in guerra, di contro, si aprì una nuova fase: le misure vessatorie nei confronti degli ebrei divennero più severe e ci fu un cambio 1. ACS, MI, Direttorio nazionale, Segreteria politica, Situazione politica ed economica delle province, b. 25, il segretario federale, Foglio n. 2, 30 dicembre 1939.

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di passo. Certamente a partire da questo momento la propaganda a carattere antiebraico si rafforzò in modo significativo: la stampa riprese il tema della “guerra ebraica”, accusando gli ebrei di essere i responsabili dello scatenamento del conflitto. Ma il maggiore elemento di discontinuità è ravvisabile nella decisione del governo fascista di procedere, nelle settimane precedenti l’entrata in guerra dell’Italia, alla reclusione in località e campi di concentramento di tutti gli ebrei stranieri appartenenti a Stati nemici e di quelli italiani considerati “pericolosi nelle contingenze belliche”. Il 15 giugno 1940 il capo della polizia, Arturo Bocchini, emanava infatti l’ordine di arresto per gli ebrei stranieri appartenenti a Stati «che fanno politica razziale», ovvero quelli provenienti dal Terzo Reich, e per gli apolidi compresi fra i 18 e 60 anni. Di questa misura è interessante notare che non si trattò di una integrazione della legge di guerra, ma di un ordine di polizia. Vennero allestiti nella zona centro-meridionale del Paese una cinquantina di campi di internamento, il più grande di questi a Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. Altre migliaia di ebrei stranieri – considerati meno pericolosi, con donne e bambini – furono sottoposti all’«internamento libero», una sorta di confino. Non mancarono nei primi anni di guerra anche episodi di violenza, come aggressioni fisiche, scritte antisemite, e devastazioni di sinagoghe.2 Infine, nel maggio 1942 venne decretata la precettazione al lavoro obbligatorio per tutti gli ebrei, donne e uomini, dai 18 ai 55 anni, adibiti a lavori manuali. Una profonda preoccupazione si diffuse fra gli ebrei italiani, colpiti in misura minore rispetto agli ebrei stranieri dalla misura dell’internamento, che si sentirono, in questa nuova circostanza dovuta al conflitto, ancora più esposti e più vulnerabili. Una nota informativa del giugno 1940 riportava che «vari ebrei italiani hanno presentato richiesta per poter servire l’Italia nella guerra, e sperano che dette domande vengano accolte favorevolmente. D’altra parte anche qui certe notizie provocano malumore e preoccupazioni». Il riferimento era in particolare alla notizia di alcune figure di rilievo della dirigenza ebraica sottoposte a misure di controllo e di internamento, che portava a pensare «in modo molto pessimistico a proposito della loro sorte».3 2. Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, pp. 224 sgg. 3. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 219, nota del 13 giugno 1940. Per le reazioni e gli atteggiamenti degli ebrei italiani riguardo al momento dell’entrata in guerra si veda anche l’analisi proposta da Iael Nidam Orvieto, Lettere a Mussolini: gli ebrei italiani e le leggi antiebraiche, in «Rassegna mensile di Israel», 69, 1 (2003), pp. 321-246.

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Non mancarono le richieste – espresse con toni e accenti diversi, ma tutte mosse da un sincero patriottismo – di revocare il provvedimento di allontanamento dall’esercito per potersi così arruolare.4 Due soli esempi fra le centinaia di lettere indirizzate a Mussolini nell’estate del 1940: In quest’ora fatidica nella quale Voi, Duce infallibile, state forgiando i nuovi destini dell’Italia Imperiale, il sottoscritto Vi chiede per sé e per i suoi quattro figli, con lui discriminati per il Vostro volere sin dal gennaio 1939 e come lui ex combattenti, l’onore altissimo di essere riammessi nei ranghi del Partito, e richiamati in servizio militare, poter continuare a servire la Patria con quella assoluta dedizione della quale è prova e garanzia il loro passato.5

In un’altra lettera scritta nel marzo 1941 si reiterava la stessa richiesta («è già la terza volta che Vi scrivo direttamente»), che non aveva ricevuto risposta, come d’altronde non ne riceveranno le successive. L’oggetto della mia insistenza, la volontà del mio cuore, è una sola: combattere. Comprendo bene che la mia situazione razziale non mi può permettere tale gioia, ma so pure che se voi Duce comprendereste [sic] la sincerità del mio animo e la purezza dei miei sentimenti non esitereste dare alla Patria un moschetto di più, due braccia in più per lottare fino all’ultima goccia del mio sangue, bello è lottare per la mia bella Italia. Mi permetto di ripeterVi che ho tre bambini tutti ariani, ho fatto il servizio militare nel II genio telegrafisti, sono stato iscritto al Partito nel 1929 e fui nella MVSN per 6 anni nella 49a legione. 6

La società italiana e gli ebrei nel 1940 L’ampia documentazione che descrive lo “spirito pubblico” della società italiana durante i primi mesi del conflitto sembra attestare una ripresa dell’attenzione per il “problema ebraico”.7 È possibile infatti rilevare 4. Cfr. Marco Mondini, L’esclusione degli “appartenenti alla razza ebraica” dalle forze armate italiane (dicembre 1938), in «La Rassegna mensile di Israel», 73, 2 (2007), pp. 209-223. Per un’analisi delle richieste di arruolarsi come volontari si veda Nidam Orvieto, Lettere a Mussolini, pp. 340 sgg. 5. ACS, MI, Direzione generale Demografia e razza, Divisione razza, Affari diversi, b. 10, B.P, Colonnello di Artiglieria, Ancona al Duce, 27 maggio 1940. 6. ACS, MI, Direzione generale Demografia e razza, Divisione razza, Affari diversi, b. 11, A.R., Venezia, al Duce, 29 marzo 1941. 7. Per una lettura complessiva dello “spirito pubblico” in Italia al momento dell’entrata in guerra si rinvia a Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la

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la presenza e, quindi, la penetrazione dello strumentario propagandistico relativo alla “guerra ebraica”, già dai mesi precedenti l’entrata in guerra.8 Qui si nota la maggiore discontinuità con il periodo 1938-1940, quando le reazioni della popolazione italiana si concentrarono sugli effetti materiali delle leggi antiebraiche; ad esempio, vi furono note che esprimevano la preoccupazione dei lavoratori per un capo d’azienda sottoposto alle misure discriminatorie perché ebreo e la conseguente paura di perdere il proprio impiego, oppure, nel caso di allontanamento di iscritti dagli ordini professionali, riguardarono la segnalazione di attestati di stima o posizioni del tutto indifferenti. Con il conflitto la campagna di stampa presentò nuovi temi, in particolare l’ebreo come nemico interno, stereotipo largamente utilizzato in questo nuovo contesto. Nell’aprile 1940, per esempio, una nota fiduciaria ribadiva che il conflitto era tutto a vantaggio degli interessi ebraici: «Vi è stato taluno che parlando della guerra e dei mezzi necessari per finanziarla, ha detto che il Duce ha commesso un grave errore combattendo gli ebrei, nelle mani dei quali è tuttora la maggior parte della ricchezza».9 In alcuni casi, viceversa, si temeva che questi continui attacchi contro gli ebrei provocassero una divisione nel Paese, in un momento in cui l’unità era da perseguire con convinzione.10 Nonostante qualche posizione sostenesse la necessità di non esacerbare le divisioni all’interno del Paese, l’impressione predominante che si ricava dall’analisi delle note fiduciarie nei mesi successivi all’entrata in guerra conferma un aumento dell’antisemitismo. Contribuì ad accrescere l’ostilità nei confronti degli ebrei sia la violenta propaganda sul tema della “guerra ebraica”, sia la loro esenzione da ogni impegno nell’impresa bellica, che venne interpretata non come un mancato diritto – quello di poter servire l’Italia, perché considerati non veri patrioti ma anzi potenziali traditori –, ma come un privilegio. dittatura, Roma, Carocci, 2012, pp. 296 sgg. e Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma, Carocci, 1991, pp. 329 sgg. 8. In merito si rinvia a Valeria Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e la persecuzione contro gli ebrei, Firenze, Le Monnier, 2018, pp. 26 sgg. In questo paragrafo si riprende sintetizzata l’analisi proposta nel volume. 9. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 219, Viterbo, nota, 9 aprile 1940. Una nota riportava il compiacimento per l’annunciata emanazione di nuovi provvedimenti antisemiti (ivi, Genova, nota 8 aprile 1940). 10. Ivi, nota, 1 giugno 1940.

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Continuano le preoccupazioni inerenti alla libertà in cui sono lasciati gli ebrei in questi momenti. Per quanto si abbia la quasi sicurezza che tutte le possibili precauzioni siano state prese al riguardo, molta gente nota che questi signori non solo non stanno zitti e quieti come dovrebbero, ma non si peritano di interloquire e di attendere ai propri affari usurai con la complicità di ben conosciute teste di legno. Nessuno in verità riesce a rendersi conto del perché questa gente debba godere di tanta libertà di fare il proprio comodo proprio nel momento in cui a tutti i cittadini degni di tal nome vengono imposte restrizioni e imposizioni di ogni genere.11

La mancata partecipazione degli ebrei all’impresa bellica suscitò un’ampia ondata di malcontento popolare. Lo testimoniano anche numerose lettere anonime su questo tema. Fra queste, un gruppo di cittadini di Brescia, firmandosi «cittadini della città delle X Giornate» inviò una lettera a Roma, denunciando che «l’esonero per indegnità degli ebrei dal servizio militare sembra si sia risolto in un allegro beneficio per la genia maledetta di Giuda». I firmatari della missiva aggiungevano anche che: il disfattismo degli ebrei che mira ad eccitare l’odio e la ribellione fra le classi sociali è deleterio e ributtante. L’odio, poi, che essi nutrono per la persona sacra del capo del governo e per il regime, è senza ritegno, inestinguibile […]. Rispettosamente si avanza la proposta di allontanare questi spioni, disfattisti, impenitenti e pericolosi dalla città.12

Ancora, un’altra nota informativa ribadiva che nel giugno 1940, a Trieste, si vedevano pubblicamente non pochi ufficiali di complemento ebrei, espulsi dalle loro funzioni con le leggi del 1938. «Va da sé» – puntualizzava il fiduciario – «che questi ufficiali ebrei non possono avere che un animo più o meno avvelenato, e che quindi non si lasciano sfuggire occasione per seminare attorno a loro scetticismo, sfiducia e malcontento».13 Nei mesi estivi, nel momento della mobilitazione bellica della società italiana, gli ebrei, esentati dal servizio militare, vennero pertanto percepiti come dei privilegiati – mentre il resto della popolazione si preparava a fare sacrifici per la patria – che potevano di fatto continuare a praticare commerci ed esercitare professioni proibite dalla normativa antiebraica: 11. Ivi, nota, Roma, 15 giugno 1940. 12. ACS, MI, DGPS, Razzismo, b. 5. 13. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 219, nota del 26 giugno 1940.

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Un malcontento generale regna sulla signorile vita che menano gli ebrei in Italia. Esentati dal servizio militare, non isolati in campi di concentramento, liberi di esercitare il commercio a danno dei negozianti veramente italiani, gli ebrei godono, si divertono. A Tivoli, Nettuno, Ostia, tanto per citare luoghi vicini all’Urbe, sono in gran numero quelle piovre, se la passano benone, accanto alle loro creature, mentre i figli d’Italia lottano e spargono il loro sangue per la grandezza della patria. Questi, ci permettiamo di ripetere, sono i commenti, fatti dalla stessa popolazione.14

Un’altra nota riferiva che «a Trieste, a Livorno, come a Ferrara, Venezia e Roma aumenta giorno per giorno il malcontento generale in ogni classe di cittadini per il contegno che da qualche giorno a questa parte tengono gli ebrei nelle suddette città», poiché essi mettevano «in dubbio il valore dei nostri soldati».15 Di fronte a una condizione considerata “di privilegio” per gli ebrei, molte note riportavano le richieste d’inasprimento delle misure di controllo nei loro confronti – italiani e stranieri – già prima dell’ingresso dell’Italia in guerra. Una nota fiduciaria proveniente da Roma riferiva: La questione ebraica è quella che è sulla bocca di tutti. È opinione generale che gli israeliti siano internati in campi di concentramento in Africa e in Sardegna al più presto perché in questo momento tanto delicato e difficile la loro permanenza in Italia con il loro odio, e la loro campagna nefasta, fortissima, intelligente, costituisce il più grave pericolo mortale per la nostra nazione.16

Sebbene l’internamento riguardasse, oltre gli ebrei stranieri, solo una piccola parte di quelli con cittadinanza italiana, considerati “pericolosi nelle contingenze belliche” (in particolare oppositori politici del regime) sembra che il complesso degli ebrei venisse ora reputato come un potenziale nemico; di conseguenza l’auspicio era che tutti fossero internati in campi di concentramento, poiché la loro “anima nera” era ormai smascherata. Che gli ebrei, i quali non hanno obblighi di leva, restino a casa ad impinguare i loro portafogli mentre tanta gioventù va ai vari fronti a tenere alto il nome dell’Italia, che restino a casa i nemici interni nostri e soprattutto del nostro Duce, nessuno può crederlo nemmeno lontanamente. La manovra di certi elementi giudaici di fare domanda di andare volontari a combattere è così 14. Ivi, nota, Roma, 10 agosto 1940. 15. Ivi, Roma, 26 luglio 1940. 16. Ivi, nota, Roma, 22 aprile 1940. Sugli ebrei come principali propagatori dell’odio nei confronti del regime fascista cfr. anche ivi, nota, Roma, 27 marzo 1940.

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grottesca che ha irritato vieppiù il popolo contro di loro. Ormai la loro anima nera è smascherata, la loro cattiveria e viltà sono state messe a nudo da tutti i quotidiani d’Italia e quindi come si potrebbe credere al loro amore per il nostro paese che tradirebbe per due soldi. Qualunque misura draconiana, severa e forte contro di essi sarà accolta da tutto il popolo con vero giubilo. 17

L’avvio del conflitto pare quindi radicalizzare i sentimenti antiebraici della popolazione, a conferma dell’efficacia della propaganda di guerra. Di contro, suscitava reazioni di solidarietà – tacciate dai fiduciari come espressione di “pietismo” – la decisione di revocare le licenze a molti venditori ambulanti, togliendo di fatto alla maggior parte di essi gli unici mezzi di sussistenza di cui potevano disporre. La scelta di applicare questa misura nei confronti di elementi economicamente più deboli si considerava animata da «puro spirito antisemita»,18 e rischiava di incrementare atteggiamenti di solidarietà nei confronti degli ebrei italiani, provocando così la reazione opposta a quella auspicata.19 Più frequenti furono invece le relazioni che riferivano che gli ebrei continuavano indisturbati nelle loro attività criminose. Al riguardo, in una nota del settembre 1940, si ribadiva che specie la massa lavoratrice è arrabbiatissima contro il governo per questa accondiscendenza verso i giudei, e che, mentre da principio sembrava una chiacchiera trascurabile, parto di menti fantasiose, ora prende sempre più piede la notizia che questa accondiscendenza da parte del regime verso gli ebrei stessi sia dovuta alla influenza fortissima che esercita sul nostro capo una bellissima israelita di cui si dice innamoratissimo. E questa diceria è creduta a priori nell’Umbria, nelle Marche e nell’Emilia.20

Insieme al ritiro delle licenze ai venditori ambulanti, vennero prese nell’estate del 1940 altre misure contro gli ebrei, in particolare il divieto di possedere radio e di soggiornare in località marine. Le note fiduciarie, anch’esse numerose, sono delle vere e proprie delazioni su ebrei accusati di frequentare luoghi a loro proibiti. Sempre più spesso, infatti, si trovano citate in dettaglio le vicende di ebrei incolpati di violare la normativa antie17. Ivi, nota, Roma, 9 giugno 1940. 18. Ivi, nota, Torino, 21 agosto 1940. 19. Ivi, nota, Milano, 11 agosto 1940. Ancora sul ritiro delle licenze cfr. ivi, Roma, 23 agosto 1940. 20. Ivi, Milano, 15 settembre 1940.

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braica.21 «Gli ebrei sono tornati», si legge in una nota del 2 settembre 1940, che si riferisce, indistintamente, sia agli ebrei stranieri che «a suo tempo espulsi, sono clandestinamente ritornati», sia a coloro che «continuano indisturbati il loro commercio».22 L’impressione che l’antisemitismo non fosse sopito con l’entrata in guerra è rafforzata da una nota della fine del settembre 1940: «L’odio antisemita si riscontra fortissimo anche nelle campagne», concludeva il rapporto. Questo clima d’odio era fomentato dai settori più radicali del fascismo, che dette vita a una vera e propria “ondata antisemita”. I contadini ormai sanno e sono certi che la guerra è stata voluta dagli ebrei; sanno che essi, qui in Italia, odiano il Duce e l’Italia stessa ed operano nell’ombra. Nessuno assolutamente potrebbe tollerare che questa razza sia lasciata libera ai propri affari sul nostro suolo mentre tanta gioventù parte entusiasta per il fronte. Vi sono degli squadristi male intenzionati in proposito, si sentono voci di vendetta contro i giudei anche facendo cose contrarie alle disposizioni di partito. Queste voci le abbiamo sentite a Firenze, Ancona e Bologna.23

Ciò aveva allertato la questura di Ancona, mobilitata per impedire eccessi e manifestazioni di violenza contro gli ebrei, indisponendo in tal modo «i vecchi fascisti i quali in segreto si sono adunati per accordarsi e proseguire nella loro campagna sfidando così l’autorità stessa».24 Dopo il coinvolgimento dell’Italia fascista nel conflitto il tema prevalente fu quello di biasimare la supposta indulgenza con cui venivano trattati gli ebrei, che non partecipavano allo sforzo bellico, incitando il regime a sorvegliare sulla applicazione delle norme discriminatorie e lasciando intendere che la responsabilità per questo “lassismo” fosse da attribuire a funzionari e gerarchi. «Nessuno giustifica la mancata intransigenza da parte del Regime contro gli ebrei in questo momento. Tutti dicono: “o qualche altro gerarca li protegge oppure il governo non conosce l’entità del danno che essi portano all’Italia in questo momento”», si legge in una nota del settembre 1940.25 21. Ivi, Nota, Livorno, 14 settembre 1940. Sulle delazioni nei confronti degli ebrei cfr. Mimmo Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Milano, Mondadori, 2002 e Amedeo Osti Guerrazzi, Gli specialisti dell’odio. Delazioni, arresti e deportazioni, Firenze, Giuntina, 2021. 22. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 219, nota del 2 settembre 1940. 23. Ivi, nota, Roma, 27 settembre 1940. 24. Ibidem. 25. Ibidem.

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In un’altra nota si riferiva che il conflitto appena scoppiato era da imputare alla volontà degli ebrei di vendicarsi di Hitler. Nel novembre 1940 uno «squadrista antisemita» informava il capo della polizia che «esiste a Firenze una sede dell’internazionale ebraica e di cui fanno parte tutti gli ebrei e le ebree senza distinzione di ghetto o discriminazione perché tutti gli ebrei ci odiano. Spionaggio e disfattismo e cospirazioni sono le armi della loro offesa».26 Si arriva quindi a far scomparire la distinzione fra ebrei italiani e stranieri e ad accomularli sotto un’unica immagine di “elementi dannosi” per la nazione. La necessità di comprendere la “pericolosità” degli ebrei – italiani e stranieri – e i danni che avrebbero arrecato all’Italia nelle contingenze della guerra sono temi assai ricorrenti non solo nelle note dei fiduciari o di polizia, ma anche nelle lettere censurate, che presentano un ampio florilegio degli stereotipi del complotto giudaico-pluto-massonico ai danni dei paesi dell’Asse. Esse attestano pertanto la penetrazione degli stereotipi antiebraici non solo fra gli elementi più politicizzati, ma in una cerchia più ampia della popolazione. Gli esempi riportati confermano questa larga diffusione della “parola antisemita”; una lettera per New York dell’ottobre 1940 riferiva: «Spero che tutti i voti di famiglia siano contro Roosevelt perché quell’uomo è una marionetta degli ebrei e li trascina tutti alla rovina e portarvi alla guerra e allo schiavismo degli ebrei».27 Fra le tante, nel giugno 1941 in una lettera sottoposta a censura si ribadiva il concetto della “guerra ebraica”: «La guerra è ormai perduta per le democrazie e per gli ebrei che sono la causa principale di questo conflitto».28 Nel settembre 1941 in un’altra missiva si leggeva: «Poi si scuote la testa, si pensa all’avvenire così turbinoso e ci si augura che il conflitto non si allarghi e che la propaganda non riesca a scatenare più male di quanto ha già fatto. Questi manigoldi, veri seguaci di Giuda, sarebbero tutti degni di un bel laccio al collo e così fra i popoli ci sarebbe più comprensione e le guerre sarebbero eliminate».29 O ancora, nell’agosto 1942 si sottolineava che era la “cricca giudaico-massonica” ad aver convinto Inghilterra e Stati Uniti ad entrare in guerra per aumentare i propri profitti. 26. ACS, MI, DGPS, G1, b. 80, lettera al direttore generale della polizia di Roma, 29 novembre 1940. 27. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 230, lettera da Firenze per New York, 23 ottobre 1940. 28. Ivi, lettera da Firenze per gli Stati Uniti, 16 giugno 1941. 29. Ivi, lettera da Firenze per gli Stati Uniti, 7 settembre 1941.

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Gli anglosassoni devono perdere la guerra perché loro l’hanno voluta non per una necessità impellente, perché cioè la loro patria era in pericolo, ma bensì per gli interessi egoistici della cricca giudaico-massonica esistente in Inghilterra e negli Stati Uniti che approfittando dei loro forzieri ricolmi d’oro hanno scatenato l’attuale putiferio per ingrossare vieppiù i loro portafogli.30

La reclusione nei campi e nelle località di “internamento libero” Al momento dell’entrata in guerra, la persecuzione antiebraica, attraverso l’istituto dell’internamento, ebbe un ulteriore salto di qualità. Analogamente alle azioni di altri paesi in tempo di guerra, il governo italiano non regolò l’internamento dei civili (compresi gli ebrei stranieri) attraverso leggi ad hoc, ma con una serie di note e circolari.31 Il 26 maggio, in una corrispondenza tra il ministero dell’Interno e il ministero degli Affari esteri si proponeva che gli ebrei stranieri residenti in Italia, venuti con mezzi illeciti, fossero da considerarsi appartenenti a Stati nemici (erano esclusi per ragioni diplomatiche gli ebrei appartenenti a Stati neutrali). Nello stesso giorno il sottosegretario Guido Buffarini Guidi comunicava al capo della polizia Arturo Bocchini che il «duce desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra».32 Il 27 maggio in una circolare successiva si faceva menzione che «in caso di emergenza, oltre ebrei stranieri di cui a precedenti circolari sarà necessario internare quegli ebrei italiani che per la loro reale pericolosità fosse necessario allontanare da abituali loro residenze».33 Qualche settimana dopo, come accennato, il 15 giugno 1940, il ministero dell’Interno inviava ai prefetti l’ordine di arresto degli ebrei stranieri «appartenenti a Stati che fanno politica razziale». Come si evince dal linguaggio burocratico utilizzato, le autorità italiane definivano gli 30. Ivi, lettera da Firenze per la Francia, 7 agosto 1942. 31. Per una visione complessiva dell’istituto dell’internamento per civili cfr. Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (19401943), Torino, Einaudi, 2004; Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, vol. II, Firenze, Sansoni, 1996. 32. ACS, MI, DGPS, AGR, Cat. Massime M4, b. 59, bozza della circolare, 16 maggio 1940. 33. ACS, MI, DGPS, AGR, Cat. Massime M4, b. 99, ministero dell’Interno ai prefetti, 27 maggio 1940.

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ebrei stranieri come “elementi indesiderabili”, che odiavano il regime fascista e potevano compiere atti lesivi della difesa dello Stato o del mantenimento dell’ordine pubblico: Detti elementi indesiderabili imbevuti di odio verso i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria per la difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti subito dalla circolazione. Dovranno pertanto essere arrestati ebrei stranieri tedeschi, ex cecoslovacchi, polacchi, apolidi dall’età di 18 anni a sessanta anni. Di essi dovrà essere inviato a ministero elenco con generalità per assegnazione campi di concentramento.34

Entrarono in funzione sotto l’egida del ministero dell’Interno più di cinquanta strutture di detenzione, situate nell’Italia centro-meridionale e denominate “campi di concentramento” per internati civili nella documentazione fascista; allo stesso tempo, vennero istituiti campi di concentramento per donne, ad esempio Petriolo, Pollenza e Treia, vicino alla città di Macerata, Casacalenda e Vinchiaturo, nei pressi di Campobasso, e Solofra, in provincia di Avellino.35 Una quarantina di questi ospitò ebrei.36 In generale, le famiglie ebraiche – donne, bambini e anziani – dovettero trasferirsi in altri luoghi del cosiddetto “internamento libero”, in piccoli comuni o località scelti perché lontani dalle principali linee di transito.37 Nonostante le precarie condizioni di vita dovute alle sistemazioni fatiscenti, al cibo insufficiente e alla mancanza di cure mediche adeguate, i detenuti in queste strutture riuscirono a passare tre anni di relativa tranquillità, fino all’estate del 1943, anche se sottoposti a limitazioni di libertà personali e di movi34. ACS, MI, DGPS, AGR, A16 Ebrei stranieri, b. 8, il Ministero dell’Interno ai prefetti, 15 giugno 1940. 35. Cfr. Annalisa Cegna, “Di dubbia condotta morale politica”. L’internamento femminile in Italia durante la Seconda guerra mondiale, in «Deportate, esuli, profughe», 2 (2013), pp. 28-54; Ead., Alcune riflessioni sull’internamento femminile fascista, in «Diacronie», 35, 3 (2018), journals.openedition.org/diacronie/9342. 36. Capogreco, I campi del duce. Solo il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, dove vennero internati per lo più ebrei, era costituito da baracche. 37. Secondo i dati di Voigt il numero globale di ebrei stranieri che furono internati nei campi e nei comuni nell’ottobre 1940 ammontava a 2.412. Nel novembre 1942 il numero aumentò a 5.463 e nell’aprile-maggio 1943 a 6.386. Di quest’ultimo gruppo 4.339 furono internati nei comuni e 2.047 nei campi di internamento. Dei 2.047 internati nei campi, 1.465 si trovavano nel campo di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Cfr. Voigt, Il rifugio precario, vol. II, p. 94. Circa 2.000 erano ancora internati nel settembre 1943, quando gli Alleati liberarono il campo; si veda Carlo Spartaco Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, 1940-1945, Firenze, Giuntina, 1987.

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mento. Come aveva osservato una internata presso la struttura femminile di Lanciano: «Trovo inutile essere che ci vengano notificate le cose proibite: sono troppe. Sarebbe più semplice dirci solo quelli permesse».38 Dopo il 1940 anche il linguaggio della burocrazia cambiò in modo significativo; se in precedenza si possono rintracciare espressioni xenofobe e antisemite nelle comunicazioni ufficiali, si rileva dall’entrata in guerra una radicalizzazione in senso antiebraico del linguaggio burocratico. Ad esempio, una circolare del ministero dell’Interno sull’arresto degli ebrei stranieri e, successivamente, la composizione dei mandati di arresto da parte di stazioni di polizia e prefetture, si riferivano sempre più spesso agli ebrei stranieri come a elementi indesiderabili e pericolosi. Ciò valse anche per gli ebrei italiani sottoposti alle misure di internamento: una casistica assai varia che andava da personalità note dell’antifascismo, a persone che venivano considerate “potenzialmente” pericolose. In alcuni casi emerge che quanti avevano ricevuto un rifiuto alla richiesta di “discriminazione” o i venditori ambulanti privati della loro licenza dovessero essere considerati potenziali oppositori al regime. «Sebbene non abbia dato luogo a rilievi, potrebbe, nell’eccezionale momento, svolgere attività non consentita», era formula frequente nelle motivazioni addotte nell’estate del 1940 dalle varie prefetture per l’internamento. A titolo di esempio, la prefettura di Livorno giustificò l’arresto di un uomo di quasi 80 anni come segue: Appartenente alla razza ebraica, oppositore del regime e massone, a seguito dei provvedimenti razziali ha subdolamente e con circospezione svolto sempre opera denigratoria per il regime. Ha manifestato odio per la Germania, auspicandone la sconfitta, nella speranza che da ciò possa derivare la rinascita degli ebrei.39

O ancora, come motivo di arresto di una giovane ebrea, membro attivo del PNF, il prefetto di Grosseto scriveva: 38. Maria Einstein, L’internata n. 6. Donne fra i reticolati del campo di concentramento, Milano, Tranchidia, 1994, p. 63. Per le condizioni di vita nei campi e nelle località di internamento si vedano, fra gli altri, Voigt, Il rifugio precario, vol. II; Capogreco, I campi del duce; Anna Pizzuti, Vite di carta. Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo, Roma, Donzelli, 2010; mi permetto di rinviare anche a Valeria Galimi, L’internamento in Toscana, in Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), vol. 1, Saggi, Roma, Carocci, 1999, pp. 511-560. 39. ACS, MI, DGPS, AGR, A5G II guerra mondiale, b. 145, il prefetto di Livorno al ministro dell’Interno, 13 giugno 1940.

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è nubile, figlia di un commerciante di tessuti ed è prettamente di razza semita. Buone condizioni economiche. Buona cultura, intelligentissima, scaltra, crede fermamente nella rinascita della potenza, non solo economica, ma anche nazionale e spirituale della propria razza e religione. Ambiziosa si iscrisse nel 1933 al Pnf di Pitigliano, nascondendo i suoi veri sentimenti di superiorità razzista con l’esternare del patriottismo italiano che non sentiva e col manifestare, esternamente, sentimenti di devozione al Duce e al regime.40

Il sistema di località di “internamento libero” prevedeva un numero molto ampio di strutture; ancora non ne conosciamo il numero preciso, né abbiamo una stima certa delle persone sottoposte a questa misura restrittiva. Dallo spoglio dei loro fascicoli personali è possibile ravvisare per il periodo fra il 1940 e il 1943 una grande mobilità degli internati che passavano da campi a località di internamento, e viceversa, a volte cambiando regione, su richiesta degli interessati per avvicinarsi o a ricongiungersi ad altri membri della propria famiglia, o al contrario, come un effetto di una misura punitiva. La disamina dell’ampia casistica dell’internamento degli ebrei stranieri conferma che la popolazione locale accolse in modo diversificato la presenza di internati nei loro territori.41 In generale, anche se non ci furono disposizioni precise, il personale di sorveglianza dei campi di internamento tentò di evitare che i reclusi avessero contatti con la popolazione locale, anche se in taluni casi si ebbero contatti, scambi e certamente curiosità e a volte atti di generosità; in molti casi, però, la presenza degli internati nei campi passò inosservata. È utile citare un episodio, fra i tanti. Nel gennaio 1942 un articolo della «Gazzetta di Parma» denunciò il “pietismo” della popolazione italiana nei confronti degli ebrei internati, provenienti dalla Dalmazia, nel campo locale di Montechiarugolo. L’intenzione era quella quindi di separare il più possibile gli ebrei internati dal resto della popolazione, che doveva essere tenuta all’oscuro della loro reale condizione, facendoli al contrario apparire come “in villeggiatura” e privilegiati. 40. ACS, MI, DGPS, AGR, A5G II guerra mondiale, b. 68, il prefetto di Grosseto al prefetto di Firenze, 6 giugno 1940. Per una casistica più ampia rinvio a Galimi, L’internamento in Toscana, pp. 517 sgg. 41. In merito mi permetto di rinviare a Valeria Galimi, Trajectories of Foreign Jews in Fascist Italy during the Holocaust, in Deported. Comparative Perspectives on Path to Annihilation for Jewish Populations under Nazi German Control, a cura di Michaela Raggam-Blesch, Peter Black e Marianne Windsperger, Vienna, New Academic Press, 2023.

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Ognuno diffidi di questi strani tipi eccessivamente e esageratamente liberi, e li consideri come devono essere considerati, nemici del nostro popolo e della nostra terra. E nessuno ceda alla debolezza immorale del “pietismo”, manifestazione sempre sospetta, anche nel caso più spontaneo, manifestazione che non può non suonare una ingiuria grave alla maturità del nostro popolo e che reca offesa alla tradizione cattolica e fascista della nostra gente. 42

Non accadde così nell’“internamento libero”, quando le relazioni con gli abitanti del luogo furono certamente più frequenti. In alcune occasioni gli internati, cui era concesso di muoversi nel comune loro assegnato, divennero bersaglio di ostilità. Divennero spesso oggetto di malumori della popolazione locale perché disponevano di un sussidio statale e potevano accedere a dei pacchi di viveri dati loro dalla Croce Rossa o dalle strutture assistenziali ebraiche. In provincia di Arezzo a un’altra famiglia di ebrei provenienti da Tripoli, a cui fu concesso di riunirsi viene revocato il permesso di risiedere in una località di “internamento libero”, perché accusati di aver «dato luogo a vari inconvenienti dovuti in gran parte al loro scarsissimo grado di civiltà e al carattere intrigante, proprio della gente di razza ebraica».43 Vennero denunciati dalla proprietaria dell’abitazione in cui vivevano, perché a suo avviso colpevoli di dedicarsi all’accaparramento di generi razionati; offrivano in cambio di generi di prima necessità tè, caffè, tabacco provenienti dai pacchi che ricevevano dalla Croce Rossa. Così la proprietaria dell’alloggio aveva scritto al podestà per segnalare il caso: Io, purché questa famiglia di Ebrei lascia la casa mia, quantunque abbia ben conosciuto che è piena di mezzi, giacché compra senza economia, ed è fornita di ogni ben di Dio, sono disposta a prendere una somma inferiore a quella che ho richiesto, purché mi serva almeno per riparare i danni che ho subito.44

L’internamento in campi e località segnò inesorabilmente il destino di alcuni dopo il 1943. Come dimostra la vicenda di una coppia di fidanzati, Rosa Abelow e Leo Zelikowski, due giovani di Vilnius, che si ritrovarono in Italia alla fine degli anni Trenta. 42. Pizzuti, Vite di carta. Storie di ebrei stranieri, pp. 76-77. 43. ACS, MI, DGPS, AGR, A4bis Ebrei internati, b. 203, il prefetto della provincia di Arezzo al Ministero dell’Interno, Ufficio internati, 7 gennaio 1943. 44. Ivi, G.C. al podestà di Castiglione Fiorentino, 21 dicembre 1942.

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Rosa Abelow studiava a Pisa per laurearsi in medicina; nel 1940 venne internata dapprima nel campo di Casacalenda e avviò una fitta corrispondenza per poter continuare gli studi, per laurearsi e svolgere il tirocinio per l’abilitazione per essere medico. Riuscì a conseguire la laurea in medicina e a svolgere il tirocinio, ottenendo il trasferimento in una località di internamento nella provincia di Siena, fino a quando non fu oggetto di una lettera anonima. Nel giugno 1942 un gruppo di fascisti locali segnalava la giovane dottoressa perché, nonostante il divieto, esercitava la professione medica. Si domanda se con le leggi sulla razza ebraica emanate dal Governo Fascista, e mentre la Patria è in armi per una lotta sacrosanta, contro le forze giudaicomassoniche, si può tollerare che una straniera di razza ebraica e di sentimenti non certamente Fascisti possa coadiuvare i medici locali insinuandosi con la visita medica fra la popolazione Montalcinese. Se anche le necessità del servizio Sanitario occorresse dei medici [sic], non è certo il momento di ricorrere a stranieri nemici e tanto meno ad ebrei.45

Il prefetto di Siena aveva giustificato l’impiego a titolo gratuito di Rosa Abelow con l’insufficienza di personale sanitario; dopo un lungo scambio fra la prefettura e la Demorazza la dottoressa riuscì a rimanere in provincia di Siena e riuscì a salvarsi dalle deportazioni. Il fidanzato Leo Zelikowski, invece, rimase sotto sorveglianza in provincia di Trento e venne deportato ad Auschwitz nel novembre 1943.46 Voigt sottolinea che, nei casi da lui esaminati, dopo l’arrivo degli ebrei in una località di internamento, facevano spesso la loro comparsa le prime denunce contro di essi, firmate o anonime, in particolare da parte di fascisti locali. Queste note riportavano in gran parte lamentele sulle condizioni dell’internamento, considerato da molti come una “villeggiatura”, quindi un oltraggio diretto alla popolazione locale che viveva una situazione assai difficile nel tempo di guerra.47 Gli internati erano accusati di condizionare, con la loro disponibilità di denaro, i prezzi del mercato nero; e, nei mesi dello sfollamento nelle campagne, di occupare gli alberghi e gli alloggi migliori. 45. ACS, MI, DGPS, A4bis, Ebrei internati, b. 12, fasc. Abelow Rosa, Fascisti di Montalcino al Ministero dell’Interno, 6 ottobre 1942. 46. Ho ricostruito in dettaglio la loro storia in Trajectories of Foreign Jews in Fascist Italy during the Holocaust.CS, MI, DGPS, A4bis, Ebrei internati, b. 12, fasc. Abelow Rosa 47. Voigt, Il rifugio precario, pp. 166 sgg. (a pp. 174 e 175 il lungo elenco delle lettere di denuncia trasmesse al Ministero).

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L’internamento in campi e località funzionò a pieno regime fino all’estate del 1943, quando si trovavano nella penisola ancora un ampio numero di ebrei stranieri: gli internati ebrei (italiani e stranieri) erano circa 2.500-2.600 nell’area dell’Italia del nord e circa un migliaio nelle regioni centrali.48 Tale dato è utile per mettere a fuoco le continuità tra gli ultimi anni del regime fascista e il periodo dell’occupazione tedesca, nonché per comprendere meglio la sorte degli ebrei stranieri residenti in Italia durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Possiamo partire da un fatto rilevante: il numero degli ebrei stranieri infine arrestati e deportati è stato il doppio del numero degli ebrei deportati che avevano la cittadinanza italiana.49 In questo contesto, il livello di accesso alle risorse economiche, alla conoscenza e all’informazione e la qualità dei rapporti con la popolazione locale hanno giocato un ruolo nel determinare le strategie di sopravvivenza sviluppate dagli ebrei stranieri e italiani. In effetti, gli ebrei stranieri in Italia furono particolarmente esposti al pericolo sotto l’occupazione tedesca perché erano già noti alla polizia, avevano minori e più sporadici rapporti con la popolazione locale, privi di una rete di amici e conoscenti, a differenza degli ebrei italiani che erano generalmente ben integrati nel proprio tessuto sociale. Conclusioni Nel maggio 1942 venne promulgata una misura dal chiaro sapore propagandistico, la precettazione civile per gli ebrei, presentata come una misura atta a compensare il fatto che gli ebrei erano stati esclusi dall’esercito ed esentati dal prendere parte ai combattimenti.50 Come si leggeva in una nota fiduciaria redatta l’11 maggio 1942, questo nuovo provvedimento fu «accolto con favore dalle masse […]. Viene considerato un equo provvedimento che risponde ai principi di giustizia. Gli ebrei sono esenti dagli obblighi militari e per questo […] siano almeno sottoposti a disciplina civile». L’8 luglio 1942 una lettera senza firma riportava tale convincimento: 48. Voigt, Il rifugio precario, vol. 2, pp. 403-404. 49. Cfr. Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (19431945), Milano, Mursia, 2002. 50. Cfr. Renzo De Felice, Storia degli ebrei sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, pp. 372-375.

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Farinacci ha dimostrato che il giudeo è il nostro nemico più acerrimo e che noi lo dobbiamo combattere. Questi luridi esseri sono liberi, non lavorano (fanno lavorare eccome i cristiani sotto di loro) […]. L’ebreo è potente che con l’oro compra tutto anche il cristiano. Si emanino provvedimenti draconiani. Decisi. Siano chiusi nei campi, non si lascino fra di noi a fare il disfattismo, si spoglino dei loro beni. Si proibisca loro di muoversi in ferrovia, in auto.51

La lettera si concludeva con l’affermazione: «morte ai giudei!».52 La precettazione al lavoro coatto che coinvolse in lavori manuali, spesso umilianti, qualche migliaio di ebrei dalla primavera del 1942, costituisce una fra le misure antiebraiche in vigore contro gli ebrei italiani e stranieri fino all’autunno del 1943. Già dal 1940 l’entrata in guerra dell’Italia segnò una radicalizzazione dei provvedimenti contro gli ebrei, con l’internamento di quelli stranieri e di parte di quelli italiani e con l’emanazione di misure considerate opportune nelle nuove circostanze della guerra per vigilare sulla pericolosità degli stessi (divieto di possedere radio o di recarsi nelle località costiere, precettazione al lavoro). Tale radicalizzazione ebbe un riflesso anche nell’opinione popolare, nonostante qualche voce si fosse levata contro l’arbitrarietà del ritiro delle licenze per i venditori ambulanti. In generale, la parola d’ordine della “guerra ebraica”, ossia dell’accusa agli ebrei di essere i principali fautori del conflitto mondiale per potersi vendicare di Hitler e per poter trarre vantaggi dalle circostanze belliche, sembra avere avuto un’ampia presa fra la popolazione italiana. La destituzione di Mussolini e la fine del regime fascista, l’armistizio dell’8 settembre e la conseguente costituzione della Repubblica sociale italiana e l’occupazione nazista della parte centrosettentrionale del paese furono eventi che aprirono a una nuova fase delle persecuzioni contro gli ebrei, con gli arresti e le deportazioni verso i campi di concentramento e di sterminio in Europa orientale. È possibile scorgere una continuità fra questa fase e le attività intraprese dal regime fascista dal 1938 per isolare, discriminare e perseguitare gli ebrei, attività che ebbero conseguenze dirette nella realizzazione anche in Italia del piano di “soluzione finale” nazista.

51. ACS, MI, DGPS, Polizia politica, b. 230, Lettera da Firenze, 8 luglio 1942. 52. Ibidem.

Nicola Labanca I combattenti del 1940 e della guerra fascista. Appunti di letture per una ricerca da fare

Può sembrare paradossale ma – nonostante la partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale e il fascismo siano certamente due fra i temi della storia dell’Italia unita su cui in assoluto più si è pubblicato – non è facile sapere cosa i combattenti italiani della Seconda guerra mondiale abbiano fatto, detto o pensato. Si è pubblicato molto di guerra, ma poco di quei combattenti che la guerra fascista hanno fatto in prima persona. Se poi, rispetto a tutti i generi possibili delle pubblicazioni attorno al tema dei combattenti del 1940-1943 – commemorative, celebrative, personali, autobiografiche, nostalgiche ecc. – isolassimo solo gli studi veri e propri, i numeri crollerebbero ancora di più. Disponiamo cioè di pubblicazioni variamente caratterizzate, diremmo di fonti edite, molto più che di seri lavori storiografici. La cosa è abbastanza grave se si pensa che fu con la guerra, e a causa della guerra, che il fascismo italiano crollò. Inoltre, se ora sappiamo molto più che un tempo degli orientamenti della popolazione civile,1 del suo rapporto con il regime, e anche dell’antifascismo, il rischio che si profila è che si crei uno scollamento fra l’avanzamento degli studi sulla società civile (la storia politica e sociale) e la relativa arretratezza degli studi sui combattenti della guerra fascista (la storia militare). Tale scollamento sembra peraltro più presente negli studi recenti che nelle sintesi e nelle ricerche di qualche anno fa nelle quali – si 1. Paul Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Roma, Carocci, 2015; Id., La dittatura fascista. Consenso e controllo durante il ventennio, Roma, Carocci, 2017.

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prenda ad esempio l’ancora fondamentale monografia di Giorgio Rochat su Le guerre italiane 1935-1943 – tale scollamento non c’era.2 Nel complesso si tratta di uno stato degli studi piuttosto diverso, e in un certo senso inverso, rispetto a quello degli studi sulla Prima guerra mondiale: per la quale, com’è noto, gli studi non solo tecnico-militari ma sociali, politici e culturali sui soldati hanno in larga parte preceduto quelli sui civili.3 Sempre nel complesso, una certa diversità si avverte in molte pubblicazioni sulla partecipazione italiana a quella Seconda guerra mondiale che decretò il crollo del fascismo (studi che poi partono spesso dal 1940) rispetto ai primi studi sulle origini del fascismo e del suo regime: tanto questi ultimi, ormai decenni fa, erano molto localmente articolati e differenziati quanto i primi sono invece troppo spesso ancora piuttosto generali e indifferenziati.4 Per finire, curiosamente, dei combattenti italiani della guerra fascista di recente paiono essere interessati più gli studiosi non italiani che quelli italiani.5 In questo quadro generale, è ancora troppo difficile isolare le conoscenze storiografiche disponibili sui combattenti del 1940 per poterne parlare: ragione per la quale la presente rassegna degli studi sarà dedicata in generale ai combattenti italiani dell’intera guerra fascista. Se avesse dovuto limitarsi a passare in rassegna gli studi disponibili su quelli del 1940 (o, meglio, del 1939-1940) si sarebbe esaurita in poche righe. Cosa pensavano e cosa facevano gli italiani in uniforme poco prima, al momento e poco dopo l’intervento dell’Italia mussoliniana nel conflitto europeo e poi mondiale, quanto tali comportamenti erano allineati e quanto invece divergevano da quelli dei civili della Penisola, quanta continuità e invece quanta discontinuità caratterizzasse l’umore e il morale, le predisposizioni e l’addestramento dei combattenti italiani rispetto agli altri europei degli stessi mesi sono tutte domande per cui, ad oggi, mancano molte risposte. 2. Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005. 3. Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, Firenze-Scandicci, La nuova Italia, 2000; Giovanna Procacci, La prima guerra mondiale, in Storia d’Italia, a cura di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, vol. IV, Guerre e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1997; Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, Milano, Sansoni, 1998. 4. Mario Avagliano, Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 19401943, Bologna, il Mulino, 2014. 5. Alexander Henry, War through Italian eyes. Fighting for Mussolini, 1940-1943, Abingdon, Routledge, 2021.

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Le poche pagine che seguono non vogliono né possono porre rimedio a questa complessa realtà ma hanno l’unico scopo di precisare alcuni punti problematici e ricostruire i percorsi seguiti dalla ricerca, per poterne delineare di nuovi. Sempre in alto, più che in basso, nel Paese In realtà una certa disattenzione verso la massa dei combattenti non dovrebbe stupire. Non solo perché molto a lungo la storia militare si è interessata, perlopiù, dei vertici e dei comandanti più che della truppa,6 ma soprattutto perché lo stesso è successo con la storia politica e sociale dei civili e della società civile, anche per quanto concerne la storia del fascismo (e delle sue guerre). Immediatamente dopo la fine del conflitto, anzi già dal crollo del regime e dalla sua ricostituzione sotto forma di governo collaborazionista con il Reich nazista, erano infatti stati i vertici politici e militari a prendere parola.7 Nel dopoguerra, in particolare, con qualche analogia con quanto era avvenuto dopo la fine della Grande guerra, erano stati i comandanti a parlare, o a far parlare, con le loro pubblicazioni autobiografiche e con le polemiche che le hanno accompagnate.8 Anche opere critiche, sino a tutti gli anni Settanta, rivolgevano la propria attenzione prevalentemente ai vertici. Così facendo si tralasciava però il sentimento popolare degli italiani e, per quanto concerne le forze armate, lo spirito delle truppe. Ignorandolo, peraltro, si rischiava o si finiva per riproporre l’immagine di un popolo (in uniforme) allineato ai vertici: quindi di un Paese tutto fascista sino alla fine (e convinto della guerra che stava combattendo). Certo, una versione critica protestò contro il fascismo come estraneo alla volontà popolare, e per il tempo della guerra di Liberazione parlò addirittura di “un popolo alla macchia”.9 Ma, in questi termini, erano versioni poco sostenibili. 6. Nicola Labanca, Sviluppo e cambiamento nella storia militare dalla seconda guerra mondiale ad oggi, in «Revue internationale d’histoire militaire», 91 (2013), pp. 11-81. 7. Galeazzo Ciano, Diario 1937-1938, Bologna, Cappelli, 1948, e Id., Diario, Milano, Rizzoli, 1950, 2 voll. (1, 1939-1940; e 2, 1941-1943), poi Id., Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano, Rizzoli, 1980; Giuseppe Bottai, Diario, a cura di Giordano Bruno Guerri, 2 voll., Milano, Rizzoli, 1982-1988; Dino Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di Renzo De Felice, Bologna, il Mulino, 1985. 8. Piero Pieri, Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, Torino, Utet, 1974. 9. Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Milano, Mondadori, 1947.

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Le cose non migliorarono quando alle prime ricostruzioni molto generali della storia del regime e degli italiani “sotto” di esso10 andarono affiancandosi i primi seri studi sulla macchina del consenso: una macchina consueta nei regimi totalitari novecenteschi, della quale in quei primi studi si finì però per mettere in evidenza i successi più che i limiti. Fu cioè assai positivo che, analizzando per la prima volta sulla documentazione originale la costruzione del consenso, con un approccio top-down si andasse scoprendo e studiando la vastità della macchina delle manipolazioni delle coscienze.11 La scoperta e l’analisi degli ordini alla stampa, ad esempio, faceva capire come si costruiva la comunicazione di massa in uno Stato totalitario.12 Ma c’era il forte rischio che tutto questo andasse a oscurare le complessità e le articolazioni del reale sentimento popolare, che invece aveva dato segno di una incompleta accettazione dei messaggi lanciati dall’alto del regime. Converrà ricordare che qualche studioso, polemicamente, visti i tanti segni e le tante tracce in tal senso, si chiese se invece non si fosse trattato di dissenso di massa.13 Comunque fosse, a chi si poneva da una diversa prospettiva e si allontanava da una storia strettamente di vertice, che crepe nella costruzione del consenso e in genere del regime ve ne fossero era apparso da subito chiaro. Lo documentavano gli studi locali, la scoperta di importante documentazione, e ovviamente lo studio degli antifascisti. Negli ultimi decenni – quando forse si è finalmente usciti dalla secca opposizione fra consenso e dissenso – si è infine andati più avanti ed è stata possibile una più attenta misurazione del sentimento o dell’opinione 10. Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira, Storia del fascismo. L’Italia dal 1919 al 1945, Roma, Novissima, 1952, poi Iid., Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956; Enzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma, Editori Riuniti, 1967. 11. Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, Bari, Laterza, 1975. 12. Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop, 1939-43, a cura di Nicola Tranfaglia, note al testo di Bruno Maida, Torino, Einaudi, 2005; e Nicola Tranfaglia, La stampa del regime 1932-1943. Le veline del Minculpop per orientare l’informazione, con la collaborazione di Bruno Maida, Milano, Bompiani, 2005; Romain H. Rainero, Propaganda e ordini alla stampa. Da Badoglio alla Repubblica sociale italiana, Milano, FrancoAngeli, 2007. 13. Luciano Casali, E se fosse dissenso di massa? Elementi per un’analisi della «conflittualità politica» durante il fascismo, in «Italia contemporanea», 144 (1981), pp. 101-120. Per una messa a punto generale ancora utile Gianpasquale Santomassimo, Consenso, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Torino, Einaudi, 2002, vol. I.

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popolare.14 Come e perché e sino a quale punto si riempissero le piazze delle “adunate oceaniche” di regime ha cominciato ad essere sempre più chiaro, così come è stato finalmente evidente che quelle piazze convivessero con la smobilitazione, la spoliticizzazione, la critica e anzi la vera e propria opposizione. Fra i militari Qualcosa di simile all’evoluzione di questi studi sul Paese e sui civili – cioè su ciò che al tempo della Grande guerra si sarebbe chiamato fronte interno – è avvenuto anche per la ricerca sugli umori circolanti fra i militari. Naturalmente sarà bene premettere che la guerra portò fra essi enormi modificazioni e che fra tempo di pace e tempo di guerra vi è una enorme differenza: tre-quattro decine di migliaia di ufficiali in servizio presso tutte e tre le forze armate in tempo di pace, a fronte di circa duecentocinquantamila ufficiali (in servizio permanente e di complemento) in tempo di guerra; o circa quattrocentomila coscritti o volontari di truppa l’anno in tempo di pace, a fronte di più di quattro milioni di italiani mobilitati in tempo di guerra.15 È quindi evidente che sia gli umori del corpo ufficiali sia quelli delle truppe non potevano non essere molto diversi passando dalla pace alla guerra, cioè da un minimo campione di una piccola parte della società italiana in tempo di pace (poco più di uno su cento abitanti) ad una assai più larga rappresentazione della società nazionale in tempo di guerra (poco meno di uno su dieci). Ora, lo studio di questi militari (ripetiamo, assai diversi fra pace e guerra) e delle loro percezioni, rappresentazioni e sentimenti ha conosciuto – nell’evoluzione della storiografia italiana – un movimento grossomodo non lontano da quello che abbiamo visto relativamente ai civili. Sin dalla fine del conflitto la pubblicistica e dagli anni Sessanta gli studi si erano molto interessati ai vertici: al Comando supremo, ai ministri, ai comandi superiori. In fondo, anche i primi nuovi studi sulla poli14. Corner, Italia fascista; Id., La dittatura fascista. 15. Giorgio Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943, in L’Italia in guerra 1940-43, a cura di Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio, num. monogr. di «Annali della Fondazione Luigi Micheletti», 5 (1990-91). Dati ripresi da Virgilio Ilari, Storia del servizio militare in Italia, 5 voll., Roma, Centro militare di studi strategici, 1990-1992.

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tica militare, sulle relazioni fra civili e militari al vertice dello Stato totalitario e sulla grande strategia di guerra del fascismo questo sono stati.16 Dapprima minoritari, erano partiti anche i primissimi studi sul sentimento degli italiani in divisa: cioè sui coscritti e sui soldati, e non più solo sui comandanti. Si trattava di un allargamento decisivo, anche se quest’approccio dal basso non significava disegnare una storia completamente opposta e contraria. Anche in Nuto Revelli, sia La strada del davai sia L’ultimo fronte (come, per altri versi, Il mondo dei vinti),17 non raccontavano una storia di opposizione del basso contro l’alto, bensì un’altra storia, o meglio altre storie, tutte assai diverse, nelle quali – notava correttamente Giorgio Rochat – ad emergere era l’estraneità al regime più e certamente prima che l’opposizione.18 Solo più tardi gli studi che si chiedono cosa davvero pensassero non solo gli alti comandanti ma l’ampia massa di soldati, come fossero da questi immaginati e percepiti il fascismo e la sua guerra hanno preso a diffondersi. Italiani (in uniforme) in guerra È stato solo più o meno attorno alla fine della Guerra fredda che la prima prevalente attenzione ai vertici militari ha fatto spazio a un maggiore interesse verso quanto si faceva e si pensava alla base dell’istituzione militare. Ci si è mossi verso questa stessa meta da più prospettive. Vi si è arrivati chi dallo studio dell’istituzione militare combattente,19 chi dalle lettere dei caduti,20 chi dalla questione dell’opinione pubblica,21 chi dall’esame 16. Pieri, Rochat, Pietro Badoglio; Lucio Ceva, La condotta italiana della guerra: Cavallero e il Comando Supremo 1941/1942, Milano, Feltrinelli, 1975; Id., Africa settentrionale 1940-1943, Roma, Bonacci, 1982. 17. Nuto Revelli, La strada del davai, Torino, Einaudi, 1966; Id., L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1971, e Id., Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi, 1977. 18. Giorgio Rochat, Gli studi di Nuto Revelli sui combattenti della guerra fascista, in «Italia contemporanea», 114 (1974), pp. 107-110; Id., Ricordo di Nuto Revelli, in «Annali / Museo storico italiano della guerra», 9-11 (2001-2003), pp. 5-8. 19. Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943. 20. Bianca Ceva, Cinque anni di storia italiana, 1940-1945. Da lettere e diari di caduti, Milano, Edizioni di Comunità, 1964. 21. Aurelio Lepre, Le illusioni, la paura, la rabbia. Il fronte interno italiano 19401943, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1989; Pietro Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Bologna, il Mulino, 1997.

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delle fonti della censura postale,22 chi dalle carte delle istituzioni repressive e dello Stato (documentazione di polizia, dei tribunali militari, dei prefetti ecc.).23 Per la verità si è trattato in genere di studi mirati all’esame della popolazione civile, alla ricerca di cosa pensassero gli italiani fra fine degli anni Trenta e avvio del conflitto: studi che permettevano di inferire, ma che ancora non documentavano, quello che per brevità possiamo chiamare il morale delle truppe. Sono mancate fra l’altro anche opere, come quelle relative alla Prima guerra mondiale, sui mesi della maturazione della scelta dell’intervento.24 È vero che per il 1939-1940 era chiaro agli studiosi che si trattava solo di una questione di tempi, perché Mussolini non avrebbe potuto rimanere fuori dalla guerra scatenata da Hitler (e rispetto a venticinque anni prima mancava quindi il dato del forte scontro politico del 19141915 fra neutralisti e interventisti).25 Ciò detto, solo assai più tardi si è passati nello studio dai vertici alla base del Paese come dell’istituzione militare. Una proposta metodologica importante era stata fornita da Mario Isnenghi che, nel 1989, scrivendo Le guerre degli italiani, ha utilizzato un assai ampio ventaglio di fonti per parlarne.26 Anche Simona Colarizi, con la sua prima sintesi su L’opinione degli italiani, aveva contribuito a passare dai vertici e dalla loro organizzazione del consenso a quanto davvero pensassero gli italiani (nel suo caso, però, non in uniforme).27 In quello stesso torno di anni, attorno alla fine della Guerra fredda, e in particolare nel volume sulla guerra fascista della sua biografia mussoliniana, Renzo De Felice si era avvalso ampiamente delle fonti di polizia, per sondare lo spirito del Paese, e aveva condotto qualche prima incursione sulle fonti 22. Loris Rizzi, Lo sguardo del potere, Milano, Rizzoli, 1984; Aurelio Lepre, L’occhio del duce. Gli italiani e la censura di guerra, 1940-1943, Milano, Mondadori, 1992; ma soprattutto Aldo Cecchi, Beniamino Cadioli, La posta militare italiana nella seconda guerra mondiale. Cronologia, Roma, Ufficio storico Stato maggiore esercito, 1991. 23. Piero Melograni, Rapporti segreti della polizia fascista 1938-1940, Roma-Bari, Laterza, 1979. 24. Brunello Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale, vol. I, L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966. 25. Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Firenze, La Nuova Italia, 2000. 26. Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole immagini ricordi 1848-1945, Milano, Mondadori, 1989. 27. Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991.

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della censura militare, per cogliere invece lo spirito delle truppe.28 Più di altri, a ragione, aveva insistito sulla mutevolezza dello spirito pubblico civile a seconda dell’andamento della guerra, della disponibilità di rifornimenti ecc., e aveva sostenuto che – all’ingrosso – lo spirito delle truppe pareva sempre più alto e convinto di quello del Paese. Purtroppo queste utili, per quanto solo preliminari, osservazioni erano inserite nel noto quadro generale di un Paese sedotto dal “miracolo del consenso” mussoliniano, in realtà più presupposto che dimostrato: inoltre, per quanto concerneva lo spirito delle truppe, si trattava solo di primissime ipotesi di ricerca, non sufficientemente differenziate nello spazio e nel tempo, fra reparto e reparto, tra fronte e fronte. La stessa idea che i militari in operazione fossero più convinti della guerra e della vittoria fascista appariva per un verso scontata e per un altro verso non faceva capire quando e come e per quali ragioni poi quella fiducia si sarebbe incrinata: perché alla fine essa si ruppe, e perché era impensabile che i militari italiani, passando di sconfitta in sconfitta, avessero un morale davvero alto e baldanzosamente filofascista. Si era, insomma, solo agli inizi. Necessità di diversificare i giudizi storici Che la questione fosse più complessa, e meno favorevole al regime, di quanto avesse scritto De Felice lo dimostrarono, fra gli anni Novanta del Novecento e i primi due decenni del nuovo secolo, una serie di studi e pubblicazioni fra loro assai diversi, per quanto alla fine convergenti. Si sviluppò infatti tutta una serie di analisi che, scrutinando le comunicazioni di massa, di fatto finivano per sondare anche il pensiero del loro pubblico. Un controverso ricercatore come Giulio Bedeschi pubblicò ampi volumi documentari di brevi testimonianze di combattenti, che alla fine servirono a far pensare che le cose erano diverse fra fronte e fronte, fra reparto e reparto.29 Si andò sistematizzando lo studio degli apparati di sicurezza e dei servizi segreti, che permetteva di leggere meglio quei rapporti 28. Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, vol. I, L’Italia in guerra, Torino, Einaudi, 1990. 29. Ci riferiamo a Nikolajewka. C’ero anch’io, a cura di Giulio Bedeschi, Milano, Mursia, 1972, e poi alla serie, tutta a cura di Giulio Bedeschi, Fronte greco-albanese. C’ero anch’io, Milano, Mursia, 1977; Fronte d’Africa. C’ero anch’io (1979); Fronte russo. C’ero anch’io (1983); Fronte jugoslavo-balcanico. C’ero anch’io (1986); Fronte d’Africa.

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degli informatori e dei servizi sullo spirito degli italiani che quotidianamente si riversavano sulla scrivania del duce.30 Lo stesso studio della giustizia militare, infine, aiutava a comprendere meglio cosa stava avvenendo nei reparti, come il regime e i vertici militari vi tenevano l’ordine, e quindi cosa pensassero i combattenti.31 A ciò deve aggiungersi che, sull’onda degli studi tedeschi sulle intercettazioni delle confidenze scambiate fra i militari del Reich in prigionia inglese,32 grazie ad Amedeo Osti Guerrazzi si è cominciato anche per l’Italia a sondare queste fonti così particolari33 (un sondaggio che di recente Alexander Henry ha sistematizzato).34 Alla fine persino i primi studi sistematici sull’8 settembre hanno iniziato a far capire come, in una stessa unità di tempo (i giorni della diffusione della notizia della firma dell’armistizio), le reazioni dei e nei reparti furono molto diversificate, oltre che differenziate fra esercito35 e marina36 (al “tutti a casa” dell’esercito si è voluto contrapporre – ma solo per il personale navigante, ché per quello a terra le scelte non furono granché diverse da quelle dell’esercito – un “tutti a bordo” per la marina).37 C’ero anch’io (1988); Fronte italiano. C’ero anch’io (1987); Prigionia. C’ero anch’io (1990-1992). 30. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; Mauro Canali, Le spie del regime, Bologna, il Mulino, 2004; Giuseppe Conti, Una guerra segreta. Il Sim nel secondo conflitto mondiale, Bologna, il Mulino, 2009; Maria Gabriella Pasqualini, Carte segrete dell’Intelligence italiana 1919-1949, 2 voll., Roma, s.e. [Sisde], 2006-2007. 31. Giorgio Rochat, Duecento sentenze nel bene e nel male. I tribunali militari nella guerra 1940-1943, Udine, Gaspari, 2002; Sergio Dini, La bilancia e il moschetto. I Tribunali militari nella Seconda guerra mondiale, Milano, Mursia, 2016; Samuele Tieghi, Le corti marziali di Salò. I Tribunali militari della RSI tra repressione e controllo dell’ordine pubblico (1943-1945), Sestri Levante, Oltre, 2016. 32. Sönke Neitzel, Harald Welzer, Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati, Milano, Garzanti, 2012. 33. Amedeo Osti Guerrazzi, Noi non sappiamo odiare. L’esercito italiano tra fascismo e democrazia, Torino, Utet, 2010. 34. Henry, War through Italian eyes. 35. Mario De Prospo, Resa nella guerra totale. Il regio esercito nel Mezzogiorno continentale di fronte all’armistizio, Firenze, Le Monnier università-Mondadori Education, 2016. 36. Giuseppe Pardini, Quel che pensava e diceva la gente… Della guerra, dell’Italia e della Marina militare nella censura postale (1940-1945), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015. 37. Patrizio Rapalino, Giuseppe Schivardi, Tutti a bordo! I marinai d’Italia l’8 settembre 1943 tra etica e ragion di Stato, prefazione di Gianni Riotta, Milano, Mursia, 2009, che rielabora e amplia Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre, 2 voll.,

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Una diversificazione delle reazioni dei combattenti italiani a quanto andava avvenendo emergerebbe con ancora maggior forza dalla lettura parallela e sinottica degli studi sulle varie campagne combattute dalle forze armate fasciste. Per prima cosa, una importante diversità emergerebbe dalle stesse relazioni ufficiali e dalle monografie dedicate alle diverse forze armate: com’era prevedibile, lo spirito dei reparti non era identico – anche nella stessa unità di tempo, anche nello stesso teatro o battaglia – fra soldati, avieri e marinai. Ma soprattutto era diversificato fra scacchiere e scacchiere. L’umore delle truppe, come emerge dalle pagine dedicate da Sica a quelle operanti in Francia,38 non era lo stesso rilevato da Iuso,39 o da Pera,40 per quelle impegnate nei Balcani; quello fatto emergere dagli straordinari lavori di Revelli per la Russia,41 e alcuni decenni più tardi da Giannuli, da Scotoni o da Giusti, da Schlemmer o da Scianna, e soprattutto da Antonelli,42 non si identificava con quello stuRoma, Ufficio storico della Marina militare, 2002 (1: Le ultime operazioni offensive della Regia Marina e il dramma della forza navale da battaglia, 2: Documenti). 38. Emanuele Sica, Soldati italiani sulla Riviera francese. L’occupazione italiana della Francia, 1940-1943, Roma, Rodorigo, 2018. 39. Pasquale Iuso, Esercito, guerra e nazione. I soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale, 1940-1945, Roma, Ediesse, 2008. 40. Lorenzo Pera, Squadrismo in grigioverde. I battaglioni squadristi nell’occupazione balcanica, 1941-1943, Pistoia, ISRPT, 2018. 41. Revelli, La strada del davai; Id., L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, e Id., Il mondo dei vinti. 42. Aldo Giannuli, Dalla Russia a Mussolini, 1939-1943. Hitler, Stalin e la disfatta all’est nei rapporti delle spie del regime, Roma, Editori Riuniti, 2006; Giorgio Scotoni, L’Armata rossa e la disfatta italiana, 1942-43. L’annientamento dell’Armir sul medio e alto Don negli inediti dei comandi sovietici, Trento, Panorama, 2007; Retroscena della disfatta italiana in Russia nei documenti inediti dell’VIII Armata, a cura di Giorgio Scotoni e Sergej Ivanovich Filonenko, Trento, Panorama, 2008; Die Italiener an der Ostfront 1942/43. Dokumente zu Mussolinis Krieg gegen die Sowjetunion, a cura di Thomas Schlemmer, München, Oldenbourg, 2005; e Thomas Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Roma-Bari, Laterza, 2009; Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia, 1941-1943, Bologna, il Mulino, 2016; Bastian Matteo Scianna, The Italian War on the Eastern Front, 1941-1943. Operations, Myths and Memories, Cham, Palgrave Macmillan, 2019; Quinto Antonelli, Sergej Ivanovich Filonenko, Vincere! Vinceremo! Cartoline sul fronte russo, 1941-1942, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2011; La propaganda è l’unica nostra cultura. Scritture autobiografiche dal fronte sovietico (1941-1943), a cura di Quinto Antonelli, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2016.

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diato da Villari per l’Albania,43 o da Carrier per la Grecia (e per l’Africa settentrionale).44 Se insomma tutto sarebbe stato diverso fra 1940 e 1943, come pensare che i militari italiani del 1940 erano stati compatti nel giudicare la scelta mussoliniana di intervenire? Military effectiveness e morale delle truppe Oltre agli studi già menzionati, tutti assai diversi nell’impostazione ma tutti tendenti ad articolare e “fissare” a momenti e spazi specifici i primi giudizi generali sui combattenti della guerra fascista, meritano una menzione quelli che potremmo definire sulla combat effectiveness. Nel 1988 una ampia e importante serie di saggi coordinati in tre volumi statunitensi prese in esame l’efficacia nel combattimento dei reparti delle principali forze armate nelle due guerre mondiali e nel ventennio intercorso fra di esse.45 Si trattava di uno dei primi esperimenti di new military history, finalizzata a riversare i risultati di anni di ricerche dei war and society studies in studi più attenti al combattimento e al momento bellico, sia pur senza ricadere nell’antica histoire bataille. Assieme a John Gooch e Brian Sullivan (che avevano scritto per i periodi precedenti), per la Seconda guerra mondiale MacGregor Knox era stato assai severo circa l’efficacia in battaglia dei reparti italiani, spiegando così – non solo strategicamente (per via delle smisurate aspirazioni mussoliniane), politicamente (per via della scarsa convinzione dei soldati) o materialmente (per via dell’inadeguato armamento), ma proprio tecnicamente-militarmente – le sconfitte sui vari teatri sino alla disfatta finale dell’Italia fascista. Da allora negli studi principalmente anglosassoni si è sempre più diffuso un tale approccio di new military history (che, ripetiamo, non starebbe in piedi senza preventive o concomitanti ricerche di storia sociale e politica sul reclutamento, sulla commisurazione di piani e mezzi, sulla cultura professionale del cor43. Giovanni Villari, L’Italia in Albania 1939-1943, Aprilia, Novalogos, 2020. 44. Richard Carrier, Mussolini’s army against Greece October 1940-April 1941, London, Routledge, 2022, e Id., Some reflections on the fighting power of the Italian Army in North Africa, 1940-1943, in «War in History», 22, 4 (2015), pp. 503-528. 45. Military Effectiveness, a cura di Allan R. Millett, Williamson Murray, 3 voll., Boston, Allen & Unwin, 1988.

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po ufficiali, sull’adeguatezza dell’addestramento e dell’armamento ecc.: insomma senza conoscenze da war and society studies). Tale approccio ha ispirato anche studi che, direttamente o tangenzialmente, hanno gettato nuova luce, per quanto qui ci interessa, sull’operato delle truppe italiane nella Seconda guerra mondiale. In questa linea si possono leggere, dopo il suo intervento appunto nel terzo volume di Military Effectiveness, le pagine successive di Knox sull’Italia fascista come alleata di Hitler,46 quelle di Barr,47 o ancor più di Fennell sull’azione dei reparti britannici a contrasto di quelli italiani in Nordafrica,48 nonché quelle di Scianna sugli italiani in Russia,49 o di Carrier su quelli in Grecia.50 Mescolando analisi sul morale delle truppe con osservazioni sulle tecniche di addestramento e di impiego, ricerche sulla qualità dell’armamento e sul suo concreto impiego sul campo, tali studi permettono in effetti di capire meglio come i soldati italiani combatterono e quale fu il loro morale in battaglia. Per quanto alla fine poi il risultato fu simile, essi combatterono con un morale diverso nei tempi e negli scacchieri diversi in cui operarono. Schematizzando molto, si potrebbe osservare che tutti questi studi si chiedono come mai, alla fine, i reparti italiani si sfasciarono o non resistettero alla pressione avversaria. Anche se su ogni fronte le ragioni furono diverse, il fatto che il risultato fu lo stesso fa intendere che una base comune c’era. L’immagine di un’organizzazione vittoriosa e di una fabbrica trionfante del consenso, quale emergeva dalle fonti dei vertici politici e militari del regime, è in questi studi ribaltata nel suo contrario in maniera drastica eppure diversificata. Avanti, o indietro, nelle pubblicazioni recenti Nonostante tutte queste ricerche, ad oggi non c’è una monografia complessiva sui combattenti italiani della Seconda guerra mondiale. Per 46. MacGregor Knox, La guerra di Mussolini, Roma, Editori Riuniti, 1984; Id., Destino comune. Dittatura, politica estera e guerra nell’Italia fascista e nella Germania nazista, Torino, Einaudi, 2003; Id., Alleati di Hitler. Le regie forze armate, il regime fascista e la guerra del 1940-1943, Milano, Garzanti, 2002. 47. Niall Barr, Pendulum of War. The Three Battles of El Alamein, London, Cape, 2004. 48. Jonathan Fennell, Combat and Morale in the North African Campaign. The Eighth Army and the Fate of El-Alamein, Cambridge, Cambridge University Press, 2011. 49. Scianna, The Italian War on the Eastern Front. 50. Carrier, Mussolini’s Army against Greece.

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quanto possa sembrare paradossale, vista l’importanza del tema, una ricerca simile manca. La sua assenza rende quindi difficile collegare quanto già sappiamo circa l’orientamento delle popolazioni civili, e il suo andamento durante il conflitto, con quello che fu il sentimento (o, meglio, i cangianti e mutevoli sentimenti) delle truppe italiane della guerra fascista. Ciò significa che, in assenza di una visione complessiva, forte è il rischio di ricreare un contesto passato nel quale la storia politica e sociale e la storia militare siano appunto scollegate, non sincronizzate. Peraltro, non poche delle pubblicazioni disponibili sui combattenti della guerra fascista hanno spesso una dimensione locale. Ad esempio, innumerevoli ricercatori locali o istituzioni comunali hanno dato alle stampe liste di caduti provenienti dalle proprie comunità, nobilmente cercando per questa via di realizzare ciò che il ministero della Difesa del post 1945 non ha pubblicato, e cioè un Albo d’oro dei caduti simile a quello edito in molti grossi volumi dal ministero della Guerra nei decenni successivi alla fine del primo conflitto mondiale. Nonostante il commendevole proposito, spesso queste liste sono assai poco utili. Per fare un altro esempio, altre pubblicazioni sui combattenti della guerra fascista sono spesso frutto di generosi sforzi di studiosi locali, che hanno invece intervistato reduci provenienti dalla stessa (quasi sempre la propria) comunità locale o che hanno anche meritoriamente compulsato fonti locali di vario statuto, e che così facendo avrebbero voluto ridare voce ai soldati e ai combattenti “dal basso”. Purtroppo, spesso, per i meccanismi del reclutamento militare del tempo,51 questi reduci hanno combattuto in teatri e in momenti molto diversi l’uno dall’altro: ragione per cui anche queste pubblicazioni, in mancanza di una loro indicizzazione nazionale, non sono di facile utilizzo scientifico. Mancando una buona monografia scientifica a copertura nazionale, ed essendoci forse troppe pubblicazioni locali, dobbiamo osservare che la lacuna rischia di essere coperta da volumi del tipo di quello di recente firmato da due prolifici pubblicisti come Avagliano e Palmieri.52 Gli autori hanno intelligentemente colto l’assenza di uno sguardo generale sui combattenti della guerra fascista, se non si vuole tornare all’ambigua raccolta 51. Nicola Labanca, Reclutare, combattere, morire da Internati militari. Toscani in uniforme nella Seconda guerra mondiale, in Una straziante incertezza. Internati militari italiani fra guerra, morte e riconoscimenti da parte della Repubblica, a cura di Gabriele Bassi, Nicola Labanca e Filippo Masina, Roma, Viella, 2022, pp. 27-71. 52. Avagliano, Palmieri, Vincere e vinceremo!.

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di bozzetti e brevissime memorie composta da Giulio Bedeschi ormai quasi trent’anni fa.53 Purtroppo, come già quella di Bedeschi, anche questa di Avagliano e Palmieri non soddisfa pienamente. A pregiudicare il valore dell’opera non è solo l’assoluta mancanza di confronto critico con la storiografia internazionale,54 né l’assenza di chiarezza sul metodo con cui gli autori hanno composto la base documentaria del loro lavoro, né solo il fatto di basarsi prevalentemente (come Bedeschi) su testi autobiografici più che su fonti archivistiche istituzionali e amministrative, che pure non mancherebbero. A non convincere è anche la tesi di fondo del volume che, nonostante quanto già si sapeva circa la diversità del morale delle truppe e la sua variabilità in funzione dei teatri di operazione, del loro andamento ecc., propongono una “interpretazione mediana” generale piuttosto astratta. Essi ritengono infatti che gli italiani in uniforme sarebbero passati (tutti?) da un entusiasmo e un consenso iniziale alla guerra fascista (fra 1939 e 1940) a uno scoramento altrettanto diffuso (fra 1942 e 1943). Ora, una tesi così generale appare al tempo stesso ovvia e comunque generica viste le enormi differenziazioni delle situazioni fra fronte e fronte, fra forza armata e forza armata, fra reparto e reparto ecc.: tutte differenziazioni cui al massimo gli autori accennano ma che non tematizzano, e che invece avrebbero dovuto costituire il cuore del volume, così come furono al tempo il cuore del problema. Purtroppo, l’assenza di una buona monografia su un tema così importante non è del tutto compensata nemmeno dall’uscita di un volume certamente interessante, e dal titolo non poco promettente, opera di una studiosa nota e apprezzata come Gabriella Gribaudi.55 Più che una storia dei combattenti della Seconda guerra mondiale, però, il volume offre la sistematizzazione dei risultati di tante ricerche, prevalentemente di storia orale su combattenti meridionali intervistati negli anni Novanta, non pochi dei quali già prigionieri o internati militari. Pur per molti versi affascinante, il volume sottolinea l’immutata esigenza di uno studio complessivo. Stanti così le cose, il volume di riferimento continua purtroppo ad essere ancora oggi quello di Avagliano e Palmieri, la cui tesi rimane quella 53. È la serie C’ero anch’io, già citata alla nota 29. 54. Ad esempio Die “Achse” im Krieg. Politik, Ideologie und Kriegführung 19391945, a cura di Lutz Klinkhammer, Amedeo Osti Guerrazzi, Thomas Schlemmer, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 2010. 55. Gabriella Gribaudi, Combattenti, sbandati, prigionieri. Esperienze e memorie di reduci della seconda guerra mondiale, Roma, Donzelli, 2016.

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praticamente defeliciana di un consenso dei combattenti alla guerra maggiore di quello dei civili, laddove però le categorie di fondo (consenso, combattenti) risultano così poco articolate e differenziate da pregiudicare la visione complessiva. La disponibilità di alcune ricerche più delimitate (alcune delle quali assai apprezzabili, come quella di Visani),56 non riesce a mutare il sentimento di attesa di un buono studio complessivo che superi lo stato attuale di scollamento fra quanto sappiamo della società civile e quanto (poco) invece sappiamo della società in uniforme e combattente. Superare gli scollamenti e modulare A partire dall’insieme delle pubblicazioni già edite, e in particolare da quelle dell’ultimo decennio, in genere più attente per quanto concerne il metodo della ricerca rispetto al volume di Avagliano e Palmieri, e ovviamente ricorrendo alle fonti archivistiche sarebbe possibile scrivere una storia aggiornata dei combattenti italiani della guerra fascista. Da quanto siamo andati dicendo, insomma, speriamo risalti con evidenza come per lo studio dello “spirito delle truppe” è sinora mancato un corrispettivo “militare” degli studi sull’opinione popolare (e sui fascismi locali) che tanto hanno caratterizzato gli ultimi anni di ricerche sulla popolazione (“civile”, potremmo precisare in questo contesto). Rimangono, è vero, alcune lacune di fondo importanti in termini di conoscenze necessarie per un buono studio su questi temi: come quelle sui meccanismi e sulla prassi del reclutamento e della mobilitazione, quella sull’alimentazione logistica centrale dei reparti ecc. Ma molte prime informazioni possono ricavarsi da una lettura attenta delle relazioni ufficiali redatte dagli Uffici storici di forza armata e ovviamente, ripetiamo, da una ricerca nella documentazione d’archivio. Una storia aggiornata dei combattenti della guerra fascista potrebbe tenere di conto ma superare alcune delle tesi che sino ad oggi sul tema si sono affacciate e alternate e che, concludendo, potremmo rapidamente riassumere come segue: l’idea del popolo che combatte solo per fare il proprio dovere nazionale, quella invece di un “popolo alla macchia” sostanzialmente avverso al fascismo e alle sue guerre ma costretto ad ubbidi56. Alessandro Visani, Verso la guerra. Gli italiani nei mesi della “non belligeranza”, Roma, Nuova Cultura, 2007.

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re solo dalla repressione del regime, la tesi defeliciana di un’alternanza di sentimenti pur nel sostanziale e indifferenziato consenso alla guerra almeno sino agli ultimi mesi pecedenti il crollo (una tesi però messa in dubbio da non poche ricerche sull’indirizzo dell’opinione pubblica, già a partire da quella citata di Colarizi), tesi sostanzialmente riproposta da volumi come quello di Avagliano e Palmieri. Si potrebbero così finalmente evitare alcuni scollamenti di cui si è sin qui detto: quello dell’Italia dal resto della guerra europea e poi mondiale, quello degli italiani in uniforme dai civili rimasti nella Penisola ecc. Si potrebbe così ricucire la forbice interpretativa che rischia di delinearsi: se infatti, come ormai è chiaro dalla letteratura disponibile, i civili della penisola dubitarono a lungo della guerra e del regime – e visto che anche nel corso della Seconda guerra mondiale (come già nella Grande guerra) importante era la porosità fra fronte interno e fronte combattente – come era possibile che i militari non dubitassero? E non sono forse attribuibili anche a questi dubbi almeno una parte dei loro comportamenti bellici che le ricerche sulla military effectiveness definiscono inefficaci, stando quindi essi alla radice (insieme certamente a molto altro) delle sconfitte sul campo delle forze armate del regime? In ogni caso, appare fondamentale ormai cercare di modulare il giudizio storico cogliendo le numerose articolazioni del tema: non parlare più de “i combattenti” bensì di combattenti del 1939, del 1940, del 1941 ecc.; non più de “i militari” bensì di militari di leva, di militari richiamati, di sottufficiali, di ufficiali di complemento, di ufficiali inferiori, di ufficiali superiori, di generali, di Stato maggiore, di Comando supremo ecc. Non più pensare in modo generico a “italiani in uniforme” bensì a combattenti operanti in patria, in Francia, nei Balcani, in Russia, in Africa settentrionale, in Africa orientale, nei mari, nei cieli ecc.; non più ipostatizzare giudizi sui “soldati italiani” ma, a partire da ricerche più attente sul loro reclutamento, cercare di distinguere – fra gli italiani in uniforme – quelli provenienti dalle campagne e quelli delle città, i contadini, gli operai, i borghesi, gli agiati ecc. Certamente, poi, alla fine, da tanta modulazione un giudizio storico complessivo sarà necessario: ma esso sarà basato su una conoscenza delle “mille pieghe” della società civile e di quella militare, e non le ignorerà. Per una storia così modulata e articolata non mancano le fonti documentarie: fra tutte, almeno i rapporti dei carabinieri e del Sim sullo spirito delle truppe, le carte dei diari storici dei reparti con i loro allegati, le carte della censura militare, quelle dei tribunali militari, nonché ovviamente le

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carte personali e le fonti autobiografiche. Scacchiere per scacchiere e fase per fase esse possono permettere la maggiore aderenza possibile al mutare e al differenziarsi dello spirito delle truppe. Confrontandole con le carte dei reparti avversari, esse permettono di avere informazioni di prima mano anche sui combattimenti e quindi sull’efficienza militare dei reparti Una ricerca siffatta potrebbe raccordare gli studi di storia militare (che in altri periodi erano più avanzati, o quanto meno altrettanto avanzati, degli studi di storia in generale e sui civili) agli studi sui sentimenti della popolazione civile già disponibili. Permetterebbe di superare il rischio di scollamento fra gli studi sul Paese sotto il regime negli anni di pace e gli altri appunto sul Paese in guerra, così come fra il versante militare e quello civile della società. E potrebbe portare luce sui “combattenti del 1940”: di cui, ad oggi, se si vuole essere seri e superare definitivamente le approssimazioni giornalistiche di un tempo,57 non è davvero facile parlare.

57. Franco Bandini, Tecnica della sconfitta, 1940. Le sei incredibili settimane, 2 voll., Milano, Longanesi, 1966; Ugoberto Alfassio Grimaldi, Gherardo Bozzetti, Dieci giugno 1940. Il giorno della follia, Bari, Laterza, 1974; Silvio Bertoldi, Anni in grigioverde, Milano, Rizzoli, 1991.

Antonio Bechelloni Gli antifascisti nel corso del 1940

Una premessa: nel testo che segue l’anno 1940 verrà trattato in tre parti che corrispondono anche ad una scansione cronologica: una prima parte risale a qualche mese prima dell’anno 1940 e costituisce in un certo senso l’antefatto della narrazione; in una seconda parte ci concentreremo sulla concomitanza tra le schiaccianti vittorie naziste nel corso dell’inverno-primavera 1940 e la sempre meno convinta non belligeranza italiana. Concluderemo con la trattazione parallela della disfatta francese seguita dalla grande diaspora di quasi tutto il fuoruscitismo antifascista non comunista e dagli incerti passi dei comunisti in una clandestinità difficile e dei primi mesi dell’Italia in guerra segnati dalle sue prime clamorose sconfitte militari. Prologo Il 1° gennaio 1940, la guerra in Europa è già cominciata da quattro mesi, e più esattamente dall’attacco folgorante della Germania nazista alla Polonia il 1° settembre del 1939. Certo si potrebbe obiettare che Hitler poteva anche aver considerato un bluff l’assicurazione da parte di Francia e Inghilterra che questa volta non avrebbero lasciato correre come nei mesi precedenti. Era comunque sicuro che l’Unione sovietica ad est, dopo il patto di non aggressione firmato qualche giorno prima, avrebbe lasciato fare e che non si sarebbe ripetuta la situazione del 1914 quando la Germania imperiale era stretta in una morsa che partiva da est come da ovest ed era costretta a battersi su due fronti. Le premesse della guerra che si sarebbe prolungata oltre cinque anni, e quindi, per quanto ci riguarda in questo testo, per tutto il successivo anno 1940, erano già riunite alla fine di agosto del 1939.

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Ancora più a monte stava la firma del patto d’acciaio del maggio di quello stesso anno, ma questo poteva anche essere stato interpretato da Mussolini e dal suo campo come una garanzia che, comunque la guerra non sarebbe stata di attualità prima di qualche anno. Sappiamo che così non fu e che Hitler mise Mussolini e l’Italia fascista di fronte al fatto compiuto. Da qui la decisione della non belligeranza. Ed è da qui anche che comincia la nostra storia: gli antifascisti e la guerra. Ci è parso tuttavia inevitabile spendere qualche parola sul prologo o, se si preferisce, sull’antefatto. Sull’antefatto di quella che non si può non caratterizzare come una grande latitanza, o meglio un silenzio sconcertante. Ma vediamo per cominciare cosa si potesse intendere il 1° gennaio 1940 per antifascismo. Parlare dell’antifascismo come di un soggetto collettivo dotato di una sua struttura, un suo disegno e una sua volontà ci sembra impossibile. Ma anche qui bisogna risalire leggermente indietro nel tempo. Come è noto, il patto germano-sovietico dell’agosto 1939 ha fatto letteralmente esplodere l’antifascismo come attore collettivo. Esso si era formato, dopo lunghe e travagliate peripezie, nel corso dei cinque anni precedenti e aveva avuto i suoi momenti forti nella reazione unitaria alle minacce di estrema destra sulla democrazia parlamentare francese del 6 febbraio 1934, nel VII Congresso del Komintern del 1935, nel primo anno del Fronte popolare francese nel 1936 prolungato di lì a poco nella partecipazione di migliaia di volontari francesi e italiani alle battaglie dei repubblicani spagnoli contro i generali felloni di Franco. Uno dei suoi tratti salienti era l’unità ritrovata di socialisti e comunisti che fungeva anche da calamita attrattiva per altre componenti dell’arco politico che rifiutava il fascismo. Tutto ciò aveva un prolungamento sul piano internazionale nel comune riferimento all’Urss come alla principale potenza di opposizione alle mire espansionistiche e imperialistiche delle potenze fasciste. Ora, il patto russo-tedesco, di poco successivo alla definitiva sconfitta dei repubblicani spagnoli, fece inaspettatamente andare in frantumi questa costruzione. Certo, non che prima di allora, nel campo antifascista tutto fosse semplice. Già la guerra civile nella guerra civile nel maggio 1937 in Spagna aveva opposto gli uni agli altri, in scontri violenti e spesso mortali, componenti diverse del campo repubblicano-antifascista; l’assassinio, inoltre, di Carlo Rosselli nel giugno 1937, aveva lasciato Giustizia e Libertà in preda a un profondo disorientamento, privata del principale mediatore tra le sue diverse anime. I processi, che conobbero il loro culmine nel biennio precedente e che eliminarono, con accuse infamanti, praticamente tutta la vecchia guardia della rivoluzione bolscevica nonché quasi tutto la

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Stato maggiore dell’Armata rossa, seminarono il dubbio nello stesso campo comunista e contribuirono al consolidarsi di una forte corrente anticomunista all’interno dell’antifascismo socialista. La firma tra Ribbentrop e Molotov del famigerato patto non cadde quindi come un fulmine a ciel sereno. Essa, tuttavia, contribuì ad appannare in modo decisivo il concetto stesso di unità antifascista. La guerra europea, ufficialmente scoppiata il 3 settembre 1939 con la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania nazista a seguito dell’aggressione alla Polonia, cessò ben presto di essere, per i comunisti, una guerra antifascista contro la Germania nazista, quella guerra che, cioè, fino a pochi giorni prima Ercole Ercoli (Palmiro Togliatti) stesso suggeriva ai governanti francesi di combattere con la stessa energia con cui Clemenceau aveva spronato i suoi compatrioti a combattere la Germania imperiale,1 e per combattere efficacemente la quale il Partito comunista francese stesso aveva creduto doveroso votare i crediti di guerra al governo Daladier. Pochi giorni bastarono perché da Mosca arrivasse la doccia fredda: la guerra ingaggiata da Francia e Inghilterra contro la Germania nazista non era una guerra antifascista bensì una guerra che opponeva fra loro due imperialismi fra i quali nulla suggeriva che bisognasse optare per l’uno piuttosto che per l’altro e anzi, tutto sommato, visto che con l’imperialismo tedesco era stato appena firmato un patto di non aggressione, dovendo scegliere, c’era da essere più indulgenti piuttosto con quest’ultimo. Ne seppe presto qualcosa Ilya Ehrenburg che, reduce dalla Spagna repubblicana appena sconfitta, non riuscì a pubblicare su «Izvestia» degli articoli sugli ultimi mesi della guerra civile spagnola perché considerati troppo antitedeschi.2 1. Così si esprimeva nel novembre 1942 Celeste Negarville nel brano di un suo diario personale cui Paolo Spriano, già nel lontano 1970, aveva avuto accesso e che opportunamente Aldo Agosti ha recentemente pubblicato per intero (Celeste Negarville, Clandestino a Parigi. Diario di un comunista italiano nella Francia in guerra (1940-1943), Roma, Donzelli, 2020) ma nel quale, curiosamente e inesplicabilmente il brano in questione, per quanto menzionato, non figura: «Ricordo ciò che mi diceva Ercoli, due giorni dopo il patto, a proposito della politica che avrebbe dovuto seguire il Partito francese se la guerra fosse scoppiata: avere un atteggiamento simile a quello di Clemenceau prima della sua entrata al governo durante la guerra del 1914-1918. Cioè di critica aspra contro tutte le debolezze che avesse dimostrato il governo nella condotta della guerra» (Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 3, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, p. 315). D’altronde Aldo Agosti aveva già menzionato questo riferimento di Togliatti a Clemenceau attribuendolo a Negarville ma senza far menzione del diario in questione: Aldo Agosti, Palmiro Togliatti, Torino, UTET, 1996, p. 251. 2. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 3, p. 331.

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Il fatto, inoltre, che l’immensa maggioranza degli antifascisti italiani si trovasse, sul finire del 1939, in Francia accrebbe in misura considerevole gli effetti devastanti del patto sull’antifascismo in quanto soggetto collettivo. Esso in primo luogo divise le forze non comuniste: se la condanna del patto raccolse l’unanimità, non tutti, però, ne dedussero che bisognava perciò interrompere qualsiasi unità d’azione con i comunisti. Non lo pensò, ad esempio, Pietro Nenni, che fu per questo costretto a dimettersi dalla direzione del partito dal quale tuttavia, grazie al sostegno di Giuseppe Saragat, non venne espulso, come richiedeva Angelo Tasca. Esso inoltre divise anche i comunisti, stando a Paolo Spriano (Amendola presenta le cose in modo meno drastico),3 addirittura in tre gruppi distinti,4 e la divisione non fu «governata» come altre volte, dall’abilità manovriera del deus ex machina Togliatti, perché fu arrestato dalla polizia francese nel settembre 1939, senza che questa si accorgesse che aveva tra le mani il numero 2 del Komintern, e verrà liberato solo alla fine di febbraio del 1940.5 L’irresistibile corsa alla guerra e le rare tracce scritte di voci discordanti Col febbraio del 1940, non siamo più al prologo della nostra storia ma in medias res. Una storia, tuttavia, nella quale la semplice cronologia è spesso sottoposta a curiose torsioni. Ne abbiamo una prova in quei rarissimi scampoli di stampa, il più delle volte clandestina, cui possiamo appigliarci. Nel corso dell’anno 1940, della stampa comunista abbiamo tre esempi: un foglio ciclostilato, «La Parola degli italiani», mensile distribuito agli italiani della regione parigina a partire dal 1° agosto 1940, la rivista teorica del partito «Lo Stato operaio», pubblicata fino ad allora a Parigi e che dal febbraio 1940 verrà continuata da Giuseppe Berti e Ambrogio Donini a New York, un curioso foglio, infine, «La lettera di Spartaco», anche questo mensile, più immmediatamente politico, redatto inizialmente da Togliatti in persona 3. Soprattutto in Giorgio Amendola, Lettere a Milano. Ricordi e documenti 19391945, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 10 sgg. 4. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 3, pp. 325 sgg. 5. Sulle vicende dell’arresto e dell’incarcerazione di Togliatti si veda, oltre al già più volte citato III volume della Storia del Partito comunista italiano di Spriano, Agosti, Palmiro Togliatti, pp. 252-257 e, ultimamante, l’introduzione dello stesso Agosti al già citato diario di Celeste Negarville.

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e in seguito da Celeste Negarville che abbiamo poco sopra menzionato. Ora il primo numero di questa «Lettera» esce di fatto nel marzo 1940, ma viene retrodatato all’ottobre 1939.6 Questa retrodatazione permetterà a Togliatti di far apparire come singolarmente precoce, e simultanea a quella del partito comunista francese, la sua autocritica rispetto alle iniziali posizioni giacobino-patriottiche che Togliatti aveva a suo tempo assunte e che abbiamo evocato sopra. Ci troviamo qui di fronte ad una piena autocritica e Togliatti può indicare la nuova linea: la guerra è una guerra interimperialistica. Comunisti francesi, quindi, e comunisti italiani su questa questione della guerra appena scoppiata come guerra tra due opposti imperialismi assumono posizioni che sulla carta sono assolutamente identiche. D’altronde, visto quale era allora il funzionamento del Komintern non si vede come le cose sarebbero potute andare diversamente. Il fatto, tuttavia, che il Pcf fosse francese e che il Pci fosse italiano cambiò molto la natura degli atti politici che la nuova linea scelta da Mosca spinse i due partiti a mettere in atto. In primo luogo, spinse, ad esempio, Thorez a disertare contraddicendo in maniera flagrante quelle che erano le direttive del partito stesso ai suoi militanti fino a una settimana prima, lo spinse anche a pubblicare un opusculetto ignobile contro quello che era ormai divenuto, semplicemente per la sua critica del patto, il socialfascista Léon Blum, opuscoletto dai toni pesantemente insistenti sull’aspetto fisico di Blum con accenti, come ha giustamente fatto osservare Annette Wieviorka,7 più che limitrofi 6. Su questo complesso episodio della stampa clandestina del Pci stampata in Francia mi permetto di rinviare a Antonio Bechelloni, La stampa comunista in lingua italiana pubblicata in Francia tra le due guerre, in Voci d’Italia fuori dall’Italia. Giornalismo e stampa dell’emigrazione, a cura di Bénédicte Deschamps e Pantaleone Sergi, Cosenza, Pellegrini Editore, 2021, pp. 355-356. 7. Annette Wieviorka, Le parti communiste français en 1940, in Le moment 1940. Effondrement national et réalités locales, a cura di Pierre Allorant, Noëlline Castagnez e Antoine Prost, Actes du colloque international d’Orléans, le 18 et 19 novembre 2010, Paris, L’Harmattan, 2012, pp. 160-161. Nell’articolo di Thorez in questione, pubblicato in tedesco su «Die Welt» del 16 febbraio 1940, e, quel che è ancor più grave, ripubblicato nella sua versione francese nelle opere complete di Maurice Thorez nel 1955, si trovano frasi come la seguente: «Léon Blum doit être hanté par les spectres de ses innombrables victimes; comme lady Macbeth, il doit voir avec terreur le sang innocent qui tache à jamais ses mains aux doigts longs et crochus […] Abandonnant ses contorsions et ses sifflements de reptile répugnant, Blum donne désormais libre cours à ses instincts féroces de bourgeois exploiteur qui a tremblé un moment pour ses privilèges […]», in Maurice Thorez, Œuvres, vol. 5, t. 19, 1940-1944, Paris, s.d. (ma molto probabilmente 1955).

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alla letteratura antisemita dell’epoca. La nuova linea, invece, non impedisce al Pci di continuare a vedere nell’imperialismo italiano il suo nemico principale e, quindi, anche se con un linguaggio contorto e che non trova un prolungamento sulle posizioni in politica internazionale, a lanciare una campagna in primo luogo di ritorno dei militanti in Italia, in secondo luogo di opposizione all’ingresso dell’Italia in guerra. Resta il fatto che i militanti che rientrano in Italia sono pochissimi e spesso vengono arrestati non appena mettono piede in patria, su un fondo di precedente indebolimento della presenza del partito nel paese, dimostrato dal fatto che, come osserva Amendola nella sua intervista sull’antifascismo del 1975, fra i volontari italiani in Spagna nel campo repubblicano solo un 10% veniva dall’Italia, l’altro 90% proveniva dall’emigrazione.8 Solo nel 1941 il partito riuscirà a metter su un centro interno per iniziativa di Umberto Massola proveniente dalla Slovenia.9 Se il Partito comunista, quindi, alla vigilia della guerra si trovava praticamente decapitato, gli altri partiti non versavano in migliori condizioni. Da qui la quasi inesistenza di una qualsiasi efficace campagna perché l’Italia non abbandonasse la non belligeranza, nonostante l’iniziale provata ostilità di una parte dell’opinione pubblica all’alleanza tedesca. Certo, in questo mi sembra che Renzo De Felice abbia ragione:10 se durante la non belligeranza non si assiste a nessuna manifestazione popolare di opposizione all’ingresso in guerra, questo è dovuto all’efficace opera di repressione poliziesca (arresti e condanne pesanti hanno ancora avuto luogo in campo comunista nel 1939-40 ed erano stati preceduti da altri arresti che avevano praticamente spazzato via il Centro interno socialista nei due anni precedenti).11 Paolo Spriano nel terzo volume della sua storia del Pci fa un inventario abbastanza impressionante dei luoghi di detenzione e di confino 8. Giorgio Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di Piero Melograni, RomaBari, Laterza, 1994, p. 111 (l’intervista è in realtà del 1975 e la 1a ed. è del 1976). 9. Umberto Massola, Memorie 1939-1941, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 113 sgg. 10. Renzo De Felice, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, pp. 707-710. 11. Fra i quali Rodolfo Morandi che, nel corso del 1940, non si può esprimere altro che nelle bellissime, ma mestissime oltre che criptiche, lettere inviate al fratello delle quali ci sembra un nobile esempio il seguente brano (in data 31 maggio 1940, dalla Casa di reclusione di Castelfranco Emilia): «Sembra proprio che la terra abbia preso a roteare a una pazza velocità, come una volta ti sei espresso. I giorni corrono e s’inseguono carichi del destino di secoli. E par di tenersi sempre più a malapena, come su quelle grandi ruote a superficie inclinata che una volta costituivano un’attrattiva delle fiere. Bisogna badare a non venire lanciati via, fuori della realtà», Rodolfo Morandi, Lettere al fratello 1937-1943, Torino, Einaudi, 1959, pp. 110-111.

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nei quali si trovano relegate molte personalità eminenti dell’antifascismo.12 Ha contribuito, come suggerisce sempre De Felice, a questa assenza di opposizione durante i mesi della non belligeranza anche la maniera estremamente abile, stando allo storico, con la quale un Alessandro Pavolini che non avrebbe avuto nulla a che vedere con il Pavolini degli ultimi mesi della RSI, ha pilotato i mezzi di informazione di massa e con l’abilità anche con cui Bottai ha cercato, mediante l’operazione di «Primato»,13 di coinvolgere gli intellettuali nello sforzo bellico? I pochi elementi che De Felice fornisce a suffragio della sua tesi non ci sembrano sufficienti a corroborarla. Quanto agli effetti di «Primato» sulla mobilitazione degli intellettuali a favore della guerra, anche se indubbiamente questa era l’ambizione, ci sembra che studi varii, tra cui quelli di Luisa Mangoni, ma se ne potrebbero citare molti altri, mostrino come il periodico funzionò piuttosto come luogo di transito e di scambio tra fascismo e antifascismo. Una cosa è certa: specie durante gli ultimi mesi della non belligeranza, quando alle vittorie della Wermacht al Nord si viene ad aggiungere il passaggio della Mosa e l’invasione di Belgio, Olanda, Lussemburgo e, infine, Francia l’antifascismo italiano, per riprendere le considerazioni di Giorgio Amendola, si trova in preda ad «una profonda crisi morale e politica, che lo fece arrivare alla guerra in condizioni di profonda disorganizzazione, di vero disorientamento».14 Questo dicasi, beninteso, di quegli antifascisti che erano stati attivi e inquadrati nelle varie organizzazzioni. Di cosa pensassero individui rimasti, per riprendere il linguaggio dell’OVRA, di sentimenti antifascisti, ma senza essere da tempo inquadrati in qualsivoglia organizzazione rimangono purtroppo poche tracce. Un’indagine in archivi privati e nelle carte di polizia ci fornirebbe un quadro certo più ricco delle poche citazioni che possiamo qui presentare su come furono vissuti i giorni immediatamente anteriori o immediatamente successivi all’entrata in guerra. 12. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 3, pp. 336-348. 13. Vedi su questo, soprattutto, Luisa Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari-Roma, Laterza, 1974, segnatamente il paragrafo finale dell’ultimo capitolo, «I clercs esitanti», pp. 347-367. Per quanto riguarda in particolare la natura, di complessa e difficile lettura, degli scritti sulla rivista a proposito di un tipico personnagio di frontiera di quegli anni, destinato a nobile e tragica fine, come Giaime Pintor, ci permettiamo di rinviare anche ad Antonio Bechelloni, Delio Cantimori: A la croisée des chemins, in Du Fascisme à la République (1940-1948): la vie intellectuelle, a cura di Antonio Bechelloni, Christian Del Vento e Xavier Tabet, num. monogr. di «Laboratoire Italien», 13 (2012), pp. 180-181. 14. Amendola, Intervista sull’antifascismo, pp. 124-125.

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Indubbiamente, tra i numerosissimi diari presenti nell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano che comprendono pagine sul 1940 e in particolare l’entrata in guerra dell’Italia si devono trovare, da quel che si intuisce grazie ai brani pubblicati sul sito internet dell’Archivio in occasione dell’ottantesimo anniversario del 10 giugno 1940, pagine interessanti ai fini del nostro discorso.15 Purtroppo non ci è stato possibile renderci in loco per una consultazione sistematica. Abbiamo, tuttavia, potuto consultare uno di quei diari, vincitore del premio Pieve Santo Stefano e quindi pubblicato da il Mulino l’anno successivo al settantesimo anniversario del 10 giugno 1940.16 L’autrice, Magda Ceccarelli (1892-1985) – il cui diario postumo rimasto inspiegabilmente a lungo inedito attesta le notevoli qualità letterarie confermate d’altronde dai numerosi libri da lei pubblicati in vita – era la moglie del noto pittore Raffaele De Grada e madre dell’ancor più noto Raffaellino De Grada, critico d’arte militante legato al gruppo «Corrente» e in seguito figura eminente del Partito comunista italiano. Essa era abbastanza rappresentativa di un ambiente sicuramente antifascista, ruotante intorno al Partito comunista, ma certamente non iscritta al partito stesso e in grado quindi di utilizzare una libertà di linguaggio e di apprezzamenti abbastanza rari per l’epoca, in quell’ambiente. Il che forse spiega anche perché il suo diario non uscì mai dalle pareti domestiche. Dal nostro punto di vista l’interesse del diario è oltretutto accresciuto dal fatto che esso inizia proprio all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia. Ne presentiamo qui alcuni scampoli rappresentativi al tempo stesso dell’appartenenza politica dell’autrice ma anche della sua relativa indipendenza di giudizio: 16-22 Giugno […] La voce di De Gaulle ci dà un filo di speranza. Raffaele dice che Pétain è un vecchio «piscia a letto» traditore […].17 22 Agosto. Hanno assassinato Leone Trotski, con una martellata sulla testa. Un giovanotto da lui invitato a pranzo. Emissari di Hitler?18 Gesto isolato di un criminale? Comunque un gran cervello si è spento, una grande vita è finita. 15. archiviodiari.org/. 16. Magda Ceccarelli De Grada, Giornale del tempo di guerra 17 giugno 1940 - 7 maggio 1945, Bologna, il Mulino, 2011. 17. Interessante allusione che attesta non essere poi così vero, come voci interessate avrebbero in seguito sostenuto, che nessuno avesse ascoltato il famoso «appel du 18 juin», visto che esso era pervenuto alle orecchie di un’intellettuale antifascista italiana sfollata, nel momento in cui scriveva queste righe, nella Versilia fascista. 18. Che non le venisse in mente che all’origine dell’atroce delitto di Mercader potesse esserci Stalin piuttosto che Hitler attesta la sua dipendenza dall’universo comunistastaliniano che costituiva il suo ambiente. Che parli, tuttavia, con grande rispetto di Trockij

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I giornali italiani non hanno per Trotski che vili sputacchi. Non c’è nemmeno il leale riconoscimento da avversario a avversario. Com’è torbido il clima e come si cade in basso. 23 Agosto [… Dopo aver evocato il triste spettacolo della Francia in balia dei nazisti] Il triste uomo dai piccoli baffi che ispeziona le truppe è un sacco di cenci vuoti, impacciato e meschino. Mi è parso vecchio e stanco. Triste da morire. Fa quasi pena, e più miserabile di lui appaiono coloro che lo applaudono freneticamente, perché in lui c’è innegabilmente un genio sinistro e in loro non c’è che servitù e ferocia. 14 Settembre […] La vecchia Inghilterra resiste, l’orizzonte non è così nero. Teniamo il fiato sospeso. Se avviene il miracolo della resistenza siamo salvi. I tiranni si sgonfieranno.

Testi di questa natura sono tuttavia, a nostro avviso, estremamente rari anche se non è escluso che negli archivi familiari ne possano emergere altri. Tra quelli pubblicati ne vorrei proporre altri due, uno dei quali edito, non a caso, più di venti anni dopo la morte dell’autore. Il secondo è stato pubblicato dall’autore stesso una sola volta a ridosso della fine del conflitto e mai dopo di allora riproposto per quanto ne sappiamo.19 È lecito, salvo forse nel caso del diario postumo, chiedersi se e fino a che punto essi riflettano le opinioni effettive degli autori alle date cui i brani si riferiscono. Credo tuttavia che, anche se forse non per la lettera, per lo spirito che vi sta dietro la risposta possa essere positiva.20 Due voci affrante Il primo dei due autori è Bonaventura Tecchi, cattolico, germanista, romanziere e traduttore dal tedesco di testi classici, Direttore del prestigioso Gabinetto Viesseux a Firenze dal 1924 al 1932, ebbe una certa fortuna negli anni Trenta e Cinquanta. I suoi testi del maggio-giugno1940 ci sembra che conservino tuttora un loro autentico valore di vigorosa rivolta etica. attesta anche la sua indipendenza di giudizio. Nessun quadro, anche intermedio, del Pci dell’epoca avrebbe osato parlare in questi termini dell’«hitleriano» Trockij. 19. Bonaventura Tecchi, Vigilia di guerra 1940, Milano, Bompiani, 1946. 20. Quanto alla lettera, si vedano le osservazioni postume dello stesso Calamandrei (in «Il Ponte», maggio 1945), sul cautelare «parlare in greco» che ricorda Mario Isnenghi nella sua Introduzione all’edizione del Diario menzionata più avanti.

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Roma, 9 maggio […] Mai s’è vista tanta insensibilità e mancanza di reazione da parte del pubblico all’ingiustizia, alla violenza, all’intrigo.21 10 maggio, sera [… a commento dell’invasione, appena perpetrata di Belgio, Olanda e Lussemburgo e del fatto che i giornali italiani si fanno l’eco e i portatori delle menzogne tedesche] sarebbe inconcepibile tanta supina acquiescenza alla bugia, tanta imbecillità, se essa non fosse l’effetto mostruoso di venti anni di schiavitù e di esaltazione della violenza?22 11 maggio, mattina […] Goebbels ha il genio della bugia: bisogna riconoscerglielo. Egli è il re, l’imperatore, lo zar del mendacio. Spaventosa forza. Il violento Hitler ha sposato la mistica sposa bugia, e Goebbels è stato di queste nozze, il gran sacerdote. Spaventosa forza: Siegfried e Hagen, uniti insieme.23 Roma 28 maggio […] È risaputo […] è una «verità» che nessuno storico futuro potrà mistificare, che il novanta (almeno il novanta) per cento degli artisti, degli scrittori, degli intellettuali italiani d’oggi non sentono questa guerra, vedono con orrore la possibilità di un nostro intervento contro la Francia moribonda o morente, e che molti sanno o intuiscono oscuramente quali e quanti pericoli porterà all’Europa una vittoria illimitata del germanesimo. Eppure si legge nei giornali di questi giorni che accademie e associazioni di artisti, università e scuole sono radunate e hanno votato all’unanimità telegrammi d’entusiasmo, d’approvazione, anzi d’incitamento alla guerra. […] questa mia voce sarà soffocata, essa deve vivere qui in carte nascoste e pericolose. Per anni e anni morirà. Ma è possibile che non venga un giorno in cui questa voce non «furi gli anni» e ciò che fu sepolto nei sotterranei non sia gridato sopra i tetti?24 Firenze, 10 giugno 1940 Mentre ero in treno, oggi alle 16,30 è stata dichiarata la guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra. Vedevo già nei sobborghi, mentre il treno rallentava, capannelli di gente in ascolto, udivo il noto vociare alla radio. Quando sono disceso alla stazione di S. Maria Novella, mi ha sorpreso il silenzio: un silenzio grave, quasi lugubre. 21. Tecchi, Vigilia, p. 8. 22. Ivi, p. 11. 23. Ivi, pp. 11-12. 24. Ivi, pp. 30-31.

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Benché Firenze abbia fama di essere una delle città più fasciste, non ho visto entusiasmo nelle vie, né soddisfazione sui volti della gente. Ritornavano tutti dal «raduno» col viso serio o, per lo meno, volutamente distratto […] Sono stato in giro di notte per Firenze, con Pancrazi e con Palazzeschi. Firenze oscurata, credo per la prima volta. La prima notte di guerra in Italia: via Laura, via dei Servi, piazza del Duomo. Il filobus spettrale e fantomatico, come un carrozzone della Misericordia, che ci è venuto incontro all’improvviso, all’angolo di Piazza del Duomo… Non dimenticherò mai più questa notte, e la tremenda tristezza che c’invase tutti e tre. A un certo punto Palazzeschi ricordò che il 19 giugno era la data dell’assassinio di Matteotti.25

Le citazioni che seguono provengono dal Diario di Piero Calamandrei,26 che, come è noto, è stato pubblicato da Giorgio Agosti, con una introduzione del figlio Franco, ben 26 anni dopo la morte dell’autore. 13 maggio [1940] […] La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là, e non qui tra questa masnada di prepotenti vigliacchi. Terribili giorni, per quei pochi che non sono disfatti da questa viltà che è oggi il carattere più appariscente degli italiani. Mi sono trovato la mattina del 9, verso le 11, quando la radio ha dato in piazza Vittorio la prima notizia dell’invasione del Belgio: ho visto molte persone ridere e fregarsi le mani: sono fuggito via per non inveire. «Simile al pazzo… che della veste che gli brucia addosso – folleggia e ride».27 10 giugno (Poveromo) […le due prime pagine sono anteriori al discorso di Mussolini e contengono supposizioni sul suo contenuto…] Naturalmente, delle tre ipotesi si avvera quella più criminale. Maramaldo ha dichiarato la guerra: senza neppur tentare di giustificare la pugnalata a freddo nella schiena del ferito che si difende dall’aggressore. L’infamia è così enorme che se ne rimane come schiacciati.28 25. Ivi, p. 44. 26. Che era a sua volta legato da una salda e duratura amicizia a quei Pancrazi e Palazzeschi sopra citati da Tecchi. 27. Piero Calamandrei, Diario I (1939-1941), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015, pp. 184-185. Il riferimento finale, leggermente alterato, è a Giuseppe Giusti, «Simile al pazzo che col pugno uccide / Chi lo soccorre di pietà commosso, / E della veste che gli brucia addosso / Festeggia e ride», Giuseppe Giusti, L’incoronazione, in Versi editi e inediti di G.G., Bastia, 1836, p. 63. 28. Calamandrei, Diario I (1939-1941), p. 207.

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Gli antifascisti italiani di fronte all’«étrange défaite» della Francia Con queste ultime citazioni siamo giunti alla dichiarazione di guerra. Dal punto di vista dell’azione politica dell’antifascismo e soprattutto della sua opposizione al regime, non si può dire che si assista a grandi cambiamenti. Dal punto di vista della dislocazione degli antifascisti, invece, l’attacco italiano alla Francia aggrava considerevolmente le cose. Anche se, bisogna riconoscerlo, è ben difficile separare quanto dell’aggravamento delle difficoltà dell’antifascismo italiano è dovuto alla dichiarazione di guerra italiana da quanto è molto più semplicemente dovuto al fatto che il 90% degli antifascisti italiani che non erano in prigione o al confino, si trovavano in Francia e subivano quindi, al pari dei francesi, gli effetti devastanti di quella che Marc Bloch ha chiamato «l’étrange défaite».29 L’esodo di proporzioni bibliche, con più di 8.000.000 di individui che lasciano temporaneamente il proprio domicilio senza conoscere il momento in cui potranno farvi ritorno, ha ovviamente coinvolto gli italiani al pari dei francesi.30 È vero che alcuni di loro conoscono per di più l’aggravante dell’internamento riservato a cittadini di 29. Più volte ristampato e anche recentemente rivisitato e salutato per la sua immutata validità, questo complesso e articolato tentativo di render conto “a caldo”, di quella che fu considerata la più grande catastrofe nazionale conosciuta dal Paese nell’epoca contemporanea, fu scritta di getto dal grande medievista Marc Bloch nell’autunno del 1940. Uno dei più eminenti esponenti della componente Giustizia e Libertà del fuoruscitismo italiano, Silvio Trentin, più o meno nello stesso periodo buttò giù uno scritto (Silvio Trentin, L’abdicazione della Francia o la fine di un mondo – Note di un sopravvissuto, pubblicato anch’esso postumo, ma a molti più anni di distanza, a cura di Paolo Gobetti, in Silvio Trentin, Scritti inediti, Testimonianze e studi, Parma, Guanda, 1972, pp. 105-186 ) che si apparenta, nelle intenzioni, allo scritto dello storico francese. Non si tratta, però, di un testo che, per originalità e lucidità di analisi, possa essere collocato all’altezza né dell’Étrange défaite né di tanti altri scritti dello stesso Trentin così come del suo intrepido e precoce operare nella Resistenza francese, prima nel réseau Bertaux e successivamente, fino al suo rientro in patria nell’esate del 1943, nel gruppo francese «Libérer et Fédérer», attivo nella sua Tolosa e nel territorio circostante. 30. Una delle più icastiche ed efficaci descrizioni di quel che fu l’esodo dell’estate 1940 e il crollo morale di tanta parte delle élites francesi, scritta da un’altra eminente figura del fuoruscitismo italiano in Francia è la seguente: «I visi erano tesi e torvi: la solidarietà umana non si espandeva al di là del coniuge e dei figli [dopo l’annuncio dell’armistizio] Il voltafaccia di tutti i giornali, compresa la democratica “Depêche de Toulouse”, fu immediato. Da un giorno all’altro, si misero a insultare l’Inghilterra e la folle guerra contro il nazismo, e a inneggiare al maresciallo. Non ci fu bisogno che gli squadristi andassero per mesi ed anni a bastonare i redattori e a bruciare le sedi dei giornali. Come crollava la stampa, crollava tutto, in Francia», dal capitolo primo di Joyce Lussu, Fronti e frontiere, Bari, Laterza, 1967 (1a ed. 1946).

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potenza nemica.31 Sono soprattutto i comunisti però a subirlo e loro, in molti casi, erano già stati internati alla fine dell’anno precedente nei campi del sud della Francia, vuoi come ex membri delle Brigate internazionali, vuoi come comunisti una volta che questi, francesi o italiani che fossero, erano stati messi fuori legge e perseguitati in quanto non avevano disapprovato il patto Ribbentrop-Molotov. È vero tuttavia inoltre che, stando all’art 21 dell’armistizio firmato tra la Francia e l’Italia a fine giugno 1940 la Francia si impegnava a rimettere in mani italiane i sovversivi presenti sul proprio territorio. È vero anche, però, che, come lo stesso Valiani ebbe a riconoscere, il governo di Vichy si mostrò piuttosto recalcitrante in materia anche perché, dato il fallimento pressocché totale della campagna militare italiana nelle Alpi, riteneva che la posizione dell’Italia in quanto potenza vincitrice fosse relativamente abusiva. Fu, o meglio avrebbe potuto essere, più efficace l’azione repressiva della Gestapo alla quale Guido Leto, a nome dell’OVRA, consegnò, il 5 ottobre 1940, un elenco di nomi di cui la polizia italiana richiedeva la consegna (tra i quali Palmiro Togliatti, Ruggero Grieco, Silvio Trentin, Emilio Lussu, Luigi Longo, Celeste Negarville, Giuseppe Gaddi, Giuseppe Di Vittorio, Aldo Garosci, Giorgio Amendola, Giuseppe Dozza, Mario Montagnana, Franco Venturi, Randolfo Pacciardi, Carlo Sforza, Leo Valiani, Francesco Saverio Nitti, Bruno Buozzi, Alberto Cianca, Giuseppe Saragat, Emilio Sereni, Pietro Nenni, Giuseppe Emilio Modigliani, etc.). Come si può facilmente notare si trattava del fior fiore dell’antifascismo italiano delle più diverse obbedienze: comunisti, in gran numero, ma anche socialisti, giellini, repubblicani etc. Deliberatamente sopra ho utilizzato, tuttavia, il condizionale perché nel momento in cui Leto avanza la sua richiesta la maggior parte di costoro, ad eccezione di qualche comunista presente nei campi del sud della Francia e che finirà al confino (Ventotene, Ponza, le Tremiti), o si era dato alla macchia ed era entrato in clandestinità in Francia stessa oppure si era allontanato dalla Francia secondo le direttrici geografiche le più diverse: Messico, Stati Uniti (Nicola Chiaromonte, Ambrogio Donini, Giuseppe Berti, Leo Valiani) Inghilterra (Pietro Treves, Umberto Calosso) Egitto (Paolo Vittorelli…) etc. Una vera e propria diaspora che non era incompatibile con il proseguimento dell’attività antifascista, ma quest’ultima nel corso dell’anno 31. Applicata, tanto nei confronti di cittadini italiani che di cittadini tedeschi con indiscriminata stoltezza per cui vennero internati tanto italiani e tedeschi notoriamente fascisti e/o nazisti quanto fuorusciti da lunga data noti per la loro opposizione ai rispettivi regimi. Con delle eccezioni, beninteso.

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1940 fu di lieve peso ed entità. Essa non portò necessariamente tutti lontano dalla Francia. Non solo i comunisti, certo più numerosi a restare in Francia da clandestini, ma anche i socialisti si ritrovarono in questa o quella città della «zone libre». Tolosa fu une delle sedi preferite. Nicola Chiaromonte da poco stabilitosi negli Stati Uniti ne avrebbe dato, a un anno di distanza, un quadro pieno di malinconica simpatia: Questi esiliati erano rimasti socialisti, non come credenti che serbano la loro fede religiosa, ma semplicemente come si rimane uomini onesti […]. A Tolosa ci ritrovammo tutti in uno squallido scantinato, attorno a un tavolo, e non c’era mai spazio né sedie abbastanza […]. Quanto ai compagni di cui parlo, ebbene, molto tempo era passato da quando essi avevano conosciuto qualcosa che rassomigliasse a una vita normale. Stranieri senza documenti in Francia, volontari in Spagna [come lo stesso Chiaromonte, lo Scali de L’Espoir di André Malraux]; poi di nuovo soldati, nell’esercito francese, o prigionieri nei campi di concentramento francesi; per non dire degli anni che avevano passato nelle carceri italiane: tali erano state le tappe della carriera di quasi tutti loro […] Erano molto stanchi, e soprattutto erano molto delusi ma, in fin dei conti, cercavano soltanto di dimenticare, seppure era possibile.32

Palinodie e cambi di campo? Il che non vuol dire che la seconda metà dell’anno 1940 fu un periodo di abbandoni e di palinodie come invece fu per una buona parte della sinistra non comunista francese. Va certo eccettuato il caso di Angelo Tasca,33 32. Apparso il 31 ottobre 1941 in «Commonweal», rivista della sinistra cattolica americana, fondata nel 1924. Vi collaborarono, tra gli altri, don Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini. Ripubblicato in Nicola Chiaromonte, Scritti politici e civili, a cura di Miriam Chiaromonte, Milano, Bompiani, 1976, pp. 114-115. 33. Assolutamente da vedersi per i tanti intrecci che ivi vengono messi in luce tra la traiettoria politico-intelletuale di Angelo Tasca e quella di tante figure politco-intellettuali italiane e francesi degli anni Trenta e Quaranta: Vichy 1940-1944. Quaderni e documenti inediti di Angelo Tasca, Archives de guerre d’Angelo Tasca, a cura di Denis Peschanski, Paris-Milano, Éditions du C.N.R.S. - Feltrinelli, 1986, La France de Vichy, Archives inédits [sic] d’Angelo Tasca, a cura di David Bidussa e Denis Peschanski, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1996, entrambi i volumi contengono scritti dello stesso Tasca oltre a molti saggi di storici italiani e francesi; si veda anche di Sergio Soave, Né tradire né tradirsi, Torino, Nino Aragno, 2005. pp. 597-614, consacrato tanto a Ignazio Silone (che in Svizzera dirigeva all’epoca il Centro estero del PSI) che ad Angelo Tasca. Su quest’ultimo, va anche vista la corposa, ma purtroppo inedita, tesi di dottorato a lui consacrata da Cathérine Rancon, Angelo

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sul senso della cui traiettoria, della quale non vogliamo qui occuparci, fiumi di inchiostro sono stati versati e a proposito del quale facciamo comunque notare che si trattava di un caso a parte se non altro perché, contrariamente alla maggior parte degli altri fuorusciti (forse solo Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte e Mario Levi, da questo punto di vista e solo da questo, possono assimilarsi al suo),34 egli era ormai totalmente integrato all’universo politico e sociale francese, avendo per di più anche chiesto e ottenuto la cittadinanza francese. Per tutti gli altri antifascisti italiani, a parte qualche lieve spostamento di accenti e di interessi, non si può parlare di abbandono o tradimento di campo. Piuttosto sembrerebbe pertinente parlare di attendismo. Un attendismo che certo si svolge in paesi e luoghi diversi ma che comunque attendismo è e si prolunga nel caso di molti, ad eccezione forse dei comunisti dopo la svolta del giugno 1941, ben oltre l’anno 1940, se, come già stato osservato, al momento della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 nessun partito antifascista è veramente organizzato e in grado di proporre un suo piano di azione, tanto che gli stessi comunisti sono costretti a fare appello al re, tramite la missione di Concetto Marchesi.35 Il che non vuol dire che non ci fossero degli appigli, nell’evolvere della situazione anche militare, cui riferirsi per proporre strategie che non fossero puramente attendiste. Tasca. Une biographie intellectuelle (1892-1960), s.d. (ma 2011), discussa all’École française de Rome. E va anche visto l’appassionato libro che Dominique Fernandez ha dedicato alla discussisima figura del padre Ramon Fernandez la cui moglie, Liliane Choumette, madre dell’italianista francese, avrebbe poi sposato in seconde nozze Angelo Tasca e avrebbe svolto un ruolo decisivo di tramite con l’universo etico, politico e culturale francese: Dominique Fernandez, Ramon, Paris, Grasset, 2008. Si veda, infine, per i rapporti tra i due, rimasti sempre di amicizia e stima reciproca, la corrispondenza Tasca-Salvemini, sia in Gaetano Salvemini Angelo Tasca. Il dovere di testimoniare, con introduzione di Elisa Signori, Roma, Bibliopolis ed., 1996, sia, più recentemente, e per la parte relativa a Tasca, Gaetano Salvemini, Lettere americane, a cura di Renato Camurri, Roma, Donzelli, 2015. 34. Non a caso, d’altronde, tutti e tre di Tasca erano stati collaboratori per le trasmissioni in lingua italiana della radio francese fino alla vigilia della guerra e all’insediamento del nuovo governo a Vichy. La separazione dei loro destini avvenne in occasione dello spostamento del governo francese, prima a Tours poi a Bordeaux. Quando il governo, ormai diretto dal maresciallo Pétain decise di insediarsi a Vichy, nella cosiddetta «zone libre», le strade di Tasca e dei tre ex-eretici di Giustizia e Libertà si separarono drasticamente perché Tasca seguì Pétain a Vichy e gli altri tre si stabilirono tutti e tre in un primo momento a Tolosa dove tanto A. Caffi che M. Levi rimasero per tutta la durata della guerra e da cui, invece N. Chiaromonte partì prima per Algeri, dove si legò di amicizia con Albert Camus, quindi per gli Stati Uniti dove rimase per tutta la durata della guerra. 35. Vedi anche qui le osservazioni più che pertinenti di Giorgio Amendola nella più volte citata Intervista sull’antifascismo del 1975, p. 169.

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Il vento comincia a cambiar direzione: i primi segnali Di questi appigli io ne vedrei per lo meno tre. Essi sono tutti e tre reperibili nelle pagine del Diario di Piero Calamandrei. Uno di cui non si trova, inspiegabilmente, traccia in quasi nessun altro scritto antifascista è il fatto che l’Italia non solo non ha vinto la battaglia delle Alpi contro la Francia, ma l’ha clamorosamente persa (se non altro con un numero di morti dieci volte superiore ai morti francesi) e si è seduta al tavolo dei vincitori solo in quanto «manutengola» (è il termine impiegato da Calamandrei) di un padrone ultrapotente che si degna di accordarle un ossicino: la citta di Mentone.36 L’altro è la perdita, da parte dei tedeschi, della battaglia aerea sul cielo dell’Inghilterra.37 Nel Diario di Calamandrei ci sono pagine e pagine che si riferiscono alle interminabili discussioni tra lui e Luigi Russo sull’eventualità della perdita della battaglia d’Inghilterra che segnò la prima incrinatura del mito dell’invincibilità tedesca: il bello è che Russo dà per scontata la vittoria tedesca, nonostante a parole dicesse di osteggiarla, perché quella vittoria scontata si ricopriva del manto della Storia con la S maiuscola. Ora, questo primo segno di debolezza dei piani hitleriani, poteva certo venire apprezzato da una parte degli antifascisti non comunisti, ma non dai comunisti, perché valorizzare i successi o comunque le mancate sconfitte dell’imperialismo inglese entrava vistosamente in conflitto con la narrazione kominterniana del momento, relativa alla guerra interimperislistica. Non bisognava assolutamente tifare per l’imperialismo inglese, come invece sistematicamente fa, nel suo Diario, Piero Calamandrei. La questione dei vincoli imposti dalle relative narrazioni di riferimento identitario è di primaria importanza per capire il modo in cui la storia verrà in seguito raccontata. Non è un caso, ad esempio, che, fra le decine e decine di memorie che i militanti comunisti, una volta ritiratisi dalle battaglie in campo aperto, hanno prodotto tra l’inizio degli anni Settanta e gli anni Novanta, i mesi che vanno dall’agosto 1939 al 21 giugno 1941 o vengono puramente e semplicemente saltati oppure vengono ricordati solo quelli iniziali del periodo per menzionare le persecuzioni anticomuniste del governo Daladier, che indubbiamente ci furono e che indubbiamente rispondevano a pulsioni 36. Su questo, si veda l’indimenticabile Italo Calvino, Un avanguardista a Mentone, ripubblicato insieme ad altri due racconti in Italo Calvino, L’entrata in guerra, Milano, Palomar S.r.l. e Arnoldo Monadadori, 1994 (ma 1954 e, per la prima edizione di Un avanguardista a Mentone, in «Nuovi Argomenti», 2 [1953]). 37. Che, come abbiamo visto sopra, aveva ben registrato, Magda Ceccarelli De Grada.

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che non erano solo patriottiche ma delle quali non viene quasi mai ricordato che erano anche legate al fatto che i comunisti avevano, dopo un primo momento di esitazione, osannato il patto russo-sovietico. La vera guerra antifascista, in altre parole, per l’immensa maggioranza dei militanti comunisti comincia solo dopo il 21 giugno 1941. In alcune memorie questo spinge addirittura non dico a falsificare ma a trasfigurare la realtà come accade per esempio a Nella Marcellino quando, nel rievocare il suo rientro in Italia all’appello del Partito dopo quella data, sostiene di ricordarsi perfettamente che dopo quella data i soldati francesi partivano al fronte dalla Gare Saint Lazare cantando l’Internazionale!38 Il terzo momento, infine, e qui siamo ormai al termine della nostra narrazione, sempre da collocarsi nel corso dell’anno 1940, viene sottolineato con grande efficacia da Calamandrei nel suo Diario ed è quello legato alle prime sconfitte dell’esercito italiano sul fronte greco-albanese: 6 novembre 1940 L’attacco alla Grecia, che da dieci giorni tiene gli italiani quasi fermi sul confine e intanto ha permesso all’Inghilterra di sbarcare a Creta e di assicurarsi basi navali ed aeree vicine all’Italia meridionale per bombardarla a suo comodo,39 comincia a impressionare anche i «patrioti»: si ricominciano a sentire, anche tra le persone più conformiste, sussurri antifascisti. Ma questa è la più grave tragedia dell’Italia: che l’orrore di questo ignobile e brigantesco attacco a un piccolo popolo neutrale com’era la Grecia, di questo assassinio a freddo su popolazioni inermi si comincia a sentire solamente ora, perché si comincia a temere che il colpo non vada così liscio come si credeva. Maledetta mentalità che si plasma sui fatti: inconsapevole storicismo che applaude al delitto commesso con fortuna finché rimane impunito, e che si indigna contro l’eroismo sfortunato (cfr. La pagina sul Parini dell’Iacopo Ortis).40 38. Guido Gerosa, Le compagne - Venti protagoniste delle lotte del Pci dal Comintern a oggi narrano la loro storia, Milano, Rizzoli, 1979, ad nomen. 39. L’offensiva italiana in Grecia, di fronte all’accanita resistenza greca si esaurì l’8 novembre e alla metà del mese dovette venir ordinato il ripiegamento generale a difesa di Valona e di Berat. 40. Cfr. Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, nelle tre lezioni del 1798, 1802, 1817, a cura di Giovanni Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1955 (Edizione nazionale delle opere di U. Foscolo, vol. IV), lettera del 4 dicembre 1798, pp. 413 e 416: «4 dicembre […] Jer sera dunque passeggiava con quel vecchio venerando […]. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre…».

Francesco Fusi, Matteo Pretelli I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale

Quanti erano? Nel corso della Seconda guerra mondiale furono centinaia di migliaia i militari alleati di origine italiana, cioè figli di emigrati che avevano iniziato una nuova vita all’estero, molti dei quali negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Canada, Australia e Brasile. In numero soverchiante furono gli italoamericani, stante l’emigrazione di massa dall’Italia alla volta di questo paese fra Otto e Novecento. Philip Joseph Daurio incarnava le caratteristiche tipiche del militare italoamericano che partecipò alla guerra con gli Alleati. Nato nel 1922 a Brooklyn, crebbe in una famiglia in cui si parlava soprattutto italiano, faceva il pugile e durante la guerra venne inviato in Nord Africa e poi in Italia dove, a Salerno, fece visita ad alcuni parenti. Nella sua intervista, conservata presso la Library of Congress di Washington, ricorda il tragico bombardamento di Montecassino, così come gli incontri con gli italiani che chiedevano cibo e scarpe ai soldati americani.1 L’esperienza di Daurio fu quindi comune a migliaia di suoi connazionali che condividevano lo stesso retaggio etnico e che non solo presero parte all’invasione della Sicilia, ma furono altresì schierati in tutti i teatri bellici a livello globale. Il servizio militare di questi giovani nelle forze armate alleate fu funzionale per decostruire in molti paesi l’immagine dell’italiano come “straniero nemico” in seguito all’entrata in guerra di Mussolini contro la Francia e l’Inghilterra (10 giugno 1940), contro gli Stati Uniti (11 dicembre 1941), 1. Library of Congress, American Folklife Center, Washington D.C., intervista a Philip Joseph Daurio.

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infine contro il Brasile (22 agosto 1942). Nei paesi che si ritrovarono in guerra contro l’Italia le comunità italiane furono sottoposte a una stretta sorveglianza per isolare eventuali collaborazionisti del regime fascista e vennero imposte restrizioni delle libertà personali. La storiografia ha infatti mostrato come in queste comunità, specialmente nei paesi anglofoni, furono assai diffuse le simpatie per Mussolini. Queste si ebbero non tanto per convinzione ideologica, quanto perché il duce, con il suo carisma e apprezzamento a livello internazionale, fu percepito come una sorta di «redentore» dell’italianità, cosa che suscitava un certo orgoglio etnico fra gli italiani all’estero, spesso considerati come “inferiori” dalle società ospiti.2 In taluni paesi, come l’Australia, le paure furono diffuse e le misure intraprese particolarmente draconiane, tanto che si impose l’internamento su vasta scala di persone di origine italiana.3 Ecco quindi che la fedeltà alla patria di adozione divenne per molti uno strumento fondamentale di accettazione. Come si evince dalla stampa etnica coeva, i quartieri italiani si mobilitarono attivamente – specialmente negli Stati Uniti e in Canada – per sostenere la causa alleata con la raccolta di denaro, l’acquisto di buoni del tesoro, nonché il razionamento delle risorse.4 Ciononostante, fu proprio il servizio militare che contribuì in maniera massiccia a rivalutare l’immagine degli italiani, rovesciando anche un tradizionale luogo comune secondo cui questi sarebbero stati dei pessimi combattenti. Quando non fu soppressa per aver avuto prima della guerra una linea editoriale filofascista, la stampa in lingua italiana all’estero ebbe un peso rilevante per orientare le comunità a favore dello sforzo bellico alleato. Ne è un esempio «Il Progresso Italo-Americano» di New York, principale giornale in lingua italiana negli Stati Uniti, che prima di Pearl Harbor aveva avuto un orientamento filo-mussoliniano, salvo poi posizionarsi con la guerra su posizioni a sostegno della causa americana. Uno spoglio del giornale mostra un profluvio di articoli a sfondo patriottico che includono descrizioni di figure di combattenti italoamericani che avevano 2. Matteo Pretelli, Il fascismo e gli italiani all’estero, Bologna, Clueb, 2010. 3. Enemy Aliens: The Internment of Italian Migrants in Australia during the Second World War, a cura di Cate Elkner e Bacchus Marsh, Connor Court Publishing, 2005. 4. L’On. Dickstein esalta al congresso il contributo degli americani di origine italiana nelle forze belliche degli Stati Uniti, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 2 settembre 1944; La Società Sant’Antonio di Ottawa Regala $200.00 alla Patria, in «Il Giornale Italo-Canadese» (Montreal), 30 settembre 1940; Come si diventa cittadini, in «La Vittoria» (Toronto), 16 maggio 1942.

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ottenuto riconoscimento a livello nazionale per le proprie gesta militari. Inoltre, il giornale di New York aggiornava i lettori rispetto a coloro che rimanevano uccisi o feriti in combattimento, oppure che risultavano dispersi o prigionieri del nemico. Risulta assai difficile quantificare i combattenti di origine italiana, anche perché i paesi alleati tendevano a non registrare l’origine etnica dei coscritti. È indubbio tuttavia che furono gli italoamericani, a parere di Thomas Bruscino, il gruppo etnico più numeroso nelle forze armate statunitensi.5 Lo storico Salvatore J. LaGumina, adolescente al tempo della guerra, ipotizza la presenza di 750.000 servicemen italoamericani, numero che appare in linea rispetto agli 850.000 indicati dal congressista Harold D. Donohue nel 1954 e considerati attendibili dall’ambasciata italiana di Washington. Nel suo computo Donohue inserì anche 40.000 militari nati in Italia, sia cittadini italiani, sia naturalizzati americani.6 Assai meno furono gli italiani di origine all’interno delle forze armate di altri paesi alleati. Relativamente al Regno Unito, Wendy Ugolini stima circa 7.200 combattenti, mentre per il Canada nel luglio 1942 il giornale antifascista italocanadese «La Vittoria» parlò di 3.000 persone appena reclutate, molte delle quali entrate in aviazione.7 In aggiunta, i database del governo australiano relativi ai soldati del secondo conflitto mondiale restituiscono i nomi di 1.430 combattenti nati in Italia, sebbene non sia purtroppo possibile risalire ai dati dei nati su suolo australiano di origine italiana.8 La mancata acquisizione della cittadinanza britannica impedì agli stranieri di unirsi alle Australian Military Forces, mentre anche gli italocanadesi si videro in parte respinto l’arruolamento qualora non fossero già divenuti cittadini canadesi. 5. Thomas Bruscino, A Nation Forged in War: How World War II Taught Americans to Get Along, Knoxville, The University of Tennessee Press, 2010, p. 58. 6. Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale Italiani all’Estero, 1912, 1935-1957, b. 35, fasc. Associazione di veterani di guerra italoamericani negli USA, 1951-1954. 7. Wendy Ugolini, Experiencing war as the ‘enemy other’: Italian Scottish experience in WWII, Manchester, Manchester University Press, 2014, p. 144; Migliaia di italocanadesi saranno presto arruolati nell’esercito canadese, in «La Vittoria» (Toronto), (18 luglio 1942); A proposito della chiamata alle armi dei cittadini di origine italiana nelle fila dell’esercito canadese, in «La Vittoria» (Toronto), 25 luglio 1942; A. Bersani, Arruolamento volontario, in «La Vittoria» (Toronto), 1° agosto 1942. 8. La ricerca è stata condotta nel 2015 nel database www.ww2roll.gov.au/PlaceSearch.aspx. Successivamente tale sito è stato ristrutturato e non consente più di ricercare nominativi in base al luogo di nascita (si veda nominal-rolls.dva.gov.au/).

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Infine, è necessario fare riferimento al contingente brasiliano, la Força Expedicionária, che combatté in Italia ma che contò appena 25.368 unità.9 In essa molti avevano un’origine italiana, talvolta anche celata da un cognome che aveva assunto una dizione portoghese. La lista di coloro che combatterono in Italia restituisce almeno 1.206 cognomi di chiara origine italiana, ma probabilmente furono di più, tanto che il veterano Miguel Garofalo in una sua testimonianza sottolinea come circa il 25% della sua compagnia fosse composto da giovani italobrasiliani come lui.10 Un ultimo riferimento va all’esercito francese che fu rapidamente sbaragliato dai tedeschi. Non esistono dati relativi al numero dei combattenti di origine italiana. Tuttavia, si può ipotizzare che sia stato un numero consistente, anche in considerazione del fatto che il paese transalpino alla fine degli anni Trenta aveva spinto gli stranieri alla naturalizzazione affinché potessero essere coscritti e fra questi gli italiani furono numerosi: nel 1939, dei 73.000 che acquisirono la cittadinanza francese 24.000 erano italiani, mentre nel solo primo semestre del 1940 lo era quasi la metà, cioè 18.000 su 43.000.11 Chi erano? Alla luce delle memorie e delle fonti disponibili è possibile delineare i tratti sociologici in particolare della generazione di italoamericani che partecipò al conflitto. Si trattava di persone nate per lo più negli anni Venti su suolo statunitense da genitori arrivati dall’Italia, pertanto cittadini americani per il principio dello ius soli. Erano quindi giovani che, oltre che per la cittadinanza, si sentivano profondamente americani per cultura e stile di vita. Istruiti prevalentemente nelle scuole pubbliche statunitensi, svilupparono da bambini la capacità di parlare fluentemente l’inglese, lingua che uti9. Andrea Giannasi, Il Brasile in guerra. La partecipazione della Força Expedicionária Brasileira alla Campagna d’Italia (1944-1945), Roma, Carocci, 2014, p. 31. 10. Ringraziamo Mario Pereira per averci fornito la lista dei nominativi della Força Expedicionária Brasileira. L’intervista a Miguel Garofalo è stata condotta dagli autori il 25 ottobre 2014; cfr. anche Davide Del Giudice e Riccardo Mori, La Linea Gotica. Tra la Garfagnana e Massa Carrara, settembre 1944 - aprile 1945, vol. II, Milano, Ritter, 2003, pp. 124-125. 11. Patrick Weil, Les Italiens en France de 1938 à 1946: la politique de l’État français, in «Mezzosecolo», 9 (1990-1992), p. 26; Antonio Bechelloni, Friulani e giuliani attivi nella Resistenza francese (1940-1944). Dal socialismo all’antifascismo, dall’antifascismo alla Resistenza: la coerenza di un percorso collettivo, in «Qualestoria», 2 (2015), p. 179.

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lizzavano con i loro coetanei di diverse etnie con cui condividevano anche l’interesse per la cultura popolare e consumista locale. Amavano pertanto vestirsi e mangiare all’americana, frequentare le sale cinematografiche e si appassionavano alla musica e agli sport statunitensi.12 Il baseball, in particolare, rappresentò una grande passione dei giovani italoamericani, per i quali fu soprattutto Joe DiMaggio, campione di origini siciliane, che divenne un idolo “etnico” nelle Little Italies. DiMaggio assurse alle cronache nazionali per le proprie doti sportive che ne fecero una sorta di “eroe” nazionale e, dopo il conflitto, per la sua relazione sentimentale con la celeberrima attrice Marylin Monroe.13 Secondo «L’Eco d’America» di Providence i successi di DiMaggio rispecchiavano quelli di tanti giovani italoamericani, i quali avevano fatto proprio lo “spirito americano” e partecipavano attivamente alla vita del Paese. Negli anni della guerra lo sportivo volle mostrare il proprio patriottismo arruolandosi volontario nelle forze armate, scelta che – per «La Voce Coloniale» di New Orleans – ne faceva un perfetto self-made man americano che prendeva parte alla lotta.14 Per questa generazione l’Italia era una terra per lo più sconosciuta, intorno alla quale si giocò simbolicamente uno scontro generazionale fra i genitori, nati in Europa, e i figli “americani”. Padri e madri mitizzavano soprattutto il meridione d’Italia e le sue presunte virtù rispetto a un’America che contribuiva a emancipare troppo, e quindi a “corrompere”, i figli e le figlie.15 Il veterano Anthony Scariano racconta di come i suoi 12. Rudolph Vecoli, Negli Stati Uniti, in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di Alberto Bevilacqua et al., Roma, Donzelli, 2001, pp. 75-78. 13. Lawrence Baldassaro, Gli italoamericani nello sport, in Storia degli italoamericani, a cura di William L. Connell e Stanislao G. Pugliese, Milano, Le Monnier, 2019, pp. 585-586; Jack B. Moore, Understanding Joe Di Maggio an Italian American Hero, in Italian Americans Celebrate Life: The Arts and Popular Culture, a cura di Paola A. SensiIsolani e Anthony J. Tamburri, Staten Island, AIHA, 1990, pp. 169-178. 14. Joe Di Maggio simbolo della gioventù italo-americana, in «L’Eco d’America», Providence, 11 luglio 1941; Battling for America now, in «La Voce Coloniale» (New Orleans), 1° maggio 1943; Giuseppe Di Maggio è il tredicesimo giocatore dei New York Yankees ad andare nelle Forze Armate degli S.U., in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), (18 febbraio 1943). DiMaggio venne poi congedato a causa di ulcere allo stomaco, cfr. Joe Di Maggio è congedato dalle forze armate, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), (15 settembre 1945). 15. Robert A. Orsi, The Fault of Memory: “Southern Italy” in the Imagination of Immigrants and the Lives of Their Children in Italian Harlem, 1920-1945, in «Journal of Family History», 15 (1990), pp. 133-147.

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nonni parlassero sempre romanticamente dell’old country, rimuovendo quindi i momenti difficili che vi avevano vissuto e ricordando solo quelli più belli.16 Ciononostante, i giovani italoamericani cresciuti fra le due guerre mantennero forti legami con la cultura di origine dei genitori, facendo propri il valore della famiglia, la fede cattolica e l’apprezzamento per il cibo italiano.17 A parere di Leonard Covello, noto educatore italoamericano di East Harlem (New York), il servizio militare durante la guerra fu un’occasione importante per la piena integrazione dei giovani italoamericani nella società statunitense, anche perché lo scambio con commilitoni di altri gruppi etnici permetteva loro di conoscere un’America diversa rispetto a quella ristretta del loro quartiere. Pertanto, per Covello l’uniforme americana «symbolizes first of all their acceptance, their belonging to America. It is at least a very effective taken that levels out all heretofore existing prejudices and cultural antagonism. It brings to a sense of equality».18 Patriottismi I militari statunitensi di origine italiana si identificarono pienamente con la causa alleata, tanto che – secondo Salvatore LaGumina e Peter Belmonte – nel sentirsi pienamente americani sarebbero stati pronti a combattere qualsiasi nemico degli Stati Uniti, compresa l’Italia.19 Le memorie pubblicate nel dopoguerra e le interviste rilasciate dai reduci presentano per lo più uno spaccato di uomini che si dichiarano altamente patriottici e orgogliosi di aver combattuto per la difesa del proprio paese e contro il totalitarismo fascista. Emblematiche in tal senso le parole dell’aviatore Edward J. Denari, che fu di stanza a Cerignola e che nel

16. Anthony Scariano Memoir, University of Illinois at Springfield, Norris L. Brookens Library, vol. 1, p. 24. 17. Richard Alba, Italian Americans: Into the Twilight of Ethnicity, Englewood Cliffs, Prentice-Hill, 1985, pp. 56-58. 18. Leonard Covello Papers, Historical Society of Pennsylvania, Filadelfia, b. 15, fasc. 15/2 «Adolescents in Wartime, Feb 3, 1943», Leonard Covello, Adolescents in War [1942]. 19. Peter L. Belmonte, Italian-Americans in World War II, Charleston, Arcadia, 2001, pp. 100-102; Salvatore LaGumina, The Humble and the Heroic: Wartime Italian Americans, Amherst, Cambria Press, 2006, pp. 242-243.

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suo impeto patriottico giunge perfino a descrivere l’Italia come una terra “straniera”: I was filled with the consuming idea that my crew mates and I were on a grand mission that personified the core values of our beautiful country and that coming thousands of miles to this foreign land to bring an end to enormous forces of evil was in the mind of this twenty-two-year-old just regular American, simply an act of patriotism.20

Per molti la massima espressione del patriottismo italoamericano venne incarnata dal marine John Basilone, giovane di Raritan (New Jersey) che venne premiato con la Medaglia d’Onore dal Congresso statunitense per i suoi atti di eroismo compiuti nel Pacifico. Basilone venne proiettano sulla ribalta nazionale, costantemente elogiato dalla stampa etnica e divenne un punto di riferimento dei giovani nei quartieri italiani.21 Questo non significa ovviamente che tutti gli americani di origine italiana avessero fatto proprio un patriottismo indefesso. Ad esempio, nei ricordi della figlia Mary Jo il padre Vincent John Bologna (che cambiò dopo la guerra il cognome in Bona) non si sentiva legato ad alcun ideale patriottico o nazionalista, ma piuttosto credeva fermamente nei concetti di giustizia sociale e servì in guerra «as a way of keeping discipline».22 Le motivazioni dei combattenti di origine italiana nel prendere parte alla guerra furono diverse, rispecchiando quindi la varietà di persone che vennero coinvolte nel conflitto. Fattori come l’essere nati negli Stati Uniti piuttosto che in Italia, oppure un maggiore o minore livello di istruzione, o la capacità o meno di parlare l’italiano, potevano incidere sulla propria esperienza. Tuttavia, avere avuto i natali oltre oceano spinse per lo più a una immediata identificazione con la causa della democrazia statunitense.23 Lincoln Bertaccini raccontava al figlio di come in guerra vi fossero stati 20. Edward J. Denari, Mine to Keep: Stories from Life, Bedford, Denmar Press, 2003, p. 128. 21. Michael Frontani, Becoming American: “Manila John” Basilone, the Medal of Honor, and Italian-American Image, 1943-1945, in «Italian American Review», 4 (2014), pp. 21-52. A titolo di esempio, cfr. La medaglia d’oro del Congresso è conferita dal presidente al Sergente J. Basilone per speciali atti di valore, in «Il Progresso Italo-Americano», New York, 24 giugno 1943. 22. Intervista degli autori a Mary Jo Bona, figlia di Vincent John Bona, 27 settembre 2019. 23. Daniel J. Petruzzi, My War Against the Land of My Ancestors, Irving, Fusion Press, 2000, p. 18; Guido Rossi, Italian Fellas in Olive Drab: Exploring the Experiences of

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militari provenienti da tutti gli Stati Uniti e si avvertisse la pressione a esprimere a pieno la propria “americanità”, situazione che lo portò persino a perdere la capacità di parlare il dialetto romagnolo.24 Furono in effetti poche nelle Little Italies le voci di veterani dissenzienti rispetto alla retorica patriottica dominante e che si espressero contro la guerra e il militarismo.25 Emblematiche in tal senso le parole di Fred Gardaphe, figlio del reduce Fred W., che ricorda come prima di imbattersi nello scrittore di origine italiana e di simpatie comuniste Pietro Di Donato, autore del capolavoro Cristo fra i muratori, non avesse mai incontrato nessuno che fosse stato contrario alla guerra americana.26 In altri paesi alleati il patriottismo non fu invece sempre dato per scontato. In Gran Bretagna le autorità militari espressero dubbi rispetto alla lealtà e alle capacità militari degli italobritannici, cosa che minò le certezze di vari italoscozzesi, i quali – secondo Wendy Ugolini – raramente parlarono la “lingua del patriottismo” filo-britannico, sviluppando piuttosto delle identità ambivalenti e fra esse talvolta conflittuali.27 A parere di Nicole Townsend, molti italoaustraliani servirono in guerra per fare il proprio dovere, per riscattare l’immagine dell’italiano macchiata dall’internamento, ma anche perché proprio dalla detenzione si poteva essere rilasciati in cambio dell’arruolamento. È il caso di Vittorio Zavattaro, che era stato arrestato sulla base di presunti legami con i fascisti e che venne messo in libertà a patto che si unisse all’esercito americano o australiano; in risposta al trattamento riservatogli dagli australiani Zavattaro scelse gli americani.28 Originario di Vasto ed emigrato in Australia nel 1937 con la famiglia, Peter Ciccotosto disertò invece la chiamata alle armi perché non voleva prendere parte a una guerra che non sentiva proItalian-American Servicemen in Sicily and Italy, 1943-1945, Master’s theses, University of Southern Mississippi, 2017, pp. 59-60. 24. Intervista degli autori a Blair Bertaccini, figlio di Lincoln, 25 marzo 2019. 25. Library of Congress, American Folklife Center, Washington D.C., interviste a Francesco Gozzo e Frank J. Lisuzzo. 26. Intervista degli autori a Fred Gardaphe, figlio di Fred W. Gardaphe, 29 giugno 2017. 27. Ugolini, Experiencing, pp. 176, 178-179, 181, 185. 28. Nicole Townsend, Identity at War: Race, Identity and Belonging in the Italian-Australian Community During World War II, Bachelor of Arts (Honours) Degree, Monash University, 2016, pp. 6, 44, 47-49; J. Gatt-Rutter, You’re on the list! Writing the list! Writing the Australian Italian experience of wartime internment, in «Fulgor», 3 (2008), pp. 46-56.

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pria. Venne arrestato e poi rilasciato, ma fu costretto a fare da interprete per i prigionieri di guerra italiani catturati in Africa e in Europa.29 Combattere nella terra dei padri: apprensioni, lealtà, patriottismo Tra le file dei contingenti alleati che tra il 1943 e il 1945 parteciparono alla Campagna d’Italia vi fu anche un’ampia rappresentanza di soldati d’origine italiana, italoamericani soprattutto. Per questi combattenti “etnici” prestare servizio nella terra d’origine da cui i propri padri – e più raramente loro stessi – erano emigrati alla volta dell’America costituì un’esperienza che di rado li lasciò indifferenti e che anzi fu in grado di coinvolgerli sul piano emotivo, culturale e psicologico, suscitando in loro impressioni e sentimenti accesi, per quanto dal significato variabile.30 Anche se la maggior parte di essi era nata e cresciuta negli Stati Uniti e del Paese non aveva conoscenza diretta, l’Italia non costituiva però una terra del tutto “straniera”. Fattori di consanguineità, di prossimità linguistica, di affinità culturale e religiosa costituivano elementi che almeno potenzialmente rendevano loro più familiare la penisola e gli italiani. Certo, non tutti questi combattenti etnici, in forza del proprio retaggio, si trovarono in Italia pienamente a loro agio – «come pesci nell’acqua»,31 per usare un’espressione di Ernie Pyle – ma è pur vero che la presenza di un comune sostrato, etnico o linguistico, e di legami parentali resero la loro permanenza nella penisola più interessante, facilitando altresì l’instaurarsi di una più stretta e reciproca vicinanza con la popolazione italiana. Come diremmo, infatti, il background etnico del personale militare italoamericano ebbe un ruolo rilevante nel quadro della conduzione militare della Campagna d’Italia e poi dell’occupazione alleata della penisola. Tuttavia, se questo retroterra spesso si rivelò una risorsa utile da 29. Emma Ciccotosto, Michal Bosworth, Emma: A Translated Life, Fremantle, Fremantle Arts Centre Press, 1990, pp. 48-49, 52, 68-69. 30. Matteo Pretelli, Francesco Fusi, Fighting alongside the Allies in Italy: The War of Soldiers of Italian descent against the Land of their Ancestors, in Italy and the Second World War. Alternative Perspectives, a cura di Emanuele Sica e Richard Carrier, Leiden-Boston, Brill, 2018, pp. 299-324; Rossi, Italian Fellas in Olive Drab, pp. 105-143. 31. «A lot of our Italian-American soldiers took to the land of their fathers like ducks to water, but not all of them», cfr. Ernie Pyle, Brave Men, Lincoln-London, University of Nebraska Press, 2001, p. 127.

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impiegare sul campo, al contempo poté rappresentare anche un ostacolo. Per alcuni soldati, infatti, l’eventualità di esser inviati a combattere in Italia poteva risultare problematica. La prospettiva di imbracciare le armi contro gli italiani lo era sicuramente, se si considera che non era raro avere un parente, un cugino o persino un fratello arruolato nell’esercito italiano o, dopo il settembre 1943, nelle forze armate della Repubblica sociale italiana.32 Non per nulla, all’atto della loro coscrizione, le forze armate americane indagavano sulla situazione familiare delle reclute di origine italiana per accertarsi se esse fossero disposte a combattere in Italia e quindi leali ed affidabili. Almeno per gli italoamericani ancora privi di cittadinanza il fatto di avere parenti in Italia spinse talvolta le autorità militari a ritenerli non idonei per il servizio attivo nella penisola, trattenendoli sul fronte domestico o assoggettandoli a restrizioni operative, come accadde ad esempio ad Arthur Bruno, arruolato nell’esercito statunitense nel 1942 e poi selezionato dall’Office of Strategic Service (OSS).33 Vi era poi da considerare il pericolo a cui le loro origini italiane li avrebbero esposti in caso di cattura da parte delle forze armate fasciste, considerato che essi potevano essere visti come dei traditori della patria e perciò fatti oggetto di vendetta, come accadde ad esempio in Sicilia agli italoamericani Phil Rocco e Michael Scambelluri.34 Il timore di rappresaglie in caso di cattura era ugualmente avvertito peraltro anche dai soldati italobritannici e italocanadesi e dai loro familiari.35 Per evitare 32. Soldati italiani fatti prigionieri dai loro congiunti che si trovano con le truppe americane in Italia, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 25 ottobre 1945. 33. Nato nel 1922 in provincia di Lamezia Terme ed emigrato nel 1935 negli Stati Uniti, dove il padre aveva ottenuto la naturalizzazione, poiché non possedeva ancora la cittadinanza statunitense e aveva in Italia parenti stretti, tra i quali la madre, la sua lealtà fu messa in dubbio e quindi giudicato adatto solo per il «Limited Duty Overseas», cfr. National Archives and Records Administration II, College Park, Maryland (d’ora in poi NARA II), RG 226, Entry 224, OSS Personnel Files, box 89, folder “Bruno, Arthur”, Security Office, Investigation Report, 18 giugno 1943. 34. Felice Domenick Rocco, The accounts of his capture and escape during WWII, pp. 12-13, https://it.scribd.com/document/390775647/Rocco-Felice-D-Alias-Vacca-Redactedand-Deleted-2-UPLOAD?secret_password=k6WAB2ondHr6k8226DIL (ultima consultazione 15 aprile 2022); Avagliano, Palmieri, Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile, Bologna, il Mulino, 2021, p. 38. 35. Il soldato italocanadese Monaco, che in Italia aveva ancora familiari oltre a due fratelli arruolati nelle forze armate italiane, si dichiarò preoccupato di combattervi temendo possibili rappresaglie nei confronti dei propri cari «if it become known that he is a soldier on the Canadian Army, and therefore fighting against his own country», cfr. Library and

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simili rischi e dilemmi, alcuni preferirono rimpatriare in Italia poco prima dello scoppio delle ostilità (ma si trattò di pochi casi, in definitiva) mentre, stando a una diffusa credenza, la gran parte degli italoamericani, potendo scegliere, avrebbe cercato di arruolarsi volontaria nella Navy o con i Marines con la convinzione così di essere più probabilmente inviata a combattere nel Pacifico anziché in Italia.36 Per la verità, la gran parte dei combattenti italoamericani, nati e cresciuti negli Stati Uniti, dimostrarono un’adesione incondizionata alla missione bellica americana, senza sollevare atteggiamenti critici neppure di fronte alla prospettiva di affrontare gli italiani, che invece preoccupava più spesso i loro genitori. Il ventitreenne di Brooklyn Agostino J. Sorrentino, ad esempio, non sopportando più l’idea che l’Italia fosse alleata della Germania, si arruolò volontario nell’esercito americano senza render conto alla famiglia, provocando così lo sgomento della madre quando seppe che il figlio era stato mandato a battersi contro gli italiani in Nord Africa.37 Ma anche per chi, nato in Italia, era successivamente emigrato in America, la prospettiva di tornare nella terra d’origine a combattere contro i propri ex connazionali poteva non destare particolari problemi.38 Neppure la prospettiva di condurre in Italia una «guerra totale» sembrò turbare alcuni di loro. Il tenente Ettore Bolzoni, nato nel Connecticut da padre fiorentino, nell’agosto 1943 si dimostrò pronto a bombardare Roma, convinto che non ci fosse «alcuna differenza tra gli italiani e qualsiasi altra nazione che ci combatte».39 Come lui, altri aviatori italoamericani parteciparono, dolenti ma senza obiettare, ai raid condotti sulle città italiane e persino sui paesi natali dei genitori, come capitò ad esempio al sergente Peter Archives of Canada, Ottawa, Record Group 24, C-2, vol. 12308, File/Dossier 4/Aliens/1/2, A. 59581 Tpr Monaco, M.M., 23 maggio 1943; per il caso degli italobritannici, cfr. Ugolini, Experiencing, p. 187. 36. Stefano Luconi, Reazioni negli Stati Uniti al crollo del fascismo: le comunità italoamericane, in Le relazioni interne ed internazionali al crollo del regime fascista in Italia, 25 luglio 1943, a cura di Michele Abbate e Robert Mallet, Cantalupo in Sabina, Edizioni Sabinae, 2010, pp. 91-92; Gary R. Mormino, It’s Not Personal, It’s Professional: Italian Americans and World War II, in The Impact of World War II on Italian Americans, 1935-present, a cura di Id., New York, AIHA, 2007, p. 14; Stefano Luconi, Contested Loyalties: World War II and Italian-American’s Ethnic Identities, in «Italian Americana», 30 (2012), pp. 151-167. 37. Molti militari e marinai americani d’origine italiana, nelle liste dei prigionieri internati dall’Asse, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 14 maggio 1943. 38. Si veda il caso di Joseph Compagnone in Pyle, Brave Men, p. 69. 39. John Hersey, The Mission of Ector Bolzoni, in «Time», 2 agosto 1943.

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Monaco,40 mentre un altro italoamericano, Frank Bartolomei, trovatosi nella stessa posizione chiese, senza successo, d’essere esentato.41 Etnicità: una risorsa utile Anziché un freno, il retaggio etnico dei soldati di origine italiana costituì spesso una risorsa utile alla conduzione della guerra alleata in Italia. Soprattutto le loro competenze linguistiche vennero adeguatamente apprezzate dai rispettivi comandi. Per le truppe alleate inviate in Italia la necessità di comunicare con le popolazioni locali poteva avere ampie ricadute positive sulla conduzione del conflitto e il controllo del territorio. Ciò era vero soprattutto per i servizi di intelligence. Lo statunitense Office of Strategic Service, in particolare, reclutò alcune centinaia di agenti italoamericani, assoldati sulla base del loro background etnico e della loro conoscenza della lingua italiana o anche solo di qualche dialetto regionale.42 L’italoamericano Humbert Alessi, ad esempio, grazie alla conoscenza di ben cinque dialetti venne ritenuto prezioso per il fronte della penisola, mentre Larry Bruzzese, per le sue capacità linguistiche affinate negli studi superiori, divenne uno dei migliori traduttori per l’OSS di tutto il teatro mediterraneo.43 La conoscenza del dialetto o quella del territorio, in genere, potevano risultare assai utili agli agenti infiltrati dietro le linee nemiche. Anthony Camboni di Chicago e John De Montis di Detroit, ad esempio, nel luglio 1943 furono posti a capo di una missione di infiltrazione dell’OSS in Sardegna, regione nella quale erano entrambi nati e di cui conoscevano bene 40. Piloti americani dolenti di gettare bombe sull’Italia, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 10 ottobre 1943; Per compiere il suo dovere il serg. Monaco bombarda il paese dei genitori, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 3 marzo 1944. 41. Daniele Amicarella, Sulla linea del fuoco. Storie di partigiani, soldati e gente comune sulla Linea Gotica Pistoiese 1943-44, Milano, Mursia, 2009, pp. 166-167. 42. Max Corvo, La Campagna d’Italia dei servizi segreti americani, Gorizia, LEG, 2006; Salvatore LaGumina, Office of Strategic Services and Italian Americans. The Untold History, Londra, Palgrave Macmillan, 2016; Matteo Pretelli, Francesco Fusi, Speak Italian! La lingua dei soldati italoamericani nella Seconda Guerra Mondiale, in Guerre, conflitti e crisi. Confinamenti e contaminazioni al fronte delle culture globali, a cura di Gigliola Nocera, Lugano-Sarzana, Agorà & Co., 2020, pp. 33-47. 43. NARA II, RG 226, Entry 224, OSS Personnel Files, box 8, folder “Alessi, Humbert”, Area F, Interviewer’s Report, 19 giugno 1944; ivi, box 89, folder “Bruzzese, Larry”, Theater Service Record, 28 maggio 1945.

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il dialetto.44 Allo stesso modo, Aldo Icardi, agente italoamericano nativo di Pittsburgh impiegato in missione dietro le linee nemiche tra Piemonte e Lombardia, oltre ad avere familiarità col dialetto piemontese ereditato dai genitori, aveva compiuto almeno due viaggi in quelle stesse regioni prima della guerra.45 Per tali ragioni, non di rado, le missioni dell’OSS vennero composte in gran numero da agenti italoamericani. Ad esempio, il 5th Army Detachment dell’OSS impiegato in Italia nel coordinamento delle operazioni d’intelligence sulla Linea Gotica e diretto dal tenente Vincent Abrignani fu costituito quasi integralmente da personale italoamericano.46 Il retaggio etnico e le abilità linguistiche del personale italoamericano furono valorizzati non solo sul piano militare, ma anche su quello amministrativo nella fase dell’occupazione angloamericana della penisola. Nel caso statunitense, soprattutto, la condivisione tra occupanti e occupati di un comune background etnico culturale, si pensava, avrebbe potuto facilitare l’instaurarsi di una particolare empatia tra popolazione italiana e autorità alleate in grado di cementare i rapporti tra i rispettivi paesi e facilitare la creazione di un consenso circa la missione “civilizzatrice” statunitense. Una missione, come noto, incarnata nella figura del maggiore italoamericano Victor Joppolo, il benevolo governatore alleato della fittizia cittadina siciliana di Adano protagonista del romanzo del 1944 di John Hersey ispirato alla figura reale di Eugene Toscani, Civil Affairs Officer di Licata.47 Le due figure più significative in tal senso furono quella di Charles Poletti, nominato Senior Civil Affair Officer dell’Allied Military Government di Palermo e poi della Sicilia e quindi governatore militare 44. LaGumina, Office of Strategic Services, pp. 89-90; Albert Lulushi, Donovan’s Devils: OSS Commandos Behind Enemy Lines – Europe, World War II, New York, Arcade Publ., 2016, p. 93; Carla Cossu, L’estate delle spie. I Servizi Segreti americani in Sardegna nel 1943, Cagliari, Condaghes, 2020, p. 64. 45. NARA II, RG 226, Entry 224, OSS Personnel Files, box 362, folder “Icardi, Aldo I.”, Interviewer’s Report on Candidate, 31 luglio 1943; Aldo Icardi, American Master Spy, New York, University Books, 1956. 46. Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana. Documenti anglo-americani, a cura di Roger Absalom, II, Firenze, Olschki, 2001, p. 448; Giorgio Petracchi, Al tempo che Berta filava. Una storia italiana 1943-1948, Milano, Mursia, 2010, p. 268. 47. John Hersey, Una campana per Adano, Roma, Castelvecchi, 2013 [ed. or. A Bell for Adano, New York, Knopf, 1944]. Sulla fortuna della figura di Joppolo rispetto alla definizione delle successive politiche americane di occupazione, cfr. Susan L. Carruthers, The Good Occupation: American Soldiers and the Hazards of Peace, Cambridge, Harvard University Press, 2016, pp. 36-39.

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alleato a Napoli, Roma e Milano, e di Michael Musmanno, governatore alleato di Salerno e poi Bari. Nati entrambi negli Stati Uniti da genitori emigrati dall’Italia, diretti conoscitori del paese e della lingua, sia Poletti (un politico) che Musmanno (un giurista) nell’applicare le politiche di occupazione alleate fecero appello in più occasioni alle loro origini etniche,48 tenendo nei riguardi degli italiani un atteggiamento favorevole orientato dalla convinzione che essi rappresentassero un popolo vocato alla libertà e alla democrazia che, in quanto vittima del progetto autoritario e aggressivo del fascismo, meritava di essere risollevato.49 La loro impostazione, in realtà, non fu esente da alcune ambiguità e un certo paternalismo che ritroviamo peraltro anche in altre figure di amministratori. William Lessa, ad esempio, un ufficiale italoamericano dell’AMG che con la sua conoscenza dell’italiano e il sapiente dosaggio di fermezza e comprensione riuscì a farsi ben volere dai suoi amministrati, non nascose però il fatto che a suo parere «that newly liberated Italians who had just emerged from years of fascism had little idea of a true democracy».50 Tuttavia, l’empatia che legò queste figure agli italiani, nei quali entro certi limiti esse si rispecchiavano, fu spesso sincera e, almeno nel caso di Musmanno, tale da costargli feroci critiche da parte delle autorità britanniche ma anche da quelle statunitensi, che valutarono persino di sollevarlo dall’incarico.51 Legami identitari, parentele: il rapporto con la popolazione. Il comune retaggio etnico e culturale condiviso dal personale amministrativo e militare alleato d’origine italiana, da un lato, e dalla popolazione italiana, dall’altro, in genere facilitò l’instaurarsi di rapporti positivi, che 48. In tal senso, per Poletti, cfr. L’Amgot in Sicilia e l’opera del tenente colonnello Poletti, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 1° agosto 1943; Fiorenza Fiorentino, La Roma di Charles Poletti, giugno 1944-aprile 1945, Roma, Bonacci, 1986, pp. 45-46; Kimber M. Quinney, “Less Poletti and More Spaghetti”: Charles Poletti and the Clash of Cultures and Priorities within the AMG, in «Occupied Italy 1943-1947», 1 (2021), pp. 79-99. 49. In quest’ultimo senso cfr. soprattutto Michael Musmanno, La guerra non l’ho voluta io, Firenze, Vallecchi, 1947, pp. 10-11 e passim. 50. William A. Lessa, Spearhead Governatore. Remembrances of the Campaign in Italy, Malibù, Undena Publications, 1985, p. 142. 51. Musmanno, La guerra non l’ho voluta io, pp. 141-154; David W. Ellwood, L’alleato nemico. la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 251.

I combattenti alleati di origine italiana

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spesso spinsero entrambi a solidarizzare, anche se permasero lo stesso diffidenze e pregiudizi. Gli italiani sovente videro nei liberatori alleati d’origine italiana dei loro pari, quasi dei “paesani”, e questo talvolta sollevò un certo risentimento da parte di questi ultimi che, benché solidali, non sempre furono disposti a scendere troppo in confidenza.52 Anche i rapporti di genere e lo stringersi di relazioni sentimentali risultarono spesso facilitati dal comune background etnico, sebbene non sempre costumi e usanze si rivelarono consonanti. Il sergente italoamericano Joseph Cuoco, nato nel 1917 nel New Jersey da genitori siciliani e impegnato in Nord Italia con la 10° Brigata di Montagna, volendo invitare a uscire alcune ragazze del luogo dovette scontrarsi ad esempio con le regole convenzionali italiane che vietavano la frequentazione tra ragazzi e ragazze senza la supervisione di un adulto, fatto che lo lasciò del tutto perplesso: «I thought this was a modern world», constatò icastico.53 Di converso, il citato Lessa, dopo aver ripreso la sua giovane interprete italiana per aver indossato un abbigliamento a suo dire troppo succinto, incassò le lodi della madre della ragazza che lo giudicò «surelly a person of fine character».54 Ad ogni modo, le affinità linguistiche, culturali e anche religiose spesso agirono come elementi in grado di facilitare lo stabilirsi tra soldati italoamericani e ragazze italiane di relazioni sentimentali e così anche di unioni matrimoniali, come nel caso della livornese Marisa Petrucci e del soldato di Detroit, ma d’origini abruzzesi, Gino Piccirilli, o in quello dell’agente dell’OSS Paul J. Paterni, nato in Michigan da padre lucchese, con la fiorentina Rossana Valobra.55 La permanenza dei soldati d’origine italiana sul fronte italiano e soprattutto l’opportunità, al di fuori dei combattimenti, di visitare il paese, le principali città d’arte e i siti d’interesse storico architettonico si rivelarono inoltre per molti di loro esperienze in grado di influire sulla loro identità, 52. Petruzzi, My War, p. 109. 53. Echoes from the Mountain. The Wartime Correspondence of Staff Sergeant Joseph Cuoco, Baltimore, PublischAmerica, 2008, p. 348. 54. Lessa, Spearhead Governatore, p. 145. 55. Silvia Cassamagnaghi, Operazione spose di Guerra. Storie d’amore e di emigrazione, Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 34-44; Maria Porzio, Arrivano gli Alleati. Amori e violenze nell’Italia liberata, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 145-146; Mario Varricchio, Il sogno e le radici: nostalgia e legami transnazionali delle spose di guerra italiane, in Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Stefano Luconi e Mario Varricchio, Torino, Academia University Press, 2015, p. 146; su Paterni e Valobra, cfr. Voci di Libertà. i combattenti alleati di origini italiana nella Seconda guerra mondiale, a cura di Matteo Pretelli e Francesco Fusi, Trieste, EUT, 2022, pp. 166-167.

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Francesco Fusi, Matteo Pretelli

permettendo di rinsaldare oppure di riappropriarsi dei residui del proprio retaggio italiano o anche di scoprirlo per la prima volta. Un particolare significato in tal senso svolsero le visite compiute da questi combattenti etnici nei paesi nativi dei propri genitori. Ciò fornì l’occasione per riannodare i contatti parentali o i legami comunitari tra paese d’origine e comunità italiane all’estero il cui flusso lo scoppio della guerra aveva allentato o reciso. L’incontro con i parenti, con il loro ambiente familiare e con i luoghi più rappresentativi della comunità di provenienza, soprattutto per quei combattenti d’origine italiana di seconda generazione nati all’estero che non vi erano mai stati, costituì una sorta di rito di passaggio col quale riappropriarsi del proprio retaggio etnico-familiare.56 La visita ai paesi d’origine fu giudicata molto spesso da questi combattenti italoamericani un’esperienza positiva, che nel quadro della Campagna d’Italia fece sentire molti di loro meno soli e in qualche modo più vicini alle proprie case.57 Queste occasioni valsero anche a reinserire i giovani soldati nella cerchia dei consanguinei, in alcuni casi creando tramite fidanzamenti con ragazze del luogo nuovi legami, garanzia di un rapporto più duraturo tra paese d’origine e d’emigrazione.58 Molti di loro, infatti, a guerra finita, sarebbero tornati di nuovo a visitare le comunità d’origine continuando a mantenere vivi i legami di sangue e il loro retaggio culturale.

56. Francesco Fusi, Le visits home dei soldati italo-americani durante la Campagna d’Italia (1943-1945). Tra turismo di guerra, homecoming e diaspora tourism, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 36 (2018); Pretelli, Fusi, Fighting Alongside the Allies in Italy, pp. 315-316. 57. Il sergente Zarillo visita i nonni paterni e materni nella Basilicata, in «Il Progresso Italo-Americano», 3 luglio 1944. 58. Il Soldato Falletta descrive ai genitori una visita al loro Paese, dove s’è fidanzato, in «Il Progresso Italo-Americano» (New York), 10 aprile 1944.

Indice dei nomi*

Abbate, Michele, 147n Abelow Rosa, 96, 97 e n, 124, 125, 97n Abrignani, Vincent, 149 Absalom, Roger, 149n Addis Saba, Marina, 49n Agosti, Aldo, 121n, 122n Agosti, Giorgio, 129 Alba, Richard, 142n Alessi, Humbert, 148 e n Alfassio Grimaldi, Ugoberto, 117n Aliberti, Giovanni, 17n Allorant, Pierre, 123n Amendola, Giorgio, 16, 122 e n, 124 e n, 125 e n, 131, 133n Amicarella, Daniele, 148n Amicucci, Ermanno, 51 Antonelli, Quinto, 110 e n Aragno, Nino, 132n Araya Takashi, 72n Avagliano, Mario, 102n, 113 e n, 114116, 146n Baldassaro, Lawrence, 141n Bandini, Franco, 117n Baris, Tommaso, 12, 38 Barr, Niall, 112 e n Bartali, Gino, 76 Bartolomei, Frank, 148 *A cura di Giada Kogovsek.

Basilone, John, 143 Bassi, Gabriele, 113n Bechelloni, Antonio, 16, 123n, 125n, 140n Bedeschi, Giulio, 108 e n, 114 Belmonte, Peter L., 142 e n Belotti, L., 70n Benedetto XV, papa, 80 Bersani, A., 139n Bertaccini, Blair, 144n Bertaccini, Lincoln, 143, Berti, Giuseppe, 122, 131 Bertoldi, Silvio, 117n Bevilacqua, Alberto, 141n Bidussa, David, 132n Black, Peter, 95n Bloch, Marc, 130 e n Blum, Léon, 123 e n Bocchini, Arturo, 38, 84, 92 Bologna, Vincent John (Bona), 143 e n Bolzoni, Ettore, 147 Bona, Mary Jo, 143 e n Bonelli, Gianluigi, 76 Bosio, Luigi, padre, 69-70 Bosworth, Michal, 145n Bottai, Giuseppe, 46 e n, 71n, 103n, 125 Bozzetti, Gherardo, 117n

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1940. Il fascismo sceglie la guerra

Brucculeri, Angelo, 70, 71n Bruno Guerri, Giordano, 103n Bruno, Arthur, 146 e n Bruscino, Thomas, 139 e n Bruzzese, Larry, 148 e n Buffarini Guidi, Guido, 92 Buozzi, Bruno, 131 Cadioli, Beniamino, 107n Caesar, Kurt (Kurt Kaiser), 76 Caffi, Andrea 133 e n Calamandrei, Piero, 127n, 129 e n, 134135 Caliò, Tommaso, 63n, 64n Calosso, Umberto, 131 Calvino, Italo, 134n Camboni, Anthony, 148 Camurri, Renato, 133n Camus, Albert, 133n Canali, Mauro, 109n Cannistraro, Philip V., 104n Capoferri, Pietro, 18 Capogreco, Carlo Spartaco, 92n, 93n, 94n Caponi, Matteo, 63n, 64n Carrier, Richard, 111 e n, 112 e n, 145n Carruthers, Susan L., 149n Casali, Luciano, 104n Cassamagnaghi, Silvia, 151n Castagnez, Noëlline, 123n Castelli, Giuseppe, 52n Caterina, santa, 62, 63, 80 Cattabiani, Alfredo, 69n Cavallero, Ugo, 56n Cavallo, Pietro, 106n Ceccarelli De Grada, Magda, 126 e n, 134n Cecchi, Aldo, 107n Ceci, Lucia, 14, 61n, 72n Cegna, Annalisa, 93n Cesarini, Paolo, 52n

Ceva, Bianca, 106n Ceva, Lucio, 106n Chiaromonte, Miriam, 132n Chiaromonte, Nicola, 131, 132 e n, 133 en Choumette, Liliane, 133n Cianca, Alberto, 131 Cianetti Tullio, 40 e n Ciano, Galeazzo, 66 e n, 103n Ciccotosto, Emma, 145n Ciccotosto, Peter, 144 Cobben, Willem, 70 Colarizi, Simona, 40n, 86n, 107 e n, 116 Colesanti, Mario, 29 Colli, Evasio, 73 e n Collotti, Enzo, 107n Colombo, Carlo, 71 e n Compagnone, Joseph, 147n Connell, William L., 141n Conti, Giuseppe, 109n Corner, Paul, 33n, 36n, 45n, 72n, 85n, 101n, 105n Corvo, Max, 148n Cossu, Carla, 149n Covello, Leonard, 142 e n Craveri, Sebastiano, 76 Cuoco, Joseph, 151 Curiel, Eugenio, 58 Daladier, Èdouard, 121, 134 Daurio, Philip Joseph, 137 e n De Felice, Renzo, 11, 14 e n, 17 e n, 18n, 21n, 26, 27n, 28 e n, 31 e n, 38e n, 40n, 45 e n, 66n, 71n, 98n, 103n, 107, 108 e n, 124 e n, 125 De Gaulle, Charles, 126 De Giuseppe, Massimo, 72n De Grada, Raffaele, 126 De Grada, Raffaellino, 126 De Grazia, Victoria, 104n

Indice dei nomi

De Luca, Giuseppe, don, 71 e n De Maistre, Joseph, 69 e n De Montis, John, 148 De Prospo, Mario, 109n De’ Rossi dell’Arno, Giulio, 72 e n, 79 en Del Giudice, Davide, 140n Del Vento, Christian, 125n Denari, Edward J., 142, 143n Deschamps Bénédicte, 123n Di Cicco, Attilio, 23 Di Donato, Pietro, 144 Di Nucci, Loreto, 21n, 22n Di Santo, Giuseppe, 40n Di Vittorio, Giuseppe, 131 DiMaggio, Joe, 141 e n Dini, Sergio, 109n Disma (don Giuseppe De Luca), 71n Donini, Ambrogio, 122, 131 Donohue, Harold D., 139 Dozza, Giuseppe, 131 Duranti, Simone, 13, 48n, 57n Ehrenburg, Ilya, 121 Elkner, Cate, 138n Ellwood, David W., 150n Einstein, Maria, 94n Ercole Ercoli, vedi Togliatti, Palmiro Farinacci, Roberto, 53n, 99 Farnedi, Giustino, 71n Fennel, Jonathan, 112 e n Fernandez, Dominique, 133n Fernandez, Ramon, 133n Ferrari, Paolino, 43n, 46n Ferris, Kate, 33n Fiorentino, Fiorenza, 150n Fitzpatrick, Sheila, 33n Formigoni, Guido, 72n Fortini, Franco, 57n Foscolo, Ugo, 135n

155

Francesco, santo, 62-65, 80 Franco, Francisco, 120 Franzinelli, Mimmo, 90n 109n Frontani, Michael, 143n Fusi, Francesco, 16, 145n, 148n, 151n, 152n Gaddi, Giuseppe, 131 Galbraith, John Kenneth, 36n Galdino, frà, 74 e n Galgani, Gemma, santa, 68 Galimi, Valeria, 15, 86n, 94n, 95n Gambacorta, Carino, 60n Gambarin, Giovanni, 135n Gardaphe, Fred, 144 e n Gardaphe, Fred W., 144 e n Garofalo, Miguel, 140 e n Garosci, Aldo, 131 Gatt-Rutter, John, 144n Garzia, Italo, 61n Gasparini, Giulio, 56n Gazzotti, Pietro, 19 Gedda, Luigi, 73, 74n Gemelli, Agostino, 14, 64, 65 e n, 66 e n, 69n, 70 e n, 71, 80 Gentile, Emilio, 18n, 19n, 25n Germino, Dante Lee, 29n Gerosa, Guido, 135n Giani, Niccolò, 48n, 50 e n, 52n, 59 Giannasi, Andrea, 140n Giannuli, Aldo, 110 e n Gibelli, Antonio, 102n Giovanni XXIII, papa, 71n Giusti, Giuseppe, 129n Giusti, Maria Teresa, 110 e n Gobetti, Paolo, 130n Goebbels, Joseph, 128 Gooch, John, 111 Gozzo, Francesco, 144n Grandi, Dino, 103n Gravelli, Asvero, 22, 23 e n

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1940. Il fascismo sceglie la guerra

Gribaudi, Gabriella, 114 e n Grieco, Ruggero, 131 Henry, Alexander, 102n, 109 e n Hersey, John, 147n, 149 e n Hitler, Adolf, 9, 11, 13, 36, 44, 70, 72, 91, 99, 107, 112, 119, 120, 126 e n, 128 Icardi, Aldo, 149 e n Ilari, Virgilio, 105n Isnenghi, Mario, 102n, 107 e n, 127n Iuso, Pasquale, 110 e n Ivanovich Filonenko, Sergej, 110n Jacovitti, Benito Franco, 76 Joppolo, Victor, 149 e n Kertzer, David I., 61n Klinkhammer, Lutz, 114n Knox, MacGregor, 111, 112 e n La Pira, Giorgio, 75 e n, 76n La Rovere, Luca, 48n Labanca, Nicola, 15, 103n, 113n LaGumina, Salvatore J., 139, 142 e n, 148n, 149n Lajolo, Davide, 49n, 55 e n Lepre, Aurelio, 106n, 107n Lessa, William A., 150 e n, 151 e n Leto, Guido, 131 Levi, Mario, 133 e n Lisuzzo, Frank J., 144n Longo, Luigi, 103n, 131 Luconi, Stefano, 147n, 151n Lulushi, Albert, 149n Lussu, Emilio, 131 Lussu, Joyce, 130n Luzzatto, Sergio, 104n Maestri, Delmo, 55n

Maglione, Luigi, cardinale e segretario di Stato, 66 Maida, Bruno, 104n Maletti, Pietro, 50n Malgeri, Francesco, 72n, 80n Malraux, André, 132 Mallet, Robert, 147n Mangoni, Luisa, 125 e n Marcellino, Nella, 135 Marchesi, Concetto, 133 Marsh, Bacchus, 138n Martinelli, Renzo, 17n, 41n, 42n, 45n Masina, Filippo, 113n Mason, Tim, 36 e n Massola, Umberto, 124 e n Mattesini, Francesco, 109n Mazzolari, Primo, don, 71, 72n, 75 e n Meda Juri, 76n Melograni, Piero, 107n, 124n Menestrina, Giovanni, 69n Menozzi, Daniele, 61n, 63n, 65n, 69n Mezzasoma Fernando, 50 e n, 52n, 54 en Miccoli, Giovanni, 61n, 62n, 69n Micheletti, Bruna, 105n Micheletti, Luigi, 105n Millet, Allan R., 111n Milone, Fabio, 26 e n Mira, Giovanni, 104n Modigliani, Giuseppe Emilio, 131 Molinari, Renato, 57, 58 e n, 59 e n, 60 en Monaco, Peter, 146n, 148 Mondini, Marco, 85n Monroe, Marylin, 141 Montagnana, Mario, 131 Moore, Jack B., 141n Morandi, Rodolfo, 124n Mori, Riccardo, 140n Mormino, Gary R., 147n Moro, Renato, 61n, 71n, 73n, 75n

Indice dei nomi

Musmanno, Michael, 150 e n Mussolini, Arnaldo, 50 Mussolini, Benito, 9, 11, 14-16, 19, 2122, 24, 27-28, 30 e n, 31, 34, 37, 41, 43-44, 46, 48n, 51, 53n, 5859, 62, 65, 69-76, 83, 85, 99, 107, 120, 129, 133, 137-138 Muti, Ettore, 18, 21 e n, 40, 51 Negarville, Celeste, 121n, 122n, 123, 131 Neitzel, Sönke, 109 Nenni, Pietro, 16, 122, 131 Neri Serneri, Simone, 61n Nidam Orvieto, Iael, 84n Nitti, Francesco Saverio, 131 Nocera, Gigliola, 148n Nuvolari, Tazio, 76 Ortalli, Vittorino, 25 Orsi, Robert A., 141n Osti Guerrazzi, Amedeo, 90n, 109 e n, 114n Pacciardi, Randolfo, 131 Pacelli, Eugenio Maria Giuseppe, vedi Pio XII Pacetti, Massimo, 73n Palazzeschi, Aldo, 129 e n Pallotta Guido, 50 e n, 51, 52n, 55 e n Palmieri, Marco, 102n, 113 e n, 114116, 146n Pancrazi, Pietro, 129 e n Paolo VI, papa, 77n Papa, Catia, 55n Papini, Giovanni, 73 e n Papini, Massimo, 73n Pardini, Giuseppe, 109n Pascolato, Michele, 19 Pasqualini, Maria Gabriella, 109n Paterni, Paul J., 151 e n

157

Pavolini, Alessandro, 125 Pavone, Claudio, 49n Pellegrino, Francesco, padre, 65 Pelletier, Maria, 68 Pellizzi, Camillo, 20 e n Pera, Lorenzo, 110 e n Pereira, Mario, 140n Perin, Raffaella, 62n, 65n Peschanski, Denis, 132n Pétain, Henri-Philippe-Omer, 126, 133n Petracchi, Giorgio, 149n Petrucci, Marisa, 151 Petruzzi, Daniel J., 143n, 151n Piccioni, Lidia, 29n Picciotto, Liliana, 98n Piccirilli, Gino, 151 Pieri, Piero, 103n, 106n Pini, Giorgio, 53n Pintor, Giaime, 125n Pio XI, papa, 63 Pio XII, papa, 61-63, 65-66, 69, 80-82 Piola, Silvio, 76 Pispoli Amerigo, 20 Piva, Francesco, 74n, 75n Pizzuti, Anna, 94n, 96n Poggio, Pier Paolo, 105n Poletti, Charles, 149, 150 e n Porzio, Maria, 151n Pretelli, Matteo, 16, 138n, 145n, 148n, 151n, 152n Procacci, Giovanna, 102n Prost, Antoine, 123n Pugliese, Stanislao G., 141n Pyle, Ernie, 145 e n, 147n Quinney, Kimber M., 150n Raggam-Blesch, Michaela, 95n Rainero, Romain H., 104n Rancon, Cathérine, 132n Rapalino, Patrizio, 109n

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1940. Il fascismo sceglie la guerra

Revelli, Nuto, 57 e n, 106 e n, 110 e n Ricci, Berto, 55 e n Riotta, Gianni, 109n Rizzi, Loris, 107n Robotti, Filippo, 72 e n Rocco, Phil (Felice Domenick), 146 e n Rochat, Giorgio, 102 e n, 103n, 105n, 106 e n, 109n Romualdi, Giuseppe, 19 Roncalli, Angelo, papa, 71 e n Roosevelt, Franklin Delano, 91 Rosselli, Carlo, 120 Rossi, Guido, 143n, 145n Rovasio Carlo, 26 Rusconi, Roberto, 64n Russo, Luigi, 134 Sabbatucci, Giovanni, 102n Salotti, Carlo, cardinale, 63 Salvatorelli, Luigi, 104n Salvemini, Gaetano, 132n, 133n Santarelli, Enzo, 104n Santomassimo, Gianpasquale, 104n Saracinelli, Marisa, 73n Saragat, Giuseppe, 16, 122, 131 Sarfatti, Michele, 84n Scambelluri, Michael, 146 Scariano, Anthony, 141 Schivardi, Giuseppe, 109n Schlemmer, Thomas, 110 e n, 114n Scianna, Bastian Matteo, 110 e n, 112 en Scorza, Carlo, 22 e n, 27, 31 Scotoni, Giorgio, 110 e n Sebastiani, Osvaldo, 53n Sebastiani, Paolo, 53n Sensi-Isolani, Paola A., 141n Serena, Adelchi, 19 e n, 20n, 22, 24, 25n, 26-28 Sereni, Emilio, 131 Sergi, Pantaleone, 123n

Sforza, Carlo, 131 Sica, Emanuele, 110 e n, 145n Signori, Elisa, 133n Silone, Ignazio, 132n Soave, Sergio, 132n Sorrentino, Brooklyn Agostino J., 147 Spriano, Paolo, 121n, 122 e n, 124, 125n Staderini, Alessandra, 13, 29 e n, 45 e n Stalin, Iosif, 72, 126n Starace, Achille, 12, 18-19, 22, 34, 47n Stefani, Piero, 69n Sturzo, Lugi, don, 132n Sullivan, Brian, 111 Tabet, Xavier, 125n Talluri, Bruna, 40n, 41n, 43n Tamburri, Anthony J., 141n Tarquinio, Marco, 76n Tasca, Angelo, 122, 132 e n, 133n Tecchi, Bonaventura, 127 e n, 128n, 129n Thomas, Georg, 36 Thorez, Maurice, 123 e n Tieghi, Samuele, 109n Togliatti, Palmiro, 16, 121 e n, 122 e n, 123, 131 Tooze, Adam, 36n Toscani, Eugene, 149 Townsend, Nicole, 144 e n Tranfaglia, Nicola, 104n Trentin, Silvio, 130n, 131 Treves, Claudio, 16 Treves, Pietro, 16, 131 Trinchese, Stefano, 71n Trotski, Leone (Lev Trockij), 126 e n, 127 e n Turla, Mario, 70 e n Ugolini, Wendy, 139 e n, 144 e n, 147n

Indice dei nomi

Valiani, Leo, 16, 131 Valobra, Rossana, 151 e n Varricchio, Mario, 151n Vecchio, Giorgio, 61n, 76n Vecoli, Rudolph, 141n Venturi, Franco, 131 Vidotto, Vittorio, 102n Vidussoni, Aldo, 26, 27 e n, 28, 30 e n, 31, 49n, 51, 52 e n, 53 e n, 55n, 56 e n Vigezzi, Brunello, 107n Villari, Giovanni, 111 e n Visani, Alessandro, 115 e n Vittorelli, Paolo, 131

159

Vittorio Emanuele III, re, 75 Voigt, Klaus, 92n, 93n, 94n, 97 e n, 98n Volpe, Gioacchino, 48n Weil, Patrick, 140n Welzer, Harald, 109n Wieviorka, Annette, 123 e n Windsperger, Marianne, 95n Zangrandi, Ruggero, 57 e n Zapponi, Niccolò, 17n, 29n Zavattaro, Vittorio, 144 Zelikowski, Leo, 96-97

Autrici e autori

Tommaso Baris insegna Storia contemporanea presso l’Università di Palermo. Si è occupato di Seconda guerra mondiale, fascismo e storia politica dell’Italia repubblica. Su questi temi ha recentemente collaborato all’Annale Feltrinelli, Fascismo e storia di Italia. A un secolo dalla Marcia su Roma, curato da Giovanni de Luna. Il suo ultimo lavoro è Andreotti, una biografia politica. Dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969) (il Mulino, 2021). Antonio Bechelloni ha insegnato Storia e civiltà italiana all’Università di Lille. Autore di molti saggi sull’immigrazione e l’esilio italiano in Francia, ha diretto il Centre d’Études et Documentation sur l’Émigration Italienne (CEDEI) dal 1984 al 2008. Ha curato il volume collettaneo Carlo e Nello Rosselli e l’antifascismo europeo (FrancoAngeli, 2001). Recentemente ha pubblicato in Francia un’antologia di scritti di Vittorio Foa e in Italia un suo profilo biografico (Vittorio Foa. Note, Raineri Vivaldelli, 2020). Lucia Ceci insegna Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata. I suoi principali interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni tra Chiesa cattolica, politica e dimensione religiosa che ha indagato in relazione all’Italia, all’America Latina, al mondo coloniale. Tra i suoi libri: L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (Laterza, 2019, trad. in inglese), La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento (il Mulino, 2022). Recentemente ha curato con Giulia Albanese il volume I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione (Viella, 2022). Paul Corner ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Siena, dove ha fondato e diretto il Centro per lo Studio dei Regimi Totalitari del XX secolo. Le sue pubblicazioni più recenti sono: (con Jie-Hyun Lim), The Palgrave Handbook of Mass Dictatorship (Palgrave Macmillan 2016), La dittatura fascista. Consenso e controllo durante il Ventennio (Carocci 2017) e Mussolini e il fascismo. Storia, memoria e amnesia (Viella 2022).

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1940. Il fascismo sceglie la guerra

Simone Duranti, ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università della Tuscia, si è occupato dell’Italia fascista, della Germania fra le due guerre, delle teorie del totalitarismo e del razzismo antisemita. Attualmente studia i conflitti sociali conseguenti all’immigrazione nera e asiatica in Inghilterra dal secondo dopoguerra. Fra le sue pubblicazioni: Lo spirito gregario. Storia dei GUF fra politica e propaganda (1930-1940) (Donzelli, 2008). Ha realizzato un’antologia sulle leggi razziali fasciste: Leggi razziali fasciste e persecuzione antiebraica in Italia (Unicopli, 2019). Francesco Fusi è dottore di ricerca in Storia contemporanea e attualmente svolge attività di ricerca presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze. Si occupa di storia politica dell’Italia contemporanea, di Guerre mondiali, antifascismo e Resistenza. Per i nostri tipi ha pubblicato, nel 2021, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22° brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini. Con Matteo Pretelli è autore del volume Soldati e patrie. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale (il Mulino, 2022). Valeria Galimi insegna Storia contemporanea al Dipartimento Storia, Archeologia, Geografia, Arti e Spettacolo (Sagas) dell’Università di Firenze. Si occupa della storia del fascismo e dei fascismi, dell’antisemitismo in Italia e in Francia e della storia sociale e culturale della Seconda guerra mondiale. È autrice di diverse pubblicazioni. Per i nostri tipi ha curato, con Paul Corner, Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere fra centro e periferia (2014) e, con Patrizia Dogliani, L’Italia del 1946 vista dall’Europa (2020); è inoltre autrice di Sotto gli occhi di tutti. La società italiana di fronte alle persecuzioni antiebraiche (Le Monnier, 2018). Nicola Labanca insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Siena. Si occupa di storia militare e coloniale dell’Italia unita. È presidente del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari. Fra le sue ultime pubblicazioni, la curatela di Guerre ed eserciti nell’età contemporanea (il Mulino 2022) e il volume Prigionieri, internati, resistenti. Memorie dell’‘altra Resistenza’ (Laterza 2022). Matteo Pretelli insegna Storia dell’America del Nord presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Si occupa soprattutto di emigrazione italiana negli Stati Uniti e di relazioni fra Italia e Stati Uniti. È autore di varie monografie fra cui, con Francesco Fusi, Soldati e patrie. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale (il Mulino, 2022).

Finito di stampare nel mese di dicembre 2022 da The Factory s.r.l. Roma